Nell’articolo che segue, presentiamo un’intervista al collettivo R-esistiamo, attivo da un paio di anni nella lotta contro le politiche migratorie svizzere e, in particolare, contro la reclusione delle persone cosiddette migranti all’interno dell’ex bunker militare di Camorino. Parliamo quindi della frontiera tra Svizzera e Italia, e delle dinamiche repressive operate dal paese elvetico contro chi cerca di raggiungere l’Europa svalicando dai confini italiani a nord, anziché dall’estremo ponente ligure. Eppure parliamo sempre delle stesse politiche discriminatorie ed escludenti, che condannano le persone provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente a progetti esistenziali precari e spezzati, sospesi nel vuoto dei continui dinieghi, della privazione di dignità e libertà, intrappolandole negli infiniti “giochi dell’oca” disseminati di pericoli, minacce, violenze, ricatti e non-sensi.
Che sia la frontiera all’altezza di Ventimiglia, Mentone e Val Roya; che sia quella più a nord, da Bardonecchia, Claviere e Oulx; o quella ancora più in su, che attraversa le città di Como e Chiasso, il progetto della Fortezza Europa non cambia. Non cambiano gli effetti che gli ingranaggi di controllo e gestione delle persone in viaggio hanno sulle vite di migliaia di esseri umani. A Ventimiglia è comune incontrare persone che abbiano tentato già altrove di raggiungere la propria meta, prima di finire rinchiuse e gasate nei container a Mentone. Sono comuni le storie di respingimenti dalla Svizzera, soprattutto per chi proveniva dalle frontiere est della rotta balcanica: queste storie raccontano sempre degli stessi dispositivi, degli stessi attori e degli stessi abusi. Che si parli di Francia, Germania, Svizzera o Italia, più che le insignificanti differenze tra i meccanismi punitivi, sono gli elementi ricorrenti ad essere rivelatori della logica del dominio delle frontiere: la retorica della sicurezza, il lucroso business dei respingimenti e la corsa all’armamento dei confini. I responsabili sono i vari governi ed i loro esecutori: polizie, eserciti, Croce Rossa, agenzie di security e ditte private che vincono appalti milionari per gestire le gabbie dei reclusi e delle recluse.
Ringraziamo il collettivo R-esistiamo per aver condiviso la loro esperienza di lotta.

 

L’intervista

Cominciamo dalla cornice generale: in quale situazione si trovano le persone migranti in Canton Ticino? Com’è organizzata, a livello federale e cantonale, la politica migratoria della Svizzera?

Partiamo dal presupposto che, in Svizzera, è piuttosto difficile avere accesso a informazioni puntuali e veritiere circa decisioni e leggi riguardanti le politiche migratorie. Non si trovano documenti scritti ufficiali e si parla il meno possibile di migranti e frontiere. Per le istituzioni, l’obiettivo è mantenere la quiete sociale e insabbiare ogni testimonianza e notizia di abusi e ingiustizie. Per il governo federale, l’unico aspetto importante è non concedere affatto permessi alle persone, concentrandosi completamente su respingimenti e rimpatri.

Il Collettivo R-esistiamo è nato nella primavera del 2018: il nostro obiettivo è anzitutto rompere questo isolamento informativo, far circolare la verità sui fatti e sui maltrattamenti a cui sono sottoposte le persone, e chiedere la chiusura dei bunker militari in cui vengono messe per mesi e, talvolta, per anni. Le informazioni che riusciamo a raccogliere sono frutto della conoscenza diretta con loro, nonostante l’incontro e la comunicazione tra i e le migranti e persone attiviste e solidali sia scoraggiato in ogni modo dalle istituzioni. In questo senso, anche l’uso dei bunker è strategico: luoghi isolati, sotto terra, il cui accesso è vietato ai civili.

