Solidarietà alle compagne e ai compagni per il processo al Brennero

Solidarietà alle persone sotto processo per il Corteo del 7 maggio 2016 al Brennero contro la costruzione di un muro di confine tra Austria e Italia

Con questo contributo vogliamo portare la nostra solidarietà alle compagne e ai compagni che hanno lottato contro la costruzione del muro di confine al Brennero, tra Italia e Austria

Il 5 marzo prossimo la Cassazione deciderà se confermare o meno oltre 125 anni di carcere. In vista di questa scadenza, hanno fatto un appello alla solidarietà presente in un opuscolo in cui sono raccolti una parte dei testi scritti durante quegli anni e che sviluppa in maniera più approfondita quanto accaduto. In questo appello ricordano che il 2 marzo a Trento e il 3 marzo a Bolzano ci saranno due cortei in solidarietà con gli imputati e le imputate del Brennero e con la popolazione di Gaza.

Le compagne e i compagni hanno creato una cassa di solidarietà. Non solo un numero di conto a cui far arrivare contributi economici, ma anche un contatto per avere materiale informativo (anche in francese, inglese e tedesco), organizzare interventi a concerti o altre iniziative di solidarietà, uno spazio in cui confrontarsi.

 “La questione non sono tanto gli anni di carcere che dovremo scontare, ma il rischio che questa condanna porta in sé per la libertà di tutti e tutte”.

Se volete ulteriori informazioni o aggiornamenti, potete consultare il blog all’indirizzo abbatterelefrontiere.blogspot.com 

Qui il link a una panoramica che le compagne e i compagni hanno scritto sulla situazione alle frontiere in quel periodo, la scelta di fare il corteo e degli accenni alla situazione attuale in Italia.

Qui gli opuscoli in italiano, inglese, tedesco e francese 

L’opuscolo costa 2 euro che verranno versati nella Cassa di solidarietà Brennero.

Qui gli opuscoli impaginati per la stampa in italiano (sono pagine in A4, quindi da stampare su A3), inglese, tedesco e francese (sono pagine in A5, quindi da stampare su A4).

Per ricevere gli opuscoli in carta e inchiostro, scrivere a cassasolidarietabrennero@riseup.net

Diamo forza alla solidarietà!

Le ragioni per cui tutte e tutti eravamo il 7 maggio al Brennero non hanno fatto che moltiplicarsi

Estate a Ventimiglia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Estate a Ventimiglia: ci sarà mai limite al peggio?

Le contraddizioni della città-confine Ventimiglia si percepiscono quotidianamente. Una dinamica che può portare in qualche caso a normalizzare un contesto surreale, anche a causa della narrazione capovolta che viene fatta. Colpevolizzando i soggetti più fragili, piuttosto che i responsabili dell’esasperarsi di condizioni di marginalità. Ma nonostante questo luogo possa sembrare già saturo di ingiustizie, arriva sempre qualche novità pronta a sorprenderti, a ricordarti che non c’è limite al peggio, che il concetto di umanità che ti eri figurato è relativo e continuamente sotto attacco. Mi sento di aprire con questa immagine il racconto su quest’estate a Ventimiglia. Quel momento in cui tutti e tutte ci siamo guardate e chiesti: avrà mai fine il peggio?

Proprio a causa dell’esasperarsi della situazione era stata convocata una manifestazione il 21 maggio, contro il Decreto Cutro, i suoi nuovi CPR e le modalità criminali di respingimento continuamente messe in atto dalla paf (police aux frontières) in accordo con la polizia italiana. In quell’occasione è stato anche espresso lo sdegno verso il candidato della Lega alle elezioni cittadine, Flavio Di Muro, noto per l’approccio ultra-securitario sbandierato in campagna elettorale e dato favorito nei sondaggi. Non si è fatta mancare la patetica solidarietà dello sfidante del PD che, compartecipe nel teatrino elettorale, ha manifestato supporto a Di Muro in riferimento a delle scritte contro di lui. Altrettanto celere è stata la risposta della questura che il giorno dopo ha identificato in stazione uno dei partecipanti alla protesta, denunciandolo per imbrattamento e dimostrando così la propria efficienza nell’acciuffar colpevoli e ripagare il leso onore dell’onorevole.

Così come preventivato, il 19 giugno si insedia il nuovo sindaco della coalizione di destra Di Muro. Il primo consiglio comunale si apre con un minuto di silenzio in memoria di tre vittime di un incidente d’auto dell’anno precedente: un mezzo militare si era capovolto nei pressi del confine. In quella stessa area dove altre decine di persone sono morte negli ultimi anni, il più recente da quel momento risaliva a 4 mesi prima. A loro non sarà dedicato alcun pensiero, anzi. I primi provvedimenti della nuova giunta porteranno ad una terribile escalation. Il giorno seguente infatti ha avuto luogo lo sgombero dell’accampamento all’addiaccio sotto il ponte di via Tenda, dove decine di persone in transito trovano riparo dalla pioggia e tentano di raccogliersi per stabilire qualche legame comunitario. Lo sgombero era già in programma ma era necessario l’insediarsi di un nuovo sindaco per autorizzarlo, dato che nei mesi precedenti la giunta dell’uscente sindaco Scullino era stata sfiduciata.

Non è la prima volta che l’accampamento informale è stato attaccato da irruzioni e sgomberi, la novità sta nel nuovo provvedimento “anti-bivacco” che, in riferimento al decreto Minniti, ha introdotto sanzioni per i senza tetto che stanziano in luoghi cittadini, prevedendo fino al daspo urbano. Nei giorni seguenti si è palesato un presidio di polizia fisso nei pressi dell’area, in aggiunta ad una cancellata che ne impediva l’accesso. Il risultato è stato un ovvio sparpagliarsi delle persone che vivevano in strada, divise in piccoli gruppi nei vari punti più nascosti della periferia e nella spiaggia più isolata, laddove il fiume Roja confluisce in mare generando una pericolosa corrente. A pochi giorni dallo sgombero riceviamo la notizia che un giovane era stato trovato deceduto sulla spiaggia. In breve capiamo che il ragazzo era una conoscenza nota a buona parte dei solidali e dei migranti stabili sul territorio da più tempo. Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore e la rabbia conseguenti alla notizia. La settimana seguente si verifica un episodio simile. Un altro corpo trovato in spiaggia, un altro ragazzo che nel tentativo di lavare i propri indumenti nel fiume ne viene travolto. Un bagnino della zona dice di aver denunciato alle autorità la mancanza di guardia spiagge in quel lato della riviera. Ma tutte le risorse del comune sono concentrate a coprire la parte più turistica. La risposta dell’amministrazione a questo secondo morto è l’istallazione di un cartello che segnala il divieto di balneazione, in una misera operazione di auto-assolvimento da ogni responsabilità. “Il razzismo uccide” era stato denunciato con lo spray sulla sede della Lega durante la manifestazione, sfregiando il sorridente volto del sindaco entrante, che in tutta risposta aveva presentato denuncia per diffamazione contro ignoti.

A inizio luglio mentre in Francia avevano luogo le proteste contro la violenza della polizia, in seguito all’uccisione di Nahel Merzouk, abbiamo assistito a delle anomalie nei pattugliamenti al confine. Infatti per un’intera settimana in zona di frontiera l’esercito ha assunto funzioni di polizia regolare, effettuando controlli e respingimenti. Questa novità è presumibilmente da imputare all’imponente dispiegamento di forze sul fronte interno per reprimere le proteste diffuse in tutto il paese, che ha avrebbe lasciato scoperta l’area di frontiera. E’ anche il risultato di 8 anni di militarizzazione del confine: quella settimana è stata eccezionale solo per come sistematicamente l’esercito ha svolto ruolo autonomo di polizia. Ci sono frequenti racconti di soldati che arrestano persone nelle montagne per poi detenerle illegalmente fino all’arrivo della polizia, una pratica anticostituzionale.

Nelle settimane seguenti nella via dove ha sede la base solidale “Upupa” cresce la tensione con il vicinato, intento a cacciare il collettivo dallo spazio per vie legali. Il pattugliamento della polizia con luci blu accese è costante, sguardi inquisitori fissi sull’infopoint, sul parcheggio dove vengono distribuiti i pasti, la pressione è alle stelle. Il pomeriggio del 25 luglio una colonna di fumo sovrasta la città. Un vasto incendio brucia l’intera area sotto il ponte dove ha sede l’accampamento informale delle persone in transito. Dove alcune settimane dopo lo sgombero erano, come sempre, lentamente tornate a stabilirsi. Immediatamente il dito viene puntato contro i migranti, contro chi cucinando avrebbe fatto sfuggire qualche fiamma. A chi conosce il contesto la dinamica risulta subito strana. I focolai scoppiano in tre punti diversi, distanti e contemporaneamente, coprendo un’importante area. A chi non vuole far finta di niente risulta evidente la natura dolosa. Quando le fiamme sono già alte e diffuse risuonano alcuni forti scoppi e successivamente vengono trovate bombole da campeggio usate per giustificare l’incidente. Il timore che questo episodio venga usato strumentalmente per una stretta securitaria è immediato.

Nei giorni seguenti notiamo che la guardia del cimitero situato di fronte al parcheggio sopra descritto ha degli atteggiamenti particolarmente spavaldi e prepotenti, naturalmente razzisti. Durante il caos dell’incendio era già arrivato a minacciare di sparare ad una solidale che si era recata nei bagni interni, e di chiamare i suoi amici ndranghetisti per completare l’opera ripulendo la zona dai neri. Da notare che stiamo parlando di una persona che non solo mentre parla è armata, ma che si permette addirittura di fare con la mano il segno di una pistola e puntarla in faccia alla ragazza. Gli atteggiamenti aggressivi aumentano fino a quando il sindaco pochi giorni dopo annuncia l’insediamento nel cimitero di una vigilanza privata con l’obiettivo di impedire l’accesso alle persone in movimento che si recavano nei bagni per prendere l’acqua dall’unico rubinetto pubblico rimasto, utilizzando la retorica della sacralità del luogo. Già da tempo tutte le fontane della città erano state sigillate proprio con l’obiettivo di respingere chi era alla ricerca di questo bene primario. La vigilanza viene presto estesa anche ai giardini pubblici cittadini, uno sparuto insieme di aiuole tra cemento e il lungomare. Mentre viene annunciato il ripristino del poliziotto di quartiere, dedito a pattugliamenti a piedi. Un altro provvedimento di riqualifica urbana sbandierato dalla giunta è la rimozione di una grande panchina rossa (simbolo contro la violenza sulle donne). Il sindaco lamenta essere frequentata soprattutto da migranti e accusa presunti no border di averla imbrattata, mentre a suo dire il vero scopo era quello di offrire ai turisti un bel palco per i selfie.

In agosto, in concomitanza con l’aumento degli sbarchi nel sud Italia, c’è stata un’impennata di persone in movimento a Ventimiglia. Data la completa assenza di presidi assistenziali statali l’aggravarsi delle condizioni umanitarie è fisiologico. Le persone alla ricerca di un pasto offerto da collettivi e associazioni hanno raggiunto le centinaia. Si moltiplicano le violazioni dei diritti, come aggressioni fisiche e detenzioni arbitrarie, più facilmente denunciabili riguardo i minori. Infatti la legge internazionale prevede per i minori non accompagnati la libertà di movimento tra gli stati membri dell’unione e protezione in ogni stato membro. Spetterebbe all’ASE (Aide Sociale à l’Enfance) valutare la loro minore età, invece il loro respingimento avviene regolarmente falsificando la data di nascita. Lunedì 21 agosto erano trattenut* illegalmente 68 minori in condizioni igienico-sanitarie deplorevoli: dentro un container, ammassati, dormendo per terra, senza avere accesso ad assistenza legale o a traduttore/traduttrice. Il 23 agosto erano in 78! Privati della libertà fino a 5 giorni, in chiara violazione della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, di cui la Francia è firmataria. Da gennaio abbiamo anche riscontrato l’utilizzo dell’OQTF (obligation de quitter la France) per respingere minori. Si tratta di un documento creato per criminalizzare persone in movimento inserendole in un database e rendendo così loro impossibile cercare una casa, un lavoro, ottenere una visa in ogni paese europeo. Questa nuova modalità di utilizzo è un preoccupante segnale che rientra nelle sperimentazioni repressive, una tecnica per diffondere la paura proprio perché è un provvedimento amministrativo particolarmente difficile da contestare e si può rischiare di essere deportati prima che le pratiche legali siano concluse, o che venga raggiunta la maggiore età prima che si riesca a dimostrare il contrario.

Quest’estate a Ventimiglia suona proprio come le parole di William Butler Yeats: “I migliori mancano di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata”

 

La dignità umana e i diritti fondamentali dimenticati

Pubblichiamo la traduzione del report di gennaio 2021 del collettivo Kesha Niya, presente alla frontiera di Ventimiglia dal 2017. Il report contiene nuovi resoconti sull’ordinaria amministrazione volta a reprimere i diritti fondamentali e la dignità umana. Potete leggere la traduzione dei precedenti report a questi link: 17 dicembre 2020, 27 dicembre 2020

Il nostro rapporto, finalmente!

Alcune parole sulla dignità umana alla frontiera franco-italiana, gennaio 2021.

Il nuovo anno è iniziato e l’inverno continua.

Da quando vediamo più freddo e giorni e notti di pioggia, dal momento che le persone devono adattarsi, il nostro posto di lavoro alla frontiera sta cambiando come il tempo. Soprattutto visto che questo è il primo anno dal 2016 senza un campo dove stare, le persone in viaggio usano gli spazi sicuri che trovano per dormire ogni volta che possono. Questo include il nostro spazio di lavoro 1 km prima della frontiera francese, direttamente accanto alla strada principale che porta dal confine a Ventimiglia.

Oltre all’accesso a cibo, bevande, assistenza medica e informazioni, da dicembre siamo in grado di dare vestiti, coperte e sacchi a pelo ogni giorno. Questo è reso possibile grazie alle costanti donazioni e risorse portate dai nostri volontari provenienti da diversi paesi e dalle persone del posto!

Ora vediamo ogni notte alcune persone che dormono alla “colazione” perché non hanno altro posto dove andare e aspettano il nostro ritorno al mattino. Altri rimangono per la notte per continuare il loro cammino la mattina presto.

Tutto questo accade proprio accanto alla strada principale che porta dal confine francese a Ventimiglia. Altre persone continuano a scegliere la spiaggia di Ventimiglia, lo spazio sotto il ponte, le case vuote o i posti vicini alla stazione ferroviaria.

Per noi significa più manutenzione dello spazio per tenerlo pulito. Le persone che pernottano lasciano coperte, vestiti e bagagli per non essere ostacolate quando cercheranno di riattraversare il confine italo-francese.

Come reazione alle notti gelide e all’essere costantemente esposti alle temperature esterne, anche nella stazione di polizia (francese ndt) dove rimangono per almeno 12 ore durante le ore notturne, la gente accende fuochi a partire dalla sera fino alla mattina. Non necessariamente presso il nostro spazio, ma in tutti i luoghi di pernottamento a breve termine della città. Due giorni fa è scoppiato un incendio a Ventimiglia a causa di una persona che ha acceso un fuoco per tenere lontano il freddo

Tutto questo ha portato la polizia a fermarsi per diversi giorni per ricordarci di smontare il nostro telo per riparare dalla pioggia, di spegnere i fuochi al mattino e di ripulire lo spazio. Sembrano esserci infinite risorse per controllare noi e quello che dovremmo fare, mentre noi cerchiamo di usare le nostre risorse in una situazione in cui il governo italiano e francese (come qualsiasi altro governo europeo) non sembrano avere alcun interesse a soddisfare i più elementari bisogni degli esseri umani.

Questo dovrebbe essere il lavoro di stranier*, per lo più giovani che vengono a lavorare in nome di Kesha Niya nella zona? Persone che sono per lo più senza adeguate pause o sonno ma sono fortemente impegnate in quello che è solo un piccolo pezzo di supporto proposto a tutt* coloro che si trovano in un viaggio ignorante e violento attraverso l’Europa, anonimo, in un sistema che non riconosce come viv* chi non ha il documento giusto?

Questo non dovrebbe essere il nostro posto. La lotta delle persone dovrebbe essere di tutt*, ma soprattutto di coloro che hanno accettato di assumersi la responsabilità del loro paese, comprese le persone che hanno scelto di entrare in questa terra alla ricerca di qualcosa. Le organizzazioni di base, gli persone locali attive, ONG etc. stanno sostituendo il governo dove fallisce nel reagire. Dove inoltre sceglie attivamente di violare i diritti fissati nella propria stessa legge, e dove viola la dignità umana.

Alcuni resoconti più concreti:

Dopo essere stati catturati sui treni, in auto o camminando da qualche parte, le persone vengono messe nella stazione di polizia (francese ndt) in piccoli spazi che chiamiamo “container”. Non possono usare il loro diritto di chiedere asilo in Francia, ogni diritto che dovrebbero avere è ignorato. Vengono trattenuti per alcune ore durante il giorno e poi solo rimandati indietro, e se prese tra le 6 del pomeriggio e le 7 del mattino, sono trattenute tutta la notte. Spesso, sono trattenute da 12 a 17 ore fino a un giorno intero.

Ora improvvisamente in tre giorni diversi delle persone ci hanno riferito di essere state in stazione per 48 ore (!). 5 persone hanno riferito di essere state trattenute per due giorni interi il 28 dicembre, il 2 e il 7 gennaio. Come chiunque altro, senza cibo, acqua, servizi igienici, coperte, un posto per dormire, assistenza medica. A temperature esterne, in un posto che costruito con pietre e metallo.

Il 29 dicembre, un gruppo di giovani ragazzi riferisce di essere stato catturato di notte in un camion che andava in Francia. Dopo essere stati fermati, la polizia scrive numeri da 1 a 5 sulle loro mani per distinguerli. Quando arrivano, possiamo ancora vedere i numeri sulle loro mani.

Il 30 dicembre: 5 ragazzi vengono arrestati dalla polizia. Vengono messi sui sedili posteriori vengono messi sui sedili posteriori di una macchina della polizia, tutti e 5 insieme. Quando chiedono di avere più spazio, la polizia risponde che sono venuti tutti insieme dall’Africa, schiacciati in una piccola barca, quindi non dovrebbe essere un problema.

Il primo gennaio, una persona viene controllata mentre piove, davanti a un edificio. Chiede di essere controllato all’interno, in uno spazio asciutto. La polizia lo picchia per questa richiesta.

Parliamo con un uomo che è già in procedura d’asilo in Francia. L’8 gennaio, la polizia prende il suo documento che prova il suo status e non glielo restituisce.

Di seguito, trovate i numeri delle ultime due settimane che abbiamo contato alla frontiera. Questi numeri sono abbastanza precisi per tutt* coloro che sono stati accolti a colazione, dal momento che quasi tutte le persone che sono state respinte dalla Francia in Italia passeranno del tempo al nostro punto di frontiera.

Nella settimana dal 28 dicembre al 3 gennaio, abbiamo incontrato solo 222 persone alla frontiera, di cui 190 respinti e 32 provenienti da altri posti nei dintorni per mangiare e chiacchierare. È un numero molto basso, perché è stato per difficile in questo periodo viaggiare all’interno dell’Italia, e le regioni italiane sono state chiuse durante la zona rossa per il Covid 19.
Di queste 222 persone, abbiamo contato solo una donna e due minori.

Nella settimana dal 4 gennaio al 10 gennaio, tutto stava tornando alla normalità con numeri che erano significativamente più alti. Abbiamo contato 603 persone, di cui 518 respinte e 85 provenienti da luoghi diversi. Di tutti questi, 41 erano donne, 17 bambini e almeno 10 minorenni, ma non abbiamo potuto tenere traccia di tutti i minorenni questa settimana. Il numero più alto di persone arrivate in un giorno è stato 158.

Ricordate che il numero di individui effettivamente respinti è molto più basso, dal momento che le persone ci riprovano e vengono arrestate per diversi giorni e noi non le incontriamo quasi mai solo una volta.

Siamo felici di essere di nuovo un alto numero di volontari, dato che il numero di persone al confine aumenta rapidamente. Anche le forze di polizia sono tornate alla normalità. Possiamo continuare bene il nostro lavoro e avremo capacità anche di essere più presenti a Ventimiglia e nella zona, per controllare come stanno le persone che sono appena arrivate o sono bloccate da qualche parte senza via d’uscita.

Medici senza frontiere ha appena pubblicato un mini documentario e un breve rapporto su diverse regioni di confine tra l’Italia e la Francia. Vale la pena guardarlo e tradurlo (dall’italiano all’inglese e/o francese ndt) dal momento che e disponibile solo italiano. Potete trovarlo qui:

Se siete interessati ad altra merda che sta succedendo in Italia, eccovi serviti con un nuovo rapporto di “Are you syrious?” sui campi di espulsione CPR italiani.

Come sempre – se avete letto fino a qui, grazie a voi personalmente per il vostro interesse e supporto
Potete contattarci e attivarvi per la regione qui in qualsiasi modo vi sia possibile.

Per favore utilizzate la nostra pagina Facebook o le nostre e-mail. Ulteriori informazioni di seguito.

Il team di Kesha Niya.

