Pubblichiamo l’ultimo comunicato di Briser les frontières e traduciamo l’introduzione che ne fa Marseille Infos Autonomes.
Negli ultimi tempi si è sentito parlare spesso della frontiera franco-italiana, tra Bardonecchia e Briançon. Si è sentito parlare del colle di Monginevro e di quello dell’Échelle: dovrebbe essere ormai chiaro che, nonostante la neve e le temperature proibitive, centinaia (forse migliaia?) di donne e uomini migranti continuano a tentare di passare la frontiera. Siamo ormai ampiamente al corrente degli incidenti -anche mortali-, delle mutilazioni causate dai congelamenti, della caccia al migrante messa in atto dalla polizia francese, dell’apparente indifferenza delle autorità italiane. Abbiamo saputo della persecuzione giudiziaria nei confronti di una guida che ha accompagnato all’ospedale, oltre il confine, una donna incinta, che avrebbe partorito di lì a poco. Abbiamo saputo anche del respingimento di un’altra donna, incinta e in gravi condizioni di salute, morta qualche giorno fa all’ospedale di Torino. Evidentemente non tutti traggono le medesime conclusioni dall’analisi di quel che sta succedendo nel cuore dell’Europa, a pochi passi dalle piste sciistiche alpine, a qualche metro dall Riviera, mentre i fatti smentiscono tutti i proclami sull’efficacia di soluzioni militaresche, di controlli, rastrellamenti e respingimenti. Soluzioni criminali che, evidentemente, non hanno altro risultato che aumentare la pericolosità delle rotte migratorie e confinare in condizioni disumane chi prova a raggiungere la propria meta. Chi continua a non capire o chi è disposto a fare propaganda sulla pelle di migliaia di esseri umani fa parte del problema: per questo, alla frontiera, un gruppo di abitanti ha deciso di occupare i locali di una chiesa, per ospitare e supportare le persone in viaggio. Nell’arco di pochi giorni, Chez Jésus ha già ospitato decine di persone.
Notizie dalla frontiera di Briançon, dove la situazione diventa sempre più complessa : un numero crescente di persone cerca di passare, mentre la repressione si intensifica.
I passaggi clandestini degli/delle esiliati/e diventano sempre più difficili al colle di Monginevro, nei pressi di Briançon: le/i migranti provenienti dall’Italia sono più numerose/i che quest’inverno, e non riescono a passare la frontiera francese in tempi brevi. Giovedi’ sera, undici di loro, tra i quali quattro donne e tre bambini, hanno passato la notte nella sala parrocchiale, nel seminterrato della chiesa di Clavières, a dodici chilometri dalla frontiera.
Sono state/i raggiunti da una quarantina di altre/i migranti venerdi’, e da una quindicina sabato, cosa che avrebbe potuto creare una situazione drammatica sotto il profilo umanitario. Una ventina di persone che vivono sui due lati della frontiera li/le sostengono, persone che non appartengono alle associazioni di aiuto ai/alle migranti che sono state spesso citate dai media, parlando di Briançon, a partire da dicembre. Una ventina di esiliati/e hanno deciso di passare in Francia a piedi, durante la giornata, autonomamente. Lo Stato italiano, che quest’inverno è restato piuttosto passivo, ha inviato, nel tardo pomeriggio, la polizia in antisommossa per controllare il passaggio.
Da giovedì abbiamo occupato alcuni spazi pertinenti alla chiesa di Claviere.
Alla frontiera la situazione in queste ultime settimane si è complicata. Il flusso di persone che arriva al confine è sempre più forte e le pratiche di solidarietà diretta messe in atto in questi mesi non sono più sufficienti. Per questo sentiamo sempre di più la volontà di sollevare il vero problema, che è la frontiera, con forza maggiore.
Abbiamo occupato i locali sottostanti la chiesa anche perché si è resa sempre più evidente la necessità di avere tempi e spazi per organizzarci e parlare con le persone che a decine ormai ogni giorno cercano di attraversare questo confine.
Al tempo stesso questa occupazione non vuole invocare un intervento da parte delle istituzioni che potrebbero darci una risposta con la solita impalcatura dell’accoglienza dalla quale la maggior parte delle persone con cui ci stiamo confrontando fugge.
Preferiamo organizzarci in modo autogestito. Noi non vogliamo “gestire” delle persone; al contrario del sistema di accoglienza che conosciamo, che non fa altro che legittimare il dispositivo frontiera, vogliamo cercare complicità con chi si batte in prima persona per la propria libertà di movimento.
Invitiamo tutt* i/le solidali a raggiungerci per un pranzo condiviso.
Riceviamo e pubblichiamo il comunicato dei medici volontari del Ponente Ligure e del gruppo Solidali del Ponente. I medici fornivano precedentemente prestazioni sanitarie presso l’accoglienza sotto la chiesa delle Gianchette, dedicata alle famiglie, donne e bambini, soppressa dal mese di agosto e tuttora nell’ambulatorio della Caritas. Dal mese di febbraio di quest’anno, come raccontano, hanno allestito per alcune ore la settimana un “ambulatorio volante” nel campo informale sotto il ponte di via Tenda. Anche loro, come più volte descritto nei report medici pubblicati sul sito, evidenziano l’assenza completa del diritto alla salute per le persone che transitano per questi luoghi.
Ventimiglia sotto al ponte
Dalla scorsa estate la situazione dei migranti a Ventimiglia è peggiorata in maniera esponenziale: la chiusura del centro di accoglienza volontario delle Gianchette, contrariamente a quanto auspicato dalle autorità, non ha spinto le persone in viaggio a cercare ospitalità presso il campo della CRI “alleggerendo” la situazione nel quartiere; al contrario ha prodotto la creazione di un “campo informale” di considerevoli dimensioni sotto al ponte.
E’ difficile capire perché così tante persone “preferiscano” la precarietà di questo campo, il freddo, la scarsa igiene, i ratti, al ben più lindo e controllato Campo Roja, gestito dalla CRI e ancor più come questa scelta sia fatta anche da tante giovani donne, da madri con i loro figlioletti al seguito.
…potrebbero essere i blindati della polizia posti all’entrata, il recinto attorno, la distanza dal centro città, il timore di poter essere facilmente rispediti indietro, il timore di essere più controllati e avere maggiori difficoltà ad attraversare il confine….potrebbe essere tutto ciò oppure altro, non sta a noi dare risposte sociologiche o politiche per spiegarne genesi e dinamiche.
Noi siamo Medici e come tali ci basta l’evidenza del dato: esiste un campo informale che ospita centinaia di persone e tra essi tantissimi soggetti vulnerabili, donne, bambini piccoli, minori, e tutti, oltre a vivere in condizioni estreme, sono assolutamente invisibili, non hanno nessun tipo di tutela, men che meno quella sanitaria.
