Pensavamo all’Europa come un sogno, ora siamo qui: Europa…e non c’è niente

Ventimiglia, dopo l’ennesimo sgombero, 18 e 19 Maggio 2018

È la seconda volta nell’ultimo mese che ci rechiamo a Ventimiglia, dopo lo sgombero del campo informale sotto il ponte di Via Tenda.

All’arrivo in città, nelle strade principali, persiste inalterato il passaggio quasi continuo di giovani migranti a piccoli gruppi. Inoltre, balzano agli occhi i cellulari delle forze dell’ordine con la cospicua presenza di polizia/finanza/carabinieri che si alternano nei piazzali antistante la chiesa si San Antonio.

Parcheggio davanti al cimitero

Proseguendo il cammino raggiungiamo il parcheggio davanti all’entrata del cimitero.

Qui staziona il camper di kesha niya che fornisce su un tavolino acqua e the un po’ di cibo. Ci sono una decina di ragazzi, prevalentemente sudanesi. Parliamo con loro e visitiamo alcune persone: due sono affette da scabbia, forniamo e spieghiamo come effettuare il trattamento, indicando l’infopoint Eufemia come possibile luogo di approvvigionamento di vestiti e coperte. Arriva un ragazzo sudanese in bicicletta, che più volte ci ha aiutato nelle traduzioni. Ci informa che il giorno prima c’è stata una retata della polizia che ha riempito 3 pullman, quindi circa 140 persone trovate in giro per la città o sulla spiaggia o espulsi dalla Francia. I pullman avevano come destinazione l’hotspot di Crotone. A lui chiediamo come sono distribuite le persone in città. Come ci era stato già detto nell’ultima visita la prevalenza si era recata presso il centro della croce rossa che raccoglie circa 300 persone, comprese una decina di famiglie con bambini.

Spiaggia

Poiché sembra che altre persone dormano in spiaggia, andiamo li, ma questa volta non incontriamo nessuno, nonostante siano ben riconoscibili vari giacigli di fortuna utilizzati per la notte.

Nella visita precedente avevamo incontrato in spiaggia un folto gruppo di ragazzi curdi, con evidenti eritemi cutanei da irradiazione solare, per i quali avevamo aiutato a trovare il modo, non essendo in possesso di documenti e con l’ausilio degli attivisti di Eufemia, di poter ricevere soldi dalla famiglia.

Bar Hobbit

Pranziamo presso il Bar Hobbit di Delia. Con lei parliamo della situazione generale e del particolare stato di crisi del suo locale che tanto ha dato in termini di aiuti materiali e di calore umano alle persone in viaggio. Qui incontriamo un gruppo di attiviste amiche che stanno facendo riprese per un documentario sulla storia di Ventimiglia.

Parcheggio davanti al cimitero

Nel pomeriggio torniamo verso il piazzale antistante al cimitero. Ci accorgiamo con sconforto che il tormentato accesso di fortuna all’acqua potabile, messo in funzione con caparbietà da un amico solidale, è stato nuovamente interrotto.

La volta precedente avevamo percorso l’argine del fiume fino al ponte dell’autostrada senza incontrare alcuno. Questa volta ci sediamo al bordo del piazzale, con alcune persone. Visitiamo un ragazzo per un’estesa micosi alla pianta dei piedi, banale patologia, ma che in queste condizioni dove il poter camminare è fondamentale ed urgente diventa importante. Ricordiamo a tutti di non bere l’acqua del fiume e di informare costantemente i nuovi arrivi sulla necessità di recarsi agli accessi d’acqua potabile, anche se lontani. Assistiamo ad una piccola partita di calcio, a cui partecipa anche un ragazzo bianco. Al termine, ci racconta che è uno che vive a Sanremo, ha fatto una tesi per la laurea magistrale in sociologia presso l’Università di Napoli su interviste eseguite a Ventimiglia riguardo alle ragioni delle migrazioni dal continente africano, in particolare sulla situazione sudanese.

La storia di Musa

Un altro ragazzo, Musa, di 25 anni, ci indica un suo amico per un problema di salute. Iniziamo a parlare e ci racconta del suo “sogno” di studiare – dice di se stesso di essere “educated”. A suo parere se non si ha questa possibilità, non ci sono speranze. A 25 anni si sente già vecchio e sente come se il suo sogno gli stesse sfuggendo di mano.

Il Sudan

Sentendo che ha voglia di parlare, gli chiediamo come abbia deciso di partire. Racconta che in Sudan, le persone del suo villaggio vengono considerate molto forti, per questo la “milizia” le obbliga spesso a lavorare gratuitamente. Per lungo tempo infatti aveva lavorato per loro. Tagliava la legna che poi veniva usata per produrre carbone per la vendita a Khartoum. Dopo molti mesi era riuscito a fuggire e a rifugiarsi a casa di uno zio, che ritenendo che fosse in pericolo, gli aveva consigliato di fuggire in Egitto.

L’Egitto

In Egitto era riuscito a sopravvivere e anche a inviare dei soldi alla famiglia grazie a vari lavori, ma rimaneva il sogno in lui di andare all’Università. In Egitto tuttavia i costi erano eccessivi, avrebbe dovuto pagare circa 450 dollari, che per lui avrebbe significato lavorare una vita.

Decide dunque, benché consapevole del rischio, delle torture a scopo di estorsione nei campi in Libia, dei morti in mare, di affrontare il viaggio per raggiungere l’Europa.

La Libia

Poco dopo essere arrivato in Libia, gli viene proposto da un locale di lavorare per lui. Non conoscendo bene la situazione e avendo bisogno di soldi, accetta. Tuttavia, l’uomo si rivelerà una persona pericolosa e crudele. Ogni notte lo chiude a chiave in una piccola stanza e ogni mattina apre la porta per dargli dei lavori pesanti da fare, minacciandolo di morte e di lasciarlo senza cibo e senza acqua se Musa non farà ciò che lui gli ordina. Musa spiega che tutti in Libia hanno armi in casa. L’uomo ha una moglie e un figlio piccolo. La donna si mostra più umana e ogni volta che suo marito esce, porta a Musa del cibo e dell’acqua. Un giorno però il marito, accorgendosi di ciò, reagisce violentemente e lancia il cibo addosso alla moglie. Da quel giorno Musa rifiuta qualsiasi aiuto dalla donna, dicendole che non vuole che lei venga uccisa da suo marito, troverà da solo il modo di sopravvivere. Dopo due mesi e a seguito di uno studio approfondito dei tempi della vita del libico, riesce a portare un grosso ramo nella stanza e a usarlo per rompere la finestra.