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Estate 2020 al confine: respingimenti e solidarietà. Parte 3

Respingimenti e solidarietà (Parte 3)

Abbiamo detto che, a ben vedere, le persone migranti non hanno mai smesso di attraversare il confine: persino durante il pieno dell’emergenza Covid, su rotte secondarie e a numeri ridotti al minimo, la gente ha continuato ad arrivare. E sono schizzati alle stelle i prezzi per passare una frontiera serrata a doppia mandata, non solo davanti alle migrazioni, ma anche per contrastare la diffusione del virus. Nei mesi di Marzo e Aprile, il normale costo di un passaggio auto coi trafficanti è arrivato a 500 euro a testa, rispetto ai soliti 150/200. Non si sono mai fermati i respingimenti da parte della Francia, e si sono aggiunti i respingimenti inversi della polizia italiana, con la nuova sanatoria.

Il procedimento è rimasto invariato: i rastrellamenti, l’arresto al confine, poi il giro ai container della polizia francese a Ponte san Luigi, dove le persone vengono tenute anche oltre dieci ore. Poi si torna indietro, ripassando dalla polizia italiana. Dentro ai container, che ora sono forni a 40 gradi, così come negli uffici italiani, dove la gente passa forzatamente prima della riammissione su territorio ventimigliese, non viene fornito alcun tipo di servizio. Per loro solo insulti, violenze, prese in giro. Le persone non ricevono quasi mai cibo o acqua, non possono parlare con un avvocato, non gli viene spiegato quello che sta loro accadendo, né cosa c’è scritto sui fogli che la polizia gli ficca in mano. Trattamento uguale per donne, uomini o minori che siano. Anche se sarebbe illegale respingere i minorenni, e anche se sono state fatte diverse battaglie giuridiche per impedire che questo avvenisse, appena le persone sono aumentate e gli sguardi si son girati altrove, la polizia italiana ha ricominciato ad accettare minorenni, facendo finta che vadano bene i dati falsificati dei colleghi francesi.

Un centinaio di metri prima del confine italiano di Ponte San Luigi, sull’Aurelia in direzione Italia, il gruppo di solidarietà Kesha Niya mantiene da un paio di anni una presenza giornaliera di supporto alla gente respinta e di monitoraggio sulla situazione e sui vari abusi, che sono diventati usi quotidiani. Per anni, a Ventimiglia, le istituzioni e le varie forze dell’ordine hanno perseverato nel tentativo di isolare le persone migranti dal supporto della solidarietà. Hanno cercato di spezzare i contatti tra persone europee e persone migranti, a suon di denunce, identificazioni, ordinanze, retate e caccia alle streghe, spingendo la gente in viaggio a nascondersi verso zone sempre più periferiche. Perciò la postazione in frontiera, uno slargo sterrato in cui rifiatare dopo ore e ore di detenzione, è diventata punto di riferimento per tutte le associazioni, ong, chiesa, giornaliste, fotografi, ricercatori, giuriste, documentaristi e via dicendo. Tuttavia il vicinato della zona, benestante frazione ventimigliese di Grimaldi, ha sempre mal sopportato la presenza di solidali e migranti.  E lo ha dimostrato con giri di insulti, telefonate alle forze dell’ordine, raid notturni per buttare nella scarpata rocciosa i tavolini pieghevoli su cui viene appoggiato il cibo, escrementi di sconosciuta provenienza spalmati sui muretti dove siedono le persone a riposare, delazioni e minacce.

Lex spazio di solidarietà in frontiera, recitanto durante il lockdown

Col favore dello stop alle attività durante il lockdown, è stato recintato lo slargo in cui per due anni si è potuto sostare, impedendo quindi alla solidarietà di tornarvi, una volta revocate le misure sanitarie. Mentre il vecchio spazio si sta ripopolando di rovi, è stato individuato un altro slargo, sempre a bordo Aurelia, dove portare avanti una presenza solidale.  Dovendo tuttavia retrocedere di un chilometro circa rispetto agli uffici di frontiera di Italia e Francia, e da quel che lì dentro accade. La nuova postazione è in un tratto di strada privo di abitazioni, lontano dagli occhi della cittadinanza e dai turisti, che, perlopiù, passano da lì solo sfrecciando su un motore verso la Costa Azzurra. Eppure è partito l’attacco incrociato di privati cittadini, polizie e sindaco, già dalla prima settimana di ripresa della presenza di monitoraggio e supporto. Un mantra ripetuto alla noia: “dovete andare via, qui non si può stare”.

La gente che si ferma, sosta il tempo necessario per rifocillarsi, riprendersi dal fallimento del passaggio frontaliero e dalle ore di detenzione, raccogliere informazioni e contatti utili (avvocati, domande su permessi e documenti vari, dubbi sulla propria posizione giuridica, ecc), e medicarsi le ferite (i boschi, le botte della polizia, la Libia, le aggressioni lungo la rotta balcanica…). Quindi le persone aspettano l’autobus locale (sempre Riviera Trasporti) che fa la spola, ogni tot ore, tra Ventimiglia e Ponte San Luigi, per evitare di camminare altri nove chilometri, e risparmiare energie da spendere in un nuovo tentativo contro il confine.

Lo spazio curato dai Kesha Niya è un presidio basilare di solidarietà, dalle nove del mattino alle venti circa di sera, quando escono le ultime persone detenute dai francesi e la polizia italiana chiude i battenti. Qualche ora di respiro tra persone che si danno una mano: un oltraggio al regime di intolleranza che si è instaurato in tutta la zona di frontiera, e quindi deve essere spazzato via.

Nelle ultime due settimane, pattuglie, auto in borghese e digos, si sono presentati decretando che lo spazio, “attrezzato” con due taniche d’acqua, frutta, pane, biscotti, cerotti e powerbank (ogni sera ripulito e lasciato vuoto), rappresenta occupazione di suolo pubblico. Hanno detto che è vietato “dare da mangiare agli stranieri” -letteralmente-, che è in vigore un’ordinanza che vieta la distribuzione di cibo in strada, che ci sono altri luoghi dove “fare volontariato coi migranti, come la Croce Rossa”, che la distribuzione di cibo è autorizzata solo nel parcheggio cittadino di fronte al cimitero di Ventimiglia, che o si sgombera tutto o arrivano le denunce, che o si sgombra tutto o buttano tutto giù per la scarpata, che portano tutti in commissariato, che il sindaco stesso ha chiamato le forze dell’ordine per far sloggiare la gente da lì, che lì non ci si può stare perchè non serve che lo dica una legge, ma basta il verbo di un signore in divisa che dice “non serve nessun papier che dimostri che state occupando, il papier sono io che vi dico di andarvene!”.

Per capire meglio la tragicomicità della situazione, bisogna spulciare oltre all’ipse dixit della polizia. Nell’agosto del 2015, poi rinnovata nel 2016, l’allora sindaco Ioculano firmò un’ordinanza che vietava la somministrazione di cibo ai “profughi” per “mero spirito di solidarietà”. L’associazionismo informale ingaggiò una battaglia di resistenza a oltranza, senza interrompere le distribuzioni di cibo in giro per la città, e impugnando denunce e multe (fino a 2.000 euro). Ioculano fece la figura del razzista affamatore (si raccoglie quello che si semina) e nei mesi, l’ordinanza fu criticata da avvocati, associazioni umanitarie, dalla chiesa. La polemica si propagò, fino alla mobilitazione di certi personaggi dello spettacolo, noti intellettuali e compagnia, che promossero una raccolta firme per chiederne la revoca. Per scongiurare l’assalto di una protesta nazionale, l’ordinanza fu revocata nell’aprile 2017.

Da allora né Ioculano, né il nuovo sindaco Scullino, hanno più avuto la faccia di firmare una nuova ordinanza che vieti il cibo a chi ha fame.

Eppure secondo la polizia, che visita regolarmente lo spiazzo solidale in frontiera, è vietato farlo perchè lo dice l’ordinanza: quale, non si sa. E ovviamente non ci sono altri luoghi per le persone respinte, dal momento che il centro della Croce Rossa è chiuso, anche se gli operatori dell’ordine suggeriscono il contrario. L’unico punto di riferimento per recuperare qualche vestito, cibo e due informazioni, sarebbe la Caritas, che però apre solo due ore al mattino, risultando già chiusa quando la gente rilasciata dai francesi raggiunge di nuovo Ventimiglia.

Dalla Francia arrivano giornalmente almeno un centinaio di persone respinte, e nello spiazzo solidale dei Keshaniya vengono messe a disposizione mascherine, guanti e gel disinfettante. Nonostante questo, nonostante non esista nessuna ordinanza, nessun altro punto di appoggio per la gente che esce barcollando dai container, nonostante non ci sia alcun condominio né alcuna villetta che si affacci in quel pezzo di strada e a cui possa storcersi il naso davanti alle genti straniere, quella postazione è perennemente sotto attacco e minaccia. Con argomentazioni più o meno sconclusionate, quando non proprio false. E se la polizia dice, in frontiera alta, che la distribuzione di cibo è autorizzata solo nel parcheggio del cimitero; al parcheggio, durante la cena, si è recentemente presentato il sindaco in persona, a dire che lì la distribuzione non si può più fare, perchè lo dice lui.  Tutti dicono la propria, insomma. Cercando intanto di fare un po’ d’effetto, presentandosi col blindato in un’aiuola dove una ventina di persone mangia crackers e aspetta il bus.

Nelle due foto: polizia di scorta all’autobus di Riviera Trasporti

E siccome i tentativi di far sloggiare la gente sfoderando ordinanze inesistenti e minacce non è andato a buon fine, si escogitano innovative misure di stalking e fantasiose dimostrazioni di forza.  Come seguire con un’auto in borghese, per un’intera mattinata e a meno di un metro di distanza, l’automobile delle persone solidali, impedendogli di parcheggiare lungo l’Aurelia, poi di scaricare cibo e acqua, e persino alle persone dentro la macchina di scendere prendendo almeno il proprio zaino con gli effetti personali. Oppure presentandosi con un blitz alla fermata dell’autobus, per controllare -la polizia, non il personale di Riviera Trasporti- che tutte le persone abbiano il biglietto del bus.  Poichè tutte hanno sia biglietto che mascherine, si passa di grado nel bullismo: da una settimana l’autobus gira scortato da una volante a lampeggianti accesi, talvolta saltando pure a piè pari la fermata a cui aspettano le persone respinte. Quando invece il bus ferma, un poliziotto della scorta si piazza alle porte d’ingresso, stile body-guards, supervisionando che tutte le persone siano docili e mascherinate, quindi strappa i biglietti mano a mano che salgono.  Non si capisce perchè alle persone classificate come “non dei nostri“, come dice qualche autista, non viene permesso di obliterare il biglietto, così da poter usufruire della normale validità di 100 minuti del ticket. Le genti migranti, parrebbe, non sono in grado di timbrare un pezzo di carta. Sia la polizia che gli autisti stessi, che usano la stessa procedura quando qualche volta salta la scorta, assicurano che non sono razzisti e che riservano anche alle persone italiane lo stesso servizio.

Biglietti dell’autobus strappati dalla polizia: le persone “non nostre” non possono obliterare

La gente migrante non ha diritto a farsi nove chilometri in bus in santa pace, nemmeno pagando quell’euro e mezzo di biglietto (per un guadagno giornaliero dell’RT di oltre cento euro, considerati i numeri di persone) alla stessa compagnia di trasporti che pure la deporta al sud da anni, stavolta a carico dello Stato.

Per tutto luglio sono arrivate dai respingimenti decine di donne, molti minori, bambini e bambine sotto ai cinque anni, intere famiglie, gente ferita o malata; più volte si è dovuta chiamare l’ambulanza, e infinite volte, vista la collaborazione degli autobus, si è fatta la spola tra la frontiera e la città, per accompagnare giù chi non era in grado di camminare. Come le persone recuperate in elicottero dal Passo della Morte, rimaste aggrappate solo per le braccia a un tronco d’albero sospeso nel vuoto per tutta la notte, quindi smollate sul lato italiano che ancora non riuscivano a muovere gli arti o usare le mani, per lo sforzo prolungato nel tentativo di salvarsi la vita.

Rifocillare le persone, regalare biglietti del bus a chi non può permetterseli, accompagnare gente in ospedale e cercare un riparo per la notte alle tante ragazze in gravidanza; litigare con turisti razzisti e proprietarie di ville a picco sul mare, indignati per lo sconcio spettacolo della povertà; monitorare i rastrellamenti nelle due stazioni di frontiera; tradurre alla gente papiri inutili di espulsioni su espulsioni su espulsioni: quello che si fa, è ancora troppo poco.

È insufficiente remare contro il vento dell’intolleranza e della persecuzione razziale, mettendo qualche pezza ai danni e agli sfregi inflitti alla gente. Questo posto è insopportabile, ed è insopportabile provare a renderlo un po’ migliore, anziché farne deflagrare tutti gli orrori che cova, lasciando che accada quel che deve accadere. E lasciando che coloro che sono responsabili di tutto ciò, paghino un prezzo senza sconti per il palcoscenico che hanno voluto approntare: è troppo comodo lasciare che sia il volontariato (a patto che sia mansueto e invisibile) a non far morire le persone di fame, incidenti, malattie e indifferenza.

Non importa se l’autobus si ferma o no, alla fine: le persone dormiranno comunque in mezzo ai rifiuti, in qualche angolo nascosto della città di frontiera. Non c’è un posto sicuro da raggiungere. La polizia continuerà ad ammassare decine di persone in una fetida scatola di metallo, in barba a qualsiasi emergenza virus, a falsificare dati, a brutalizzare le persone solo perchè senza documenti validi. I trafficanti continueranno a ingrassare le proprie tasche e quelle della ‘ndrangheta locale. Il confine continuerà a seminare disagio e violenza, a raccogliere corpi feriti e cadaveri.

Nonostante l’impegno e il cuore che vengono messi, le energie nel tempo si consumano, la gente si dimentica dell’orrore incontrato, magari stando qui in visita una settimana per scoprire cos’è sto fantomatico confine, e colpo dopo colpo ci si abitua a qualsiasi cosa. A pensare persino che sia normale, che sia in ogni caso inevitabile, quello che succede, e che si stia facendo comunque tutto il possibile per combattere questa palude di miseria e cattiveria umana. Ci si abitua a giocare al ribasso, arrivando, ogni anno, al punto di rimpiangere la situazione dell’anno precedente: col senno di poi, la baraccopoli della Croce Rossa, luogo ambiguo e pericoloso, sembra un lusso d’altri tempi; la chiesa delle Gianchette un rifugio meraviglioso; la condivisione quotidiana della vita sotto al ponte di via Tenda, appartiene a un mondo che non è più permesso nemmeno immaginare.

Si dovrebbe fare molto di più. Si potrebbe fare molto altro.

 

(Per leggere la prima parte, vedi qui, per la seconda qui

Per leggere gli altri report del gruppo Kesha Niya, sui comportamenti delle polizie al confine: gennaio 2020; novembre 2019; ottobre/novembre 2019; ottobre 2019; Giugno 2019; Maggio 2019)

Presso lo spazio solidale in frontiera, sorprese al mattino: panchina e muretti spalmati di escrementi come azione intimidatoria.

 

Accoglienza Svizzera: bunker militari e deportazioni. Intervista a R-esistiamo

Nell’articolo che segue, presentiamo un’intervista al collettivo R-esistiamo, attivo da un paio di anni nella lotta contro le politiche migratorie svizzere e, in particolare, contro la reclusione delle persone cosiddette migranti all’interno dell’ex bunker militare di Camorino. Parliamo quindi della frontiera tra Svizzera e Italia, e delle dinamiche repressive operate dal paese elvetico contro chi cerca di raggiungere l’Europa svalicando dai confini italiani a nord, anziché dall’estremo ponente ligure. Eppure parliamo sempre delle stesse politiche discriminatorie ed escludenti, che condannano le persone provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente a progetti esistenziali precari e spezzati, sospesi nel vuoto dei continui dinieghi, della privazione di dignità e libertà, intrappolandole negli infiniti “giochi dell’oca” disseminati di pericoli, minacce, violenze, ricatti e non-sensi.
Che sia la frontiera all’altezza di Ventimiglia, Mentone e Val Roya; che sia quella più a nord, da Bardonecchia, Claviere e Oulx; o quella ancora più in su, che attraversa le città di Como e Chiasso, il progetto della Fortezza Europa non cambia. Non cambiano gli effetti che gli ingranaggi di controllo e gestione delle persone in viaggio hanno sulle vite di migliaia di esseri umani. A Ventimiglia è comune incontrare persone che abbiano tentato già altrove di raggiungere la propria meta, prima di finire rinchiuse e gasate nei container a Mentone. Sono comuni le storie di respingimenti dalla Svizzera, soprattutto per chi proveniva dalle frontiere est della rotta balcanica: queste storie raccontano sempre degli stessi dispositivi, degli stessi attori e degli stessi abusi. Che si parli di Francia, Germania, Svizzera o Italia, più che le insignificanti differenze tra i meccanismi punitivi, sono gli elementi ricorrenti ad essere rivelatori della logica del dominio delle frontiere: la retorica della sicurezza, il lucroso business dei respingimenti e la corsa all’armamento dei confini. I responsabili sono i vari governi ed i loro esecutori: polizie, eserciti, Croce Rossa, agenzie di security e ditte private che vincono appalti milionari per gestire le gabbie dei reclusi e delle recluse.
Ringraziamo il collettivo R-esistiamo per aver condiviso la loro esperienza di lotta.

 

L’intervista

Cominciamo dalla cornice generale: in quale situazione si trovano le persone migranti in Canton Ticino? Com’è organizzata, a livello federale e cantonale, la politica migratoria della Svizzera?

Partiamo dal presupposto che, in Svizzera, è piuttosto difficile avere accesso a informazioni puntuali e veritiere circa decisioni e leggi riguardanti le politiche migratorie. Non si trovano documenti scritti ufficiali e si parla il meno possibile di migranti e frontiere. Per le istituzioni, l’obiettivo è mantenere la quiete sociale e insabbiare ogni testimonianza e notizia di abusi e ingiustizie. Per il governo federale, l’unico aspetto importante è non concedere affatto permessi alle persone, concentrandosi completamente su respingimenti e rimpatri.

Il Collettivo R-esistiamo è nato nella primavera del 2018: il nostro obiettivo è anzitutto rompere questo isolamento informativo, far circolare la verità sui fatti e sui maltrattamenti a cui sono sottoposte le persone, e chiedere la chiusura dei bunker militari in cui vengono messe per mesi e, talvolta, per anni. Le informazioni che riusciamo a raccogliere sono frutto della conoscenza diretta con loro, nonostante l’incontro e la comunicazione tra i e le migranti e persone attiviste e solidali sia scoraggiato in ogni modo dalle istituzioni. In questo senso, anche l’uso dei bunker è strategico: luoghi isolati, sotto terra, il cui accesso è vietato ai civili.

La politica migratoria, in Svizzera, è infatti una macchina ben organizzata, il cui unico scopo è non ammettere per nulla le persone e non dare la possibilità di ottenere permessi sul territorio. È inaccettabile l’ostinazione con la quale i vari responsabili dei percorsi per la richiesta d’asilo e per l’accoglienza, la Segreteria di Stato della Migrazione (SEM), i Cantoni, la Croce Rossa Svizzera, la ORS2 (ditta privata che si occupa della logistica nei centri per migranti, ndr) non riconoscano l’umanità e l’individualità di ciascuna Persona. Non vengono mai presi in considerazione i loro bisogni, la volontà, le competenze, e vengono invece viste solo come un peso, un problema da espellere il più velocemente possibile.

Da sempre, a tutela del proprio sistema economico, la Svizzera porta avanti una politica di selezione differenziale tra chi può restare per contribuire all’incremento delle ricchezze, e chi viene spinto a lasciare il paese o addirittura viene espulso coattamente. Questo vale sia per gli immigrati di ieri, come spagnoli, italiani, portoghesi, e tanto più per le nuove immigrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente. Eppure, a livello di opinione pubblica mondiale, si sente parlare di “Svizzera umanitaria”, basti pensare alla retorica sulla nascita della Croce Rossa proprio in questo paese.

Nell’ultimo anno, è partito un progetto di costruzione di sette centri federali per la raccolta e l’identificazione delle persone migranti. Nonostante sia in ancora in fase di rodaggio e potrebbe volerci ancora qualche tempo, l’idea è quella di accentrare il controllo delle persone in questi luoghi, per poi smistarle nei vari centri cantonali, metterle nei bunker, o, ancora, per respingerle nei primi paesi d’ingresso (soprattutto l’Italia) o direttamente destinarle a un volo di rimpatrio. È stato anche proposto di organizzare delle scuole differenziali per i figli delle persone che si trovano stoccate nei centri federali: si vuole negare l’inserimento nei percorsi scolastici svizzeri a bambini e bambine le cui famiglie vengono spinte con forza a lasciare il paese e vengono, spesso, infine rimpatriate coattivamente.

In Canton Ticino, al momento, abbiamo tre centri federali: Stabio (distretto di Mendrisio), Biasca e Chiasso, che probabilmente saranno però sostituiti da un unico centro federale dei sette in costruzione su tutto il territorio elvetico. A Rancate, sempre nel Ticino, è stato allestito un centro respingimenti, dove le persone passano la notte in attesa che, il mattino successivo, riapra la dogana italiana1  e possa completarsi il respingimento. Il costo per mantenere il centro si aggira sui 670.000 franchi all’anno: a quante persone si potrebbe offrire una chance di vita dignitosa, se questi soldi fossero usati diversamente? Ci sono inoltre, ancora operativi, i centri a gestione cantonale: Paradiso, Cadro, Castione e Camorino

Veniamo quindi allo specifico del’impegno del collettivo R-esistiamo: la lotta per la chiusura del bunker di Camorino. Che cos’è questa struttura? Come viene utilizzata?