La politica migratoria, in Svizzera, è infatti una macchina ben organizzata, il cui unico scopo è non ammettere per nulla le persone e non dare la possibilità di ottenere permessi sul territorio. È inaccettabile l’ostinazione con la quale i vari responsabili dei percorsi per la richiesta d’asilo e per l’accoglienza, la Segreteria di Stato della Migrazione (SEM), i Cantoni, la Croce Rossa Svizzera, la ORS2 (ditta privata che si occupa della logistica nei centri per migranti, ndr) non riconoscano l’umanità e l’individualità di ciascuna Persona. Non vengono mai presi in considerazione i loro bisogni, la volontà, le competenze, e vengono invece viste solo come un peso, un problema da espellere il più velocemente possibile.

Da sempre, a tutela del proprio sistema economico, la Svizzera porta avanti una politica di selezione differenziale tra chi può restare per contribuire all’incremento delle ricchezze, e chi viene spinto a lasciare il paese o addirittura viene espulso coattamente. Questo vale sia per gli immigrati di ieri, come spagnoli, italiani, portoghesi, e tanto più per le nuove immigrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente. Eppure, a livello di opinione pubblica mondiale, si sente parlare di “Svizzera umanitaria”, basti pensare alla retorica sulla nascita della Croce Rossa proprio in questo paese.

Nell’ultimo anno, è partito un progetto di costruzione di sette centri federali per la raccolta e l’identificazione delle persone migranti. Nonostante sia in ancora in fase di rodaggio e potrebbe volerci ancora qualche tempo, l’idea è quella di accentrare il controllo delle persone in questi luoghi, per poi smistarle nei vari centri cantonali, metterle nei bunker, o, ancora, per respingerle nei primi paesi d’ingresso (soprattutto l’Italia) o direttamente destinarle a un volo di rimpatrio. È stato anche proposto di organizzare delle scuole differenziali per i figli delle persone che si trovano stoccate nei centri federali: si vuole negare l’inserimento nei percorsi scolastici svizzeri a bambini e bambine le cui famiglie vengono spinte con forza a lasciare il paese e vengono, spesso, infine rimpatriate coattivamente.

In Canton Ticino, al momento, abbiamo tre centri federali: Stabio (distretto di Mendrisio), Biasca e Chiasso, che probabilmente saranno però sostituiti da un unico centro federale dei sette in costruzione su tutto il territorio elvetico. A Rancate, sempre nel Ticino, è stato allestito un centro respingimenti, dove le persone passano la notte in attesa che, il mattino successivo, riapra la dogana italiana1  e possa completarsi il respingimento. Il costo per mantenere il centro si aggira sui 670.000 franchi all’anno: a quante persone si potrebbe offrire una chance di vita dignitosa, se questi soldi fossero usati diversamente? Ci sono inoltre, ancora operativi, i centri a gestione cantonale: Paradiso, Cadro, Castione e Camorino

Veniamo quindi allo specifico del’impegno del collettivo R-esistiamo: la lotta per la chiusura del bunker di Camorino. Che cos’è questa struttura? Come viene utilizzata?

Durante la Guerra Fredda, per paura di un possibile attacco atomico, vennero costruiti dei bunker a scopo militare e di protezione civile. Rimasti inutilizzati, salvo che per alcune esercitazioni militari, questi luoghi sono stati “presi in prestito” negli ultimi anni dalla SEM, la Segreteria di Stato della Migrazione, che ha pensato di destinarli alla gestione delle persone migranti. Il bunker di Camorino (Bellinzona), che è aperto dal 2014, si trova fuori dal centro abitato, in un luogo isolato tra l’ingresso autostradale e la centrale di polizia. Per la gente costretta a vivere lì è impossibile allontanarsi, non avendo un abbonamento ai trasporti né soldi sufficienti a comprare un biglietto.