Fugge in strada e riesce a raggiungere un campo informale di sudanesi. Questi gli spiegano che non può rimanere li, perché il suo carceriere potrebbe arrivare e potrebbe anche uccidere tutti. Lo portano in macchina in un altro campo, dove vivono altri sudanesi, da molto tempo. Dice che molti di questi vivono in Libia da più di 20 anni, ci sono anche persone anziane. Loro conoscono il territorio e possono consigliargli dove andare e per chi lavorare (dice: “chi paga e chi no”), chi sono le brave persone e chi è pericoloso.

Vive così alcuni mesi, ma purtroppo un giorno viene scoperto da gruppi paramilitari, che lo portano in un campo di prigionia. Starà lì altri mesi, sarà soggetto a torture e vedrà molte persone torturate. Soprattutto racconta della tortura con l’acqua bollente gettata sulla pelle nuda. A suo parere questa volta i carcerieri sono paramilitari, ma hanno accordi con i militari libici. Nel campo ci sono centinaia di uomini, donne e bambini. Dopo giorni e giorni di tortura, alcuni uomini (dice soprattutto nigeriani), impazziscono. I torturatori gli fanno bere e gli forniscono droghe, successivamente li prendono a lavorare per loro, convincendoli a perpetrare violenze su prigionieri inermi a scopo di estorcergli più denaro possibile. Ad un certo punto, improvvisamente, i prigionieri vengono portati al porto dai loro stessi carcerieri, e gli viene detto: “now, go to Italy”.

“Sogno” e realtà

Alla fine Musa dice soltanto: “pensavamo all’Europa come un sogno, ora siamo quì: Europa…e non c’è niente”. Nella sua vita ha visto tanti campi, anche con donne e bambini, in condizioni terribili. Ha sempre pensato che avrebbe dovuto fare qualcosa per loro, ma senza riuscire a capire cosa, o come.

Questa storia è troppo forte. Non ce la sentiamo di fare altre domande sul viaggio in mare, o su come sia arrivato a Ventimiglia.

Cerchiamo anche noi di appigliarci all’idea del sogno di studiare, anche perchè Musa chiede avidamente cosa sarebbe meglio fare: tentare ancora e ancora il passaggio in Francia? Chiedere i documenti in Italia? Quando potrà avere una casa, andare a scuola e imparare l’italiano, se chiede asilo in Italia?

Lia Trombetta
Antonio Curotto

I fatti di Bardonecchia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo di I. B., sui “fatti di Bardonecchia” (già pubblicato, qualche giorno fa, sul sito Infoaut [1]).

L’articolo ci pare di notevole interesse perché prova a prendere di petto una questione particolarmente spinosa come quella della frontiera e del suo possibile utilizzo non nazionalista.

Uomini dello stato francese, e per di più armati, sono penetrati entro i confini nazionali per compiere un’operazione di polizia internazionale. In questo modo hanno dimostrato una cosa: il territorio nazionale italiano agli occhi di chi incarna uno degli assi centrali del costituente polo imperialista Continentale è un territorio che può essere attraversato senza troppe remore, soprattutto di fronte alla necessità di portare a termine un’operazione di “polizia internazionale”, finalizzata a garantire la sicurezza della “fortezza Europa”.

Questo significa almeno due cose. Primo: l’esistenza e il rispetto dei confini statuali sono sanciti in primo luogo da rapporti di forza  e non da trattati giuridico – formali. Secondo, diretta conseguenza del primo, il territorio italiano è percepito e considerato dai poteri costituenti europei come uno spazio semicoloniale entro il quale è possibile operare senza chiedere il permesso al Governo di turno. In altre parole la frontiera italiana è legittima nel momento in cui è giocata come fattore di contenimento nei confronti delle popolazioni migranti, inessenziale quando questa si pone frappone alla “volontà di potenza” delle forze trainanti del polo  europeo. Di questo scenario i “fatti di Bardonecchia” ci parlano.

La palese ingerenza francese ha dato il là a una serie di reazioni di marca prettamente nazionalista, tra le quali quella del segretario leghista Salvini,  alle quali, pur con sfumature diverse, si associano tutte le varie forze politiche di marca populista. La “sovranità nazionale”, la sua difesa e riabilitazione, sembra così assumere un valore in sé. Una sorta di “bene comune” che non può essere messo in discussione. Che fare, quindi? Non resta che  mettersi tutti a  gridare “Viva Verdi”, a cantare Va pensiero rispolverando magari le Brigate Garibaldi e il tricolore in chiave “progressista”? Non necessariamente. L’ingerenza francese offre, come l’articolo che segue prova ad argomentare,  anche un’altra via d’uscita. Il problema non è ripristinare la frontiera come forma giuridica cristallizzata dello Stato/Nazione ma, al contrario, combattere la frontiera attraverso un movimento politico meticcio di subalterni che si ponga l’obiettivo di de-territorializzare in permanenza le strutture rigide statuali. Ciò che viene suggerito nel testo che segue è l’invito a usare dialetticamente lo sdegno nei confronti dell’ingerenza francese in territorio italiano.  Cosa che non equivale a sposare le retoriche sul recupero della “sovranità nazionale”, ma a sostenere le spinte verso  la “sovranità” dei subalterni, capace di mettere in discussione, e un giorno forse di spezzare,   la macchina delle “operazioni di polizia internazionale” con il suo carico di violenza, sfruttamento e negazione di libertà.