Durante la Guerra Fredda, per paura di un possibile attacco atomico, vennero costruiti dei bunker a scopo militare e di protezione civile. Rimasti inutilizzati, salvo che per alcune esercitazioni militari, questi luoghi sono stati “presi in prestito” negli ultimi anni dalla SEM, la Segreteria di Stato della Migrazione, che ha pensato di destinarli alla gestione delle persone migranti. Il bunker di Camorino (Bellinzona), che è aperto dal 2014, si trova fuori dal centro abitato, in un luogo isolato tra l’ingresso autostradale e la centrale di polizia. Per la gente costretta a vivere lì è impossibile allontanarsi, non avendo un abbonamento ai trasporti né soldi sufficienti a comprare un biglietto.

I locali in cemento armato sono sottoterra e privi di un’adeguata areazione, gelidi d’inverno e oltre i trenta gradi d’estate; l’acqua dai rubinetti esce sporca, durante la scorsa estate ci sono state gravi infestazioni da cimici nei materassi, non vi sono spazi adeguati nè possibilità di privacy. Da agosto 2019, per il cibo, che in passato era comunque insufficiente e di scarsa qualità, i vestiti, scarpe, le necessità personali di qualsiasi genere, le persone ricevono 10 franchi svizzeri al giorno, denaro insufficiente per coprire tutti i propri bisogni, visto il costo molto alto della vita nel paese. Il coprifuoco serale, l’obbligo di pernottamento, le perquisizioni, i ricatti e il controllo costante della polizia cantonale unito alle ronde della Securitas (ditta privata di vigilanza) rendono il luogo paragonabile a una prigione più che a un centro di accoglienza.

Per chi si trova nel centro, gestito prima dalla dalla Croce Rossa, che ha rinunciato dopo lo sciopero di luglio, e attualmente dal Dipartimento Sanità e Socialità del Cantone, viene ostacolato l’accesso alle cure mediche (salvo iperdosaggi di antidolorifici e psicofarmaci) e alla tutela legale; non vi è alcun programma di attività, corsi di lingua o percorsi di inserimento: decine di persone, semplicemente, sono costrette a restare lì mesi, aspettando il proprio turno di rimpatrio, quando la polizia viene a prenderli in piena notte per caricarli su un aereo.

Non si vuole riconoscere di chi sia la responsabilità di questo posto e di quello che vi accade: se si chiede al Cantone, dicono che la responsabilità è della SEM e quindi federale. Se chiedi alla SEM, rispondono che il referente è il Cantone, in un gioco di rimpalli dove non esiste nessun tipo di trasparenza rispetto alla struttura.

ingresso del Bunker a Camorino (fonte immagine).

 

Il bunker è, a tutti gli effetti, l’ultima spiaggia delle persone indesiderate, quelle per le quali non c’è altra via di uscita né alcuna volontà del governo di concedere dei permessi. È un posto talmente malsano e abbrutente che la minaccia di un trasferimento a Camorino viene utilizzata come avvertimento per coloro che fanno problemi negli altri centri, e per scoraggiare qualsiasi protesta o rivendicazione di istanze.

Alcune delle persone che sono a Camorino non possono nemmeno essere espulse, sebbene il governo non abbia in ogni caso intenzione di rilasciare loro un documento: si tratta, per esempio, di uomini con lo status di apolidi, oppure il cui paese che sarebbe meta del rimpatrio non ne riconosce l’identità. È il caso di un uomo che si identifica come tibetano e a cui la Cina rifiuta la possibilità di rimpatrio. O, ancora, sono persone il cui paese di provenienza non ha firmato accordi di rimpatrio con la Svizzera, come l’Algeria, che accetta solamente rimpatri volontari. La maggior parte della gente rinchiusa a Camorino si trova in un limbo, senza possibilità di sbloccare la propria condizione. Tra l’altro, il sistema di rilascio dei permessi è assai controverso: non ci sono leggi precise in proposito alla valutazione dello status dei richiedenti asilo. Non esiste nemmeno una lista ufficiale di paesi d’origine considerati “sicuri”, così che la decisione spetta di volta in volta all’arbitrio della Segreteria di Stato della Migrazione.

Una parte delle politiche viene decisa a livello federale a Berna, ma una parte delle decisioni è presa a livello cantonale: la situazione è così nebulosa, che è molto difficile anche per gli stessi avvocati capire come agire. A pagine e pagine di ricorsi, spesso, viene semplicemente risposto un “non entriamo nel merito della questione del ricorso”: un no e basta insomma, senza ulteriori spiegazioni.

Come siete riusciti, visto il contesto ostile, ad entrare in contatto con le persone nel bunker? Com’è adesso la situazione a Camorino e quante persone vi sono rinchiuse?

Momenti di protesta al bunker di Camorino (fonte immagine)

L’incontro è cominciato nella primavera del 2018, grazie ad una prima conoscenza avviata con alcune di queste persone, che banalmente provavano a seguire un percorso di inserimento nel tessuto sociale, per esempio durante partite di calcio in cui partecipavano anche dei solidali (in seguito la Croce Rossa ha smesso di accompagnarle per sport e visite mediche, sostenendo di non avere personale sufficiente). Dai primi racconti sulle difficoltà che vivevano, è nata la voglia di conoscersi meglio, di capire che cosa stava succedendo e cosa fossero questi bunker in cui veniva messa la gente. Sono troppe le persone che aspettano in Svizzera come fantasmi, senza diritti e senza speranze di ottene davvero un regolare permesso, depositate nei centri per anni e infine espulse.

La nostra linea d’azione è quindi diventata la volontà di rompere l’isolamento, di informarci e di informare. Di costruire delle relazioni che possano portare un po’ di sollievo: parlare con qualcuno che ti considera una persona, e che prova a darti una mano per quanto possibile.

Abbiamo organizzato delle “merende” fuori dal bunker di Camorino, costruendo dei momenti e degli spazi per incontrare e conoscere chi stava lì dentro. L’intenzione dei presidi era anzitutto quella di far sentire meno sole le persone, raccogliere i loro racconti e le testimonianze di quello che subiscono. Ma, appena qualcuno si dimostrava interessato e partecipava, il giorno dopo veniva spostato lontanissimo, facendoci perdere il contatto reciproco.

Ovviamente per le istituzioni il punto è ostacolare la creazione di relazioni e spaccare i legami che nascono. Alle persone solidali sono state fatte pressioni sul posto di lavoro da parte delle autorità, diffondendo informazioni e articoli diffamanti. Per chi invece sta nel bunker, la strategia è quella di esercitare continuamente pressioni psicologiche e minacce. Alcuni funzionari cantonali, in visita a Camorino, avrebbero detto agli uomini che si trovano lì che è meglio se stanno zitti, che se stanno buoni prima o poi le cose cambiano, e che è meglio che non diano ascolto a noi e che non si uniscano ai momenti di manifestazione e ai presìdi.

Le persone, nel tempo, hanno comunque capito che gli vengono date solo false illusioni: anche se la loro situazione è sempre difficile, talvolta scoppiano delle proteste.

Quest’estate, il 2 luglio, i circa trenta uomini che stavano a Camorino hanno fatto uno sciopero della fame, per protestare contro la terribile situazione in cui vivono e perché, con la motivazione di dover areare le stanze, la direzione del bunker li obbligava ad uscire dai locali il mattino e a non potervi far ritorno fino alla sera. Questo senza soldi per potersi spostare, senza nulla da fare, senza un riparo dalla canicola estiva, con un panino e una bottiglietta d’acqua per tutto il giorno. La reazione immediata è stata quella di silenziare la protesta: nel giro di 24 ore, coloro che avevano un permesso anche solo provvisorio sono stati spostati. Sostenendo tra l’altro che i trasferimenti fossero già decisi da tempo e che la protesta non c’entrasse nulla.

A nessuno dei responsabili del bunker, dalla SEM, alla polizia, alla Croce Rossa, conviene che si parli della situazione a Camorino, quindi ogni voce di dissenso deve prontamente essere scoraggiata. Per tenere buone le persone si fa vedere che vengono concessi piccoli miglioramenti, o si promettono vantaggi in futuro (che poi vengono comunque disattesi) per i migranti che si comportano “bene”, seguendo la strategia di dividere le persone tra buone e cattive, con lo scopo di sedare gli animi e fiaccare le resistenze.

Dopo le proteste, nel bunker di Camorino sono rimaste al momento una decina di persone, prive di qualsiasi permesso e in attesa di espulsione o di finire in prigione.

Molti di loro, infatti, hanno già subito anche periodi di detenzione amministrativa (che prevede fino a 18 mesi di reclusione), con la sola accusa di non possedere documenti “utili”. Principalmente gli arrestati vengono messi nel carcere di Realta, nel Canton Grigioni, dove un intero piano del carcere è dedicato proprio ai sans papiers, che hanno minori diritti dei detenuti comuni. Un ragazzo ci ha raccontato che per un mese di fila non gli è stato concesso di uscire dalla sua cella, e, per questo motivo, ha cominciato a praticare gesti di autolesionismo. Adesso è tornato proprio a Camorino e sta peggio che mai. Un’altra ragione per essere imprigionati è se il governo federale pensa che tu possa allontanarti prima dell’esecuzione di espulsione: un uomo si è recato a trovare il fratello in un cantone della Svizzera interna, pur non avendo un permesso per spostarsi, è finito in un controllo di polizia (che si basano sempre sul racial profiling, visto che vengono fermate le persone in base al colore della carnagione) e, solo per questo, è stato imprigionato.

Alla luce di questo stato di cose, quali sono le richieste e gli obiettivi di lotta che portate avanti come collettivo R-esistiamo?

Quello che chiediamo è che luoghi come questo, e in particolare il bunker di Camorino, vengano definitivamente chiusi.

Siamo consapevoli che, quando cala l’attenzione, ricominciano invece a portare lì le persone. Vogliamo che il bunker venga chiuso e che venga data una possibilità di vita a queste persone, condannate ad un’esistenza sotto terra senza nessuna prospettiva.

Nel 2014 uscì un rapporto ufficiale della Commissione Federale Contro la Tortura, in cui si affermava che le persone non possono essere tenute nei bunker per oltre tre settimane, per ragioni igienico sanitarie. Nonostante non sia cambiata la loro situazione, nel report del 2018 della stessa Commissione non si fa più nessuna menzione a questo ammonimento, e nessun ente ufficiale federale si è più espresso in merito al fatto che, alcune persone, siano sottoterra da anni.

Da Marzo 2019 è entrata in vigore una nuova legge sulla migrazione, che avrebbe dovuto evitare alle persone di rimanere in attesa per anni, e velocizzare l’iter di valutazione delle richieste di asilo. Dopo pochi mesi, vediamo già come questa legge non funzioni affatto: la gente non riceve mai assistenza legale, la polizia cambia a proprio piacimento, sui moduli, dati, età e provenienza delle persone, per metterle nella condizione di poter essere espulse o respinte.

Nonostante le immense risorse di uno dei paesi più ricchi del mondo, che potrebbe con estrema facilità assorbire il numero esiguo di persone che arrivano in Svizzera, a prevalere sono in ogni caso gli interessi economici, che preferiscono nutrirsi del fruttuoso business legato alla repressione, alla militarizzazione delle frontiere, alle deportazioni e allo sfruttamento della manodopera in nero delle persone senza documenti giusti.

Sappiamo che sarà molto difficile farsi ascoltare e che abbiamo a che fare con il muro di gomma delle istituzioni, ma non si può proprio mollare.


Sembra che nel 2020 il centro di Rancate verrà chiuso: gli arrivi in Svizzera nell’ultimo anno, a fronte di un’ingente spesa di mantenimento della struttura, sono andati diminuendo in maniera consistente. La proposta del consigliere leghista Norman Gobbi, tuttavia, non è di eliminare un punto di riferimento per i respingimenti, ma semplicemente quella di spostarlo a Stabio o a Chiasso, sul confine con l’Italia, dove alcuni magazzini delle ferrovie FFS sarebbero già stati allestiti da tempo come dormitori, senza tuttavia mai essere utilizzati.
La ORS Service AG è una società privata svizzera che gestisce alloggi per l’asilo per conto del governo federale, ed è uno dei maggiori attori in questo campo. In seguito alla diminuzione degli arrivi in Svizzera, la società è entrata in una fase di crisi che l’ha portato a cercare di espandere il proprio mercato nei paesi sul Mediterraneo, in primis l’Italia. Nel luglio 2018 è stata fondata quindi a Roma la nuova filiale ORS Italia S.r.l., che mira ad aggiudicarsi la cospicua fetta di investimenti piovuti sul settore degli hotspot e dei centri di detenzione e rimpatrio, grazie ai decreti legge Salvini e all’imminente apertura dei nuovi CPR, come il Corelli di Milano.

 

Esterno bunker di Camorino (fonte immagine)

Nè meno persone respinte, né meno violenza

Pubblichiamo la traduzione del resoconto di lunedì 14 ottobre del collettivo Kesha Niya. Come nei precedenti report, pubblicati a gennaio, maggio, giugno e settembre, resta costante l’uso della violenza da parte della polizia francese sulle persone respinte , sia nella fase di fermo, che in quella di detenzione; aumenta inoltre il numero delle persone respinte in Italia.

 

Attenzione il report contiene resoconti sulla violenza della polizia

Numeri record questo mese. Abbiamo visto 1.536 persone respinte in Italia in totale, inclus* 59 minori non accompagnat* (9 erano bambin* molto piccol*) e 46 donne, alcune delle quali erano incinte. Questi numeri non includono quell* che sono stat* portat* via in macchina dalla Croce Rossa o dalla polizia, o le persone che sono passate mentre non eravamo presenti.

Possiamo ufficialmente dichiarare che ogni asserzione di politici o burocrati, sul fatto che la situazione si sia calmata e che sia molto piccolo il numero di persone respinte in Italia, è completamente falsa.

Ogni due settimane sono state viste circa 20 persone a bordo del pullman per la deportazione a Taranto.

Ci sono state alcune occasioni in cui più persone del solito sono venute alla nostra distribuzione della cena, a volte il numero ha superato le 100 persone.

All’inizio del mese, alcuni giornalisti italiani sono venuti al confine quattro volte. Lavoravano tutti per diversi canali televisivi italiani e volevano riferire i respingimenti effettuati dalla polizia francese. Hanno preteso i dati sul numero delle persone e i resoconti sulla violenza delle polizia comportandosi in modo molto irrispettoso delle persone presenti (non preoccupandosi del consenso, dell’anonimato e non dando alle persone il tempo di rilassarsi prima di rispondere).

A differenza degli ultimi mesi, abbiamo visto molte persone appena arrivate in Italia, alcune senza impronte digitali in Europa.

Molti dei minori incontrati questo mese non avevano mai lasciato le impronte in Europa. Si sono dichiarati minorenni alla PAF (Police Aux Frontières, ndt) ma sono stati respinti in Italia con una falsa data di nascita scritta sul rifiuto di ingresso.

Ciò che è stato diverso questo mese è stata loro registrazione come adulti, da parte della polizia italiana, anche in Italia, tramite la raccolta di 4 impronte digitali e basandosi sulla data di nascita scritta sul rifiuto di ingresso. Questo fatto è un paradosso che ci colpisce, dal momento che la polizia italiana sa che la polizia francese scrive spesso delle età false per respingere i minori, il che crea maggior lavoro per la polizia italiana.

Una giovane donna della Nigeria che era stata accolta in Francia in quanto minore, diventata maggiorenne nel frattempo, doveva rientrare in Francia perché aveva ricevuto una comunicazione dall’OFPRA (Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi n.d.t.) che le concedeva lo status di rifugiata. Viaggiava con una lettera del suo avvocato che spiegava la situazione, copia del suo vecchio rècèpissè (ricevuta di domanda d’asilo, ndt) e del suo certificato di nascita. E’ stata rimandata indietro a Bardonecchia e poi a Mentone. Ha riprovato con una copia della lettera dell’OFPRA che le concedeva lo status di rifugiata. La PAF l’ha respinta ugualmente. Non era in possesso del rifiuto di ingresso, perché questo è accaduto di sera e i militari italiani lo hanno trattenuto. Perciò era impossibile contestare il rifiuto d’ingresso. Siamo andat* insieme a richiedere copia del rifiuto di ingresso alla polizia italiana, ma l’agente ci ha detto che non sapeva dove fosse perché la squadra che lo aveva preso se n’era già andata.

Abbiamo incontrato molte persone che sono state deportate da altri paesi, come la Germania, l’Austria, il Belgio, o il Lussemburgo. Alcun* di coloro che sono stati deportat* da altri paesi, non avevano trascorso molto tempo in Italia prima della deportazione, ma le loro impronte digitali sono state immediatamente registrate al loro arrivo a Lampedusa, anche se avevano passato molto più tempo in un altro paese, costruendosi una vita, prima di essere deportat* in un posto che conoscono davvero molto poco.

Le detenzioni (nei container della polizia francese al confine, ndt) sono di nuovo state talvolta molto lunghe, alcune persone hanno dichiarato di essere state trattenute anche 24 ore. Adesso la polizia italiana non rilascia sempre il foglio di invito in questura (“per regolarizzare la prorpria posizione” come richiedente in territorio italiano, ndt), che era molto utile per [calcolare complessivamente la durata dello stato di fermo] comparando l’orario in cui le persone vengono fermate dalla polizia francese, a quello in cui le stesse vengono rilasciate dalla polizia italiana. Al momento le detenzioni sono a volte molto lunghe (dalle 19.45 alle 14.00 del giorno successivo, dalle 7.00 alle 16.00, dalle 20.45 alle 15.15 del giorno successivo) ma sono difficili da provare senza le carte rilasciate dalla polizia italiana.

Praticamente tutti i giorni stiamo ricevendo resoconti di violenze e furti da parte della polizia francese: sono abituali gli episodi in cui le persone vengono insultate, prese a schiaffi o gasate con lo spray al peperoncino in spazi chiusi. Quando vengono riconsegnati i loro effetti personali, ad alcune persone mancano centinaia di euro, oppure non vengono riconsegnati i telefoni, o viene impedito di raccogliere le proprie cose (nel momento della cattura, per esempio durante una retata sui treni, ndt) prima di essere prese in custodia dalla polizia francese. Ad alcune persone è stato negato l’accesso alle cure mediche per condizioni quali il diabete e problemi cardiaci congeniti.

Inoltre questo mese, due giovani marocchini sono stati pesantemente picchiati da nove agenti della polizia francese, nel retro di uno dei container. Alcun* di noi insieme a persone di Amnesty hanno assistito alle grida e hanno visto quando i due giovani sono usciti coperti di contusioni. Li abbiamo accompagnati all’ospedale, abbiamo ascoltato il racconto di come la polizia li avesse costretti a strisciare sul pavimento e ad altri comportamenti degradanti, e abbiamo raccolto un resoconto molto dettagliato in modo che possano sporgere denuncia. E’ la testimonianza più dettagliata e violenta che abbiamo mai sentito.

Se hai una settimana o più di tempo libero, per favore contattaci: abbiamo bisogno di volontar*!

Per favore condividete le informazioni e parlate di ciò che sta accedendo per creare consapevolezza.

Create il cambiamento e continuate a combattere le autorità!

Amore e Solidarietà!

Kesha Niya

(Il disegno della frontiera è di Dan Archer,

del progetto Lost in Europe )

Mappe del confine: #2 Riviera Trasporti e trasferimenti forzati

(Foto in evidenza: pullman di Riviera Trasporti a Ponte san Luigi: manovre tra confine italiano e francese per prendere posizione per le operazioni di trasferimenti forzati.)

Pubblichiamo il secondo degli articoli per il ciclo di post, qui inaugurato, dedicato a fornire alcune coordinate specifiche e una sintesi delle informazioni su luoghi e dispositivi che caratterizzano la geografia fisica, sociale e politica del territorio di confine di Ventimiglia.


Adesivi di protesta alla compagnia di trasporto pubblico Riviera Trasporti (fonte: Riviera24)

#2 Riviera Trasporti: trasferimenti forzati da Ventimiglia agli Hotspot

Dal 2016 va avanti la procedura dei trasferimenti forzati in pullman dal confine di Ventimiglia agli hotspot del sud Italia. Riviera Trasporti S.P.A. (RT) è l’azienda assegnataria del bando per il “servizio di trasporto dei migranti” voluto dall’ex ministro Alfano e dal capo di polizia Gabrielli.

A seguito della visita di Alfano a Ventimiglia (7 maggio 2016) istituzioni e forze di polizia elaborano una tecnica di allontanamento dei migranti dalla zona di confine. È chiamata “strategia della decompressione” o “alleggerimento del confine” e viene sperimentata per la prima volta il 12 maggio 2016. Nell’estate diventa prassi regolare.

In quasi tre anni di decompressione sono state affinate tecniche, tempi, modi e anche i costi messi in campo. La motivazione ufficiale sarebbe la volontà di scoraggiare il cosiddetto “flusso secondario”: le persone che, raggiunta l’Italia, cercano di spostarsi in un altro paese europeo; prevenire turbative di ordine pubblico; scongiurare crisi igienico sanitarie.
Sequestrando le persone e obbligandole a essere identificate ulteriormente, sebbene la quasi totalità di loro abbia già lasciato impronte e dati all’arrivo in Italia o durante precedenti controlli.