I locali in cemento armato sono sottoterra e privi di un’adeguata areazione, gelidi d’inverno e oltre i trenta gradi d’estate; l’acqua dai rubinetti esce sporca, durante la scorsa estate ci sono state gravi infestazioni da cimici nei materassi, non vi sono spazi adeguati nè possibilità di privacy. Da agosto 2019, per il cibo, che in passato era comunque insufficiente e di scarsa qualità, i vestiti, scarpe, le necessità personali di qualsiasi genere, le persone ricevono 10 franchi svizzeri al giorno, denaro insufficiente per coprire tutti i propri bisogni, visto il costo molto alto della vita nel paese. Il coprifuoco serale, l’obbligo di pernottamento, le perquisizioni, i ricatti e il controllo costante della polizia cantonale unito alle ronde della Securitas (ditta privata di vigilanza) rendono il luogo paragonabile a una prigione più che a un centro di accoglienza.

Per chi si trova nel centro, gestito prima dalla dalla Croce Rossa, che ha rinunciato dopo lo sciopero di luglio, e attualmente dal Dipartimento Sanità e Socialità del Cantone, viene ostacolato l’accesso alle cure mediche (salvo iperdosaggi di antidolorifici e psicofarmaci) e alla tutela legale; non vi è alcun programma di attività, corsi di lingua o percorsi di inserimento: decine di persone, semplicemente, sono costrette a restare lì mesi, aspettando il proprio turno di rimpatrio, quando la polizia viene a prenderli in piena notte per caricarli su un aereo.

Non si vuole riconoscere di chi sia la responsabilità di questo posto e di quello che vi accade: se si chiede al Cantone, dicono che la responsabilità è della SEM e quindi federale. Se chiedi alla SEM, rispondono che il referente è il Cantone, in un gioco di rimpalli dove non esiste nessun tipo di trasparenza rispetto alla struttura.

ingresso del Bunker a Camorino (fonte immagine).

 

Il bunker è, a tutti gli effetti, l’ultima spiaggia delle persone indesiderate, quelle per le quali non c’è altra via di uscita né alcuna volontà del governo di concedere dei permessi. È un posto talmente malsano e abbrutente che la minaccia di un trasferimento a Camorino viene utilizzata come avvertimento per coloro che fanno problemi negli altri centri, e per scoraggiare qualsiasi protesta o rivendicazione di istanze.

Alcune delle persone che sono a Camorino non possono nemmeno essere espulse, sebbene il governo non abbia in ogni caso intenzione di rilasciare loro un documento: si tratta, per esempio, di uomini con lo status di apolidi, oppure il cui paese che sarebbe meta del rimpatrio non ne riconosce l’identità. È il caso di un uomo che si identifica come tibetano e a cui la Cina rifiuta la possibilità di rimpatrio. O, ancora, sono persone il cui paese di provenienza non ha firmato accordi di rimpatrio con la Svizzera, come l’Algeria, che accetta solamente rimpatri volontari. La maggior parte della gente rinchiusa a Camorino si trova in un limbo, senza possibilità di sbloccare la propria condizione. Tra l’altro, il sistema di rilascio dei permessi è assai controverso: non ci sono leggi precise in proposito alla valutazione dello status dei richiedenti asilo. Non esiste nemmeno una lista ufficiale di paesi d’origine considerati “sicuri”, così che la decisione spetta di volta in volta all’arbitrio della Segreteria di Stato della Migrazione.

Una parte delle politiche viene decisa a livello federale a Berna, ma una parte delle decisioni è presa a livello cantonale: la situazione è così nebulosa, che è molto difficile anche per gli stessi avvocati capire come agire. A pagine e pagine di ricorsi, spesso, viene semplicemente risposto un “non entriamo nel merito della questione del ricorso”: un no e basta insomma, senza ulteriori spiegazioni.

Come siete riusciti, visto il contesto ostile, ad entrare in contatto con le persone nel bunker? Com’è adesso la situazione a Camorino e quante persone vi sono rinchiuse?