 


 

Bardonecchia, la Gendarmeria francese e noi

 

La Gendarmerie sconfina in Italia e fa irruzione nei locali dell’associazione Rainbow4Africa. Come successo oggi a Bardonecchia, anche a Ventimiglia la polizia francese si arroga, ormai da molto tempo a questa parte, il diritto di operare in territorio italiano. Il teatro è sempre una stazione ferroviaria. In questo caso, ormai lontano dai riflettori mediatici, lo sconfinamento di sovranità è invece pattuito e persino ben accetto. Nessuna levata di scudi, ma piena accettazione e collaborazione istituzionale.

Ora, le strilla per la lesa sovranità del nostro paese da parte di alcuni esponenti politici non sono quindi molto rilevanti né interessanti. Tuttavia, quello che sì è importante è che le persone si sentano in dovere di incazzarsi con il governo francese. Non bisognerebbe contenere questa tendenza, per quanto embrionale possa essere, e che, peraltro, potrebbe anche essere portatrice di quella tanto agognata convergenza di interessi materiali tra persone italiane e migranti. La Francia, in blocco con la Germania e altri paesi dell’Europa continentale, fa leva sulle ingiuste dissimetrie del Regolamento di Dublino per fermare in Italia le migliaia di migranti che riescono a sbarcare sulle nostre coste. Prima che arrivino “a casa loro”. Stessa sorte per la Grecia e per tutti i territori che costituiscono il limes di questa Brave New Europe, impresa politica multinazionale rigorosamente bianca.

Infatti, moltissime di queste persone emigrate, forse la maggior parte, non vogliono certo restare. Si provi a chiedere. Eppure non possono andarsene, non legalmente perlomeno. E allora si muore travolti dai treni a Ventimiglia o assiderati sulle Alpi in Valsusa, in tragici tentativi di attraversare confini sempre più militarizzati e brutali. Oppure, desolante e deprimente alternativa, si resta imbrigliati nel sistema violentemente disciplinare della cosidetta accoglienza, che sembra fatto apposta per rendere impossibile, con precisione scientifica, evntuali forme di ibridazione con la popolazione italiana. Insomma, trattasi di un mero bacino di forza-lavoro gratuita o a bassissimo costo, da pagare rigorosamente in nero, che non fa che incrementare le tensioni razzisteggianti che caratterizzano le società europee sempre più chiuse e risentite.

La verità è che, quando le frontiere esternalizzate in Libia e in Turchia (della cui esistenza siamo vergognosamente corresponsabili, non dimentichiamo) non tengono, è l’Italia stessa a dover assumere lo scomodo ruolo di carceriere dei migranti. Penso e spero che questo nessuno se lo voglia accollare, se non ovviamente i pochi che hanno qualcosa da guadagnarci sopra. E allora basta con la buona accoglienza, la gestione umanitaria e tutto l’armamentario discorsivo della sinistra governista, quella per cui non bisogna mai rompere ma sempre mediare. È funzionale allo scopo assegnato. Ribadiamolo forte e chiaro: il problema è la frontiera.

L’atteggiamento della Francia è infame e inaccettabile e, per quanto pericoloso possa essere in potenza un simile discorso, evidentemente suscettibile di una possibile, ma non certa, deriva nazionalista, bisognerebbe comunque riuscire a padroneggiarlo. Per risignificarlo in un modo totalmente altro, ovviamente, e affinché possa aprire su situazioni inedite e favorevoli. Si può e si deve, a meno che non ci si accontenti di parlare solamente a se stessi. Dopotutto, quello che si esprime è un concetto giusto, comprensibile e plausibilmente anche maggioritario, forse: “Almeno lasciate che le persone vadano a cercar fortuna dove preferiscono, così come già fanno le migliaia di giovani emigranti italiani.” Ah no, pardon, si dice expats, mica migranti.

I.B.

 

[1] https://www.infoaut.org/migranti/bardonecchi-la-gendarmerie-e-noi

Riflessioni dagli arcipelaghi di confine

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo, inviato alla redazione assieme all’espressivo reportage fotografico che fa seguito al testo. La lettrice ci propone una riflessione sul concetto di confine, sui molteplici spazi che esso genera ed investe e, soprattutto, sulle dinamiche di potere e gerarchia che questo sistema alimenta tutto attorno a sè.  Si tratta di aspetti ormai arcinoti… oppure no?
Il regime confinario, nella sua profonda ingiustizia e nei meccanismi brutali che mette in atto, tende a sviare da se stesso l’attenzione, tende a diffondere strati di ovatta tra gli occhi e la coscienza, come raccontato dalla lettrice.
E infondo non vedere è più semplice e voltarsi altrove è meno doloroso. Ma lasciarsi accecare per la comodità e la quiete delle coscienze non è una giustificazione: distogliere lo guardo è diventare complici di ciò che non si vuol vedere.
Allora rimuovere questi strati, sollevare il velo, è solo un gesto di volontà. Un gesto che, oggi più che mai, diventa un dovere.

Riflessioni dagli arcipelaghi di confine

Questa volta sono arrivata a Ventimiglia da Trieste. Diretta autostradale dal confine Est a quello Ovest, dal Mare Adriatico al mar Tirreno, in mezzo solo terra. Ad Est i viaggiatori migranti provano ad entrare, ad Ovest provano ad uscire e scoprono di essere intrappolati.

Di volumi con tante definizioni di confine si potrebbero riempire scaffali e librerie. Forse ogni confine è diverso, o forse il confine è diverso a seconda di chi lo attraversa.
I confini sono disegnati con una linea, con un segmento per la precisione, con un inizio e una fine. In realtà sono più spesso delle fasce o addirittura delle geografie “a macchia”, arcipelaghi.

Chi non ha la faccia e il documento giusto per passare occupa gli spazi da cui non viene cacciato: solo quelli gli restano. Gli spazi invisibili e lo spazio del proprio corpo, ma il corpo, se non hai la pelle giusta, non puoi lavarlo, non puoi appoggiarlo su un letto per dormire, non puoi vestirlo o nutrirlo in modo indipendente. Del tuo corpo non disponi, non interamente.
Sei obbligato a chiedere: la tortura dell’incapacitazione, al confine, viene costantemente inferta. Al confine questa tortura ti ricorda che non sei più tu a disporre di te stesso e che devi accettare di essere assoggettato e  sottomesso; e se non cedi alla tortura, se queste “regole” non sembrano accettabili… sei solo un altro numero da mandare via. Espulso.