Avvocati e associazioni di Diritto affermano che la procedura sia giuridicamente illegale. Migliaia di persone sono state tenute in stato di fermo non convalidato da nessuno. Sottoponendole alla limitazione della libertà personale in violazione dell’articolo 13 della costituzione. Numerose persone hanno dichiarato di aver ricevuto percosse, minacce e tortura durante le varie fasi di cattura nella zona del confine (con le retate di polizia francese e italiana), durante la detenzione, nel trasferimento al sud e in fase di re-identificazione negli hotspot. Altrettante le persone che dichiarano di non essere state informate di quello che stava loro accadendo: nè della destinazione del trasferimento forzato, né delle motivazioni della detenzione. Chi ha cognizione di cosa gli stiano facendo, è perchè sta affrontando il secondo (o terzo, o …) giro di trasferimenti forzati.

Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza, personale medico che opera anche al campo CRI, personale di Riviera Trasporti, cooperano nell’espletazione delle procedure di deportazione.

Pullman di Riviera Trasporti in marcia sull’autostrada ligure, scortato da due blindati e una volante in borghese
EVOLUZIONE DELLA PROCEDURA:

– maggio/settembre 2016: Partono contemporaneamente due pullman da 50 posti. Arrivati a Genova avviene l’imbarco su voli di Mistral Air (Poste Italiane). In un paio di occasioni sono utilizzati traghetti di Sardinia Ferris per portare le persone in Sardegna.

Il noleggio dei voli costa 6.000 euro l’ora. La scorta di polizia all’interno dei pullman RT è nella proporzione di uno a uno coi migranti. Inoltre i convogli sono scortati da diversi blindati e volanti.

– autunno 2016/anno 2017: il trasferimento forzato passa su gomma: parte un pullman alla volta e copre tutto il viaggio. La scorta si riduce a un paio di blindati più auto civetta in borghese. In una prima fase i viaggi sono quotidiani, poi si diradano a cadenza circa bisettimanale. Vengono introdotti i teli di plastica bianca cerata per coprire i sedili sui pullman.

– anno 2018: in concomitanza con la riduzione del numero di persone che arrivano a Ventimiglia, i trasferimenti forzati si assestano a cadenza settimanale. Il pullman utilizzato è sempre da 50 posti. Il numero dei deportati oscilla tra 12 – 25 persone a carico. Attualmente tutti i viaggi sono diretti, salvo emergenze o lavori alla struttura, all’hotspot di Taranto.

Persone caricate sul pullman RT e sottoposte a trasferimento forzato.
I COSTI:

Riviera Trasporti s.p.a (trasporto pubblico per la provincia di Imperia) vince ripetutamente la gara di assegnazione del bando per i trasferimenti (bando 2016-2017: qui e qui. Bando 2017-2018: qui). Il bilancio della compagnia, che segna un debito di circa 25 milioni di euro, è letteralmente stato salvato negli ultimi anni dai finanziamenti per il trasporto delle persone migranti.

Con la proposta di 2,00 euro a km, iva esclusa, per un totale di costi di viaggio che oscilla tra 5.500 e 5.900 euro a settimana, Riviera Trasporti percepisce infatti dalla Prefettura di Imperia:

Per l’anno 2016: incasso 800.000 euro

Per l’anno 2017: incasso 800.000 euro

Per l’anno 2018: incasso 500.000 euro

Bisognerebbe poi aggiungere i costi per uomini e mezzi di scorta al convoglio. Gli straordinari del personale, le spese di manutenzione dei veicoli, i costi autostradali: pertanto non è possibile conoscere l’effettivo ammontare delle centinaia di migliaia di euro spese per mantenere a regime le deportazioni.

In rosso il percorso autostradale attualmente seguito per deportare le persone migranti da Ventimiglia all’hotspot di Taranto

 

LA LOGISTICA:

Il pullman di Riviera Trasporti arriva al confine italiano di Ponte san Luigi intorno alle 8 – 9 del mattino. Parcheggia innanzi all’edificio di polizia e resta lì per tutta la durata delle procedure, fino alla partenza intorno alle 13 – 14.

Le persone caricate sui pullman vengono sottoposte a una serie di procedure definite “Trattamento dei soggetti . Sono i migranti presi nel tentativo di passare il confine, per lo più dalla polizia francese; più quelli catturati a Ventimiglia nelle apposite retate organizzate il mattino del trasferimento.

All’interno della struttura della polizia di frontiera:

  • Identificazione e rilevazione generalità.
  • Screening medico: i malati contagiosi, per esempio di tubercolosi o scabbia, vengono rimandati a Ventimiglia. Circa 8 km di strada a piedi.
  • Perquisizione personale e sequestro di lacci delle scarpe, cinture, braccialetti, collanine e altri oggetti coi quali le persone potrebbero tentare gesti di autolesionismo
  • assegnazione a ciascuno di un numero di deportazione

Sul marciapiede tra la struttura di polizia e il pullman:

  • una alla volta le persone caricano zaino/valigia nella pancia del pullman
  • Un poliziotto esegue una ripresa busto-volto di ciascun migrante, costretto a tenere all’altezza del petto un pezzo di carta con il numero assegnato
  • Carico. Prima della partenza vengono consegnati panini e acqua. Sono rimossi i tappi delle bottiglie, sempre per evitare tentativi di soffocamento per disperazione o protesta.

 

Cartina della zona frontaliera tra Ventimiglia e Ponte San Luigi

 

Zona di Ponte San Luigi (confine di Satao) nel dettaglio: aree di detenzione dei migranti sul versante francese e zona di parcheggio del pullman per i trasferimenti forzati
IL TRASFERIMENTO:

Attualmente i pullman portano le persone a Taranto: 1.188 km in circa 16 – 18 ore (ma le persone restano bloccate sul pullman per 22/23 ore: dal carico del mattino precedente, al mattino successivo quando vengono infine fatte scendere all’hotspot)

Negli anni, sono state utilizzate anche altre strutture come meta per i trasferimenti forzati (sempre verso Hotspot, talvolta Cara): Taranto; Bari; Crotone; Trapani; Cagliari

Procedure per il trattamento: poliziotti scaricano in frontiera, presso gli uffici per espletare la trafila di imbarco su pullman, i migranti catturati nelle retate in città

 

Procedure per il trattamento: mascherine, guanti, inquisizioni e perquisizioni: il soggetto viene preparato al viaggio.

 

Procedure per il trattamento: a ciascuna persona viene assegnato un numero di deportazione, e con esso viene filmata da un operatore di polizia prima dell’imbarco

 

procedure per il trattamento: alcune persone in possesso del giusto documento vengono rilasciate a un certo step della trafila: gli uomini che escono dagli uffici di polizia devono rimettere lacci e cinture che gli sono stati requisiti durante i controlli                                 

 

 

 

Pullman parcheggiato di fronte alla polizia di frontiera, si avvia a partire con la scorta
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Ulteriori link esterni di approfondimento

Migranti, odissea Ventimiglia-Taranto: l’inutile e costosa deportazione (Repubblica)

Il “giro dell’oca” dei trasferimenti coatti dal Nord Italia a Taranto (Open Migration)

Migranti come (costosi) pacchi postali (Osservatorio Diritti)

Ventimiglia – pulizie etniche di primavera (Hurriya)

Ventimiglia: la città esperimento (Dinamo Press)

Mentone – Taranto: il folle viaggio ( di Stato) dei migranti (Panorama)

Ventimiglia, 7 migranti si ribellano alla deportazione e sfasciano il commissariato (Secolo XIX)

Profughi a Ventimiglia (Effimera)

 Aggiornamenti da Ventimiglia: migranti torturati per le impronte (Effimera)

Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot (melting pot)

I confini della mobilità forzata lungo l’asse Ventimiglia Taranto. Trasferimenti coatti ed esercizi di libertà (euronomade)

 

Il “gioco dell’oca” è stato spesso definito il giro infinito di deportazioni e respingimenti delle persone migranti, varato da Alfano nel 2016 e tutt’ora in vigore come procedura di repressione al confine

Aiuto ai migranti: fino a quattro mesi di prigione per i “sette di Briançon”

Ieri il tribunale di Gap, nelle Hautes-Alpes francesi, ha emesso giudizi pesanti nei confronti di sette persone, accusate di aver favorito l’ingresso illegale in Francia di una ventina di migranti. Si è scelto di non considerare il contesto dell’episodio: una manifestazione, il 22 aprile scorso, che arrivava dopo un intero inverno di drammi e interventi in montagna, per soccorrere chi, totalmente privo di equipaggiamento, si trova ad attraversare valichi alpini innevati, braccato dalla polizia francese. Si è scelto di non dare peso alle condizioni materiali e politiche delle valli franco-italiane: nessuna menzione per la carenza di infrastrutture e sostegno ai migranti dalla parte italiana, nessun accenno alle sortite dei neofascisti, che, proprio in quei giorni, manifestavano pubblicamente la volontà di costituirsi in pattuglie di frontiera autonome e illegali (nessuno di loro è stato inquisito, nessuna inchiesta è stata aperta). Si è scelto di non guardare ai percorsi dei militanti, da anni impegnati nel soccorso in montagna e nella solidarietà attiva. Tutto ciò succede ad un giorno dall’annullamento di un’altra sentenza per “delitto di solidarietà”, caduta su altri militanti, di altre valli frontaliere. Non è semplice esprimere giudizi su tale disparità di trattamento. A caldo, prevale un sentimento di ingiustizia, prevale la rabbia verso una società che accetta di scagionare un eroe, ma che sia uno! Il messaggio sottinteso sembra dire: non osate ripetere le sue gesta, che la solidarietà non diventi appannaggio di tutti, soprattutto se praticata collettivamente e alla luce del sole.

Ci sembra chiaro che, ad essere sanzionata, sia prima di tutto la linea politica che ha animato una manifestazione che, in maniera chiara e radicale, avulsa da qualsiasi velleità umanitaria e assistenzialista, esprime una lotta orizzontale contro i dispositivi di confine, per la libertà di tutt*.

Traduciamo un articolo dal portale Politis, qui il link all’originale: https://www.politis.fr/articles/2018/12/aide-aux-migrants-jusqua-quatre-mois-de-prison-ferme-pour-les-sept-de-briancon-39748/

Il tribunale correzionale di Gap (Hautes-Alpes) giovedì ha emesso dei verdetti che vanno fino a quattro mesi di prigione nei confronti di sette militanti, il cui capo d’imputazione è quello di aver aiutato dei migranti a entrare in Francia la primavera scorsa. Due degli imputati, francesi, già condannati in passato e inquisiti in questo stesso dossier giudiziario anche per ribellione, sono stati condannati a dodici mesi di prigione, di cui 4 da scontare in carcere.

Per uno di loro, M. B., 35 anni, la pena prevede anche una ‘messa alla prova’ di due anni e una multa di 4.000 euro. «Erano due le scelte possibili oggi, si trattava di scegliere tra la solidarietà e la morte. Il tribunale di Gap ha scelto la morte per gli esiliati» – ha dichiarato quest’ultimo all’uscita dal tribunale (https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/12/13/7-de-briancon-les-reactions-apres-les-condamnations-hautes-alpes-gap). In effetti, l’allarme ha suonato in quel di Briançon: le associazioni di aiuto ai migranti (Anafé, Amnesty, Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, Secours catholique…) hanno lanciato l’allerta «sull’insufficienza della presa in carico e il respingimento sistematico di uomini, donne e bambini che cercano di oltrepassare la frontiera franco-italiana (…) mentre inizia la fredda stagione invernale». Si temono altri drammi, considerando che le temperature scendono a -10° in montagna.

Gli altri cinque, due francesi, un’italiana, uno svizzero e un belga-svizzero, dalla fedina penale intonsa, sono stati condannati a sei mesi di prigione con la condizionale. Hanno dieci giorni per ricorrere in appello. Un centinaio di militanti della causa dei rifugiati si sono radunati giovedì pomeriggio sotto le finestre del palazzo di giustizia per sostenere i ‘sette di Briançon, come vengono chiamati. Il tribunale ha seguito le richieste del procuratore di Gap Raphael Balland, che durante il processo dell’8 novembre non aveva invocato l’aggravante di ‘banda organizzata’.

«Sono un po’ basito davanti a una decisione così severa, per dei fatti che sono quantomeno discutibili (…). I gilets jaunes ne hanno fatte di ben più gravi» – si è lamentato Christophe Deltombe, présidente della Cimade, associazione di difesa dei diritti dei migranti. «Ero convito che sarebbero stati rilasciati. Non vedevo dove potessero essere individuati gli elementi materiali e intenzionali dell’infrazione penale. Siamo in pieno in quel che viene chiamato ‘crimine di solidarietà’: sono condannati perché sono stati solidali a delle altre personé» – ha aggiunto.

«Siamo tutti un po’ colpiti da questa decisione. E’ una pena estremamente severa. La motivazione del tribunale non ci ha convinto» – ha reagito da parte sua Maeva Binimelis, uno dei sei avvocati dei militanti. «Questa decisione è un colpo di freno alla direzione presa in favore di una maggiore umanizzazione e individualizzazione delle condanne per delitto di solidarietà, nell’attesa della sua soppressione», critica da parte sua un altro dei difensori, Vincent Brengarth.

L’accusa imputava ai sette militanti, le cui età vanno dai 22 ai 52 anni, di aver facilitato, il 22 aprile, l’entrata in Francia di una ventina di migranti confusi ai manifestanti forzando una barriera eretta dalle forze dell’ordine. Durante l’udienza, gli imputati avevano contestato il fatto di aver coscientemente aiutati i rifugiati a passare la frontiera nel corso della manifestazione. Partita da Clavière, in Italia, questa si era conclusa a Briançon.

Il processo iniziale, previsto in maggio, era stato rapidamente rimandato, per concedere il tempo al Consiglio costituzionale di esprimersi sul ‘delitto di solidarietà’. In luglio, i ‘Saggi’ hanno considerato che, in nome del ‘principio di fraternità’, un aiuto disinteressato al soggiorno irregolare non sarebbe passibile di condanna, l’aiuto all’entrata resterebbe però illegale.

Mercoledì, la Corte di cassazione –la più alta giurisdizione dell’ordine giudiziario in Francia – ha annullato la condanna di Cédric Herrou, diventato un volto noto dell’aiuto ai migranti, e di un altro militante della Valle Roya, condannati in appello per aver assistito dei migranti.

“Fare i conti, senza l’oste” – Ventimiglia (17/11/18 )

Ventimiglia 17/11/18 : “Fare i conti, senza l’oste”
Una pagina di diario che contiene impressioni rielaborate cercando un filo che non sia solo analitico ma anche emotivo. Nell’incapacità di tracciare un quadro esaustivo o di trovare una quadra politica rispetto alla sfida terribile che il presente ci pone di fronte, il racconto soggettivo è solo un modo di lasciare una traccia.

 


Ventimiglia è quella città di confine in cui esci dal treno e ti trovi davanti ad un quadro metafisico. Il tempo sembra sospeso: un gruppo di suore vestite in bianco si affretta sulle scale della stazione, pochi ragazzi neri aspettano il loro destino seduti su un muretto, un quartetto di donne e uomini di affari si salutano e entrano nella loro audi metalizzata, distrattamente una volante attraversa il piazzale.

Ventimiglia, di nuovo e d’autunno inoltrato, ormai quasi inverno.

 Ventimiglia: manca qualcosa, un’assenza corposa e tangibile.

Una città di confine dove le contraddizioni scoppiano e ti buttano in faccia quanto qualsiasi posizione – se non inserita in una visione complessiva, concreta e radicale di cambiamento – diventi astratta e moralistica.

A Ventimiglia quasi tutti i bar vivono grazie alle macchinette per il gioco. Il sindaco da un paio di settimane ha emesso un’ordinanza contro le macchinette che prescrive di tenerle chiuse dalle 7 alle 19.
Il sindaco delle ordinanze, quello del divieto di dare da mangiare alle persone migranti, emette un’altra ordinanza. A prima vista, stavolta fa bene. Ma davvero è così?

Alcuni bar potrebbero essere costretti a chiudere. Nei bar di Ventimiglia lavora gente normale con tutte le sue contraddizioni, molti lavorano da mattina a sera per campare. La maggior parte si è piegata al razzismo, non tutti come sappiamo però.
I commercianti strozzati dalle tasse, che non riescono a sbarcare il lunario e che saranno ancora più nella merda, magari costretti a chiudere, a causa della perdita delle macchinette.  Quei commercianti che sono alcuni degli omologhi italiani dei Gilets Jaunes che in questi giorni incendiano la République.

Certamente le macchinette sono una merda, sintomo della vita alienata che la gente, soprattutto quelli dei ceti più bassi, si trova a vivere. Ma un’ordinanza sulle macchinette fatta dal  sindaco delle ordinanze contro il cibo distribuito alle persone migranti, da un sindaco che ha ordinato lo sgombero dell’esperienza dei Balzi Rossi, da un sindaco del partito di Minniti, non potrà mai essere un’ordinanza buona.

Il confine ti mette continuamente di fronte alle contraddizioni sanguinanti di questo tempo.

Le persone in viaggio sono radicalmente diminuite e quelle che ci sono restano il più invisibile possibile.

 

Uscita dal bar di Delia, costeggio il lungo fiume prima di dirigermi all’assemblea del Coordinamento territoriale in Via Tenda, presso lo spazio Eufemia. Mi fermo a guardare delle palme che sono state decapitate. Mi si avvicina un signore sulla cinquantina, si presenta: “ Alfiero Pasquale, piacere, un tempo ero il vigile coi baffi . Guardi qui, nella foto, come ero bello un tempo. Sì le palme le hanno decapitate, hanno tagliato tanti alberi. Perché io lo so, sa, chi è stato. Quello lì, fa finta di fare ma non sa da dove si comincia.

 Ogni tanto sogno, o meglio sono in dormiveglia. Vedo delle cose, degli uomini. Appesi come pipistrelli, per i piedi. Sotto il ponte del cavalcavia della ferrovia là sotto. Lo sa? Li ha visti? Ma poi da lì sono stati mandati via. Verso la spiaggia. Ora li vedo, sotto il mare che camminano, in un tunnel. E io li inseguo e gli sparo delle frecce, proprio qui in mezzo alla fronte.”

“ Per ammazzarli?” – domando io.

“ Ma no sono già morti. Sono tanti, neri, vengono da altri posti, io li vedo, sono visioni che mi arrivano, come nel dormiveglia, me le manda il Padre di tutto, così lo chiamo io, che mi chiede di pregarlo…..”

L’ex vigile viene interrotto e io proseguo, pensando a come alcune situazioni con la loro enorme violenza sociale e politica producano nelle menti più sensibili e più porose delle visioni, delle ossessioni, pazzie che in fondo lo sono poco, confrontate all’accettazione brutale e diffusa della normalità spettrale.

 

 

Via Tenda è buia, piena di lavori stradali. Dentro Eufemia la luce è accesa e la stanza piena. La prima cosa che penso è che, partecipanti alla riunione del coordinamento territoriale, siamo solo europei con i documenti in regola.

Si ricapitola la situazione.

L’afflusso delle persone migranti è radicalmente diminuito. Le presenze al campo Roya lo dimostrano. Molti si fermano appena nella città di confine, sono già indirizzati al circuito dei passeurs. Il campo Roya se chiuderà, probabilmente poi riaprirà sotto forma ancora peggiore. Verranno applicate delle misure speciali varate per le zone di frontiera. Suona tutto molto inquietante e molto verosimile.

A gennaio lo spazio Eufemia gestito dal progetto 20K dovrà chiudere, il proprietario non rinnova il contratto d’affitto, non vuole grane. Difficile sarà trovare un nuovo spazio  in un territorio sempre più blindato, da una politica locale e nazionale razzista, dal controllo mafioso, da una popolazione in buona parte in difficoltà e chiusa nel suo egoismo. Resta un posto solo, ancora amico, il bar di Delia, ma per proteggerlo ci vorrebbe un progetto collettivo fatto da persone solidali che vivono il territorio e che abbiano la voglia e trovino le motivazioni per sporcarsi le mani con la melma di questa città di frontiera.

La repressione è sempre più forte: viene citato il caso delle due compagne che hanno ricevuto il foglio di via da Ventimiglia solo per aver documentato un’azione poliziesca volta alla deportazione delle persone migranti dalla città. Qualcuno chiede se sia possibile fare qualcosa collettivamente, un’azione dimostrativa per denunciare il livello repressivo inaudito, ma nell’assemblea sembra prevalere l’idea che occorra evitare altri problemi. Resta da chiedersi per fare cosa, visto che gli spazi di agibilità sono praticamente finiti.

La riunione si conclude, lasciando più interrogativi che progettualità condivisa.

Percorrendo Via Tenda a ritroso, nel buio fitto della sera, di nuovo percepisco un’assenza così concreta e reale. E cercando il comune denominatore di questa mezza giornata al confine, come al solito col suo tempo sospeso, condensato e lunghissimo, penso al detto: “fare i conti, senza l’oste”.

g.b. della redazione

 

 

 

Le vie del signore sono finite – Ventimiglia 10/11 Novembre

Le vie del signore sono finite.  Ventimiglia 10/11 Novembre

 

“Esco dalla stazione. Piove, e la pioggia mi accompagnerà per tutto il fine settimana. Nessuna divisa sui binari e nella piazza antistante. Un gruppo di 6 ragazzi ed una ragazza di apparente provenienza mediorientale parlano con un giovane della croce rossa monegasca.