Per questo motivo, ci siamo organizzati, assieme ad altri volontari e con mediatori culturali e linguistici, per dare un minimo di assistenza medica alle persone migranti che rimangono fuori dal circuito dell’accoglienza ufficiale. Abbiamo così iniziato, nel mese di Febbraio, ad allestire un gazebo sotto al ponte, una sorta di “ambulatorio volante”, precario anch’esso come le loro tende, in cui visitiamo, facciamo medicazioni, diamo consigli, forniamo le prime cure. Dagli inizi di febbraio ad oggi, siamo riusciti a garantire una presenza costante di due turni ambulatoriali a settimana e abbiamo avuto modo di visitare centinaia di persone.
Niente di risolutivo purtroppo, una piccola goccia di solidarietà in un mare di indifferenza che vorremmo fosse però un segnale chiaro. Vorremmo che non servisse a coprire in qualche modo le manchevolezze di un sistema che di “accoglienza” ha solo il nome, ma fungesse da segnale politico chiaro per evidenziare che di altro c’è bisogno e che altro, molto altro bisogna fare per “rimanere umani”
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un testo riguardante lo sciopero dei ferrovieri francesi in merito alla nuova riforma che vede l’avvio della privatizzazione della SNCF, compagnia ferroviaria francese.
Da diversi mesi, gli stessi ferrovieri che lavorano sulla tratta frontaliera tra Italia e Francia, ribadiscono con determinazione di essere stanchi di dover assistere, o peggio, di essere chiamati a prendere parte ai controlli giornalieri che le Forze dell’ordine francesi eseguono nei confronti dei migranti, ovvero di tutti coloro che hanno la pelle più scura. I ferrovieri stanno dalla parte di chi viaggia, si rifiutano di chiedere i documenti ai migranti e di continuare a collaborare con la polizia nelle invasive e pericolose dinamiche di controllo differenziale sul confine, che squalifica e condanna le persone migranti in viaggio: questo non è il loro lavoro. Il loro lavoro è garantire un servizio di trasporto accessibile a tutte e tutti, sicuro, efficiente e rispettoso dei diritti dei viaggiatori come di quelli dei lavoratori.
Determinati a lottare contro l’erosione di questi diritti e contro una progressiva manovra di privatizzazione della rete dei trasporti francesi, i ferrovieri sono pronti a inaugurare un intenso periodo di scioperi e chiare rivendicazioni politiche.
Dall’altra parte della frontiera: i ferrovieri francesi in sciopero pronti a bloccare il paese
“L’interfederale dei sindacati CGT, SUD-rail e CFDT, prende atto che il governo non ha nessuna intenzione di aprire delle reali trattative e che non ha tenuto minimamente conto delle proposte e delle criticità espresse dalle organizzazioni sindacali in seguito alla presentazione del primo rapporto di riforma.
Dopo aver utilizzato tre volte il “passage en force” [legge approvata tramite decreto, bypassando la discussione e la votazione in Parlamento, ndr], il governo si assume la responsabilità del malcontento e dello scontro.
I sindacati verificano un’adesione massiccia alla mobilitazione dei ferrovieri del 22 marzo, con una stima al ribasso di 25 000 manifestanti.
Per spirito di responsabilità, le organizzazioni sindacali prendono atto che, di fronte ad un governo autoritario, bisognerà essere in grado di mantenere una lotta dura su un periodo di lunga durata.
Per questo l’interfederale dei sindacati ha stabilito un calendario di scioperi prolungabili di due giorni, ogni 5 giorni, a partire dal 3 e 4 aprile 2018.
Una nuova riunione che si terrà il 21 marzo,definirà più precisamente la mobilitazione.“
Comunicato unitario delle organizzazioni sindacali,16 marzo 2018
In Francia, i lavoratori delle ferrovie sono ai primi passi di una lotta che si preannuncia dura e senza sconti : in gioco c’è il futuro del servizio pubblico ferroviario francese, minacciato dalla riforma di SNCF che prevede la fine dell’applicazione dello Statuto dei lavoratori delle ferrovie per i nuovi assunti e un’apertura alla concorrenza che spianerebbe la strada verso la privatizzazione del servizio di trasporto passeggeri su rotaia.
Il 12 marzo la celebrazione degli 80 anni di SNCF è stata interrotta da un gruppo di lavoratori determinati e arrabbiati ,che hanno deciso di presentarsi senza invito al cocktail dei manager della compagnia, occupando il tetto dell’edificio e il salone dove si svolgeva la kermesse, per ribadire che gli cheminots (i ferrovieri d’oltralpe) non resteranno a guardare in silenzio governo e dirigenti sfasciare il servizio pubblico.
Gli annunciati tagli alle linee minori e a tante piccole stazioni sparse sul territorio nazionale sembrano accantonati (solo momentaneamente) dopo le proteste degli abitanti e degli amministratori locali delle zone rurali e in molti vedono in questa mossa un tentativo di divisione fra utenti e ferrovieri, cercando di presentare come invece urgenti e necessarie le modifiche ai contratti e alle condizioni di lavoro degli cheminots.
Nelle ultime settimane i lavoratori sono stati oggetto di una campagna mediatica squallida e diffamatoria circa i presunti privilegi di cui godrebbe la loro categoria.
I diritti dei lavoratori che svolgono le tante mansioni collegate al funzionamento della rete ferroviaria non possono essere definiti privilegi : le contropartite in termini salariali e previdenziali delle quali gli cheminots sono accusati di godere, sono i riconoscimenti percepiti per il lavoro usurante, i turni notturni e festivi, la responsabilità della sicurezza di milioni di passeggeri. Sono stati conquistati con le lotte, gli scioperi e il sangue di tanti lavoratori e lavoratrici, meriterebbero anzi di essere estesi ad altre categorie di salariati, che invece politici e giornalisti delle grandi testate cercano di aizzare contro i ferrovieri ancor prima che la loro lotta inizi.
In un braccio di ferro che dura da settimane, il governo si è detto pronto a poter resistere “ad un mese di sciopero”, mentre giornalisti come François de Closets hanno dichiarato che gli utenti delle ferrovie saranno “presi in ostaggio” dagli scioperanti.
L’adesione potrebbe sfiorare il 95% dei lavoratori.
Le intenzioni del governo sono di approvare la riforma prima dell’estate e per questo farà il ricorso al “passage en force”, il famigerato 49.3, il decreto legge approvato senza discussione in parlamento già usato da Valls per approvare la Loi Travail. La riforma che nel 2016 ha stravolto il diritto al lavoro incontrò una grande opposizione,con gli studenti alla testa di una lotta contagiosa e di lunga durata capace di coinvolgere però solo parte dei lavoratori del paese,senza arrivare ad un fronte unitario di tutte le parti della società come avvenne invece nel 1995.
E’ proprio lo spettro del 1995, anno in cui i ferrovieri si unirono agli studenti universitari in lotta contro i tagli del piano Juppè, trascinando tutte le categorie nello sciopero e arrivando a bloccare il paese in maniera vera e propria, a spingere ora il governo a creare divisioni tra lavoratori pubblici e privati, tra addetti al servizio e passeggeri. Quello a cui puntano i sindacati è invece fare appello a tutti i lavoratori e le lavoratrici in difesa del servizio pubblico e del diritto al lavoro, sotto attacco già con i precedenti governi “socialisti”.