Il confine che io trovo a Ventimiglia è fatto di persone sballottate da una parte all’altra del mondo, che come palline rimbalzano contro una rete costruita e costituita da altri uomini.
Il confine che vedo a Ventimiglia è fatto di poteri e della loro sedimentazione. Poteri che si fermano, tra la terra che è chiamata Italia e quella che è chiamata Francia, come i sassi più grossi portati dal fiume Roja, che rimangono fermi ad ostruirne il corso quando la corrente diminuisce
I poteri che si sedimentano al confine impediscono ai piedi delle donne e degli uomini di camminare verso l’orizzonte che loro stessi hanno scelto, piuttosto che quello che altri gli vogliono imporre. Poteri che impediscono ai piedi di fare ciò per cui sono stati creati.

I segmenti del potere sono tanti: ci sono quelli degli stati che mascherano il loro fallimento dietro le “emergenze”; ci sono quelli dei poliziotti che quando indossano la divisa si dimenticano che sono persone come gli altri, dimenticano che respirano ossigeno e idrogeno anche loro; ci sono quelli dei passeur che creano nuovi confini nell’imparare a passare quelli precostituiti.
Ci sono i poteri inferti dalla possessione, o dal non possedere.

Il confine di Ventimiglia è fatto dalla stazione, dai sentieri, da ciò che rimane nella memoria del campo ai “Balzi Rossi”, dal cavalcavia lungo via Tenda, dal parcheggio accanto al LIDL, dalla spiaggia dove si possono raccogliere legni da bruciare per riscaldarsi. Il confine di Ventimiglia è fatto di donne e uomini, perché senza chi immagina quella linea e senza chi prova ad attraversarla esso semplicemente cesserebbe di esistere.

Potrei scrivere delle donne che arrivano sole, a volte incinte o con bambini, che in Libia hanno visto tanti morire e che nell’attraversare il Mediterraneo sono state quasi prese dalle acque… per poi essere pescate, come pesci all’amo, da una politica schizofrenica e bipolare, che prima si rende complice e causa della tragedia e poi si mette la maschera e il costume del paese “civilizzato”.

Potrei raccontare degli uomini che, mandati indietro dal confine alto di Mentone, si accovacciano disperati lungo la strada che riporta all’Italia; oppure dei condomini di Via Tenda che escono di casa guardinghi e infastiditi dalla presenza delle persone sotto al ponte; dei gendarmi che chiedono i documenti; dei bambini che sanno ridere, sempre.

Tutte queste sono facce di confine. Ognuna di queste, se lo vorrà, si racconterà: non sarò io a parlare in nome loro.

Io racconto che ogni volta che mi avvicino a quella linea, che in realtà è fatta a macchie, l’ovatta che avvolge i miei occhi e le mie orecchie va in fumo perché sbatto contro un sistema che si palesa nella sua finzione: che in nome della parola “protezione” lascia tanti nella disperazione, che in nome della parola “sicurezza” uccide, che in nome della parola “identità” mente.

Ogni volta che da questa linea mi allontano, piano piano l’ovatta ricresce come un rovo invasivo. L’ovatta, il rovo, è la vittoria di un sistema che acceca e che è nato, cresciuto e continua ad essere implementato per affinare tecniche di accecamento.

Ventimiglia è uno dei luoghi dove il sistema rischia di fallire perché la sua maschera crolla, e gli occhi potrebbero vedere…

Vedere è però un atto di volontà.

(immagini e testo di)

Daniela M.

 

Il vento soffia e non si può arrestare

Migranti: il vento soffia e non si può arrestare

Lotte, sofferenze, ingiustizie e passioni vissute da un giovane migrante sudanese arrivato in Italia nel 2015 e rimasto per lungo tempo al confine di Ventimiglia. Un’intervista che narra una delle tante storie di chi si è reso protagonista di un importante ciclo di lotta ed ha subito sulla propria pelle la violenza dei dispositivi di governance e la repressione delle istituzioni.

 

Quando sei arrivato in Italia?

J. Sono arrivato a fine Giugno del 2015 a Lampedusa. Appena sbarcato sono stato portato al Centro gestito dalla Croce Rossa Italiana. Ero molto stanco dal viaggio in mare e non stavo capendo cosa mi stava succedendo. Nel 2015 non esistevano ancora gli Hotspot per i migranti, quindi non mi hanno preso le impronte subito dopo lo sbarco.

 

Dopo i 5 giorni all’interno della Centro della CRI cosa è successo?

J. La polizia mi ha prelevato dal centro e mi ha portato ad Agrigento all’interno di un altro Centro nel quale sono stato altri 5 giorni. Ero molto disorientato e non capivo bene perchè non potevo andare dove volevo.

 

E dopo i 5 giorni ad Agrigento?

J. Sono stato nuovamente prelevato insieme ad altre persone. Ricordo che c’erano 4 pullman pronti per noi. La polizia ci disse che la destinazione di quei pullman era differente: uno andava a Napoli, uno a Roma, un altro a Milano e l’ultimo a Padova. Sul mio pullman eravamo 25 persone: 10 sudanesi, 2 nigeriani, 3 senegalesi e 10 del Bangladesh; la nostra destinazione era Padova.

 

Quindi ti hanno portato a Padova. Ma cosa hai pensato quando ti prelevavano per portarti in altri posti?

J. Eh….. ho pensato che fosse una merda. Io pensavo che appena avessi raggiunto l’Europa io fossi libero di poter andare dove volevo, nel mio caso pensavo che potessi raggiungere mio cugino in Inghilterra e richiedere l’asilo politico lì.

 

E dopo che sei arrivato a Padova che cosa è successo? Ti hanno spostato di nuovo?

J. Arrivati a Padova abbiamo dovuto aspettare più di un’ora per entrare in Questura. Il primo ad entrare sono stato io ed in quel momento c’erano solo mediatori pakistani che sapevano un po’ l’arabo ma la polizia non ha voluto che entrassero con me.

 

Quando sei entrato nella stanza della polizia cosa è successo?

