Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo, inviato alla redazione assieme all’espressivo reportage fotografico che fa seguito al testo. La lettrice ci propone una riflessione sul concetto di confine, sui molteplici spazi che esso genera ed investe e, soprattutto, sulle dinamiche di potere e gerarchia che questo sistema alimenta tutto attorno a sè.  Si tratta di aspetti ormai arcinoti… oppure no?
Il regime confinario, nella sua profonda ingiustizia e nei meccanismi brutali che mette in atto, tende a sviare da se stesso l’attenzione, tende a diffondere strati di ovatta tra gli occhi e la coscienza, come raccontato dalla lettrice.
E infondo non vedere è più semplice e voltarsi altrove è meno doloroso. Ma lasciarsi accecare per la comodità e la quiete delle coscienze non è una giustificazione: distogliere lo guardo è diventare complici di ciò che non si vuol vedere.
Allora rimuovere questi strati, sollevare il velo, è solo un gesto di volontà. Un gesto che, oggi più che mai, diventa un dovere.

Riflessioni dagli arcipelaghi di confine

Questa volta sono arrivata a Ventimiglia da Trieste. Diretta autostradale dal confine Est a quello Ovest, dal Mare Adriatico al mar Tirreno, in mezzo solo terra. Ad Est i viaggiatori migranti provano ad entrare, ad Ovest provano ad uscire e scoprono di essere intrappolati.

Di volumi con tante definizioni di confine si potrebbero riempire scaffali e librerie. Forse ogni confine è diverso, o forse il confine è diverso a seconda di chi lo attraversa.
I confini sono disegnati con una linea, con un segmento per la precisione, con un inizio e una fine. In realtà sono più spesso delle fasce o addirittura delle geografie “a macchia”, arcipelaghi.

Chi non ha la faccia e il documento giusto per passare occupa gli spazi da cui non viene cacciato: solo quelli gli restano. Gli spazi invisibili e lo spazio del proprio corpo, ma il corpo, se non hai la pelle giusta, non puoi lavarlo, non puoi appoggiarlo su un letto per dormire, non puoi vestirlo o nutrirlo in modo indipendente. Del tuo corpo non disponi, non interamente.
Sei obbligato a chiedere: la tortura dell’incapacitazione, al confine, viene costantemente inferta. Al confine questa tortura ti ricorda che non sei più tu a disporre di te stesso e che devi accettare di essere assoggettato e  sottomesso; e se non cedi alla tortura, se queste “regole” non sembrano accettabili… sei solo un altro numero da mandare via. Espulso.

Il confine che io trovo a Ventimiglia è fatto di persone sballottate da una parte all’altra del mondo, che come palline rimbalzano contro una rete costruita e costituita da altri uomini.
Il confine che vedo a Ventimiglia è fatto di poteri e della loro sedimentazione. Poteri che si fermano, tra la terra che è chiamata Italia e quella che è chiamata Francia, come i sassi più grossi portati dal fiume Roja, che rimangono fermi ad ostruirne il corso quando la corrente diminuisce
I poteri che si sedimentano al confine impediscono ai piedi delle donne e degli uomini di camminare verso l’orizzonte che loro stessi hanno scelto, piuttosto che quello che altri gli vogliono imporre. Poteri che impediscono ai piedi di fare ciò per cui sono stati creati.

I segmenti del potere sono tanti: ci sono quelli degli stati che mascherano il loro fallimento dietro le “emergenze”; ci sono quelli dei poliziotti che quando indossano la divisa si dimenticano che sono persone come gli altri, dimenticano che respirano ossigeno e idrogeno anche loro; ci sono quelli dei passeur che creano nuovi confini nell’imparare a passare quelli precostituiti.
Ci sono i poteri inferti dalla possessione, o dal non possedere.

Il confine di Ventimiglia è fatto dalla stazione, dai sentieri, da ciò che rimane nella memoria del campo ai “Balzi Rossi”, dal cavalcavia lungo via Tenda, dal parcheggio accanto al LIDL, dalla spiaggia dove si possono raccogliere legni da bruciare per riscaldarsi. Il confine di Ventimiglia è fatto di donne e uomini, perché senza chi immagina quella linea e senza chi prova ad attraversarla esso semplicemente cesserebbe di esistere.

Potrei scrivere delle donne che arrivano sole, a volte incinte o con bambini, che in Libia hanno visto tanti morire e che nell’attraversare il Mediterraneo sono state quasi prese dalle acque… per poi essere pescate, come pesci all’amo, da una politica schizofrenica e bipolare, che prima si rende complice e causa della tragedia e poi si mette la maschera e il costume del paese “civilizzato”.

Potrei raccontare degli uomini che, mandati indietro dal confine alto di Mentone, si accovacciano disperati lungo la strada che riporta all’Italia; oppure dei condomini di Via Tenda che escono di casa guardinghi e infastiditi dalla presenza delle persone sotto al ponte; dei gendarmi che chiedono i documenti; dei bambini che sanno ridere, sempre.

Tutte queste sono facce di confine. Ognuna di queste, se lo vorrà, si racconterà: non sarò io a parlare in nome loro.

Io racconto che ogni volta che mi avvicino a quella linea, che in realtà è fatta a macchie, l’ovatta che avvolge i miei occhi e le mie orecchie va in fumo perché sbatto contro un sistema che si palesa nella sua finzione: che in nome della parola “protezione” lascia tanti nella disperazione, che in nome della parola “sicurezza” uccide, che in nome della parola “identità” mente.

Ogni volta che da questa linea mi allontano, piano piano l’ovatta ricresce come un rovo invasivo. L’ovatta, il rovo, è la vittoria di un sistema che acceca e che è nato, cresciuto e continua ad essere implementato per affinare tecniche di accecamento.

Ventimiglia è uno dei luoghi dove il sistema rischia di fallire perché la sua maschera crolla, e gli occhi potrebbero vedere…

Vedere è però un atto di volontà.

(immagini e testo di)

Daniela M.