A redarre il rapporto su cui si basa la riforma è stato non a caso Cyrill Spinetta, ex AD di Air France e responsabile della crisi della compagnia di bandiera dopo l’apertura alla concorrenza privata i cui effetti nefasti sono già stati sperimentati sulla pelle dei lavoratori di Telecom France e EDF (gestori rispettivamente della rete telefonica e di quella elettrica).
Tutto in linea con i provvedimenti siglati nel 2015 da Macron, in veste di ministro dell’economia, un “uberizzazione” del mondo del lavoro che ha arricchito in primis le compagnie private low-cost di bus a scapito proprio del servizio pubblico ferroviario.
Adesso però,il governo dei padroni “smart” dovrà fare i conti con una categoria combattiva e realmente in grado di mettere in ginocchio le attività del paese.
Per continuare sulla strada delle liberalizzazioni è fondamentale per Eduarde Philippe mettere fine allo Statuto dei ferrovieri, che sancisce la “missione sociale” della categoria , quella di garantire un accesso sicuro al trasporto pubblico da parte di ogni utente tanto sulle linee più trafficate (e più redditizie per i profitti aziendali) quanto nelle zone rurali o periferiche. Missione che gli cheminots hanno dimostrato di saper svolgere con coraggio e determinazione anche di fronte a situazioni estreme,come la vergognosa caccia al migrante che si svolge sui treni, nelle stazioni e nei territori di frontiera.
In particolare diversi sindacalisti della CGT si sono fatti portavoce dell’indignazione di lavoratori e utenti del servizio di fronte agli effetti tragici della chiusura delle frontiere e della caccia all’uomo portata avanti dalla polizia italiana e da quella francese. I ferrovieri, con lettere alla dirigenza, manifestazioni, interviste e soprattutto tanti piccoli e grandi gesti di solidarietà, hanno preso posizione in favore di chi rischia la vita o la deportazione nel tentativo di attraversare il confine italo-francese.
(https://www.internazionale.it/notizie/louise-fessard/2017/01/23/ferrovieri-migranti-ventimiglia)
I dirigenti della CGT hanno denunciato che non è un caso che sempre più persone trovino la morte nei tentativi disperati di nascondersi o di evitare i controlli, che un dispositivo di rastrellamenti su base etnica è stato messo in piedi, che l’azienda SNCF si rende complice di tutto questo tra lo sdegno dei lavoratori, che hanno spesso subito minacce e ritorsioni da parte della polizia perché si erano rifiutati di collaborare o avevano osato protestare di fronte ai numerosi episodi di razzismo e disumanità verso uomini, donne o bambini.
SNCF, ignorando gli addetti ai lavori e la loro richiesta di porre fine ai rastrellamenti e ai respingimenti in frontiera per fermare gli incidenti mortali, si è limitata a esporre dei cartelli multi-lingue che dovrebbero servire a scoraggiare i migranti a viaggiare in condizioni di pericolo,come se la loro fosse una semplice scelta e non il tentativo disperato di persone perseguitate e braccate a causa del colore della loro pelle o della loro nazionalità.
La direzione ha ritirato la circolare con tanto di scuse dopo che i dipendenti avevano paragonato la politica aziendale al collaborazionismo di Vichy con il regime Nazista.
Risale al 2015 invece la richiesta fatta dai ferrovieri e accolta da SNCF (oggetto di una polemica triste e strumentale da parte dei fascisti del Front National e non solo) di poter introdurre eccezionalmente e occasionalmente tratte ferroviarie al prezzo di 0 € per permettere ai controllori di far viaggiare in maniera regolare famiglie con bambini e altri soggetti a rischio,sfollati e in viaggio a causa delle disastrose politiche migratorie europee. (https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/des-billets-gratuits-pour-les-migrants-la-sncf-explique-sa-politique-d-humanite_1126219.html)
I ferrovieri chiedono insomma di poter svolgere la loro missione, quella cioè di garantire il diritto ad un viaggio sicuro dalla partenza all’arrivo per chiunque si trovi in possesso di regolare titolo di viaggio e considerano un disonore la collaborazione con i respingimenti e le deportazioni di SNCF, rivendicando il sacrificio dei tanti appartenenti alla categoria nella resistenza al nazismo.
L’opposizione dei ferrovieri francesi alla caccia ai migranti è un importante esempio di dignità e umanità che rende esplicito uno degli obbiettivi che una lotta che punta alla vittoria deve porsi : coinvolgere ampi e diversi settori di persone che abitano e lavorano sul territorio.
Anche per questo la lunga battaglia che i sindacati stanno per intraprendere in difesa dello statuto della categoria e del servizio pubblico riguarda da vicino chi si dichiara nemico delle frontiere o semplicemente abita in prossimità del confine o viaggia oltralpe per motivi personali e lavorativi.
E’ una battaglia che per vincere ha bisogno dell’appoggio degli utenti del servizio e di tutta la società civile, le adesioni degli studenti e degli altri settori del servizio pubblico alla giornata di sciopero e alla manifestazione che si terrà a Parigi il 22 marzo sono un importante segnale in questo senso.
E’ nato inoltre un comitato di “utenti SNCF per lo sciopero illimitato” (su Facebook: Collectif des usagers de la SNCF pour la grève générale illimitée) per coinvolgere gli utenti in una lotta che potrebbe paralizzare il paese e che proprio per questo potrebbe contagiare tante altre categorie ed essere un’occasione per rivendicazioni comuni piuttosto che una guerra tra poveri tra chi sciopererà e chi si troverà impossibilitato a raggiungere il suo posto di lavoro.
La speranza di Macron di portare avanti indisturbato le sue politiche contro i lavoratori e le classi meno abbienti sembra vacillare.
Mentre gli intellettuali di sinistra si preparano a commemorare i 50 anni dal maggio ’68, un attualissimo conflitto sociale potrebbe oscurare la celebrazione fine a sé stessa di chi vorrebbe rendere vintage l’opposizione sociale per meglio reprimere le lotte presenti e le future.
La mobilitazione degli cheminots non potrà passare inosservata e, se riuscisse ad unire studenti e lavoratori già prima del grande corteo unitario internazionalista previsto per il primo maggio nella capitale, potrebbe davvero far deragliare la riforma presentata dai dirigenti della compagnia e dal governo.
Un articolo di El Pais diffonde il comunicato della rete Interlavapiés sulla morte del cittadino senegalese Mame Mbaye Ndiay
Mame Mbaye Ndiay, cittadino senegalese trentacinquenne che esercitava la professione di venditore ambulante, è morto il 15 Marzo 2018 a Madrid, in Calle del Oso, nel quartiere Lavapiès, per un arresto cardiaco verificatosi nel corso di un intervento della polizia municipale.
Il fatto ha determinato l’indignazione e la ribellione della comunità senegalese e in generale degli abitanti del quartiere.
Durante la serata del giovedì stesso e la mattina del giorno dopo, si sono verificati forti agitazioni.