J. Mi hanno chiesto di dare le impronte così potevo fare la richiesta di asilo in Italia, ma io non volevo! Perchè, come ho spiegato prima, volevo raggiungere l’Inghilterra e richiedere l’asilo lì. Il poliziotto mi ha aggredito verbalmente ed io ho reagito. Di conseguenza sono arrivati altri tre poliziotti che mi hanno picchiato sui polsi, ma io ho resistito nascondendo le mani. Allora loro mi hanno preso con la forza, tenendomi fermo, e sono riusciti a prendere le impronte.

 

Tutto questo è successo in presenza di un mediatore? E se non c’era, in che lingua parlavate?

J. No! i mediatori non sono stati autorizzati ad entrare perchè non erano mediatori arabi, anche se un po’ l’arabo lo sapevano. Io provavo a parlare l’inglese, all’epoca non lo sapevo molto; ma i poliziotti non capivano niente e mi rispondevano urlandomi addosso in italiano. L’unica cosa che ho capito è la parola “asilo” e il loro gesticolare che si riferiva al prendermi le impronte. Per questo mi sono rifiutato.

 

E dopo che ti hanno preso le impronte?

J. Sono uscito da lì e ho trovato un mediatore arabo che mi ha chiesto cosa era successo. Ho spiegato tutto ma ormai le impronte me le avevano prese. Dopo poco sono rispuntati i poliziotti che mi hanno dato un biglietto del treno per andare a Milano al Centro della CRI. Arrivato a Milano sono stato portato al Centro, non so bene cosa era quel posto, ma ho capito che potevo starci solo 5 giorni e poi o me ne andavo oppure finivo in un centro d’accoglienza. Ma io non volevo restare in Italia, io volevo raggiungere mio cugino in Inghilterra e quindi dopo due giorni lì dentro ho deciso di andarmene. Ho preso un treno che andava a Genova per poi raggiungere Ventimiglia.

 

In tutto questo tu avevi idea dove eri? Conoscevi la geografia italiana?

J. No assolutamente, non ci capivo niente. Ma sono stato contattato da mio zio che mi ha detto di raggiungerlo a Ventimiglia e che avremmo pagato un passeurs insieme per andare in Francia e poi raggiungere l’Inghilterra. Mi sono fidato e sono andato.

 

Arrivato a Ventimiglia che hai fatto?

J. Sono arrivato in stazione e come prima cosa ho chiamato mio zio, ma lui mi ha detto che era dentro al Centro della CRI nel quale prendevano le impronte. Io ho deciso che non volevo più farmi prendere le impronte. Ma ero disorientato, non sapevo dove ero e non sapevo come superare il confine.

 

Come ne sei uscito da questa situazione?

J. In stazione ho incontrato dei solidali che mi hanno spiegato dove ero e dato delle informazioni. Mi hanno spiegato che c’era un campo autogestito con migranti e solidali. Ho deciso di seguirli e sono arrivato con loro al campo dei Balzi Rossi.

 

In che periodo sei arrivato al campo?

J. Era Luglio 2015, non ricordo bene i giorni.

 

Quando sei arrivato ai Balzi Rossi cosa hai trovato?

J. Ero molto stanco e per un paio di giorni ho voluto riposarmi per essere più lucido. Era un campo con tanti migranti e tanti solidali. Tutti aiutavano nella gestione di questo: c’era la cucina, i bagni, le docce, un info point e il magazzino con cibo e vestiti. Ognuno era libero di fare quello voleva, sempre nel rispetto degli altri. Durante il giorno c’erano pure corsi di francese o di inglese fatti dai solidali, c’erano assemblee e discussioni. Io mi sono ambientato ed ho incominciato subito a far parte dell’autogestione di quel campo trovandomi molto bene sia con i migranti e sia con i solidali.

 

Quanto sei stato al campo dei Balzi Rossi?

J. Ci sono stato fino a quando non è stato sgomberato, cioè fino a fine settembre. Lì ho imparato l’inglese, ho aiutato altri migranti perché potessero superare la frontiera, ho conosciuto i solidali che si facevano chiamare no borders ed li ho aiutati a parlare con i migranti. A fine settembre è finito il campo: io ero molto triste perchè all’interno di quello spazio io avevo trovato amici e compagni che sentivo come la mia famiglia. Sono arrivati circa 200 poliziotti alle 5 di mattina. E hanno sgomberato.

 

Ma durante lo sgombero cosa è successo? Tu cosa facevi?

J. Noi ci siamo messi sopra gli scogli, vicino al mare così la polizia non poteva raggiungerci. Noi eravamo circa 100 persone tra migranti e solidali. Siamo stati sugli scogli senza mangiare e bere fino alle 16 circa. Dopo la polizia ha deciso di incominciare a prendere le persone. Dopo poco è arrivato il Vescovo che ha cercato di mediare cercando di convincere noi migranti ad andare con la polizia a Ventimiglia per entrare al Centro della CRI. Noi ci siamo rifiutati e allora la polizia ha incominciato a prenderci con la forza.

 

Dei solidali che ne hanno fatto?

J. Anche loro sono stati presi e portati subito in commissariato, ad alcuni di loro sono stati dati dei foglio di via con l’accusa di pericolosità sociale e tutti gli altri sono stati denunciati.

 

Quindi sei stato separato dai solidali e dove ti hanno portato? Come ti sentivi?

J. Mi hanno portato al Centro della CRI; io ero molto arrabbiato perchè avevano portato via, oltre ai migranti, anche i solidali e li stavano reprimendo con denunce senza aver fatto nulla di male. Ho aspettato 2 ore dentro al Centro della CRI non sapendo cosa fare, poi ho visto che i solidali erano fuori dal Centro ed erano stati tutti rilasciati. Allora mi sono unito a loro. Successivamente ho deciso di entrare nella Chiesa che accoglieva i migranti, sono stato lì due giorni e poi sono andato a vivere con i miei compagni europei. In quei giorni c’è pure stata una manifestazione contro la frontiera ma la polizia non ci ha permesso di partire. Ad un certo punto, quando eravamo rimasti in 30, la polizia ci ha caricati: ci ha picchiato e ci ha rincorso per circa 2 km per poterci manganellare. Io per fortuna non sono stato picchiato però ho visto i miei compagni e le mie compagne venire pestati dalla polizia.