Passo oltre e raggiungo il bar di Delia. Come sempre è gentile ed accogliente. Una mente critica con un cuore d’oro. C’è un ragazzo proveniente da Milano, della Costa d’Avorio, che ci ascolta un pò sorridendo e poi esce con le ciabatte ai piedi. Delia mi dice che purtroppo ha finito le scarpe. Molte persone, anche famiglie assai numerose, sono passate da lei per indumenti e coperte essendo anche chiuso l’infopoint di via Tenda. Infatti Eufemia ha subìto un danno alla saracinesca, speriamo non doloso, che costringe il gruppo 20K a tener chiuso questo spazio per almeno una settimana. Arriva un giovane ragazzo sudanese che ha richiesto il permesso di soggiorno e fa volontariato. Delia dice di essere preoccupata per una ragazza nigeriana con una bimba di età inferiore a 1 anno che si era allontanata dal bar il giorno prima con alcune persone, apparentemente appena conosciute. Il ragazzo racconta che, incontrata per strada, l’ha accompagnata alla croce rossa per avere un pò di riparo, in tutti i sensi. D’altra parte non esiste alcuna alternativa su questo territorio per una donna.

 Intanto continuano le deportazioni: l’ultima giovedì con il classico pullman che arriva in città all’alba, ora delle attività indicibili.   Esco dal bar e mi dirigo verso via Tenda. Ci sono un discreto numero di ragazzi per strada. Molti, oltre ai ragazzi africani, provengono dal Medio Oriente o Oriente. Altre persone già più volte incontrate, diciamo stanziali, sono sedute nei bar della via, prima del passaggio a livello. Intravedo persone che escono da recessi dall’altra parte del fiume e percorrono il ponte. Sono indeciso, penso che il mio eventuale arrivo e la domanda: “Have you any health problem? I am a medical doctor”, sia più un’intrusione che un aiuto, in una situazione come questa. Ci penserò domani con la luce.

Scritte di alcune persone migranti lungo la strada per il campo della Croce Rossa

 

Il blindato dei carabinieri staziona nel parcheggio antistante alla chiesa. La chiesa offre uno spettacolo pietoso, una iconografia dell’intervento attuale della chiesa in questo territorio: un cartello di divieto di sosta davanti ad una transenna che impedisce la sosta e l’entrata nella chiesa. Forse il motivo è un altro, ma è una chiara immagine dell’avversione nota da parte del parroco attuale nei confronti delle persone in transito.

L’esperienza di don Rito, nonostante i limiti, era punto di riferimento per donne bambini e famiglie. La conseguenza è stata che don Rito è stato ringraziato dal vescovo per il suo impegno spedendolo a prestar servizio a San Biagio, Soldano e Perinaldo, posti spersi tra i monti. Le donne, i bambini e le famiglie hanno ora la sola possibilità di stare nel campo Roja in condizioni di promiscuità illogiche oltre che illegali. D’altra parte mi viene detto come il vescovo Suetta non nasconda le sue franche simpatie leghiste. Un’amica solidale evidenzia, inoltre, come in questa istituzione per sua stessa natura gerarchica, le parole del capo, papa Francesco, vengano completamente disattese nel territorio di Ventimiglia.

Chiesa di Sant Antonio alle Gianchette, Ventimiglia

 

Raggiungo il cimitero con una pioggia battente. Insieme a me una decina di persone aspetta la distribuzione del cibo nel parcheggio antistante. Verso le 19.00, dopo che si era verificato anche l’allagamento della strada e del parcheggio, vado ad incontrare un’amica solidale. Dopo quasi un’ora torno, non c’è nessuno, solo alcuni poliziotti. Spero che siano almeno riusciti a dare il cibo. Ritornando in via Tenda vedo molti ragazzi lungo la via con bagagli e zaini.

La mattina dopo incomincio il percorso dalla spiaggia. Incontro un gruppo di ragazzi nigeriani, circa una decina, con una giovane ragazza rumena. Hanno dermatiti e malattie da raffreddamento. Li visito e consegno loro alcuni farmaci, poi mi chiedono qualche antidolorifico per vaghi dolori, penso che la richiesta faccia riferimento ad una situazione di dipendenza. Continuo la mia strada. Vicino al ponte della ferrovia incontro alcuni ragazzi provenienti dall’altra riva, chiedo loro se hanno o se conoscono qualcuno che ha problemi di salute. La risposta è negativa. Scendo lungo il fiume, noto almeno 4 giacigli protetti dal ponte e due persone che riposano, nonostante la presenza del blindato della guardia di finanza. Tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine che incontro nei presidi hanno il viso illuminato costantemente dai cellulari.

Scorcio sui container dalla recinzione del campo CRI

Raggiungo la riva del fiume in piena, vedo coperte tra gli alberi, ma non persone. Proseguo verso il Campo Roja.

Ogni volta che faccio questa strada, sento la fatica e mi rendo conto della violenza insita nella scelta di questo luogo. Il campo si è ulteriormente ampliato. Sento le voci dei bambini, spero che vada tutto bene. Ho notizie di famiglie numerose che dopo 2 notti si sono allontanate per rimanere alla stazione fino alla partenza. Incontro e visito 2 ragazzi curdo/iracheni che vivono in prossimità del campo Roja. Ritorno verso la stazione. Mi fermo a pranzo lungo via Tenda. È stato aperto un nuovo locale da parte di un ragazzo che avevamo incontrato già varie volte. Ci aveva preannunciato il desiderio di aprire un locale, avendo i documenti ma non un lavoro. Ci riconosciamo e ci salutiamo, mangio bene, in una stanza dove sono l’unico occidentale. Prendo alla fine il treno di ritorno.

Quello che si nota a mio avviso è, nella estrema variabilità degli eventi, la progressiva polverizzazione delle persone. Mi chiedo quanto sia profonda la consapevolezza di far parte di una lotta di un gruppo di persone che aspirano ad una libertà comune, quella di potersi muovere. Questa lotta sembra progressivamente sgretolarsi sotto i colpi della repressione locale, nazionale e internazionale.

Coerentemente con l’affievolirsi della partecipazione politica, anche negli incontri accademici e nei testi recentemente pubblicati viene spesso rimossa tutta la prima esperienza dell’occupazione dei Balzi Rossi e dei campi informali del 2016, dove la coscienza di gruppo era espressa dai protagonisti e le loro decisioni raggiunte attraverso procedure assembleari. Nulla a che vedere con l’ultimo campo informale del 2018 , area di prevaricazione, violenza e tratta, che ho sentito enfatizzare recentemente.

La memoria ad oggi è quello che ci rimane, è auspicabile che non sia forzata da chi la racconta.

Antonio Curotto

Nuovi fogli di via da Ventimiglia

Volano fogli di via, a Ventimiglia. Soffia un vento caldo, in questo autunno che sembra estate, e al confine tutto cambia ancora, in una calma sempre più spettrale.
Riceviamo e con grande solidarietà pubblichiamo una testimonianza  di quanto successo la  settimana scorsa a Ventimiglia.
Gli effetti della violenta politica razzista dell’attuale governo si sentono, si vedono e si toccano…sempre che si abbiano orecchie, mani e occhi attenti.
Il Decreto Sicurezza non è solo un pezzo di carta o un manifesto di propaganda. E’ un dispositivo giuridico che impone regole ancora piu’ repressive rispetto al precedente decreto Minniti-Orlando, particolarmente effettivo su alcune categorie di popolazione e alcuni comportamenti.
Contestualmente all’entrata in vigore del Decreto, a Ventimiglia la polizia ha spostato la barra dell’azione repressiva ancora più in alto. Le retate in città hanno assunto un carattere, se possibile, più violento e plateale. La “caccia al negro” e il coprifuoco vengono applicati in maniera sempre più sistematica. Per chi prova a denunciare, testimoniare, opporre resistenza, sono pronte misure repressive spropositate, come previsto dal Decreto.
Se Ventimiglia, come collettivamente si è detto tante volte, è un laboratorio e uno specchio potente delle politiche nazionali ed europee, il clima autunnale deve essere considerato con attenzione. La brutalità del razzismo di Stato si fa cieca e più pericolosa, ma su cosa si regge? Un consenso ottenuto con la violenza istituzionale è un consenso fragilissimo. Leggere il Decreto Sicurezza e i suoi effetti impone un esercizio di analisi estremamente realistica, ma anche una capacità critica, per comprendere il groviglio di contraddizioni che vi sta dietro. E’ tutto un modello di società, di economia, di configurazione politica a rigurgitare violenza, nell’impossibilità -o non volontà- di mediare. La durezza di quello che ci circonda è indiscutibile, tocca a noi chidersi se, in questa “crisi” sempre più’vertiginosa, con uno sguardo più ampio e dialettico e con uno sforzo collettivo più determinato sia possibile cogliere, e far crescere, la nostra forza e le nostre possibilità’.

Nuovi fogli di via da Ventimiglia

 

“Se fai foto ti rompo la macchina fotografica”: questo il buongiorno ricevuto da due compagne che, mercoledì 17 mattina, stavano monitorando lo svolgimento delle operazioni di rastrellamento nelle strade della città di Ventimiglia.
La cornice degli eventi che sono seguiti parla di una routine fatta di razzismo e repressione crescenti verso tutte le persone non bianche che vivono o attraversano questo territorio di frontiera.
Da oltre due anni, una o più volte alla settimana scatta la “caccia al nero”, con controlli e retate nelle strade della città, nella stazione, lungo i valichi di frontiera, sulle spiagge, nei giardini pubblici, dentro ai bar e attorno al centro della Croce Rossa ormai diventato l’unico punto di contenimento e gestione delle centinaia di persone in viaggio.

Lo scopo è deportare settimanalmente decine di persone tramite pullman turistici della Riviera Trasporti, che raccolgono il carico di indesiderati braccati dalla polizia italiana come da quella francese, per spedirli nei centri di controllo e identificazione a Taranto o Crotone, da dove spesso avvengono trasferimenti nei CPR del sud Italia.

Da oltre due anni c’è chi non accetta che le prassi brutali e umilianti del regime del confine scivolino nella normalizzazione e nel silenzio. Fanno schifo i rastrellamenti focalizzati sulla sfumatura del colore di pelle. Fanno schifo i fermi di massa eseguiti nella sala d’attesa della stazione di Ventimiglia, dove le persone sono bloccate e controllate a vista dai militari, mentre sciami di turisti transitano indifferenti a pochi metri di distanza. Fa schifo la processione di procedure e violenze con cui, una alla volta, le persone vengono caricate in frontiera sui bus delle deportazioni: chi non ha il pezzo di carta giusto viene perquisito, sottoposto a controllo medico obbligatorio, spogliato di cinture e stringhe delle scarpe, etichettato con un numero di matricola per la deportazione in atto, infine registrato con un primo piano su busto e volto da un poliziotto munito di fotocamera, e poi via, caricato per l’esilio.

Fa schifo la frontiera.

L’obiettivo è ripulire il territorio da chi non è conforme alle norme e alle regole dell’attuale programma di eugenetica sociale di una società razzista e farlo nel silenzio assenso di una città che sprofonda nell’indifferenza.
E allora ci spieghiamo così gli eventi di mercoledì 17 mattina: nessuna può permettersi di ostacolare la burocratizzazione di questa collaudata macchina di repressione. Davanti all’ennesima retata in spiaggia due compagne si fermano a documentare le scorribande del braccio armato dello stato. Ad uno di questi signori non sta bene: “se fai una foto ti spacco la macchina fotografica” è il preludio all’aggressione che sta per scattare. Tre minuti e le compagne si ritrovano assaltate fisicamente e verbalmente, strattonate e bloccate alle spalle, uno zaino rotto, le macchine fotografiche – una risulterà danneggiata dall’aggressione – ed un telefono cellulare sottratti con prepotenza. Sequestrati gli strumenti con cui si prova a raccontare la verità del confine. Le compagne sono condotte in commissariato e dopo cinque ore in stato di fermo le fastidiose testimoni sono rilasciate con le accuse di resistenza, interruzione di pubblico servizio, oltraggio aggravato e foglio di via obbligatorio da Ventimiglia per tre anni, perché considerate una minaccia all’ordine e alla sicurezza pubblici: non deve esserci clamore, né testimoni critici, né dissenso.

Altri due allontanamenti coatti che si vanno a sommare agli oltre sessanta fogli di via rifilati dal 2015 a coloro che, sostenendo le resistenze e le ribellioni delle persone migranti, hanno lottato contro la frontiera.
Il sistema repressivo costruito in tre anni di regime di confine, aboliti gli spazi di solidarietà e rabbia, vuole che le persone in viaggio siano isolate, bandite e ricattabili.
In un luogo presidiato e pattugliato da militari e polizia, dove il ricatto umanitario è complice del sistema di gestione, controllo e carcerazione e gli unici riferimenti sociali da difendere sono il turismo e il decoro urbano, pericolosa è diventata chi guarda e documenta l’orrore della normalizzazione di tutto questo.

Non ci troverete sottomesse, né cieche, né mute, ma sempre cocciute nemiche delle frontiere.

 

Complici e solidali con le compagne scacciate,
Alcune ribelli del ponente ligure

Con i pescatori di Zarzis, contro la criminalizzazione del soccorso in mare

Diffondiamo una petizione transnazionale, pubblicata in cinque lingue, a sostegno dei sei pescatori di Zarzis arrestati a fine agosto nelle acque antistanti Lampedusa, per aver soccorso in mare dei migranti in avaria:

https://ftdes.net/pecheurstunisiens/

Dalla pagina della petizione transnazionale

Il reato imputato è quello di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, ma i fatti, ricostruiti anche grazie ai filmati di un drone dell’agenzia Frontex, raccontano di una realtà ben diversa : un barchino in avaria, con a bordo quattordici persone (tra cui tre minori), l’equipaggio di una barca da pesca che interrompe il proprio lavoro e un’operazione di soccorso in mare [1]. Dalle testimonianze si evince che dei tentativi di mettersi in contatto con le autorità italiane ci fossero stati, che non fossero andati a buon fine e che le condizioni metereologiche stessero peggiorando. Davanti al rifiuto di essere riportati in Tunisia, a Zarzis, l’equipaggio di Chamseddine Bourassine ha deciso di trainare il barchino verso una zona dove il mare fosse più calmo e i soccorsi più facili da attuare.

I pm di Agrigento, che hanno validato i fermi, parlano invece della possibilità che non si tratti di altro che di una messa in scena, per coprire un’operazione pianificata fin dalle coste tunisine. Poco importa che un drone governativo avesse filmato il barchino in avaria, aprendo alla possibilità di contestare un reato di mancato soccorso : non sarebbe che l’ennesimo. Pare conti ancora meno il fatto che, da anni oramai, incontrare imbarcazioni o natanti fatiscenti in difficoltà sia la quotidianità dei pescatori del Mediterraneo meridionale : banale la conta dei morti a mezzo stampa, banale salpare delle reti nelle quali si incagliano i corpi di chi non ce l’ha fatta.

Allora, chi non si arrende alla banalizzazione dell’ingiustizia diventa pericoloso. L’umanità di chi è incapace di gettare qualcosa da bere e da mangiare a chi si rifiuta di essere riportato in Maghreb, disposto a sfidare la concreta possibilità che quel viaggio si trasformi intragedia, per poi riportare la prua verso il porto come niente fosse stato, diventa un crimine e, come tale, va perseguito.

Ma, se per le autorità il fatto che, al netto della riduzione delle partenze dalla Libia, la percentuale di morti tra chi affronta quel tratto di mare sia passata da 1 su 38 nel 2017 a 1 su 7 nel mese di giugno di quest’anno [3] non è altro che una constatazione statistica, per fortuna c’è ancora chi non ha intenzione di entrare a far parte della larga schiera dei colpevoli e dei cinici.

Chamseddine Bourassine è uno di questi. E’ il présidente di un’associazione molto attiva e conosciuta, ‘‘Le pecheur’’ de Zarzis pour le développement et l’environnement, che da anni anima dibattiti e azioni su vari fronti, dalla sensibilizzazione dei giovani rispetto ai rischi della migrazione clandestina, alla necessità di difendere la piccola pesca artigianale. La loro è una voce politicamente schierata, fondata sul rigore e la forza di chi le proprie idee le forgia ogni giorno, nella durezza della realtà, nelle immagini che gli occhi vedono non filtrate da schermi e pixel. L’estate scorsa hanno impedito l’ingresso nel loro porto alla C-Star, la nave di Generazione Identitaria, impegnata in patetiche operazioni da cane da guardia in nome della difesa del suolo europeo [2], e questa primavera hanno organizzato una manifestazione per denunciare la criminalizzazione del soccorso in mare (a questo link è possibile visionare un estratto video della manifestazione, filmato dal colletivo marsigliese Primitivi: https://vimeo.com/265557170).

Sono stati arrestati, in sei, dalle autorità italiane, e la notizia ha fatto a malapena il giro delle redazioni locali. Nel frattempo, aspettando l’esito dell’udienza di oggi (21 settembre), a Tunisi, a Zarzis e anche ad Agrigento, centinaia di persone hanno manifestato per chiedere la scarcerazione dei pescatori.

Proviamo rabbia e vergogna per chi blatera di porti chiusi, respingimenti e Ong colluse con i trafficanti : se avessero il coraggio di passare una notte a bordo del peschereccio di Chamseddine, forse, i termini della discussione sarebbero diversi.

[1] https://www.lecourrierdelatlas.com/tunisie-mobilisation-pour-la-liberation-de-six-pecheurs-detenus-en-italie-20566

[2] http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/tunisia-la-protesta-dei-pescatori-blocca-la-nave-nera-anti-migranti_3087931-201702a.shtml

[3] Dal rapporto dell’UNHCR: l’evoluzione del trend di mortalità durante le traversate è da 1/38 nella prima metà del 2017 a 1/19 nello stesso periodo del 2018, con un picco di 1/9 nel mese di giugno 2019. https://www.unhcr.it/news/calo-degli-arrivi-aumento-dei-tassi-mortalita-nel-mar-mediterraneo-lunhcr-chiede-un-rafforzamento-delle-operazioni-ricerca-soccorso.html

Bucare il Confine

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di un compagno e ricercatore – Gabriele Proglio CES-Universidade de Coimbra – che in questo periodo si trova sul Confine di Ventimiglia. Un interessante aggiornamento e un’intensa riflessione sul costante esercizio alla ricerca di una prospettiva decolonizzata e anticolonialista.

Note, perché è da poco, pochissimo che sono sul confine. Queste sono solo note. Eppure, man mano che recupero i pezzi dell’archivio del movimento che ha bucato il confine di Ventimiglia/Menton, mi rendo conto della potenza di quello che è stato. Ma non è finita. O meglio, sì, lo è, quella stagione. Ma i frammenti sono ancora vivi. Ossia, tutte le persone che ho incontrato, finora, non hanno fatto un passo indietro. Fogli di via, provvedimenti di pericolosità sociale, denunce e fermi: ogni tipo di misura è stata adottata per rompere l’unità, per mandare in pezzi un’entità che varcava i e talvolta prescindeva dai confini ideologici delle tante soggettività coinvolte. Ma nessuno si è arreso, anzi, la resistenza continua. Adesso, e non solo a Ventimiglia. Anche in tutta la Liguria, con persone che arrivano da ogni parte della Penisola – da Torino a Roma. Ma facciamo, per il momento, un salto agli aggiornamenti, a cosa succede sul confine.

La scorsa settimana ho girato in lungo e in largo Ventimiglia. La stazione, l’infopoint, il parcheggio davanti al cimitero, le Gianchette, e poi, più di una volta sono stato alla frontiera ‘di mezzo’, quella da cui si può vedere, giù in basso, il vecchio confine di stato con l’istallazione di Pistoletto. Per la precisione è giovedì mattina, e sono da poco passate le 12. Salgo dai giardini Hambury, facendomi largo tra le curve con lo sguardo. Giù, in fondo, poco prima del primo blocco italiano, ci sono tre persone con valige alla mano. Stanno telefonando. Ancora una curva, e poi eccomi più vicino. Sono due uomini e una donna. Neri. Come ogni volta, metto in crisi il mio sguardo. Ho visto il nero e letto il luogo d’origine: Nigeria. Cerco di spostare l’attenzione dai loro corpi al mio vedere. È una visualità che, nonostante tutto, va ancora decostruita. È un processo senza fine che setaccia le immagini e i loro significati, che sposta il centro dal sapere all’ascoltare, dal vedere all’essere in contatto. Decentro la mia posizione e creo, continuamente, una narrazione che non afferma, costruendo corpi e luoghi – proprio come facevano i colonialisti e gli esploratori – ma che nasce dalle relazioni con le soggettività. Non è né mia, né dell’altro: è libera e reinventa il significato dei corpi, dei generi, dei colori. Sovverte le categorie e mescola talmente tanto le lingue da fare nascere nuovi lemmi: gemme con radici sul confine come stato-in-essere, ossia come costante, perenne, incessabile condizione di corpi fuori posto. Altrimenti ‘i migranti’ sarebbero ridotti a corpi sbagliati, diversi e inattesi; corpi spaventosi, pericolosi e nemici; corpi da compatire, da cacciare, da evitare; corpi del desiderio, dell’evasione, terreni di sfogo delle ansie bianche: questa è una parte delle genealogia razzista.