Durante i disordini, ai quali la polizia ha risposto violentemente [1], un altro cittadino senegalese di Lavapiés, Ousseynou Mbaye, di 54 anni, è morto a seguito di un ictus cerebrale [2] e Arona Diakhate, di 38 anni, è stato ricoverato per trauma cranioencefalico all’ospedale Fundación Jiménez Díaz di Madrid. Il referto medico mostra che è stato trattato con quindici punti sulla testa e presenta due lividi. Trauma cranioencefalico, con ematomi interni, ma senza rischio di danno neuronale. Diakhate ha una ferita alla testa a seguito di trauma inferto con “un oggetto duro e sconosciuto” [3].
Una morte molto simile si è verificata, a Maggio 2017, a Roma. Niam Maguette, un cinquantaquattrenne senegalese, è deceduto nel corso di una operazione di polizia definita “anti-abusivismo”.
Secondo gli agenti, la morte si sarebbe verificata a seguito di un malore, mentre la comunità senegalese ha dato vita a intense manifestazioni di protesta, affermando che fosse stato ucciso e chiedendo l’interruzione delle ripetute operazioni di rastrellamento operate dalla polizia locale di Roma. [4, 5].
A seguito di questi eventi, ritenendo che l’unica certezza sia che a livello europeo si assiste ad un inasprimento della repressione verso donne e uomini già posti in condizioni di sfruttamento dalla mancanza di riconoscimento giuridico, pubblichiamo un articolo che riporta il comunicato della rete interlavapiés, che si definisce “una rete in movimento per la libera circolazione delle persone, perché nessun essere umano è illegale” [6].
Cronaca di una morte annunciata
DAVID FLORES E TERESA ÁLVAREZ-GARCILLÁN (RETE INTERLAVAPIÉS)
La morte di Mame Mbayee non è un fatto casuale, ma la conseguenza del razzismo radicato in alcuni settori della società e delle istituzioni a Madrid.
Ieri pomeriggio Mame Mbayee è morto a causa di un arresto cardiaco. Questo abitante di Madrid stava esercitando la vendita ambulante poco prima a Puerta del Sol.
Ci sono molte versioni degli eventi accaduti prima e dopo la sua morte. La confusione e i disordini ci fanno perdere la concentrazione: chi ha ucciso Mame? Cosa ha ucciso Mame? Nella differenza di queste due domande giace la chiave: Mame è morto per un attacco di cuore ma, nel motivo della sua tragica fine, c’è un lungo filo da seguire che trascende e attraversa tutta la nostra società, con le sue politiche, le sue leggi e le sue istituzioni.
Non possiamo solo pensare che quello che è successo ieri sia stato un incidente. Non è stato un evento isolato. C’è un serio problema strutturale che ha causato la morte di una persona. Mame, senegalese di 35 anni, non aveva documenti nonostante fosse da 12 anni in Spagna. Ha lavorato come ambulante perché non poteva lasciare una cerchia di esclusione. Ad una estremità del cerchio, la premessa che senza un contratto di lavoro non ti danno i documenti; nell’altro, che senza documenti, non puoi avere alcun lavoro. Nel frattempo, l’ultima riforma del codice penale, che ha trasformato le precedenti mancanze in crimini e, con essa, il venditore ambulante in un criminale. Avendo dei precedenti, nessuna offerta di lavoro ti aiuterà a regolarizzare la tua situazione.
Le persone che lavorano in strada e le persone prive di documenti sono spaventate da queste strutture in cui la tensione e la minaccia sono elementi costanti, al livello della strada e al livello della Legge. La persecuzione, i raid, i CIE, il Codice Penale e la mancanza di opportunità sono mattoni di alte mura, forse invisibili a molti, ma molto reali per gli altri. Ripetiamo: ieri non è stato un evento isolato, ma un riflesso di un problema strutturale, in ambito giuridico e politico. Una questione di razzismo e discriminazione.
Gridiamo nelle strade “Sopravvivere non è un crimine!”, Ma con le leggi attuali lo è. Molti come Mame sono venuti qui attraverso mare e deserto con la morte alle calcagna, per poter vivere con dignità e sostenere le loro famiglie. Le regole del gioco sono quelle che sono e, dato che non hanno documenti o lavoro, comprano un sacco di scarpe – o occhiali, profumi o borse – in qualsiasi magazzino all’ingrosso e poi lo rivendono in strada. E questo è considerato un crimine, ma non hanno scelta.
Molti come Mame corrono davanti ai distintivi. E guardano con sguardi sfrenati le orde di persone della Puerta del Sol, sempre all’erta, giorno dopo giorno. Vivono con il cuore in un pugno, finché non scoppia.
La tensione per il timore di essere denunciati non è poca, ma hanno più paura della violenza quotidiana. I gruppi di Lavapiés sono in contatto con il Comune per denunciare la brutalità della polizia. In questi casi è difficile condurre un processo ordinario di denuncia: si tratta di accusare, senza documenti o con il timore di non rinnovarli, niente di più e niente di meno della polizia. E il giorno dopo tornare in strada per vendere, con quegli agenti che cercano di fermarti. In breve, le aggressioni terrorizzano, c’è la paura. La paura serve a rendere la violenza invisibile, confinata nella sfera quasi privata.
Nel centro di Madrid, da agosto 2016, i collettivi hanno documentato in un formato concordato con l’amministrazione cittadina per circa 20 aggressioni fisiche con fratture e contusioni di diversa gravità. Nel luglio del 2017, ad esempio, hanno spinto un ragazzo buttato in un furgone riportando lesioni a diverse vertebre. Al di fuori di questo registro formale, che accetta solo casi con indicazioni fisiche di violenza visibile, vi sono costanti abusi verbali e intimidazioni di ogni tipo.
Lo scopo di questo lavoro sistematico è aprire un percorso sicuro contro l’impunità ma le istituzioni, ribadiscono le loro buone intenzioni senza concretizzarle in mezzi per porre fine al problema. Invece, ci rimandano al Difensore Civico, che è già a conoscenza della violenza e suggerisce lo sviluppo di un programma di identificazione efficace, per garantire azioni non discriminatorie.
Tuttavia, il problema non è limitato a queste azioni. Esiste una dimensione giuridica, legata al codice penale e alla legge sull’immigrazione. I collettivi lavorano su una Proposta di legge per modificare l’articolo 270.4, che classifica la vendita nelle strade come reato. Questa proposta è stata approvata dalla Commissione per la giustizia del Congresso con il sostegno di Unidos Podemos, PSOE, PdeCat, ERC e PNV nel marzo dello scorso anno. Stiamo attualmente prendendo provvedimenti per rendere effettive le modifiche nella legislazione.
No, la persecuzione da parte di due poliziotti in moto non ha ucciso Mame, ma forse il silenzio istituzionale lo ha ucciso. O non è stato il silenzio istituzionale che ha ucciso Mame ma le leggi che lo hanno ucciso. O forse né la polizia né le leggi lo hanno ucciso, ma il razzismo ha ucciso Mame. Sì, Mame è morto. Le circostanze di questa morte sono state tragiche. Le circostanze della sua vita non lo erano meno. Ed è nella vita e nella dignità di tutti i residenti della città ciò su cui vogliamo concentrarci. Ora non solo è necessario svolgere un’indagine per chiarire i fatti, ma il Municipio deve assumersi la responsabilità politica per quanto è successo. L’ambivalenza non è possibile.