 

Finora solo brutte esperienze con la polizia italiana. Dopo questa manifestazione hai deciso di proseguire il tuo viaggio o di rimanere in Italia?

J. Ho deciso di rimanere in Italia perchè avevo trovato il mio posto, dove mi sentivo libero: a Ventimiglia, con i solidali per aiutare i migranti. Quindi ho fatto la richiesta d’asilo politico a Torino, il 10 novembre 2015 sono andato in questura, mi sono fermato una settimana da degli amici solidali e poi sono ripartito per Ventimiglia.

 

Ma a Ventimiglia vivevi sempre per strada con i migranti? C’era un campo autogestito dopo la fine dei Balzi Rossi?

J. No, non c’era nessun campo autogestito. I migranti vivevano per strada, soprattutto in stazione. Ma era inverno, era tutto molto più tranquillo: i migranti per tutto l’inverno saranno stati al massimo 80. Io vivevo a casa di un solidale nell’entroterra ligure. Andavo spesso a Ventimiglia per aiutare i migranti che arrivavano e non sapevano nulla della città; li trovavo non solo in stazione ma anche vicino al mare. Alcuni stavano dentro al Centro della CRI. In quel periodo facevamo spesso assemblee per organizzarci per trovare una soluzione più dignitosa. I solidali erano con noi.

 

Questo in autunno/inverno 2015/2016. Durante la primavera del 2016 cosa è successo?

J. Sono stato con i no borders. Dopo varie assemblee tra solidali e migranti siamo riusciti a trovare una soluzione quantomeno dignitosa: abbiamo “occupato” un pezzo di terra sotto al cavalcavia in Via Tenda. Non era il massimo ovviamente, vicino al fiume e nella terra, ma eravamo al coperto e tutti insieme. Si è creata una situazione di autogestione, c’era tutto: cibo, vestiti, tende e coperte. Spesso dovevamo dividerci le coperte e le tende perchè non erano abbastanza per tutti, i solidali ricevevano donazioni quindi bisognava arrangiarsi. Ma tutto sommato non era male. Facevamo assemblee tra migranti e poi con i solidali. Ci sono state anche varie giornate di lotta, manifestazioni contro la frontiera. Durante questo periodo la polizia non ci lasciava stare: passava spesso al campo e, guardandoci da lontano, rideva e ci prendeva in giro come se fossimo animali. Spesso i poliziotti provocavano i solidali. Nel frattempo continuavano ad arrivare migranti, continuavano le violenze e le torture sui migranti e le violenze psicologiche a chi provava a portare solidarietà. Finché un bel giorno non è arrivata l’ordinanza di sgombero del campo in Via Tenda per motivi igienici. Mi sono chiesto: “e dove dobbiamo andare noi? Non possono mettere dei bagni e delle docce invece di sgomberarci?”. La risposta dei solidali è stata chiara: “A loro non importa che noi viviamo in condizioni dignitose, a loro importa distruggere l’autorganizzazione”. E così è stato.

 

Quando è stato il giorno dello sgombero? Cosa è successo?

J. Il 29 marzo. Ma abbiamo deciso tutti insieme di andarcene prima che arrivasse la celere, non c’erano le condizioni per resistere ad uno sgombero che sembrava potesse essere violento. Mi ricordo che pioveva ma per i preparativi non era un problema perchè eravamo al coperto del cavalcavia. Ci siamo svegliati molto presto per radunare tutto quello che doveva essere portato via: tende, coperte, cucina, cibo e altro. Abbiamo pure ripulito l’aerea. Nel frattempo i solidali cercavano di gestirsi i giornalisti, insistevano a riprenderci mentre facevamo le nostre cose. Richiedevano interviste, alcuni giornalisti erano davvero fastidiosi.

 

Ma vi preparavate per andare dove?

J. Eh… da nessuna parte. Durante l’assemblea del giorno prima i solidali avevano proposto di occupare degli spazi ma molti migranti non erano convinti e allora si era deciso di attendere ancora un giorno o due per parlarne con calma, nel frattempo continuavamo a stare per strada. Ci siamo spostati verso la spiaggia, eravamo circa 400 davanti agli occhi di giornalisti, tv ed abitanti di Ventimiglia. Ma che dovevamo fare? Dove potevamo andare? Lo sgombero era un chiaro segnale da parte delle istituzioni: migranti e solidali non erano i benvenuti nella città. Appena arrivati in spiaggia mi ricordo che i solidali hanno ricevuto una notizia e si sono agitati molto; ho subito chiesto e ho capito il motivo per cui si sono allarmati: la mattina presto del giorno dopo sarebbero arrivati pullman e polizia per portare i migranti nel Sud Italia, negli hotspot, ed arrestare i solidali.

 

E con questa notizia che avete deciso di fare?

J. Abbiamo fatto un’assemblea, non c’erano molte alternative perchè il tempo era davvero poco. Tutti insieme abbiamo deciso di provare a rifugiarci in una chiesa vicino alla spiaggia. Alcuni migranti hanno deciso di nascondersi sui monti e provare a passare il confine, molti hanno accettato di entrare in chiesa. Anche i solidali erano in difficoltà, ma la situazione era pesante e non si poteva aspettare. Il parroco ha deciso di ospitarci dopo che i solidali hanno mediato e gli hanno fatto capire la situazione. Siamo andati in tanti lì dentro, forse 200, nascosti come dei criminali. I solidali hanno girato tutta la notte per provare a recuperare chi era rimasto per strada, io stavo in chiesa ed aiutavo i migranti spiegandogli bene cosa stava succedendo e tranquillizzandoli. In effetti il giorno dopo sono arrivati tanti poliziotti e dei pullman, ma non sono riusciti a prendere tante persone perchè in chiesa loro non potevano entrare. Per questo credo che si siano arrabbiati molto e quindi hanno incominciato a cercare i solidali. Due giorni dopo allo sgombero del campo in Via Tenda dei poliziotti sono entrati in chiesa mentre facevamo assemblea per decidere cosa fare, dove andare, ed hanno preso i solidali.