Momenti di protesta al bunker di Camorino (fonte immagine)

L’incontro è cominciato nella primavera del 2018, grazie ad una prima conoscenza avviata con alcune di queste persone, che banalmente provavano a seguire un percorso di inserimento nel tessuto sociale, per esempio durante partite di calcio in cui partecipavano anche dei solidali (in seguito la Croce Rossa ha smesso di accompagnarle per sport e visite mediche, sostenendo di non avere personale sufficiente). Dai primi racconti sulle difficoltà che vivevano, è nata la voglia di conoscersi meglio, di capire che cosa stava succedendo e cosa fossero questi bunker in cui veniva messa la gente. Sono troppe le persone che aspettano in Svizzera come fantasmi, senza diritti e senza speranze di ottene davvero un regolare permesso, depositate nei centri per anni e infine espulse.

La nostra linea d’azione è quindi diventata la volontà di rompere l’isolamento, di informarci e di informare. Di costruire delle relazioni che possano portare un po’ di sollievo: parlare con qualcuno che ti considera una persona, e che prova a darti una mano per quanto possibile.

Abbiamo organizzato delle “merende” fuori dal bunker di Camorino, costruendo dei momenti e degli spazi per incontrare e conoscere chi stava lì dentro. L’intenzione dei presidi era anzitutto quella di far sentire meno sole le persone, raccogliere i loro racconti e le testimonianze di quello che subiscono. Ma, appena qualcuno si dimostrava interessato e partecipava, il giorno dopo veniva spostato lontanissimo, facendoci perdere il contatto reciproco.

Ovviamente per le istituzioni il punto è ostacolare la creazione di relazioni e spaccare i legami che nascono. Alle persone solidali sono state fatte pressioni sul posto di lavoro da parte delle autorità, diffondendo informazioni e articoli diffamanti. Per chi invece sta nel bunker, la strategia è quella di esercitare continuamente pressioni psicologiche e minacce. Alcuni funzionari cantonali, in visita a Camorino, avrebbero detto agli uomini che si trovano lì che è meglio se stanno zitti, che se stanno buoni prima o poi le cose cambiano, e che è meglio che non diano ascolto a noi e che non si uniscano ai momenti di manifestazione e ai presìdi.

Le persone, nel tempo, hanno comunque capito che gli vengono date solo false illusioni: anche se la loro situazione è sempre difficile, talvolta scoppiano delle proteste.

Quest’estate, il 2 luglio, i circa trenta uomini che stavano a Camorino hanno fatto uno sciopero della fame, per protestare contro la terribile situazione in cui vivono e perché, con la motivazione di dover areare le stanze, la direzione del bunker li obbligava ad uscire dai locali il mattino e a non potervi far ritorno fino alla sera. Questo senza soldi per potersi spostare, senza nulla da fare, senza un riparo dalla canicola estiva, con un panino e una bottiglietta d’acqua per tutto il giorno. La reazione immediata è stata quella di silenziare la protesta: nel giro di 24 ore, coloro che avevano un permesso anche solo provvisorio sono stati spostati. Sostenendo tra l’altro che i trasferimenti fossero già decisi da tempo e che la protesta non c’entrasse nulla.

A nessuno dei responsabili del bunker, dalla SEM, alla polizia, alla Croce Rossa, conviene che si parli della situazione a Camorino, quindi ogni voce di dissenso deve prontamente essere scoraggiata. Per tenere buone le persone si fa vedere che vengono concessi piccoli miglioramenti, o si promettono vantaggi in futuro (che poi vengono comunque disattesi) per i migranti che si comportano “bene”, seguendo la strategia di dividere le persone tra buone e cattive, con lo scopo di sedare gli animi e fiaccare le resistenze.

Dopo le proteste, nel bunker di Camorino sono rimaste al momento una decina di persone, prive di qualsiasi permesso e in attesa di espulsione o di finire in prigione.