Quello che è successo ieri non è una fatalità, è una conseguenza di un problema che esiste in città. Un problema di razzismo strutturale, mancanza di responsabilità e abbandono di una popolazione vulnerabile [6]
COL FRATELLO IDY DIANE NEL CUORE! Anche Genova grida “No al RAZZISMO”!
Storie di ordinario razzismo.. ordinario e sempre più quotidiano, sempre più per mano non solo dello stato, cioè di chi si riempie la panza con la vita di tutti noi, o per mano di poliziotti, burattini dei governi che svolgono il loro lavoro di servi pestando, ammazzando ed imprigionando, salvo poi l’improvviso destarsi del pubblico scandalo se qualcuno gli urla forte e chiaro in faccia: “DOVETE MORIRE”.
Le mani sporche di sangue aumentano ogni giorno e sono quelle di cittadini qualunque: i fascisti si sentono più forti, gli si è lasciato spazio e questi stanno sguazzando nella merda che abbiamo lasciato accumulare, e le tentate stragi e gli omicidi continuano, sempre più difese, sempre più “scusate o capite”.
Più di una settimana fa ormai, un altro morto “ordinario”, un altro omicidio per mano razzista, un altro negro morto ammazzato.
IDY DIANE, senegalese, ucciso a Firenze da un italiano di 65 anni, Roberto Pirrone.
Si chiamava IDY DIANE, immigrato, regolare e faceva l’ambulante. Serve altro o possiamo dire che era SEMPLICEMENTE un UOMO?
Casualità, era sposato con la vedova di MODOU SAMB un altro senegalese ucciso sempre a Firenze il 13 dicembre 2011 insieme ad un paesano, DIOR MOR. Uccisi da Gianluca Casseri, un’altra mano fascista!
I giornali hanno provato come sempre a rivedere la storia: a Macerata problemi mentali, a Firenze “mancanza di coraggio nel suicidarsi”… e quindi, scende in strada, salta qualche donna bianca e te eccolo lì: spara a un negro.
UN UOMO!
Dopo l’omicidio molti ragazzi immigrati sono scesi nelle strade, hanno espresso la loro rabbia, hanno urlato, hanno attraversato luoghi e volti, hanno parlato e, per tutta risposta, i giornali, sostenuti dal coro dei cittadini per bene, il giorno dopo, parlavano delle fioriere rotte dal passaggio di questi giovani neri, sostenuti da quegli scansafatiche dei centri sociali… povere fiorere, troppa rabbia! È solo morto Idy, un venditore ambulante!
In diverse città sono stati fatti presidi e cortei in solidarietà alla rabbia di tutte queste persone, attraversati da gente bianca e nera, a cui ancora batte un cuore, che ancora non si è lasciata annichilire dalle ordinarie schifezze quotidiane.
“Nessuno di noi accetterà mai questa ordinaria brutale realtà!”.
Così decidiamo di riportare uno di questi pezzi di umanità che resiste e irrompe sulla scena decisa a non lasciarsi soggiogare.
Raccontiamo una delle manifestazioni contro il razzismo che ha ucciso IDY DIANE, raccontiamo alcune voci di queste strade attraversate, fiamme di un fuoco che arde contro il gelo di un Paese sempre più cupo.
Questi gli slogan che hanno attraversato i vicoli del centro storico, da via Pre a via del Campo per poi andare verso Piazza De Ferrari al grido di “SO-SO-SOLIDARITE’ AVEC LE SAN PAPIERS”. Le voci che intonavano questo grido di lotta sono state voci di uomini e donne, bianche e nere, italiani e stranieri che hanno riempito le strade, trasformando spontaneamente il presidio indetto alla Commenda di Pré dalla comunità senegalese di Genova in un corteo. Il ricordo e la denucnia dell’assassinio di Idy a Firenze e della tentata strage di Macerata hanno aperto il presidio, unendo la piazza con determinazione, nonostante la pioggia.
Alcuni giovani migranti nel frattempo hanno fatto uno striscione dove le parole scritte in italiano arabo e inglese urlano la voglia di riscatto e di uscire dal silenzio:
“NO AL RAZZISMO” dietro a quelle morti c’è il ritorno dell’odio razziale, sostenuto e promosso da partiti di destra ed estrema destra, sovranisti e fascisti, dalla Lega a Forza Nuova, da Casa Pound a Lealtà e Azione. Proprio quest’ultima ha organizzato nello stesso pomeriggio la presentazione di un libro insieme all’organizzazione Memento nella propria sede, che doveva essere un magazzino di stockaggio di prodotti alimentari da distribuire alla popolazione bianca e che ora diventa “spazio politico”. Di questo dovranno rispondere i Padri Scolopi e tutta la comunità che si dichiara cattolica.
“NO AL COLONIALISMO” dietro a quelle morti c’è un chiaro progetto coloniale che non essendo mai stato realmente né denunciato né riconosciuto continua indisturbato a mietere le sue vittime. Vittime che però oggi sono qua e che nella giornata di sabato hanno dato testimonianza di quello che i paesi neoliberalisti stanno facendo qui e nei loro paesi: sfruttamento, apartheid, disastri ecologici e ambientali, vendita di armi, consumo di risorse… LAGER IN LIBIA, UN GENOCIDIO NEL MEDITERRANEO.
Questi gli interventi passati di mano in mano, tra mani bianche e nere, attraverso megafono che è rimasto acceso per tutta la durata del presidio e durante il corteo. I ragazzi hanno dato voce al sentimento di rabbia e dolore che sentono sempre più forte, hanno dato voce alla sofferenza e all’odio che provoca il razzismo ogni giorno sulla loro pelle. Alcuni di loro parlavano di amore, fratellanza, sorellanza e bisogno di solidarietà, altri portavano più un desiderio di giustizia, non sentendo come parole proprie quelle sulla “violenza sbagliata, in cui non bisogna cadere”, sentendo invece la necessità di rispondere all’odio che si riversa sui “diversi” sempre più frequentemente, sentendo che, in ogni caso, la violenza non è la nostra. Semmai la nostra è autodifesa e voglia di vivere in maniera degna. In quelle tre ore sono stati denunciati anche il decreto Minniti, il sistema di accoglienza, le morti per mano fascista e i partiti riconosciuti dalla democrazia che inneggiano all’odio, con il coltello in mano lasciati liberi di aprire sedi nella nostra città.
Molti dei ragazzi che hanno portato insieme i loro corpi fra i vicoli di Genova, determinati, più forti di tutti quegli sguardi di chi, dai negozi, li guardava stupito ed impaurito, avevano sul volto rabbia e dolore, sì, ma anche gioia di essere lì, insieme, a testa alta.
