Mediterraneo : dieci giorni in mare a bordo della Aquarius

Le onde come il filo spinato

Apparso su CQFD n°156 (luglio-agosto 2017), rubrica Attualità, di Marie Nennès, illustrato da Suzanne Friedel / SOS Méditerranée; messo in linea il 10/07/2017. Tradotto dal francese su libera iniziativa da Federico de Salvo e Cecilia Paradiso.

Dal febbraio 2016, l’Aquarius solca le acque internazionali al largo della Libia per portare soccorso ai migranti che tentano la traversata verso l’Europa. Una delle rotte più mortali al mondo: più di duemila persone sono già annegate percorrendola nel 2017. Noleggiata da SOS-Meéditerranée, l’Aquarius è una delle navi di soccorso presenti nella zona – la sola a pattugliarla tutto l’anno. CQFD si è potuto imbarcare sull’Aquarius per una decina di giorni.

A est, i primi barlumi si fanno più precisi. Sono le h 5,30. Dalla plancia, Basile scruta l’orizzonte al binocolo già da un’ora buona. Invano. L’Aquarius è di ritorno nella SAR zonei dopo quindici giorni tirata a secco. Tutti sono nervosi. Per un po’, ci si è sentiti in colpa per essere stati assenti. Da qualche parte là davanti, un punto nero nella notte potrebbe attendere disperatamente di essere soccorso. Un canotto pneumatico grigio, senza luci, invisibile ai radar a meno di cinque miglia, con a bordo centinaia di persone, senza acqua, e sempre più spesso senza motore. Il mare è brutto, il vento soffia da nord. «Non succederà niente oggi, valuta Andreas, il secondo. I canotti non possono lasciare le coste con questo tempo, non riescono a superare le prime onde.»

«Non restare con le braccia conserte»

Volontario di SOS-Méditerranée, Basile continua comunque la sua guardia, presto sostituito da James, poi da Svenja. E così di seguito, ogni due ore, fino a notte. «Quello che era vero anche solo l’anno scorso lo è di meno in meno adesso, spiega Alain, robusto, proveniente dalla Martinica, con alle spalle già una decina di turni a bordo. Prima, i trafficanti aspettavano che il mare fosse in buone condizioni per mandare i canotti. E alcuni passeggeri erano dotati di giubbotti salvagente. Oggi, i gommoni comprati a 130 euro su Alibabaii hanno rimpiazzato le barche da pesca. E prendono il largo anche con il cattivo tempo. A quelli che non vogliono salire a bordo viene sparato nella macchia vicino alle spiagge. I passeurs dicono agli altri: “l’Italia è dritto davanti a voi, ci sarete in tre ore!” I motori marci spesso si bloccano nel giro di qualche ora, per mancanza di carburante. Oppure, altri malviventi arrivano per rubare il motore e lasciano i migranti alla deriva.»

Per la decina di volontari di SOS-Méditerranée, la giornata trascorre in esercitazioni di salvataggio: bisogna rodare i nuoviiii, fargli acquisire gli automatismi. Non si tratta di novizi, la maggior parte di loro ha già esperienza da marinaio, ma questo lavoro è particolare. Davanti a delle persone in preda al panico e alle proprie emozioni, devono saper reagire, calmare, rassicurare. «Mi ricorderò per sempre del mio primo salvataggio, racconta Stéphane Broc’h, ho preso uno schiaffone.» Questo bretone un filo taciturno coordina i soccorsi in acqua. E’ la prima mano che afferra il naufrago. Sono già diversi mesi che ha lasciato il suo lavoro di meccanico di marina nel Pacifico per imbarcarsi con SOS. «Non potevo restare con le braccia conserte, avevo bisogno di agire, per dormire in pace, potermi guardare allo specchio. Avevo le competenze e quindi sono venuto.» Più tardi nel pomeriggio, è l’equipe di Medici senza frontiere (MSF) che garantirà la formazione in primo soccorso, spiegando come prendersi carico dei rifugiati a bordo e a quali sintomi prestare attenzione.