Molti di loro, infatti, hanno già subito anche periodi di detenzione amministrativa (che prevede fino a 18 mesi di reclusione), con la sola accusa di non possedere documenti “utili”. Principalmente gli arrestati vengono messi nel carcere di Realta, nel Canton Grigioni, dove un intero piano del carcere è dedicato proprio ai sans papiers, che hanno minori diritti dei detenuti comuni. Un ragazzo ci ha raccontato che per un mese di fila non gli è stato concesso di uscire dalla sua cella, e, per questo motivo, ha cominciato a praticare gesti di autolesionismo. Adesso è tornato proprio a Camorino e sta peggio che mai. Un’altra ragione per essere imprigionati è se il governo federale pensa che tu possa allontanarti prima dell’esecuzione di espulsione: un uomo si è recato a trovare il fratello in un cantone della Svizzera interna, pur non avendo un permesso per spostarsi, è finito in un controllo di polizia (che si basano sempre sul racial profiling, visto che vengono fermate le persone in base al colore della carnagione) e, solo per questo, è stato imprigionato.

Alla luce di questo stato di cose, quali sono le richieste e gli obiettivi di lotta che portate avanti come collettivo R-esistiamo?

Quello che chiediamo è che luoghi come questo, e in particolare il bunker di Camorino, vengano definitivamente chiusi.

Siamo consapevoli che, quando cala l’attenzione, ricominciano invece a portare lì le persone. Vogliamo che il bunker venga chiuso e che venga data una possibilità di vita a queste persone, condannate ad un’esistenza sotto terra senza nessuna prospettiva.

Nel 2014 uscì un rapporto ufficiale della Commissione Federale Contro la Tortura, in cui si affermava che le persone non possono essere tenute nei bunker per oltre tre settimane, per ragioni igienico sanitarie. Nonostante non sia cambiata la loro situazione, nel report del 2018 della stessa Commissione non si fa più nessuna menzione a questo ammonimento, e nessun ente ufficiale federale si è più espresso in merito al fatto che, alcune persone, siano sottoterra da anni.

Da Marzo 2019 è entrata in vigore una nuova legge sulla migrazione, che avrebbe dovuto evitare alle persone di rimanere in attesa per anni, e velocizzare l’iter di valutazione delle richieste di asilo. Dopo pochi mesi, vediamo già come questa legge non funzioni affatto: la gente non riceve mai assistenza legale, la polizia cambia a proprio piacimento, sui moduli, dati, età e provenienza delle persone, per metterle nella condizione di poter essere espulse o respinte.

Nonostante le immense risorse di uno dei paesi più ricchi del mondo, che potrebbe con estrema facilità assorbire il numero esiguo di persone che arrivano in Svizzera, a prevalere sono in ogni caso gli interessi economici, che preferiscono nutrirsi del fruttuoso business legato alla repressione, alla militarizzazione delle frontiere, alle deportazioni e allo sfruttamento della manodopera in nero delle persone senza documenti giusti.

Sappiamo che sarà molto difficile farsi ascoltare e che abbiamo a che fare con il muro di gomma delle istituzioni, ma non si può proprio mollare.


Sembra che nel 2020 il centro di Rancate verrà chiuso: gli arrivi in Svizzera nell’ultimo anno, a fronte di un’ingente spesa di mantenimento della struttura, sono andati diminuendo in maniera consistente. La proposta del consigliere leghista Norman Gobbi, tuttavia, non è di eliminare un punto di riferimento per i respingimenti, ma semplicemente quella di spostarlo a Stabio o a Chiasso, sul confine con l’Italia, dove alcuni magazzini delle ferrovie FFS sarebbero già stati allestiti da tempo come dormitori, senza tuttavia mai essere utilizzati.
La ORS Service AG è una società privata svizzera che gestisce alloggi per l’asilo per conto del governo federale, ed è uno dei maggiori attori in questo campo. In seguito alla diminuzione degli arrivi in Svizzera, la società è entrata in una fase di crisi che l’ha portato a cercare di espandere il proprio mercato nei paesi sul Mediterraneo, in primis l’Italia. Nel luglio 2018 è stata fondata quindi a Roma la nuova filiale ORS Italia S.r.l., che mira ad aggiudicarsi la cospicua fetta di investimenti piovuti sul settore degli hotspot e dei centri di detenzione e rimpatrio, grazie ai decreti legge Salvini e all’imminente apertura dei nuovi CPR, come il Corelli di Milano.

 

Esterno bunker di Camorino (fonte immagine)