Speriamo tutte e tutti che ci siano altre giornate come questa, altre voci forti, altri momenti di unione, altre strade piene di persone che non si faranno fermare da paura e repressione, dall’odio razzista e dall’indifferenza.
Quella di sabato è stata una giornata che ha dato speranza, che ha mostrato forza e determinazione nel reagire uniti, noi sfruttati, colonizzati, pronti a rivoltarci alla violenza fascista e razzista, a Genova, Firenze ed in altre città.
L’invito di fine corteo continua ad aleggiare per i vicoli della città vecchia:
“A presto nelle piazze! Per uscire dall’isolamento e contrastare i nostri nemici!”
A cura di Fight
[1] MeMento: E’ un’associazione che si occupa della continuazione della memoria della Repubblica Sociale Italiana attraverso la pulizia e la tutela delle tombe dei repubblichini fucilatori dei loro connazionali e alleati dei nazisti. Inoltre è la diretta erede spirituale ed immobiliare della Unione Nazionale Comnbattenti della Repubblica Sociale Italiana UNCRSI.
Dopo l’emergenza-piogge, è arrivata l’emergenza-freddo a Ventimiglia.
Si sa, sono anni ormai che paradossalmente si va avanti di emergenza in emergenza.
Eppure qualcuno potrebbe notare che un’ondata di gelo eccezionale, il Burian Siberiano in questo caso, è sì un evento insolito ma per chi ha una casa riscaldata, vestiti caldi e impermeabili è qualcosa di gestibile, qualcosa che può diventare finanche piacevole: improvvisamente la neve arriva fino al mare, il paesaggio si fa candido e i bambini, ma non solo, si divertono a tirare qualche palla di neve.
L’emergenza allora ancora una volta è stata un’emergenza selettiva: ha riguardato principalmente le centinaia di persone accampate all’aperto sotto il ponte di Via Tenda o nei tendoni del Campo della Croce Rossa a Ventimiglia… insieme alle altre migliaia di persone accampate all’aperto nel resto della Penisola.
La netta maggioranza di questi bambini, di queste donne e di questi uomini sono immigrati, non italiani.
Durante i giorni di gelo sono uscite alcune testimonianze, articoli e reportage sulla situazione di emergenza vissuta a Ventimiglia dalle persone migranti.
Ne riportiamo qualche passaggio significativo:
27/02/2018 Dalla pagina FB del Progetto 20k[1]
Da ormai quasi tre giorni la situazione a Ventimiglia è parecchio critica per i più di 150 migranti senzatetto che si trovano sotto il ponte stradale. Abbiamo chiesto ufficialmente al comune di attivarsi per sopperire alla mancanza di uno spazio dove queste persone possano ripararsi dal freddo e dal gelo, almeno finché non finirà l’emergenza maltempo. Fra queste persone sono presenti molti soggetti vulnerabili, soprattutto infanti, minori e persone con vari problemi di salute. Dopo aver diffuso la notizia su svariate testate giornalistiche abbiamo ricevuto sostegno da molti solidali di Imperia e dalla regione, ma anche dai vicini transfrontalieri: purtroppo non abbiamo avuto nessuna risposta dal Comune di Ventimiglia.
Con gli attori locali stiamo cercando di gestire questa situazione vergognosa: i solidali e gli attivisti, anche transfrontalieri, stanno cercando di sopperire autonomamente a queste carenze, distribuendo cibo, bevande calde, legna per i fuochi, vestiti e coperte. Le ONG locali si stanno muovendo per convincere le donne con o senza bambini e minori ad andare al campo CRI o per aiutarci ad assicurare la distribuzione di cibo serale che, a causa del maltempo, si è dovuta interrompere. Anche la Croce Rossa di Monaco si è attivata con alcune navette per trasportare i migranti al campo, che è distante e la strada per raggiungerlo pericolosa, ma queste funzionano solo per parte della giornata, in maniera poco costante.
La sospensione delle identificazioni al campo CRI è stata disposta solo per donne e minori, ma non per gli uomini. Questo fatto genera quindi diffidenza perché lasciare le impronte digitali significa essere esposti maggiormente al rischio di deportazioni, rimpatri o di un ennesimo trasferimento in un centro chissà dove in Italia, così in molti preferiscono rifugiarsi in altri posti e/o piuttosto restare al freddo. La chiesa delle Gianchette è rimasta aperta per qualche ore e il parroco ci ha concesso uno spazio da utilizzare come magazzino temporaneo per le coperte che tanti solidali ci stanno inviando. Abbiamo ancora bisogno di trovare altri spazi per la legna che raccogliamo, dato che è l’unica fonte di riscaldamento per le persone sotto il ponte. Ci auspichiamo che la solidarietà tra le varie realtà locali possa portare a gestire con più facilità questa situazione di assoluto disagio, perché purtroppo il peggio non è ancora arrivato: nei prossimi giorni è prevista neve, pioggia e un calo drastico delle temperature.
Ieri sera la sala d’attesa della stazione avrebbe dovuto essere aperta, ma in realtà è rimasta chiusa. In tanti durante il giorno si riparano lì dal gelo e dalla neve che continua a cadere fitta, ma stamattina ci è giunta notizia della presenza sia di camionette con agenti in borghese che caricavano i migranti sulle camionette sia di pullman che, come di prassi, li deportavano forzatamente verso il sud Italia.
Riteniamo vergognoso e inaccettabile l’accanimento di queste ore nei confronti dei soggetti più vulnerabili presenti sul territorio ventimigliese. L’alta probabilità di essere intercettati dalla polizia potrebbe avere, infatti, l’effetto di incentivare i migranti a restare per strada o sotto il ponte, a costo di rimetterci la pelle. È in situazioni come questa che le istituzioni dovrebbero attivarsi per proteggere la vita di queste persone, piuttosto che dileguarsi senza rispostee facilitare l’azione poliziesca di repressione nei confronti dei transitanti.
28/02/2018 Da Repubblica, reportage di Pietro Barabino e Giulia De Stefanis:[2]
Ventimiglia, anche un bimbo di 3 mesi fra i migranti bloccati nel gelo. Ma il centro di accoglienza non si fa
A Ventimiglia non nevicava dal 1985 e molte delle persone – in tutto alcune centinaia – che stazionano al confine con la Francia in attesa del “grande salto” oltre la frontiera, non avevano mai visto un fiocco di neve. Tra i migranti, che stanno trascorrendo queste notti all’aperto a -7 gradi, anche tantissimi ragazzini e giovani mamme con i loro bambini di pochi mesi. Attualmente il Campo della Croce Rossa ospita trecento persone, duecento quelli che preferiscono restare fuori. La legge sui minori non accompagnati obbligherebbe ad aprire un centro dedicato ai più piccoli e alle donne, ma l’apertura – pianificata mesi fa dalla Prefettura – è stata bloccata dalla protesta di alcuni cittadini capeggiati dal sindaco della città di frontiera, che dopo aver insistito per la chiusura del campo gestito dalla Caritas, ha ostacolato in ogni modo l’apertura del centro per i minori non accompagnati.