Sono curve, poche curve che creano un’onda che si riverbera in me. Rimetto in discussione la mia posizione, il mio privilegio, bianco; lo guido, in questo caso; è nel mio portafoglio, vicino a un paio di banconote da venti euro. Arrivo davanti al confine, e mi lascio alle spalle i tre. Vedo una macchina della polizia e, poco dietro, un pullman di Riviera Trasporti, la compagnia che, in pochi anni, ha risolto i conti in rosso… diventando il vettore principale della deportazione al Sud. Mi fermo dall’altra parte della strada, nello slargo. Faccio alcune foto. C’è molta polizia, e, poco più avanti, un mezzo dell’esercito con tre militari a bordo. Aspetto una decina di minuti. Davanti a me, fuori dagli uffici della polizia di frontiera, c’è movimento. Due digos si parlano animatamente. Uno di questi indica il pullman. Alzo gli occhi e vedo che è pieno. Stanno per partire, destinazione Bari. Sopra ci sono uomini e donne. Intanto, altre persone, bloccate nella notte, vengono indirizzate, da un terzo uomo, verso la scala che porta sul marciapiede. Torneranno a Ventimiglia, a piedi.

Accendo la macchina e faccio inversione. Torno indietro e, dopo qualche curva, mi trovo davanti ai tre che avevo lasciato prima. Chiedo se vogliono un passaggio. Felicissimi, mi dicono di sì. Salgono rapidamente. Joy, questo il nome della donna, mi racconta del suo viaggio per arrivare in Europa. È di Abuja, in Nigeria. “Sono andata via, senza sapere dove…” – si ferma, sospira, poi riprende “dove andare”. “Ma qui – mi spiega – oltre il mare dei bianchi, c’era la fortuna”. Le chiedo che percorso ha fatto e quanto ci ha messo. Fino in Niger in pullman e in auto. Poi, di là, non ci sono regole: ‘non ti puoi fidare di nessuno, solo del denaro’. Riprende il silenzio, e aggiunge ‘il denaro, però, non ti salva, ma non basta: servono le persone’. Mi spiega di come è arrivata in Libia, grazie ad altri amici nigeriani, con numerose telefonate. Gli altri due, ci ascoltano dietro e ogni tanto annuiscono. Joy parla molto bene inglese e mi pare determinata, vuole passare dall’altra parte. Siamo quasi all’infopoint, dove mi hanno chiesto di portarli. Mi chiedono il numero di telefono e poi parlano tra di loro. Ecco il parcheggio, mi fermo. Ci salutiamo e mi incammino verso il bar Hobbit, per salutare Delia.

Attraverso la città che è divisa per linee di colore. Non vi sono limitesfisici, come muri, ma vere e proprie zone che sono destinate ai bianchi o ai neri. Se dovessi usare una metafora, parlerei di una geografia a macchie di leopardo. Ci sono spazi solo per bianchi, spazi solo per neri e zone di contatto. In queste ultime, cerco sempre di fare attenzione a come avviene la mobilità. Tre sono gli elementi che credo primari: i non bianchi non si possono fermare nelle zone ‘condivise’ con i bianchi: possono solo essere di passaggio; le zone bianche sono visibili, le zone dei non bianchi sono celate allo sguardo, cioè eccedono la normalità del vivere la città. Bisogna, in sostanza, prendere sentieri, salire su gradini, invertire lo sguardo, abbassarsi o alzarsi. Se la conoscenza della città è fatta di memorie visuali, i luoghi dei non bianchi sono svelati da prospettive e orizzonti inusuali, che eccedono le forme di mobilità (a piedi, in bici, in auto). Infine, i luoghi dei non bianchi sono spazi liminali costruiti intorno ai rapporti personali e di gruppo, proprio come la città calviniana di Ersilia.

Sono quasi davanti all’Hobbit Bar. Joy mi chiama: “puoi tornare, vorremmo parlarti”. Le chiedo se è tutto apposto. Mi risponde che non ci sono problemi, ma che vuole avere informazioni. Prendo un caffè, al volo e faccio la strada a ritroso. Cinque minuti e sono da loro. Joy mi saluta nuovamente e mi chiede come andare dall’altra parte. Non so risponderle. Vorrei, ma non lo so. Mi dice che deve raggiungere la sorella di suo marito, a Marsiglia. “Potete aspettare e riprovare” aggiungo io. Lei dice che non sa, che forse prenderanno il treno per Milano e proveranno in un altro modo. Li saluto e mi incammino verso la macchina.

Accendo l’auto e rimango fisso a guardare loro che si allontanano. Penso che esistano più tracciati e che ogni percorso è costantemente ridefinito dalle memorie. E cosa sono le memorie se non reti di relazioni, di contatti, di emozioni e di pratiche dell’essere in diaspora. Sospesi in un luogo che è in costante ridefinizione, bisogna essere fluidi e parte di un movimento corale. Non si è solo individui, soggetti; anzi, come mi hanno detto in tanti, in questi mesi, si è, prima di tutto, parte di quello spostamento collettivo. Ragiono e trovo delle simmetrie con le mobilitazioni che sono nate dal 2015. Dobbiamo distruggere un mito: la Fortezza Europa non esiste. Già, non è una Fortezza, inespugnabile. Non è solamente un muro, che si può scalare o abbattere. Non è soltanto un mare, che si può attraversare. L’Europa dei confini è fatta di dispositivi di riconoscimento, di posizionamento e soggettivazione dei corpi, di inclusione differenziale o di espulsione. Per fare saltare questi dispositivi, non basta la forza. Non basta neppure la strategia. È necessario essere movimento, ossia costruire una rete capace di traghettare da un luogo a un altro le persone. Ed è proprio per questo che la repressione ha lavorato nel dividere, sezionare e scomporre l’unità nella differenza. Prima ha puntato sulla linea del colore, separando bianchi e neri. Poi ha segmentato ogni gruppo fino a ridurlo a unità, all’individuo isolato, solo, senza strumenti. Sistema, questo, che è proprio del capitalismo più avanzato e di riproduzione di cicli di sfruttamento. Ma il movimento, quello politico e quello delle persone, non si può arrestare. Ci sarà sempre un modo per passare oltre. È necessario spostare l’attenzione dall’immigrazione alla persona, dalla frontiera al dispositivo di confine. Come? Se questa è un’apologia a violare illegalmente i confini? Sì, lo è, senza dubbio e con forza. Perché i movimenti, di ogni tipo, eccedono la legge e reinventano la lingua, pensando la giustizia sociale con pratiche condivise.

A cura di Gabriele Proglio (CES-Universidade de Coimbra)

#FREETHEMORIA35 – Aggiornamento da Lesbo

La foto di copertina rappresenta l’esterno dell’hotspot di Moria nell’isola di Lesbo, vero e proprio centro di detenzione per migranti. (FONTE: REUTERS/Alkis Konstantinid)
Riceviamo e pubblichiamo questa seconda testimonianza da parte di un solidale che da diversi mesi si trova come operatore legale in servizio volontario presso l’hotspot di Lesbo.
Il testo analizza con accuratezza la vicenda giudiziaria dei trentacinque rifugiati processati in seguito alla protesta messa in atto il 18 luglio 2017 nel campo di Moria (hotspot dell’isola di Lesbo) contro le condizioni di vita lesive dei diritti fondamentali a cui sono sottoposti i suoi abitanti.
Un iter giudiziario emblematico della costruzione della nuova condizione coloniale dentro la stessa Europa.
Come hanno messo in evidenza alcuni teorici del postcolonialismo analizzando in particolare il caso dell’India [1] la colonizzazione è un fenomeno in cui la violenza  e la sopraffazione bruta vanno sempre di pari passo con la costruzione di nuovi ordinamenti giuridici. Dallo stato di eccezione – contraddistinto dalla violenza come sospensione di ogni norma – alla ricostruzione di un ordinamento giuridico frutto e giustificazione di quella violenza e di quei rapporti di forza. Il colonialismo classico vide la prospettiva del “legislatore”  affiancata molto presto a quella del “conquistatore”, nella conoscenza così come nella governamentalità.
Tuttavia se nel colonialismo classico la produzione di una normalità coloniale, cioè di una legislazione in grado di riempire il vuoto creato dall’eccezionalità della violenza, è stata strettamente legata al rapporto di implicazione che sin dall’inizio aveva stretto la metropoli (quindi il cittadino occidentale) con le colonie (ossia con i sudditi coloniali) in quanto legati dall’appartenenza “ alla medesima storia collettiva”  c’è da chiedersi quanto il nostro mostruoso presente, di cui questa testimonianza racconta aspetti salienti, sia leggibile attraverso lo stesso nesso.
In un’Europa sempre più chiaramente postcoloniale riemerge la distinzione tra cittadino e suddito coloniale, cioè colui che non gode dello stato di diritto:  una distinzione  creata evidentemente in base ad un criterio razziale. Ma la razza diventa un dispositivo in grado di catturare figure molteplici, destinate con gradi diversi ad appartenere alla schiera dei nuovi colonizzati ai quali, con gradi diversi, vengono negati i diritti civili, sociali e politici. Ancora una volta il governo della migrazione appare come il laboratorio su cui viene sperimentata una nuova governamentalità coloniale. Da questo punto di vista non è affatto inutile ricordare il contenuto del decreto Minniti – Orlando, varato ormai un anno fa, nel quale le tre figure chiave individuate come nuovi sudditi coloniali erano i migranti, i poveri e “gli antagonisti”.
Molte altre riflessioni vengono in mente leggendo questa testimonianza, come per esempio il ruolo giocato dal limbo temporale (una vera e propria tortura psicologica)  a cui vengono costretti i migranti  nella governamentalità della migrazione. Anni persi ad aspettare la risposta dell’ottenimento di uno status grazie a cui essere riconosciuti come soggetti di diritto,  per essere, ad un certo punto, riportati forzatamente al punto di partenza. Il gioco dell’oca a cui sono sottoposti i migranti, deportati da Ventimiglia a Taranto con i bus della Riviera Trasporti, è una delle tante forme che assume questo confine temporale. Un confinamento temporale che , seppure con un’intensità diversa,viene sperimentato anche sui subalterni autoctoni attraverso la precarietà lavorativa e le forme di vita ad essa connessa.
La nuova dimensione coloniale che osserviamo costituirsi nei nostri mondi con il suo carico di violenza e di terrore ha motivo di essere chiamata “post-coloniale” se si è in grado di riconoscere in quel prefisso “post” non solo la sconfitta dei movimenti anticoloniali novecenteschi ma anche la traccia indelebile che essi hanno impresso nella nostra storia, rendendo il mondo davvero globale. La contraddizione oggi è portata al cuore stesso dell’Europa: ogni dispositivo violento di dominio, controllo e segregazione,  in realtà è una risposta alle lotte e alle pratiche di liberazione che partono da una presa di coscienza dell’eguaglianza da parte dei migranti che sfidano l’ipocrisia dell’universalismo occidentale mettendo a nudo il carico di violenza ad esso soggiacente. La migrazione può essere così scoperta non solo come laboratorio di teniche di dominio ma anche come fenomeno i cui soggetti spesso incarnano le vere avanguardie nella lotta contro la brutalità dello status quo.

g.b.

#FREETHEMORIA35

I 35 imputati del processo contro i Moria35 sono stati tutti rimessi in libertà, tuttavia con la sentenza è stato commesso, a parere di chi scrive, un grave errore giudiziario da parte del Tribunale a giuria mista di Chios, in Grecia, dove 32 dei 35 imputati sono stati dichiarati colpevoli di lesioni contro pubblico ufficiale.

Ricordiamo che i 35 imputati erano stati arrestati arbitrariamente e con metodi violenti nel campo di Moria a Lesvos il 18 luglio 2017 in seguito a quella che era partita come una protesta pacifica al di fuori dell’ufficio dell’EASO (l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo).

Il verdetto intrinsecamente pericoloso, raggiunto nonostante la totale mancanza di prove a sostegno delle accuse, arriva dopo un processo durato una settimana che ha continuamente violato i principi fondamentali del giusto processo, garantiti dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e mette seriamente in discussione l’imparzialità, sia dei giudici, sia del procuratore designato per il caso.

32 dei 35 imputati sono stati giudicati colpevoli di lesioni a pubblico ufficiale, ma assolti da tutte le altre accuse. I tre imputati, arrestati invece da un vigile del fuoco fuori dal campo Moria, sono stati ritenuti innocenti da tutte le accuse. La testimonianza contro di loro è stata screditata, ritenuta inconsistente, nonché priva di credibilità in quanto il vigile del fuoco, nel corso di una delle udienze, ha erroneamente identificato persone diverse dalle tre da lui arrestate. Nonostante ciò, nessuno dei testimoni dell’accusa è stato iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico, false dichiarazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza.

Mentre le prove contro i rimanenti 32 imputati erano ugualmente inconsistenti, i tre giudici e i quattro giurati li hanno ritenuti all’unanimità colpevoli. Inoltre, la sentenza è stata raggiunta senza che il pubblico ministero dimostrasse che vi fossero gli elementi necessari per ritenere responsabili dei crimini gli imputati: vi era infatti solo prova di lesioni superficiali ad un agente di polizia, e non c’era alcuna prova credibile che identificasse nessuno dei 32 come aggressore di un agente di polizia.

I testimoni di polizia hanno infatti confermato che tutti e 32 gli imputati arrestati all’interno del campo di Moria erano colpevoli semplicemente perché presenti nella sezione africana del campo dopo che erano cessati gli scontri tra alcuni migranti e la polizia in assetto antisommossa. La conferma da parte della Corte che la colpevolezza può essere ritenuta esistente solo in base alla razza e alla evenutale presenza nei pressi del luogo dove si sono verificati i presunti crimini costituisce un precedente estremamente pericoloso per gli arresti che potrebbero derivare da future rivolte e/o proteste.

I testimoni della difesa inclusi diversi residenti di Mitilene e del Moria Camp hanno confermato che il campo di Moria non è mai stato evacuato, che la gente è entrata ed è uscita dal campo per tutto il pomeriggio attraverso le entrate posteriori e che nel campo la situazione era sotto controllo circa un’ora prima degli arresti.

Molti imputati hanno confermato la loro partecipazione alla protesta che chiedeva la libertà di circolazione da Lesvos alla Grecia continentale, la fine delle ingiuste procedure di asilo sull’isola e che denunciava le terrificanti condizioni in cui i richiedenti asilo sono costretti a vivere nel campo Moria.

Hanno spiegato, inoltre, che la polizia ha risposto violentemente alla protesta, disperdendo i manifestanti tramite un uso eccessivo di gas lacrimogeno. Altri hanno testimoniato di essere entrati nel campo di Moria dopo che la situazione era tornata alla calma, per poi ritrovarsi arrestati con metodi violenti durante il raid della polizia.

L’eccessiva violenza della polizia è stata confermata nel processo attraverso la documentazione medica delle lesioni subite dagli imputati, le prove video degli arresti e la testimonianza di diversi testimoni e imputati. Il pubblico ministero di Mitilene ha già aperto un’indagine contro agenti di polizia, non idenfiticati (al momento) per aver causato gravi danni fisici a 12 dei 35 imputati.

Il processo a Chios è stato caratterizzato da numerosi e gravi problemi procedurali, tra cui l’assenza di interpreti per la maggior parte del processo e per il tempo molto ristretto concesso a testimoni della difesa ed imputati di fornire la loro testimonianza e/o dichiarazione spontanea.

Una delegazione internazionale di osservatori legali è stata presente durante tutto il processo e pubblicherà un rapporto in merito all’equità del processo a tempo debito.

Sfida ogni logica il fatto che 32 su 35 imputati, nonostante le sconvolgenti riprese video[2]degli attacchi della polizia contro contro gli stessi, nonostante il fatto che i testimoni della polizia non siano stati in grado di identificare nessuno dei 35 in tribunale, siano stati riconosciuti colpevoli.

Questa sentenza arriva solo quattro giorni dopo gli arresti del 23 aprile 2018 e le accuse penali contro 122 persone – per lo più afghane – che avevano protestato pacificamente a Mitilene e che si sono viste brutalmente attaccate da un commando di fascisti prima di essere arrestate dalla polizia. Siamo estremamente preoccupati rispetto alla possibilità che la decisione della Corte di Chios possa incoraggiare ulteriormente lo Stato a continuare a criminalizzare tutte le persone che resistono alle politiche ostili del Governo.

La sentenza è stata impugnata dai 32, condannati a 26 mesi di reclusione con pena sospesa, dopo 9 mesi di ingiusta prigionia. Una pena, peraltro irragionevole poiché aumentata di 19 mesi rispetto ai 7 mesi proposti dal pubblico ministero in sede di rogatoria finale.

Ad ogni modo, i 32 condannati, avendo ottenuto la sospensione condizionale della pena, dopo nove mesi di ingiusta detenzione, sono stati finalmente liberati. Alcuni di loro, tuttavia, avendo ricevuto due decisioni negative rispetto alla loro richiesta di asilo politico in Grecia, rischiano, inverosimilmente, la deportazione in Turchia, in forza dell’accordo EU/TURCHIA.

Nello specifico, sette dei #Moria35 si trovano al momento iscritti nella lista delle persone per le quali è prevista la deportazione in Turchia e conseguentemente si trovano nel concreto pericolo di rimpatrio forzoso nel Paese di origine da dove erano fuggiti negli anni passati.

Con un processo ricco di violazioni procedurali, infatti, le loro domande di asilo sono state respinte. Quindi, dopo aver dovuto subire oltre un anno di trattamenti disumanizzanti nel campo di Moria, dopo essere stati vittime del barbaro attacco posto in essere dalla polizia – attacco seguito da nove mesi di ingiusta detenzione – ora 7 dei #Moria35 rischiano di essere spediti in una prigione turca, per poi essere probabilmente espulsi nei paesi di origine da cui erano fuggiti.

Peraltro, tutti potrebbero beneficiare della protezione umanitaria in Grecia come vittime o testimoni di gravi crimini. Inoltre, tre di loro hanno presentato diverse denunce contro la polizia per l’attacco, le violenze e l’arresto arbitrario subito, e al momento un’indagine risulta essere stata avviata dal pubblico ministero di Mytilene (Lesvos) contro la polizia, indagine per la quale tutti e sette sono testimoni importanti.

La loro evenutale deportazione non solo violerà i loro diritti ad un giusto processo, ma assicurerà l’impunità della polizia nelle proprie politiche di repressione violenta negli hotspot greci.

Seguiranno aggiornamenti.

Alfredo Curto – operatore legale volontario presso l’hotspot di Lesbo

[1] Guha R., Dominance without Egemony. History and Power in Colonial India, Harward University Press, 1997; per approfondire, Mezzadra, Rigo, Diritti d’Europa. Una prospettiva postcoloniale sul diritto coloniale in A. Mezzacane (a cura di), Oltremare. Diritto e istituzioni dal colonialismo all’età postcoloniale, Editoriale scientifica. 2006, Napoli.

[2] https://www.facebook.com/705411139643622/videos/870158543168880/

Cronaca di una morte annunciata

Un articolo di El Pais diffonde il comunicato della rete Interlavapiés sulla morte del cittadino senegalese Mame Mbaye Ndiay

 

Mame Mbaye Ndiay, cittadino senegalese trentacinquenne che esercitava la professione di venditore ambulante, è morto il 15 Marzo 2018 a Madrid, in Calle del Oso, nel quartiere Lavapiès, per un arresto cardiaco verificatosi nel corso di un intervento della polizia municipale.

 

Il fatto ha determinato l’indignazione e la ribellione della comunità senegalese e in generale degli abitanti del quartiere.

Durante la serata del giovedì stesso e la mattina del giorno dopo, si sono verificati forti agitazioni.

Durante i disordini, ai quali la polizia ha risposto violentemente [1], un altro cittadino senegalese di Lavapiés, Ousseynou Mbaye, di 54 anni, è morto a seguito di un ictus cerebrale [2] e Arona Diakhate, di 38 anni, è stato ricoverato per trauma cranioencefalico all’ospedale Fundación Jiménez Díaz di Madrid. Il referto medico mostra che è stato trattato con quindici punti sulla testa e presenta due lividi. Trauma cranioencefalico, con ematomi interni, ma senza rischio di danno neuronale. Diakhate ha una ferita alla testa a seguito di trauma inferto con “un oggetto duro e sconosciuto” [3].

 

Una morte molto simile si è verificata, a Maggio 2017, a Roma. Niam Maguette, un cinquantaquattrenne senegalese, è deceduto nel corso di una operazione di polizia definita “anti-abusivismo”.

Secondo gli agenti, la morte si sarebbe verificata a seguito di un malore, mentre la comunità senegalese ha dato vita a intense manifestazioni di protesta, affermando che fosse stato ucciso e chiedendo l’interruzione delle ripetute operazioni di rastrellamento operate dalla polizia locale di Roma. [4, 5].

A seguito di questi eventi, ritenendo che l’unica certezza sia che a livello europeo si assiste ad un inasprimento della repressione verso donne e uomini già posti in condizioni di sfruttamento dalla mancanza di riconoscimento giuridico, pubblichiamo un articolo che riporta il comunicato della rete interlavapiés, che si definisce “una rete in movimento per la libera circolazione delle persone, perché nessun essere umano è illegale” [6].

Cronaca di una morte annunciata

DAVID FLORES E TERESA ÁLVAREZ-GARCILLÁN (RETE INTERLAVAPIÉS)

La morte di Mame Mbayee non è un fatto casuale, ma la conseguenza del razzismo radicato in alcuni settori della società e delle istituzioni a Madrid.

Ieri pomeriggio Mame Mbayee è morto a causa di un arresto cardiaco. Questo abitante di Madrid stava esercitando la vendita ambulante poco prima a Puerta del Sol.

Ci sono molte versioni degli eventi accaduti prima e dopo la sua morte. La confusione e i disordini ci fanno perdere la concentrazione: chi ha ucciso Mame? Cosa ha ucciso Mame? Nella differenza di queste due domande giace la chiave: Mame è morto per un attacco di cuore ma, nel motivo della sua tragica fine, c’è un lungo filo da seguire che trascende e attraversa tutta la nostra società, con le sue politiche, le sue leggi e le sue istituzioni.