 

Che cosa hanno fatto ai solidali?

J. Li hanno portati in commissariato, li hanno tenuti tutta la notte e gli hanno dato dei fogli di via e la pericolosità sociale.

 

E voi migranti eravate sempre in chiesa? Eravate spaventati?

J. Noi eravamo in chiesa, non eravamo spaventati ma arrabbiati perchè avevano preso i nostri amici solidali. Abbiamo deciso di fare una manifestazione contro la frontiera. Successivamente siamo rientrati tutti in un’altra chiesa. E da quel momento a Ventimiglia è cambiato tutto: la Chiesa delle Gianchette ospitava i migranti ed è stato chiuso il Centro della CRI vicino alla stazione per aprirne uno nuovo, isolato e lontano da tutto nel Parco Roja. Io continuavo a vivere in una località vicina ma trascorrevo le giornate a Ventimiglia. Dopo poco tempo si era ricreato un campo alle vecchie stalle, vicino al Parco Roja. Ma anche lì non andava bene: la polizia veniva spesso per toglierci la cucina e per prendere i solidali ai quali davano altri fogli di via. Continuavano a reprimere i no borders senza alcuna vera motivazione.

Poi c’è stato il campeggio organizzato dai solidali, era agosto 2016. Sono arrivate tante persone da varie parti dell’Italia e da varie città dell’Europa. Stavamo a Ciaixe, un piccolo paese sopra a Ventimiglia, sui monti. Il giorno prima dell’inizio del campeggio noi migranti ed alcuni solidali abbiamo deciso di fare una dimostrazione politica contro la frontiera: siamo arrivati al confine in 400, ai Balzi Rossi e abbiamo aspettato l’arrivo della polizia proprio per focalizzare il problema alla frontiera. La polizia è arrivata e ci ha vietato di bere: era caldissimo. Alcuni solidali hanno provato a portarci l’acqua ma venivano fermati e gli veniva dato il foglio di via, ancora! Siamo rimasti sotto il sole per tante ore finché la polizia, non ho capito bene per quale motivo, ha deciso di caricarci verso la Francia. Puoi immaginare il risultato. 400 persone che sfondano il confine ed entrano in Francia occupando la spiaggia di Mentone. Io anche sono passato ma sono ritornato indietro quasi subito. Alcuni migranti sono riusciti a non farsi prendere, altri sono stati riportati al Parco Roja, cioè al Centro della CRI. I solidali invece sono stati tenuti in stato di fermo per molte ore e gli hanno dato altri fogli di via.

Il giorno dopo invece è morto d’infarto un poliziotto mentre in circa cinquanta persone cercavamo di salutare i ragazzi reclusi al Centro della CRI. La polizia è stata molto violenta! Ci hanno inseguiti con le camionette, ci hanno picchiato, ci sono stati dieci fermi e due arresti per non aver fatto niente. Nel frattempo la polizia era entrata anche al Freespot, il luogo in cui tenevamo abiti, cibo ed in cui potevamo lavarci e riposarci; era un garage e noi pagavamo l’affitto regolarmente ma alla polizia non andava bene. Hanno fatto molte perquisizioni, hanno portato i solidali in commissariato e hanno fatto chiudere quel posto. In quella giornata è morto un poliziotto, gli è venuto un infarto. Subito le istituzioni locali e la polizia hanno dato la colpa ai no borders ma in realtà questa persona è morta da sola, per il caldo e gli sforzi, i solidali erano pacifici, non hanno fatto male a nessuno.

Nel frattempo tanti solidali hanno provato a raggiungere Ventimiglia ma venivano presi e gli veniva dato subito un foglio di via, mi sembra che siamo arrivati a 60 fogli di via dal 2015 al 2016.

Continuava la repressione sui solidali, una repressione massiccia.

 

Come ti sei sentito quando hanno incominciato a reprimere i no borders?

J. Ero molto arrabbiato perchè i no borders erano la mia famiglia, i miei fratelli e le mie sorelle e non capivo il motivo per cui la polizia si accaniva così tanto. Con il passare del tempo, invece, sono riuscito a capire: per lo Stato italiano e alle istituzioni tutte i no borders sono un problema, sono pericolosi. Io sono sempre rimasto con loro, ancora oggi sono con loro. Loro stanno dalla parte dei migranti, stanno dalla parte degli esclusi, contro le ingiustizie su tutti (bianchi e neri).

Da quando sono arrivato a Ventimiglia ed ho conosciuto i no borders, ho capito che io voglio aiutare i migranti ed aiutare i solidali.

 

Grazie per questo prezioso racconto. Ma ritorniamo un attimo sulla tua domanda d’asilo. Mi racconti bene cosa è successo?

J. Allora io ho fatto richiesta d’asilo nel Novembre del 2015, ho aspettato un anno ed un mese ma non ho ricevuto nessuna risposta da parte della Questura: ogni volta che mi presentavo all’appuntamento mi rimandavano ad un’altra data senza dirmi il motivo e senza darmi nessun tipo di foglio che attestava che ero un richiedente asilo.

Dopo un anno e mezzo ho deciso di andare in Francia e chiedere l’asilo lì, visto che l’Italia non mi rispondeva. La mia idea era di prendere i documenti in territorio francese e ritornare a Ventimiglia, completamente in regola, per continuare ad aiutare i migranti.

In Francia ho continuato a lottare con i solidali, sono stato a Nizza, Marsiglia, Grenoble e tanti altri posti.

 

Che contatti avevi?

J. Avevo i contatti di solidali, no borders e migranti conosciuti a Ventimiglia o in altre situazioni di lotta.

 

Dove hai fatto richiesta d’asilo?

J. L’ho fatta a Grenoble, sono andato lì perchè avevo il contatto di un solidale. Inizialmente vivevo in una casa occupata dai solidali per i migranti, la polizia ci aveva tolto luce ed acqua per 20 giorni perchè voleva sgomberarci. Dopo tre mesi la casa è andata a fuoco perchè un sudanese al suo interno ha litigato con un altro occupante e ha deciso di dare fuoco alla sua camera dando alle fiamme tutto lo stabile. Dopo il rogo è arrivata la polizia che ci ha portato tutti in una palestra dove abbiamo vissuto per 21 giorni. Successivamente a questi giorni, chi aveva i documenti è stato portato in montagna in alcuni appartamenti, invece chi non aveva i documenti doveva stare in un hotel nel quale però non c’erano tante libertà, quel posto non favoriva l’autodeterminazione.