Donne e uomini solidali si sono subito mobilitati per fornire aiuti e generi di conforto, per cercare di alleviare pericolo e sofferenza delle persone lasciate al gelo.
Invece nessun ente istituzionale, né Comune, né Prefettura, né Protezione civile ha preso iniziative per affrontare la situazione.
Il messaggio da parte delle istituzioni è stato molto, fin troppo, chiaro: non c’è nessuna emergenza umanitaria in atto perché quegli esseri che vivono sotto al ponte o non sono umani, oppure smettono di esserlo in quanto clandestini.
Come ha reagito la popolazione di Ventimiglia? A parte il gruppo dei solidali che attraversano il territorio – italiani, francesi, europei – la popolazione autoctona si è mossa di fronte a questa situazione così evidentemente penosa per le persone costrette a subirla?
La cittadinanza del territorio ha mostrato sdegno, disaccordo, disapprovazione nei confronti dell’abbandono riservato alle persone migranti, lasciate all’aperto con il ghiaccio, la neve e temperature molto al di sotto dello zero, o ha taciuto, di fatto assentendo al comportamento delle istituzioni?
Lo chiediamo ad una solidale che è stata costantemente presente e attiva durante la settimana di gelo e ha vissuto in presa diretta la drammatica situazione sotto il ponte di Via Tenda, tra le persone accampate:
“Guarda, la situazione a Ventimiglia è molto complessa e il clima, giorno dopo giorno, si fa sempre più teso e pesante… Sarebbe troppo semplice rispondere che la stragrande maggioranza della cittadinanza di Ventimiglia vuole lo sgombero dei migranti da sotto il fiume, che non ha voluto l’apertura del centro per minori, che è favorevole alle deportazioni verso Taranto, insomma che è razzista e xenofoba, quindi d’accordo con il comportamento delle istituzioni. Questa gente esiste e non è certo una minoranza, anzi…
Però attenzione non ci sono solo loro. In realtà tantissima gente in questa settimana di gelo ha aiutato come ha potuto, soprattutto offrendo sostegno materiale. Sono arrivate tantissime donazioni di beni di prima necessità a Eufemia, tanto che è stato chiesto al parroco di mettere a disposizione il magazzino della chiesa delle Gianchette perché la roba non entrava più nello spazio di Eufemia. Per dirti, ancora, quando gli attivisti del collettivo Kesha Niya, che di solito forniscono i pasti sotto al ponte, sono rimasti bloccati nella neve, a quel punto a cucinare è stata sempre la Caritas… Ma lo sai chi ci sta in Caritas? Tantissimi volontari che prima, quando era aperta la chiesa delle Gianchette, stavano lì a organizzare l’accoglienza dal basso per i migranti. Questo per dirti che una parte di cittadinanza si è mossa, ma certamente lo ha fatto sotto traccia. In maniera assolutamente non pubblica.
Se vuoi sapere perché, io credo che il motivo sia principalmente il clima di repressione e intimidazione che si vive a Ventimiglia. La chiusura della Chiesa delle Gianchette, avvenuta per ordinanza del Comune, ha segnato un punto di non ritorno: ogni sostegno pubblico ai migranti, anche quello di tipo umanitario e non conflittuale, è stato sempre più ostacolato. Si dà appositamente massima rilevanza ad ogni rigurgito razzista e si ostacola in maniera palese o “silenziosa” qualsiasi iniziativa di solidarietà. La polizia ha intensificato i suoi atteggiamenti intimidatori, il Comune le misure repressive, i media i toni di scontro da civiltà e questo ha permesso alla cittadinanza razzista di alzare la testa e sentirsi legittimata a comportamenti orrendi. Capita spesso che i solidali girino per Ventimiglia sentendosi insultare, soprattutto le donne peraltro, con frasi tipo: “Ecco la puttana che va con i negri” “Ecco gli amici dei negri..” ecc. ecc. Lo riporto per farti capire come mai la cittadinanza solidale e antirazzista agisca sotto traccia, in maniera diciamo “invisibile” allo sguardo pubblico.
Questo ovviamente ha anche delle ripercussioni sul rapporto con le persone migranti. Vedendo questa situazione, che loro ovviamente vivendo sulla loro pelle percepiscono, hanno sempre meno fiducia nei solidali. Non si tratta della fiducia umana a mancare, ovviamente sentono la nostra amicizia e vicinanza, ma si rendono anche perfettamente conto della nostra debolezza e questo li porta ad affidarsi a chi riconoscono come dotato di strumenti più efficaci… Inoltre tutto questo clima sta accelerando il processo di ghettizzazione lungo il fiume: ti isolano, ti marchiano da reietto, ti lasciano senza nulla, nelle condizioni più disumane… beh gli effetti sociali che tutto questo può produrre, credo che non serva un professore di sociologia a spiegarli… Sembra veramente che qui in Via Tenda, tra il sotto ponte e il quartiere popolare, in atto ci sia una strategia della tensione. Ecco, direi che questa situazione fa capire quanta poca democrazia sia rimasta in questo posto ma forse non solo qui, se è vero che questo posto è uno dei laboratori dove si sperimentano pratiche che poi vediamo riprodursi velocemente in molti altri territori di questo Paese. Probabilmente tutto questo deve farci riflettere profondamente sui modi e sugli strumenti possibili per un agire politico e sulla posta in gioco in questo momento…”
Torniamo alla domanda iniziale: si è trattato dell’ennesima emergenza, oppure di un ulteriore passo nella costruzione di una politica nei confronti delle persone migranti, dei poveri, degli esclusi, che si può definire come tanatopolitica (politica di morte)?
Michel Foucault ha coniato la categoria di “biopolitica” per indicare le pratiche e i dispositivi con cui il potere opera sulla vita della popolazione ai fini di far vivere chi è produttivo, lasciar morire chi invece non lo è, né può diventarlo. L’espressione “tanatopolitica” indica l’emergere di dispositivi diretti al far morire una parte di popolazione. Precisamente la parte delle “masse senza volto” che risulta in eccedenza. Sempre seguendo la traccia del pensiero foucaultiano, occorre chiedersi a quale scopo e per produrre cosa, oggi, il potere statuale operi in questo modo.
Con lo sguardo al sotto ponte di via Tenda a Ventimiglia, osservando le dinamiche in atto è possibile affermare che l’intenzione istituzionale sia quella di produrre un’esclusione/ghettizzazione radicale di una parte di popolazione, della quale lo stato non si interessa in nessun modo e sulla quale mette in opera una sorta di selezione.
I più forti resisteranno, i più deboli saranno eliminati. Chi resisterà avrà sempre la chance di poter uscire dal ghetto / passare il confine – dall’esclusione ad un’inclusione selettiva – molto spesso (ma non sempre né necessariamente) trasformato, grazie anche ai dispositivi burocratici e alle procedure disumanizzanti per i permessi di soggiorno, in un corpo docile, totalmente disponibile allo sfruttamento.
La morsa di gelo che ha serrato l’Italia nell’ultima settimana del febbraio di quest’anno richiama cupamente alla mente la morsa che attanaglia la maggioranza delle coscienze dei cittadini “legittimi” di un Paese sempre più vicino alla barbarie.