Non possiamo solo pensare che quello che è successo ieri sia stato un incidente. Non è stato un evento isolato. C’è un serio problema strutturale che ha causato la morte di una persona. Mame, senegalese di 35 anni, non aveva documenti nonostante fosse da 12 anni in Spagna. Ha lavorato come ambulante perché non poteva lasciare una cerchia di esclusione. Ad una estremità del cerchio, la premessa che senza un contratto di lavoro non ti danno i documenti; nell’altro, che senza documenti, non puoi avere alcun lavoro. Nel frattempo, l’ultima riforma del codice penale, che ha trasformato le precedenti mancanze in crimini e, con essa, il venditore ambulante in un criminale. Avendo dei precedenti, nessuna offerta di lavoro ti aiuterà a regolarizzare la tua situazione.

Le persone che lavorano in strada e le persone prive di documenti sono spaventate da queste strutture in cui la tensione e la minaccia sono elementi costanti, al livello della strada e al livello della Legge. La persecuzione, i raid, i CIE, il Codice Penale e la mancanza di opportunità sono mattoni di alte mura, forse invisibili a molti, ma molto reali per gli altri. Ripetiamo: ieri non è stato un evento isolato, ma un riflesso di un problema strutturale, in ambito giuridico e politico. Una questione di razzismo e discriminazione.

Gridiamo nelle strade “Sopravvivere non è un crimine!”, Ma con le leggi attuali lo è. Molti come Mame sono venuti qui attraverso mare e deserto con la morte alle calcagna, per poter vivere con dignità e sostenere le loro famiglie. Le regole del gioco sono quelle che sono e, dato che non hanno documenti o lavoro, comprano un sacco di scarpe – o occhiali, profumi o borse – in qualsiasi magazzino all’ingrosso e poi lo rivendono in strada. E questo è considerato un crimine, ma non hanno scelta.

Molti come Mame corrono davanti ai distintivi. E guardano con sguardi sfrenati le orde di persone della Puerta del Sol, sempre all’erta, giorno dopo giorno. Vivono con il cuore in un pugno, finché non scoppia.

La tensione per il timore di essere denunciati non è poca, ma hanno più paura della violenza quotidiana. I gruppi di Lavapiés sono in contatto con il Comune per denunciare la brutalità della polizia. In questi casi è difficile condurre un processo ordinario di denuncia: si tratta di accusare, senza documenti o con il timore di non rinnovarli, niente di più e niente di meno della polizia. E il giorno dopo tornare in strada per vendere, con quegli agenti che cercano di fermarti. In breve, le aggressioni terrorizzano, c’è la paura. La paura serve a rendere la violenza invisibile, confinata nella sfera quasi privata.

Nel centro di Madrid, da agosto 2016, i collettivi hanno documentato in un formato concordato con l’amministrazione cittadina per circa 20 aggressioni fisiche con fratture e contusioni di diversa gravità. Nel luglio del 2017, ad esempio, hanno spinto un ragazzo buttato in un furgone riportando lesioni a diverse vertebre. Al di fuori di questo registro formale, che accetta solo casi con indicazioni fisiche di violenza visibile, vi sono costanti abusi verbali e intimidazioni di ogni tipo.

Lo scopo di questo lavoro sistematico è aprire un percorso sicuro contro l’impunità ma le istituzioni, ribadiscono le loro buone intenzioni senza concretizzarle in mezzi per porre fine al problema. Invece, ci rimandano al Difensore Civico, che è già a conoscenza della violenza e suggerisce lo sviluppo di un programma di identificazione efficace, per garantire azioni non discriminatorie.

Tuttavia, il problema non è limitato a queste azioni. Esiste una dimensione giuridica, legata al codice penale e alla legge sull’immigrazione. I collettivi lavorano su una Proposta di legge per modificare l’articolo 270.4, che classifica la vendita nelle strade come reato. Questa proposta è stata approvata dalla Commissione per la giustizia del Congresso con il sostegno di Unidos Podemos, PSOE, PdeCat, ERC e PNV nel marzo dello scorso anno. Stiamo attualmente prendendo provvedimenti per rendere effettive le modifiche nella legislazione.

No, la persecuzione da parte di due poliziotti in moto non ha ucciso Mame, ma forse il silenzio istituzionale lo ha ucciso. O non è stato il silenzio istituzionale che ha ucciso Mame ma le leggi che lo hanno ucciso. O forse né la polizia né le leggi lo hanno ucciso, ma il razzismo ha ucciso Mame. Sì, Mame è morto. Le circostanze di questa morte sono state tragiche. Le circostanze della sua vita non lo erano meno. Ed è nella vita e nella dignità di tutti i residenti della città ciò su cui vogliamo concentrarci. Ora non solo è necessario svolgere un’indagine per chiarire i fatti, ma il Municipio deve assumersi la responsabilità politica per quanto è successo. L’ambivalenza non è possibile.

Quello che è successo ieri non è una fatalità, è una conseguenza di un problema che esiste in città. Un problema di razzismo strutturale, mancanza di responsabilità e abbandono di una popolazione vulnerabile [6]

1)http://www.publico.es/sociedad/protestas-lavapies-muerte-mantero-perseguido.html

2)http://www.eldiario.es/desalambre/senegales-ictus-muerte-lavapies_0_751025056.html

3)http://www.eldiario.es/desalambre/servicios-emergencia-desplomo-porrazo-Policia_0_750675282.html

4)http://elpais.com/elpais/2018/03/16/3500_millones/1521210124_575744.html

5)http://www.publico.es/sociedad/protestas-lavapies-muerte-mantero-perseguido.html

6)http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/03/roma-ambulante-fugge-durante-i-controlli-e-muore-dopo-caduta-investito-dai-vigili-no-e-stato-un-malore/3560326/

 

Traduzione di Lia Trombetta

 

Emergenza freddo o ulteriore passo avanti verso il nuovo nazismo?

Dopo l’emergenza-piogge, è arrivata l’emergenza-freddo a Ventimiglia.

Si sa, sono anni ormai che  paradossalmente si va avanti di emergenza in emergenza.

Eppure qualcuno potrebbe notare che un’ondata di gelo eccezionale, il Burian Siberiano in questo caso, è sì un evento insolito ma per chi ha una casa riscaldata, vestiti caldi e impermeabili è qualcosa di gestibile, qualcosa che può diventare finanche piacevole: improvvisamente la neve arriva fino al mare, il paesaggio si fa candido e i bambini, ma non solo, si divertono a tirare qualche palla di neve.

L’emergenza allora ancora una volta è stata un’emergenza selettiva: ha riguardato principalmente le centinaia di persone accampate all’aperto sotto il ponte di Via Tenda o nei tendoni del Campo della Croce Rossa a Ventimiglia… insieme alle altre migliaia di persone accampate all’aperto nel resto della Penisola.

La netta maggioranza di questi bambini, di queste donne e di questi uomini sono immigrati, non italiani.

Durante i giorni di gelo sono uscite alcune testimonianze, articoli e reportage sulla situazione di emergenza vissuta a Ventimiglia dalle persone migranti.

Ne riportiamo qualche passaggio significativo:


27/02/2018 Dalla pagina FB del Progetto 20k [1]

 Da ormai quasi tre giorni la situazione a Ventimiglia è parecchio critica per i più di 150 migranti senzatetto che si trovano sotto il ponte stradale.
Abbiamo chiesto ufficialmente al comune di attivarsi per sopperire alla mancanza di uno spazio dove queste persone possano ripararsi dal freddo e dal gelo, almeno finché non finirà l’emergenza maltempo. Fra queste persone sono presenti molti soggetti vulnerabili, soprattutto infanti, minori e persone con vari problemi di salute. Dopo aver diffuso la notizia su svariate testate giornalistiche abbiamo ricevuto sostegno da molti solidali di Imperia e dalla regione, ma anche dai vicini transfrontalieri: purtroppo non abbiamo avuto nessuna risposta dal Comune di Ventimiglia.

Con gli attori locali stiamo cercando di gestire questa situazione vergognosa: i solidali e gli attivisti, anche transfrontalieri, stanno cercando di sopperire autonomamente a queste carenze, distribuendo cibo, bevande calde, legna per i fuochi, vestiti e coperte. Le ONG locali si stanno muovendo per convincere le donne con o senza bambini e minori ad andare al campo CRI o per aiutarci ad assicurare la distribuzione di cibo serale che, a causa del maltempo, si è dovuta interrompere. Anche la Croce Rossa di Monaco si è attivata con alcune navette per trasportare i migranti al campo, che è distante e la strada per raggiungerlo pericolosa, ma queste funzionano solo per parte della giornata, in maniera poco costante.

La sospensione delle identificazioni al campo CRI è stata disposta solo per donne e minori, ma non per gli uomini. Questo fatto genera quindi diffidenza perché lasciare le impronte digitali significa essere esposti maggiormente al rischio di deportazioni, rimpatri o di un ennesimo trasferimento in un centro chissà dove in Italia, così in molti preferiscono rifugiarsi in altri posti e/o piuttosto restare al freddo.
La chiesa delle Gianchette è rimasta aperta per qualche ore e il parroco ci ha concesso uno spazio da utilizzare come magazzino temporaneo per le coperte che tanti solidali ci stanno inviando. Abbiamo ancora bisogno di trovare altri spazi per la legna che raccogliamo, dato che è l’unica fonte di riscaldamento per le persone sotto il ponte. Ci auspichiamo che la solidarietà tra le varie realtà locali possa portare a gestire con più facilità questa situazione di assoluto disagio, perché purtroppo il peggio non è ancora arrivato: nei prossimi giorni è prevista neve, pioggia e un calo drastico delle temperature.

Ieri sera la sala d’attesa della stazione avrebbe dovuto essere aperta, ma in realtà è rimasta chiusa. In tanti durante il giorno si riparano lì dal gelo e dalla neve che continua a cadere fitta, ma stamattina ci è giunta notizia della presenza sia di camionette con agenti in borghese che caricavano i migranti sulle camionette sia di pullman che, come di prassi, li deportavano forzatamente verso il sud Italia.

Riteniamo vergognoso e inaccettabile l’accanimento di queste ore nei confronti dei soggetti più vulnerabili presenti sul territorio ventimigliese. L’alta probabilità di essere intercettati dalla polizia potrebbe avere, infatti, l’effetto di incentivare i migranti a restare per strada o sotto il ponte, a costo di rimetterci la pelle. È in situazioni come questa che le istituzioni dovrebbero attivarsi per proteggere la vita di queste persone, piuttosto che dileguarsi senza risposte e facilitare l’azione poliziesca di repressione nei confronti dei transitanti.

 


28/02/2018 Da Repubblica, reportage di Pietro Barabino e Giulia De Stefanis:[2]

Ventimiglia, anche un bimbo di 3 mesi fra i migranti bloccati nel gelo. Ma il centro di accoglienza non si fa

A Ventimiglia non nevicava dal 1985 e molte delle persone – in tutto alcune centinaia – che stazionano al confine con la Francia in attesa del “grande salto” oltre la frontiera, non avevano mai visto un fiocco di neve. Tra i migranti, che stanno trascorrendo queste notti all’aperto a -7 gradi, anche tantissimi ragazzini e giovani mamme con i loro bambini di pochi mesi. Attualmente il Campo della Croce Rossa ospita trecento persone, duecento quelli che preferiscono restare fuori. La legge sui minori non accompagnati obbligherebbe ad aprire un centro dedicato ai più piccoli e alle donne, ma l’apertura – pianificata mesi fa dalla Prefettura – è stata bloccata dalla protesta di alcuni cittadini capeggiati dal sindaco della città di frontiera, che dopo aver insistito per la chiusura del campo gestito dalla Caritas, ha ostacolato in ogni modo l’apertura del centro per i minori non accompagnati.


 

Donne e uomini solidali si sono subito mobilitati per fornire aiuti e generi di conforto, per cercare di alleviare pericolo e sofferenza delle persone lasciate al gelo.

Invece nessun ente istituzionale, né Comune, né Prefettura, né Protezione civile ha preso iniziative per affrontare la situazione.

Il messaggio da parte delle istituzioni è stato molto, fin troppo, chiaro: non c’è nessuna emergenza umanitaria in atto perché quegli esseri che vivono sotto al ponte o non sono umani, oppure smettono di esserlo in quanto clandestini.

Come ha reagito la popolazione di Ventimiglia? A parte il gruppo dei solidali che attraversano il territorio – italiani, francesi, europei – la popolazione autoctona si è mossa di fronte a questa situazione così evidentemente penosa per le persone costrette a subirla?

La cittadinanza del territorio ha mostrato sdegno, disaccordo, disapprovazione nei confronti dell’abbandono riservato alle persone migranti, lasciate  all’aperto con il ghiaccio, la neve e temperature molto al di sotto dello zero, o ha taciuto, di fatto assentendo al comportamento delle istituzioni?

Lo chiediamo ad una solidale che è stata costantemente presente e attiva durante la settimana di gelo e ha vissuto in presa diretta la drammatica situazione sotto il ponte di Via Tenda, tra le persone accampate:

 

“Guarda, la situazione a Ventimiglia è molto complessa e il clima, giorno dopo giorno, si fa sempre più teso e pesante… Sarebbe troppo semplice rispondere che la stragrande maggioranza della cittadinanza di Ventimiglia vuole lo sgombero dei migranti da sotto il fiume, che non ha voluto l’apertura del centro per minori, che è favorevole alle deportazioni verso Taranto, insomma che è razzista e xenofoba, quindi d’accordo con il comportamento delle istituzioni. Questa gente esiste e non è certo una minoranza, anzi…

Però attenzione non ci sono solo loro. In realtà tantissima gente in questa settimana di gelo ha aiutato come ha potuto, soprattutto offrendo sostegno materiale. Sono arrivate tantissime donazioni di beni di prima necessità a Eufemia, tanto che è stato chiesto al parroco di mettere a disposizione il magazzino della chiesa delle Gianchette perché la roba non entrava più nello spazio di Eufemia. Per dirti, ancora, quando gli attivisti del collettivo Kesha Niya, che di solito forniscono i pasti sotto al ponte, sono rimasti bloccati nella neve, a quel punto a cucinare è stata sempre la Caritas… Ma lo sai chi ci sta in Caritas? Tantissimi volontari che prima, quando era aperta la chiesa delle Gianchette, stavano lì a organizzare l’accoglienza dal basso per i migranti. Questo per dirti che una parte di cittadinanza si è mossa, ma certamente lo ha fatto sotto traccia. In maniera assolutamente non pubblica.

Se vuoi sapere perché, io credo che il motivo sia principalmente il clima di repressione e intimidazione che si vive a Ventimiglia. La chiusura della Chiesa delle Gianchette, avvenuta per ordinanza del Comune, ha segnato un punto di non ritorno: ogni sostegno pubblico ai migranti, anche quello di tipo umanitario e non conflittuale, è stato sempre più ostacolato. Si dà appositamente massima rilevanza ad ogni rigurgito razzista e si ostacola in maniera palese o “silenziosa” qualsiasi iniziativa di solidarietà. La polizia ha intensificato i suoi atteggiamenti intimidatori, il Comune le misure repressive, i media i toni di scontro da civiltà e questo ha permesso alla cittadinanza razzista di alzare la testa e sentirsi legittimata a comportamenti orrendi. Capita spesso che i solidali girino per Ventimiglia sentendosi insultare, soprattutto le donne peraltro, con frasi tipo: “Ecco la puttana che va con i negri” “Ecco gli amici dei negri..” ecc. ecc. Lo riporto per farti capire come mai la cittadinanza solidale e antirazzista agisca sotto traccia, in maniera diciamo “invisibile” allo sguardo pubblico.

Questo ovviamente ha anche delle ripercussioni sul rapporto con le persone migranti. Vedendo questa situazione, che loro ovviamente vivendo sulla loro pelle percepiscono, hanno sempre meno fiducia nei solidali. Non si tratta della fiducia umana a mancare, ovviamente sentono la nostra amicizia e vicinanza, ma si rendono anche perfettamente conto della nostra debolezza e questo li porta ad affidarsi a chi riconoscono come dotato di strumenti più efficaci… Inoltre tutto questo clima sta accelerando il processo di ghettizzazione lungo il fiume: ti isolano, ti marchiano da reietto, ti lasciano senza nulla, nelle condizioni più disumane… beh gli effetti sociali che tutto questo può produrre, credo che non serva un professore di sociologia a spiegarli… Sembra veramente che qui in Via Tenda, tra il sotto ponte e il quartiere popolare, in atto ci sia una strategia della tensione. Ecco, direi che questa situazione fa capire quanta poca democrazia sia rimasta in questo posto ma forse non solo qui, se è vero che questo posto è uno dei laboratori dove si sperimentano pratiche che poi vediamo riprodursi velocemente in molti altri territori di questo Paese. Probabilmente tutto questo deve farci riflettere profondamente sui modi e sugli strumenti possibili per un agire politico e sulla posta in gioco in questo momento…”

Emergenza freddo – Migranti fuori dalla Chiesa delle Gianchette

Torniamo alla domanda iniziale: si è trattato dell’ennesima emergenza, oppure di un ulteriore passo nella costruzione di una politica nei confronti delle persone migranti, dei poveri, degli esclusi, che si può  definire come tanatopolitica (politica di morte)?

Michel Foucault ha coniato la categoria di “biopolitica” per indicare le pratiche e i dispositivi con cui il potere opera sulla vita della popolazione ai fini di far vivere chi è produttivo, lasciar morire chi invece non lo è, né può diventarlo. L’espressione “tanatopolitica” indica l’emergere di dispositivi diretti al far morire una parte di popolazione. Precisamente la parte delle “masse senza volto” che risulta in eccedenza. Sempre seguendo la traccia del pensiero foucaultiano, occorre chiedersi a quale scopo e per produrre cosa, oggi, il potere statuale operi in questo modo.

Con lo sguardo al sotto ponte di via Tenda a Ventimiglia, osservando le dinamiche in atto è possibile affermare che l’intenzione istituzionale sia  quella di produrre un’esclusione/ghettizzazione radicale di una parte di popolazione, della quale lo stato non si interessa in nessun modo e sulla quale mette in opera una sorta di selezione.

I più forti resisteranno, i più deboli saranno eliminati. Chi resisterà avrà sempre la chance di poter uscire dal ghetto /  passare il confine – dall’esclusione ad un’inclusione selettiva –  molto spesso (ma non sempre né necessariamente) trasformato, grazie anche ai dispositivi burocratici e alle procedure disumanizzanti per i permessi di soggiorno, in un corpo docile, totalmente disponibile allo sfruttamento.

La morsa di gelo che ha serrato l’Italia nell’ultima settimana del febbraio di quest’anno richiama cupamente alla mente la morsa che  attanaglia la maggioranza delle coscienze dei cittadini “legittimi” di un Paese sempre più vicino alla barbarie.

Un gelo difficile da sopportare, soprattutto per chi viene e per chi ama i climi caldi e meridionali.

Sotto la neve e gli strati di ghiaccio, tuttavia, la vita trova il modo di serbare le sue energie per riespodere, senza bussare, in primavera.

Anche le energie di chi ama la vita e la libertà, se ritrovate e alimentate, sanno diventare molto più potenti di qualsiasi prigione di ghiaccio.

 

a cura di g.b.

[1] https://www.facebook.com/progetto20k/posts/584120855281166

[2 ]Invitiamo a guardare il video reportage realizzato dai due giornalisti che potete trovare al seguente link  https://video.repubblica.it/edizione/genova/ventimiglia-anche-un-bimbo-di-3-mesi-fra-i-migranti-bloccati-nel-gelo-ma-il-centro-di-accoglienza-non-si-fa/298430/299055   

 

 

Ioculano, Rosella e il processo: una storia di repressione e solidarietà

Rosella Dominici è una volontaria e attivista imperiese, impegnata in azioni di solidarietà coi migranti che rimangono intrappolati a Ventimiglia, da quando, nel 2015,  la Francia sospese gli accordi di Schengen e chiuse la frontiera con l’Italia.

Il prossimo Venerdì 9 Febbraio 2018, al Tribunale di Imperia, Rosella sarà processata per diffamazione aggravata: una denuncia che arriva dal Sindaco della cittadina di frontiera, Enrico Ioculano, al quale la solidale diede del “bastardo” in un post su Facebook. L’episodio risale al 30 Settembre 2015, a poche ore dalla conclusione di sgombero del presidio nella pineta dei Balzi Rossi, iniziato pochi mesi prima dai migranti in protesta contro il blocco di confine.

Alla sera, Rosella aprì un post su Facebook e scrisse di getto, con rabbia e amarezza, contro chi aveva messo la propria firma sugli eventi di quella giornata.

Il processo per diffamazione si è aperto il primo dicembre 2017, presieduto dalla giudice Daniela Gamba, con la testimonianza della diretta interessata, difesa dagli Avv. Gianluca Vitale del Foro di Torino e  Avv. Francesco Fazio del Foro di Savona. Poichè il sindaco Ioculano era quel giorno impegnato a Roma, una seconda data del processo è stata quindi fissata per il 9 Febbraio 2018, per ascoltare le parole dell’accusa.

Abbiamo incontrato Rosella, chiedendole di raccontarci la genesi e la storia di questo processo: si è finiti per parlare dell’oggi, con un occhio al passato e uno al presente della cittadina frontaliera. Un occhio sensibile e attento alle ingiustizie e alla grave situazione in cui versano le persone in viaggio. Uno sguardo lucido e vigile e che non può fare a meno di notare come, nello scorrere dei mesi, le cose siano solo peggiorate. Per tutti.