Io mi sono rifiutato di entrare dentro all’hotel e sono stato ospitato per un po’ da un amico. Successivamente ho vissuto qualche settimana all’interno di un centro aperto dopo lo sgombero di Calais, con amici conosciuti in Italia e in Francia.

In tutti questi mesi ho girato molto la Francia per andare a trovare amici conosciuti a Ventimiglia, solidali e migranti.

Ho aspettato 8 mesi per avere una risposta dall’Italia per colpa della legge Dublino.

 

Che cosa è la legge di Dublino?

J. È la legge per la quale il migrante deve fare richiesta d’asilo nel primo Paese in cui da le impronte digitali. Nel mio caso è l’Italia, come in tanti altri casi. Dato che ho dato le impronte per la prima volta in Italia, la Francia doveva aspettare la risposta italiana e capire se dovevano deportarmi in Italia oppure farmi continuare la richiesta d’asilo in Francia.

 

Ok. E in questi mesi di attesa che cosa dovevi fare?

J. Allora, io ho fatto domanda d’asilo in Francia nel Dicembre del 2016, a Gennaio mi hanno dato la prima risposta dicendomi che io ero un Dublino (cioè avevo già dato le impronte in Italia) e che dovevo aspettare 4 mesi e nel mentre dovevo andare a firmare una volta al mese in prefettura per certificare la mia presenza sul territorio francese.

Dopo 3 mesi è arrivata la risposta italiana: dovevo essere riportato in Italia. Allora ho fatto il ricorso con l’aiuto di un avvocato. Il Tribunale mi ha dato altri 45 giorni di tempo di attesa nei quali dovevo firmare in prefettura due volte alla settimana. Dopo questi 45 giorni mi hanno detto di attendere di nuovo altri 45 giorni e di firmare sempre due volte alla settimana. Nel frattempo è arrivata la risposta del ricorso: non potevo rimanere in Francia. Un giorno sono andato a firmare e la polizia mi ha arrestato. Mi hanno portato in carcere a Lione ed il giorno dopo sono partito alle 11 del mattino per andare in aeroporto. Sono arrivato alle 11.30 in aeroporto, scortato dalla polizia e con le manette come se fossi un criminale. Mi hanno fatto entrare nell’aereo che andava verso l’Italia; alle 13.30 sono arrivato a Cagliari ma la polizia italiana mi ha detto che non potevo restare in Italia e mi hanno messo su un altro volo verso Bastia, in Corsica, quindi di nuovo in Francia; lì la polizia francese era scocciata perchè mi avevano appena decretato l’espulsione dalla Francia, quindi mi hanno fatto prendere un altro aereo alle 16.30 e sono arrivato a Roma alle 17.30.

 

Ma in tutto questo viaggio ti hanno fatto mangiare?

J. Sì, ma poco. Mi hanno dato un po’ di pasta con il tonno, un po’ di pane ed un bicchiere d’acqua, ho mangiato solo due volte in 3 giorni. Inoltre per tutti i 3 giorni ho avuto le manette, me le hanno tolte quando sono arrivato a Roma.

 

A Roma cosa è successo?

J. Eravamo in tutto 10 persone, abbiamo aspettato un po’ per sapere cosa dovevano fare con noi. Io avevo i documenti della richiesta d’asilo in Italia, i solidali mi hanno aiutato a capire che dovessi fare e l’avvocato mi ha detto che non potevano trattenermi ma dovevano rilasciarmi. Ma così non è stato, infatti dopo qualche ora che ero in aeroporto, la polizia se n’è andata chiudendoci inizialmente dentro allo stanzino che usano per fare i controlli. C’era molto freddo perchè c’era l’aria condizionata e ci avevano detto che avremmo dormito lì. Non avevo vestiti con me perchè non avevo avuto la possibilità di prendere niente in casa e non potevo chiedere una coperta perchè ci avevano lasciati soli. Poi un uomo ci ha aperto la stanza, ma comunque non potevamo uscire dall’aeroporto, solo noi, i turisti, le persone europee entravano ed uscivano, noi non potevamo nemmeno andarci a fumare una sigaretta. Ho passato la notte lì dentro. La mattina seguente, fino alle 10.00, non si è visto nessuno. Successivamente sono arrivati dei poliziotti ai quali ho fatto vedere il mio C3 (il foglio della richiesta d’asilo si chiama così), dopo un po’ di tempo mi hanno dato un biglietto per andare a Torino, dove avevo fatto la richiesta d’asilo nel 2015; la cosa buffa è che dopo avermi trattato in modo pessimo durante la deportazione negandomi cibo, informazioni e tenendomi ammanettato, poi mi hanno pagato un biglietto da 92 euro per andare a Torino.

Sono uscito dall’aeroporto di Fiumicino e ho preso il treno per Milano e da lì dovevo prendere il treno per Torino, ma ho deciso di andare a Genova per andare a trovare degli amici solidali conosciuti a Ventimiglia.

 

In quelle giornate qualcuno ti ha aiutato ad uscire fuori da quella situazione?

J. Sì sì, tanti solidali mi hanno aiutato, mi chiamavano spesso e mi chiarivano la situazione.

 

Secondo te perchè in Italia hai aspettato tanto e stai aspettando ancora per avere l’audizione alla Commissione che deve decidere sul tuo permesso di soggiorno?

J. Secondo me perchè per un anno e mezzo io ho vissuto a Ventimiglia ed ho lottato con i no borders che sono stati criminalizzati e additati più di una volta come terroristi. Fanno sempre così, ai migranti che si ribellano alle loro condizioni, gliela fanno pagare con l’attesa per la Commissione, con la detenzione nei CIE oppure con l’espulsione dal territorio.

 

Grazie mille per aver raccontato la tua esperienza. Buona fortuna per il tuo futuro.

J. Grazie mille a voi.

 

Cati