Un gelo difficile da sopportare, soprattutto per chi viene e per chi ama i climi caldi e meridionali.
Sotto la neve e gli strati di ghiaccio, tuttavia, la vita trova il modo di serbare le sue energie per riespodere, senza bussare, in primavera.
Anche le energie di chi ama la vita e la libertà, se ritrovate e alimentate, sanno diventare molto più potenti di qualsiasi prigione di ghiaccio.
Sabato 27 febbraio è stata una giornata di lavoro intenso sotto al ponte di via Tenda.
Avremmo fatto almeno 40 visite.
Rispetto alla scorsa estate ci sono più persone che vivono sotto al ponte del cavalcavia lungo al fiume, con un numero senza precedenti di donne e bambini anche molto piccoli.
L’insediamento sembra sempre più stabile, con baracche costruite con pezzi di legno e teli di plastica. Le persone che vivono lì sono prevalentemente eritree e sudanesi. Al momento, tutte le donne sole e le madri sono eritree.
Le persone che abbiamo visitato erano giovanissime. Tantissime affette da scabbia. Spesso con sovra-infezioni molto importanti. Grazie alla nostra disponibilità di farmaci e grazie alle scorte di indumenti stivati presso l’infopoint Eufemia abbiamo potuto somministrare il trattamento antiscabbia a molte persone, dopo esserci assicurati che avessero compreso come eseguire correttamente tutta la procedura.
Molti ragazzi avevano l’influenza, alcuni di loro sembravano avere la polmonite. Per questi ultimi, avvalendoci dell’aiuto nella traduzione di compagni di viaggio o di persone solidali, abbiamo scritto delle lettere di invio al pronto soccorso, perché eseguissero una radiografia del torace.
Moltissime persone presentavano ferite infette, difficili da tenere pulite per le pessime condizioni igieniche della vita sotto al ponte e per l’impossibilità di lavarsi.
Le persone erano molte e la difficoltà di comunicazione, associata alla precarietà del luogo e alla mancanza di un minimo di riservatezza, creavano difficoltà per tutti.
Per il pomeriggio di sabato avevamo in programma un incontro con alcune donne solidali del territorio, per fare chiarezza in merito al diritto all’assistenza sanitaria per le persone senza documenti in Italia e per spiegare le patologie più comunemente da noi osservate nel corso di questi anni a Ventimiglia. L’incontro è andato molto bene, e durante questo molte solidali hanno espresso la preoccupazione per la condizione della gente sotto al ponte, visto l’arrivo del freddo intenso: più volte si sono tentate telefonate alle autorità della zona per capire cosa fosse possibile fare in proposito.
In serata siamo rimasti a Ventimiglia per un aperitivo organizzato per sostenere il bar Hobbit di Delia. Delia è una delle pochissime persone (se non l’unica) che gestisce un’attività commerciale ad essere sempre stata accogliente con chi viaggia, diventando, nei mesi, un punto di riferimento per tutti coloro che si impegnano in attività di solidarietà diretta e concreta con le persone in viaggio. Prima dell’inizio dell’aperitivo, Delia ha parlato a lungo con un gruppo di boy-scout giunti per la prima volta a Ventimiglia, con l’obiettivo di comprendere meglio la situazione e maturare una consapevolezza rispetto alla chiusura delle frontiere e alle storie delle persone migranti che rimangono bloccate a Ventimiglia. Delia ha raccontato loro i fatti salienti di questi due anni e mezzo e ha espresso anche molte lungimiranti considerazioni su come la convivenza con persone giovani e con storie diverse potrebbe costituire un elemento di stimolo e un arricchimento per tutti nella città di Ventimiglia.
A riprova del suo, fondamentale, ruolo di riferimento per le persone in transito, siamo stati chiamati da lei per visitare una giovanissima mamma eritrea di circa 16 anni con una bimba di pochi mesi: ambedue con la scabbia. E’ stato estremamente difficile comunicare con la ragazza, nonostante ci fosse qualcuno che tentava di fare da traduttore. Appariva spaventata, voleva andare al più presto a prendere il treno. Non capivamo se avesse fatto o meno il trattamento per la scabbia. Infine si è defilata velocemente, seguita da alcuni solidali che in seguito ci hanno informato che, salita sul treno, pare avesse poi anche superato Mentone.
La mattina seguente, per favorire il dialogo con le persone che avessero problemi di salute, abbiamo deciso di montare sotto al ponte un gazebo che alcuni solidali, medici e non, hanno procurato appositamente per questo scopo e che viene conservato presso l’info-point Eufemia.
Le temperature, intanto, si stavano abbassando. Abbiamo visitato diverse persone, alcune con i segni mai completamente guariti delle torture subite in Libia, come dolori persistenti nelle sedi di diverse bruciature sul tronco. Un giovane sudanese aveva un danno corneale evidente, risultato di un colpo in faccia infertogli in Libia con il calcio di un fucile. Gli abbiamo detto che chiaramente non potevamo fare nulla in quelle condizioni e gli abbiamo consigliato di farsi visitare una volta raggiunto il paese di arrivo. Abbiamo poi visto ancora molte persone affette da scabbia. Una solidale ci raggiunge accompagnata dalla giovane madre eritrea visitata il giorno prima su segnalazione di Delia e da un suo connazionale. Veniamo così a sapere che la polizia francese l’aveva, nel frattempo, identificata a Cannes e nonostante si trattasse di una persona di minore età con una figlia di tre mesi, l’aveva rispedita in Italia.
Era di nuovo a Ventimiglia sotto il ponte, più confusa che mai. Siamo almeno riusciti a convincerla, questa volta, a sottoporre sé stessa e la piccola al trattamento per la scabbia. È stata dunque accompagnata da una amica solidale all’infopoint e qui aiutata nella la procedura del trattamento antiscabbia per sé stessa e per sua figlia.
Nel pomeriggio siamo partiti per Genova mentre iniziava a nevicare forte e a fare molto freddo.
È difficile accettare che, in tutta Europa, anche nelle situazioni climatiche più estreme, la scelta sia stata di impedire il libero movimento di esseri umani in virtù della re-istituzione dei confini, anche se il rischio per la salute delle persone che rimangono intrappolate è così grave.
Nel caso italiano, e nello specifico a Ventimiglia, era noto da giorni che il gelo sarebbe giunto anche a basse quote dove in genere non arriva, ovvero anche lì sotto quel ponte dove bambine e bambini, donne e uomini vivono già in condizioni estreme.
Sotto quel ponte, dove già da anni ormai i diritti a condizioni igieniche decenti, al cibo, all’acqua, sono stati negati.
Falsamente di queste politiche inumane si è arrivati ad accusare proprio le vittime , facendosi scudo della presenza di un centro di accoglienza della croce rossa, molto difficile da raggiungere a piedi senza rischiare la vita, vista la strada molto percolosa, nonché illegale secondo le leggi dello Stato in quanto donne e uomini, bambine e bambini, anche non accompagnati, sono costretti a vivere promiscuamente in container.