Rosella, ci puoi raccontare a grandi linee che cosa accadde il 30 settembre del 2015: quali fatti e quali emozioni ti portarono a scrivere che il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano fosse stato un “bastardo”?

Certamente: iniziamo dal post e dal perchè scrissi quell’affermazione contro il sindaco.

Era la sera del 30 settembre 2015, dopo un’intera giornata di sgombero dei Balzi Rossi, e su quel post, a parte la scritta, misi la foto della ruspa che aveva distrutto e buttato nei bidoni centinaia di tende, medicinali, un magazzino di cibo, vestiti, documenti dei ragazzi.

Per tutto il giorno i blindati e centinaia di poliziotti hanno circondato i ragazzi sugli scogli, trattandoli come criminali e impedendo a chiunque, cittadini, associazioni, di portargli acqua e cibo.

Questo è stato il senso del post, il contesto: la rabbia e la frustrazione per ciò a cui avevamo dovuto assistere.

Dopodichè bisogna per forza parlare dei Balzi Rossi, per capire: spiegare come è nato quel campo e che cosa ha significato per centinaia di persone. Il presidio sugli scogli di fronte al confine era iniziato a metà giugno: i migranti che erano arrivati lì x passare la frontiera hanno trovato chiuso. Per protesta scesero sugli scogli e da lì si sono rifiutati di spostarsi. Mi ricordo che in quelle giornate faceva un caldo pazzesco, quindi assieme ad altri solidali siamo andati subito a prendere cestelli d’acqua e qualche ombrellone. Nei giorni seguenti abbiamo messo delle vele sugli scogli per l’ombra… e insomma, da lì è iniziata questa solidarietà pazzesca durata oltre tre mesi.

Non è che al campo ci fossero i no borders, al campo c’erano persone: i volontari, le associazioni, gli attivisti, gli avvocati, i medici… c’era proprio una realtà… c’era un pezzo di umanità! Per tutta la durata dei Balzi Rossi c’è stato un flusso ininterrotto di gente che portava qualsiasi cosa di cui ci fosse bisogno: per mesi si è realizzata una solidarietà che, quel giorno, venne distrutta nell’arco di 12 ore di assedio.

Il senso di quella distruzione e di quelle ruspe?

Non c’è: non ci fu senso allora e non vedo nessun senso ancora oggi.

Attraverso il post incriminato hai voluto esprimere un’opinione: ritieni che il sindaco Ioculano sia in qualche modo responsabile di quello che accadde nell’estate del 2015 e degli eventi che seguirono?

Da mesi Ioculano era uno di quelli in prima fila per chiedere lo sgombero del campo.

Tirava ripetutamente fuori questa storia che lì c’erano i no borders… come se questo volesse dire qualcosa di particolarmente grave in sè. Una fissa che questi del PD hanno rispolverato ancora il primo di dicembre in televisione: mentre ero a processo a Imperia, Ioculano era infatti in onda sul La7 a “L’aria che tira”, occasione nella quale Vauro ha ricordato al sindaco le sue responsabilità per aver firmato il divieto di dare acqua e cibo ai migranti. Vauro ha parlato di ordinanze analoghe che vennero promulgate durante il nazismo contro gli ebrei, e Ioculano, per tutta risposta, ha fatto spostare il discorso dicendo che quella era una situazione particolare e che ai Balzi Rossi, comunque, vi erano più ragazzi bianchi no borders, che migranti (Cosa peraltro non vera). Come dire che era quindi automaticamente un posto di gentaglia, tralasciando tutto l’immenso lavoro di solidarietà che invece si stava portando avanti.

E comunque l’ordinanza in questione è perdurata negli anni ben oltre l’esperienza dei Balzi Rossi, ed è rimasta in vigore in situazioni terribilmente peggiori. Questa è la sua idea di quella che è la solidarietà.

Ed è proprio il motivo per cui ho scelto di andare a processo invece che chiedergli scusa. Non solo ha continuato a difendere un’ordinanza che affama la gente, ma, nei mesi, ha fatto sgomberare un nuovo campo solidale sorto nel 2016 sotto al ponte di Via Tenda; e poi ha lasciato che venisse chiusa anche l’esperienza di accoglienza all’interno della chiesa delle Gianchette; e ha proseguito su quella strada lì, mi pare, viste anche le affermazioni del signor sindaco nel consiglio comunale del Novembre scorso.

Avrei potuto chiedergli scusa come ha fatto un’altra ventina di persone: c’erano altre denunce in ballo, che lui ha però ritirato in cambio di qualche centinaio di euro, di scuse scritte… non lo so nemmeno e non mi interessa: non ho nulla di cui scusarmi con Ioculano. Secondo me è il sindaco che dovrebbe piuttosto chiedere scusa ai migranti per quello che sta succedendo.

Altro che Balzi Rossi: basterebbe andare a vedere che cosa c’è adesso lungo il Roja!

Per il sindaco la soluzione di tutto sarebbe il campo di Croce Rossa (che comunque andranno a smantellare per una serie di accordi commerciali sull’area del ex parco ferroviario), a chilometri dalla stazione, in un posto isolato e lontano da qualsiasi servizio della città, su una strada così pericolosa che c’è da aver paura a percorrerla persino di giorno. Bisogna prendere atto di questa situazione e chiedersi come mai le persone lì non vogliano andare: avranno dei motivi se preferiscono restare sotto al ponte?

Perdipiù, con la chiusura dell’accoglienza alle Gianchette, si è perso anche l’unico posto un minimo tutelato per le donne e i minori. Oggi le ragazze, le giovani madri e i bambini vivono esposte ad abusi e sfruttamento di ogni tipo, senza nessuna tutela.

Come ti vivi questo processo? È un episodio che ti colpisce a livello personale ed individuale, ma è vero che il contesto in cui si inserisce ci racconta di molti pezzi, moltissime persone… Come ti fa sentire l’accusa di diffamazione aggravata? Se potessi tornare indietro, scriveresti di nuovo quel post?

Sinceramente? Me la vivo senza farmi troppi problemi. Nel senso che io ho scelto quella strada lì. L’ho scelta già nel 2015 e l’ho scelta coscientemente. E sì, assolutamente: visti gli eventi di quella giornata, ripeterei tutto nella stessa maniera.

Non ci sono santi su questa cosa: non sono i solidali il problema, non sono i migranti il problema.

Il problema è la frontiera.

Il problema è sempre stato il confine: lo era allora, lo è oggi e lo sarà finchè decideranno di sbarrare la strada alle persone.

Non si può scordare che Ventimiglia sia un posto di frontiera: se tu ne sei il sindaco, hai un paio di modi per provare a governare. Puoi organizzare un’accoglienza come si deve, o puoi far diventare un problema le persone stesse. Ma la seconda è una scelta priva di senso e strategia. Non fermi le persone, così come pure la solidarietà: la puoi stroncare ma solo fino a un certo punto.

Puoi mettere barriere e inventare mille leggi, ma l’essere umano mica si ferma!

Anzi guarda, secondo me Ioculano, denunciandomi, si è creato comunque un ulteriore boomerang: perchè il primo dicembre grazie al processo, mentre lui stava in televisione, a Imperia c’è stata comunque una dimostrazione di solidarietà nei confronti dei migranti. I giornali hanno parlato di nuovo della situazione delle persone bloccate a Ventimiglia, delle ordinanze del sindaco. Non so quanto a lui sia convenuto tutto ciò (scappa una risata).

Nelle tue intenzioni, il processo è quindi un’occasione per riaccendere una luce sulle dinamiche e sugli eventi che si stanno verificando in frontiera e a causa di questa: pensi che sia valido utilizzare lo spazio dei processi e le conseguenze della repressione a questo scopo?

Certamente: secondo me i processi ai solidali dovrebbero essere utilizzati proprio per questo.

La mia volontà è stata proprio quella di far parlare di nuovo di Ventimiglia, della situazione che c’è e della frontiera. Poi non è che io abbia fatto chissà che cosa in tutta questa vicenda: ho solo scritto un post di rabbia e di getto, dopo una giornata terribile. Perchè è stato davvero feroce veder distruggere tutto quello che centinaia di solidali hanno portato al campo per mesi.

Mi ricordo bene quel periodo: andavo tutte le volte che potevo, ai Balzi Rossi, assieme a tantissimi altri, per portare solidarietà. E noi quella roba la sistemavamo, la mettevamo in ordine… hanno distrutto l’impegno e la cura di mesi ! Nemmeno hanno salvato le tende per darle ad esempio ai terremotati. Voglio dire: erano risorse, soldi, fatica, generosità. Le hanno prese con la ruspa e le hanno tirate nei cassoni dell’immondizia, buttando via tonnellate di materiale arrivato dai solidali di tutta Europa. Come ho già detto, ai Balzi Rossi c’era tutto il necessario per una vita dignitosa, inoltre si facevano corsi di lingue, corsi di nuoto, di geografia… Un’accoglienza e una condivisione vere, totali. Tanti migranti lì hanno trovato una sorta di famiglia, incontrando ragazzi come loro, persone come loro, amici che a costo zero per il comune facevano un lavoro immenso.

Un lavoro che comunque l’amministrazione non è evidentemente in grado di sopperire e gestire, considerando come si sono poi evolute le cose sul territorio. Uno sgombero crudele e persino dannoso, che non ha affatto migliorato la situazione.

Ma infondo, basta pensare che Ioculano è un sindaco del PD, lo stesso PD di Minniti e degli accordi con la Libia: detto questo è detto tutto!

Si sente tanto parlare di questo fantomatico decoro: ma il decoro come lo crei? Lo crei facendo accoglienza vera. Costruendo dignità e attenzione. In questo modo invece che migliorare le cose, stai creando davvero un’emergenza! Con oltre duecento persone sotto al ponte, come fai a non ammettere che si stia sbagliando qualcosa?

Io capisco i ventimigliesi, davvero: capisco che ritengano questa situazione un problema, anzitutto per loro stessi. Ma chi ha creato tutto questo? Chi ha fatto saltare tutti i tentativi di dare uno spazio decente alle persone in attesa di passare la frontiera?

Credo che il sindaco abbia perso più di un’occasione in questi tre anni: avrebbe potuto scegliere di coordinarsi con i solidali per gestire spazi di accoglienza al transito, invece che sopprimere tutte le forme di solidarietà.

Il 9 Febbraio Ioculano dovrebbe essere in aula…

Sì esatto. Presumo che venerdì ci sarà anche il sindaco in tribunale. Il primo dicembre 2017 , quando il suo avvocato ha detto: “il sindaco non c’è, è a Roma” pensavamo fosse impegnato in qualche faccenda politica. Invece era a L’Aria che tira su La7, contro Vauro tra l’altro, per cui non gli è nemmeno andata tanto bene: gli è girata male l’aria un po’ dappertutto insomma, da Ventimiglia a Roma! (sorriso divertito)

Venerdì a Imperia farà un po’ la parte della vittima, immagino, ne approfitterà per fare campagna elettorale. Non lo so che cosa dirà, ma lui è un politico e io no: metterà le cose dialetticamente molto bene, penso. Anche se alla fine sono anni che si lamenta ma trova tempo da perdere con la sottoscritta.

Hai ricevuto, da parte degli altri attivisti, dei volontari e dei solidali, un appoggio in questo percorso processuale?

Sì assolutamente! C’è stata molta solidarietà, l’ho sentita forte. Mi fermano persino per strada e nei negozi mentre faccio la spesa e mi dicono: “Brava! Resisti!”. E parlo di gente qualunque, conoscenti, persone lontane dalla realtà di Ventimiglia. Anche la mia famiglia è stata assolutamente comprensiva: sanno quello che faccio e quello in cui credo, sanno del mio impegno nella solidarietà. Anche se all’inizio ho fatto fatica a spiegare a mia figlia che andavo a processo per un post di quel tipo lì, lei l’ha capito in un secondo. Nessuno mi ha detto: “hai sbagliato”, perchè tutti sanno l’impegno e la fatica che metto nel dare una mano a queste persone.

Non ho avuto problemi nemmeno rispetto ai media, devo dire. La questione del mio post ha avuto una risonanza notevole, ed i giornali hanno pubblicato il comunicato scritto in mio supporto. Si è piuttosto parlato molto del contesto, della situazione che c’è Ventimiglia, e questo mi rincuora.

Come pensi di organizzarti rispetto alla richiesta del sindaco di ricevere delle scuse e una forma di risarcimento economico per il famigerato insulto?

Ahahah!!! bella sta domanda, mi piace guarda!!! Non gli ho chiesto scusa in tre anni, gliela chiedo ora dopo aver fatto venire gli avvocati da Torino? Mi vedo già la faccia degli avvocati se facessi una cosa del genere… ahahaha! No ragazzi, eh no, io non devo chiedere scusa a nessuno.

Anche in questo passaggio Ioculano ha dimostrato di avere veramente poco buongusto: fai il sindaco, sgomberi un presidio di solidarietà che era pure efficace nell’accogliere in modo dignitoso queste persone, lasci distruggere tutto quello che c’è… e poi la sera ti metti a leggere i post su Facebook ?! che cosa ti aspettavi di trovare, in risposta, da chi in quel campo c’era dentro da mesi e ci investiva tempo, energie, cura? Cosa ti aspettavi da chi conosceva quelle persone, quei ragazzi sugli scogli che hanno resistito un’intera giornata senza poter bere né mangiare? Hanno buttato via cose che nemmeno gli appartenevano, perchè quelle tonnellate di materiale raccolto erano cose dei migranti e dei solidali che le avevano portate.

Quindi, voglio dire: io vado a processo tranquilla e risoluta. Come ci sono andata l’uno: con mia figlia e con i solidali.

Ma chiedere scusa… andiamo…

Facciamo un passo avanti rispetto ai Balzi Rossi: durante quello sgombero ci fu una risposta mediatica di livello internazionale; due anni dopo quell’evento, veniva posta fine anche all’esperienza di accoglienza delle Gianchette, con la chiusura della chiesa dove sei stata volontaria. Come hai vissuto, rispetto al 2015, questo ulteriore passaggio?

La chiusura delle Gianchette rientra nel “cambiamento climatico” che c’è stato a Ventimiglia. L’esperienza della chiesa si è conclusa nella quasi assoluta indifferenza: una mattina sono arrivati dei pullman, hanno detto alla gente di prendere le loro cose e hanno portato via le persone. C’erano le volontarie che per mesi hanno aiutato in chiesa in lacrime, davanti a quella scena. Credo che questa repressione della solidarietà -le multe, i processi, i fogli di via, gli avvisi di pericolosità- stia effettivamente funzionando, ma al contrario rispetto al buonsenso: perchè funziona facendo dei danni enormi!

Per il resto non si sono ottenuti risultati su niente con questo accanimento. Ed è paradossale che la politica che hanno deciso di portare avanti non abbia giovato nemmeno all’immagine pubblica del sindaco.

Ma è ovvio: la repressione non risolve mai nulla. Lo dimostrano i fatti: dalla Val Susa a tutte le realtà sociali che resistono contro forme di repressione sempre più accanita . Alla fine, come dicono i No Tav: “non si può fermare il vento. Si può solo farlo rallentare.”

Hanno creato tanti problemi a me e a molti altri solidali, anche a livello economico, perchè comunque queste cose costano in termini di tempo, di energie, di risorse. Hanno dato 60 fogli di via da Ventimiglia e non solo….SESSANTA! per che cosa?

Perchè ci sono persone solidali con altre persone che vivono per strada, non certo per scelta ma perchè costrette dalla situazione? E poi? Che cosa vorrebbero concludere così?Quante energie usate nel modo sbagliato!

Insomma, Ioculano ha scelto di gestire la situazione con sgomberi, ordinanze, polizie, repressione: può anche cercare di fare il sindaco buono che ha lavorato al meglio per la situazione migranti a Ventimiglia. Però questa favola può raccontarla altrove: forse a Roma, forse in televisione appunto. Non può raccontarla a chi c’è in quel posto, a chi conosce Ventimiglia e la sua storia dal 2015.

Perchè poi, alla fine, che cosa ha ottenuto? Chi è contento dell’operato del sindaco? Cosa saranno le prossime elezioni? A chi daremo in mano Ventimiglia, grazie a questa politica di intolleranza e a quello che ha creato? Ioculano avrebbe potuto scrivere un’altra storia, trovare il coraggio di fare la differenza rispetto all’abbrutimento generale che si respira in tutta Italia.

 C’è una traccia di sconforto in queste riflessioni.. Come vedi la situazione rispetto al perdurare della chiusura della frontiera?

C’è tanta tristezza, certo. Per come le cose sarebbero potute andare, per come stanno andando…e soprattutto per come andranno in futuro. È per questo che mi sta a cuore che si approfitti del processo per parlare di quello che sta succedendo ora: è un disastro la situazione a Ventimiglia. Quando ho detto ai giornalisti: “andate a parlare coi ragazzi sotto al ponte”, mi è venuto spontaneo dal cuore, non mi ero preparata quella frase.

Di questo bisogna parlare: non della mezza giornata che io passo là sotto cercando di rendermi utile; non del processo; non di quanto si sia offeso Ioculano per un post su Facebook; ma di quelle donne, di quegli uomini, di quei bambini intrappolati a Ventimiglia, delle conseguenze della chiusura dei confini e delle discriminazioni basate sul colore della pelle.

È solo questo quello che voglio: che si parli di loro.

E spero sinceramente che, insistendo tutti assieme, associazioni, Chiesa, chi ti pare insomma, si riesca a far riaprire uno spazio di prima accoglienza per la gente in viaggio, un posto idoneo specialmente per le donne i minorenni, alternativo alla Croce Rossa e che ne superi gli evidenti limiti. Solo un cambiamento in questo senso sarebbe un alleggerimento anche della mia situazione: poter tirare un respiro di sollievo, dopo tutte queste vicende inquietanti.

Diversamente, questo processo non mi cambierà proprio nulla: finito in tribunale tornerò a casa mia… e quelle persone resteranno lungo la strada…

Grazie Rosella, c’è altro che vorresti aggiungere?

Vorrei raccontare tre episodi che ritengo significativi rispetto al clima che si respira in frontiera.

Il primo risale all’estate scorsa: a Ventimiglia si stava lavorando per aprire un centro di accoglienza per venti minori non accompagnati e richiedenti asilo. Quando la notizia si è diffusa, c’è stata una manifestazione di protesta, autorizzata e partecipata da una cinquantina scarsa di persone. Un corteo brutto e davvero preoccupante, in cui hanno messo in testa proprio dei bambini a tenere uno striscione contro altri bambini. È bastato questo perchè l’amministrazione ritirasse tutto in fretta e furia: il centro che sarebbe dovuto sorgere nei pressi del Borgo (ai piedi della zona storica di Ventimiglia, ndr) non è più stato aperto.

Il secondo episodio, sempre sulla stessa scia, riguarda l’ultima manifestazione ventimigliese dei comitati di quartiere. La gente è partita dalla piazza davanti al cimitero ed ha sfilato per tutta via Tenda proprio davanti ai migranti: gli hanno urlato di tutto. Digos davanti, digos dietro, digos nel mezzo, digos di lato, percarità! E questi dei comitati che intanto gridavano qualsiasi improperio.

Quando sono arrivati davanti al legal ponit (l’info e legal point Eufemia, aperto in Via Tenda nella primavera 2017, dall’associazione volontaria Iris, ndr), i manifestanti si sono fermati lì e ci sono stati quanto hanno voluto, mentre noi eravamo dentro con le persone di colore che stavano ricaricando i loro cellulari. Questi fuori hanno detto qualunque cosa, e li hanno lasciati stare lì a provocare per tutto il tempo, ci sono anche i filmati. Dopodichè il corteo è arrivato alla rotonda e hanno bloccato mezza Ventimiglia. E le autorità hanno dato il permesso per una manifestazione del genere, sfilata apposta davanti a tutte le persone che vivono dal ponte, con slogan pieni di intolleranza e pregiudizi. Mi chiedo: quando mai avrebbero dato il permesso di manifestare davanti a uno dei tanti punti delle ultradestre che stanno aprendo? Vedi un po’ che è successo quando c’è stato il chiosco di Casa Pound a Ventimiglia. Contro di noi, invece, hanno potuto tirare insulti come meglio credevano e nessuno è intervenuto nonostante il dispiegamento di polizia.

Vorrei raccontare un’ultima cosa per completare il quadro sul clima che si sta diffondendo in Italia, non solo a Ventimiglia. Su un sito di informazione era riportato l’episodio del poliziotto che, nella stazione di Ventimiglia, se la prende con un ragazzo di colore e gli urla di tornarsene in Burundi. Nei commenti ho espresso la mia preoccupazione rispetto a certi atteggiamenti tenuti dalle forze dell’ordine, e mi sono augurata che il poliziotto in questione fosse stato quantomeno sospeso. Le risposte che mi sono arrivate… di tutto! Di tutto!

Un tipo mi ha scritto: “Rosella Dominici sei una troia, muori presto!”, riferendosi al mio impegno su Ventimiglia. E più sotto ancora: “è per colpa delle buoniste come te che questo paese va a puttane”! Con il mio nome e cognome… questo è stato il peggiore, ma è arrivata una valanga di insulti solo per aver commentato un video in modo assolutamente civile.

Questa è Ventimiglia oggi.

Questo è quello che hanno costruito l’amministrazione cittadina, le autorità e le istituzioni tutte.

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