Quello che li ossessiona

Mezzogiorno, il giorno seguente. Dalla plancia, Alexandre Moroz, il capitano bielorusso, avvisa: ha appena ricevuto una chiamata del MRCCiv. Un canotto è alla deriva a cinque ore di navigazione a est. L’Aquarius è l’imbarcazione di salvataggio più vicina, bisogna andare. La tensione sale – arriveremo in tempo? Poi si riabbassa leggermente: un cargo turco è vicino, raccoglierà i naufraghi che saranno in seguito trasferiti sulla nostra nave.

E’ notte quando il trasbordo inizia. Per due ore, il gommone di salvataggio moltiplica le andate e ritorno da una nave all’altra, trasportando quindici persone per volta. Stravolti, i primi superstiti posano un piede esitante sul ponte, sostenuti dalle braccia e i sorrisi di Charly e Christina: «Benvenuto, fratello, Welcome, Salam aleikoum.» Una sola donna, incinta, in mezzo a 117 uomini. Per la maggior parte maliani, ma anche ghanesi, gambiani, senegalesi: quasi tutta l’Africa dell’ovest è rappresentata. Tutti sono a piedi nudi, alcuni hanno anche il torso nudo. I loro abiti puzzano di gasolio, merda, sudore e paura. Li si fa spogliare, lavare e cambiare. Tutti ricevono il medesimo kit: vestiti puliti, una coperta, acqua e biscotti ipercalorici. I medici individuano i feriti, organizzano le prime cure. Alcuni crollano dalla fatica, altri tremano sulle loro gambe. Poco a poco, i visi si distendono. Dopo qualche ora iniziano a raccontare. La paura durante la traversata, quella di annegare su quella barchetta sovraccarica. Ma non è questa paura che tende i visi, infossa le orbite. No, quel che li ossessiona è la Libia.

«Venduto come una capra»

Bouba, un gambiano robusto di una trentina d’anni, berretto di lana calato sulla testa e sorriso inossidabile, si lancia: «Sono venuto in Libia per lavorare. Pensavo di poterci trovare un futuro, ma è stata una cattiva idea. Ci sono restato un anno. E’ poco, un anno, ma laggiù mi è sembrato lunghissimo: la vita era difficilissima.» Il sorriso sparisce. «Sono stato rapito non appena giunto a Sabhav. Il passeur libico incontrato ad Agadès mi aveva venduto ad una banda di Beni Walivi. Mi hanno rinchiuso con più di un centinaio di persone, uomini e donne, giovani e vecchi. Non so se si trattasse di una prigione ufficiale, c’erano dei prigionieri con i documenti in regola, permesso di lavoro e tutto. Non mi è stata data nessuna spiegazione.»

Il racconto si fa difficile, Bouba deglutisce a fatica: «La loro unica motivazione sono i soldi. Ti prendono tutto quello che hai, addirittura ti spogliano per vedere se nascondi qualcosa. Poi ti chiedono di chiamare la tua famiglia perché mandino dei soldi. Se non ne hai, ti picchiano. Se ne hai, ti picchiano comunque, per far sì che i tuoi parenti sentano le grida al telefono. Io, sono solo, non ho nessuno, quindi ho dovuto lavorare in schiavitù. Volevano 3.500 dollari per la mia libertà! E poi, un giorno, mi hanno fatto partire senza che io sappia perché

Omar, giovane senegalese di 19 anni, racconta una storia simile: «Volevo andare in Europa, ma mi hanno venduto. Come una capra! Ho riacquistato la libertà in cambio di denaro, ma sono stato catturato di nuovo dopo qualche giorno. Mi picchiavano tutti i giorni, non mi davano da mangiare e mi hanno obbligato a chiamare la mia famiglia. E anche dopo il versamento di un riscatto, non mi hanno liberato. Una notte ho rotto la porta e sono scappato.»

Detenzione spaventosa

Le storie si seguono e si assomigliano, con più o meno violenza, più o meno fortuna. Molti esibiscono delle brutte cicatrici, provocate da manette troppo strette ai polsi e alle caviglie. Alcuni soffrono di piaghe infette e bruciature, altri di malattie della pelle contratte nella promiscuità dei centri di detenzione. All’incirca una metà di loro, in partenza, non aveva alcuna intenzione di passare in Europa, ma non hanno avuto altra possibilità che imbarcarsi per fuggire il caos libico e salvarsi la pelle.

Secondo MSF, esistono 42 centri di detenzione ufficiali in Libia, dove sono rinchiusi gli immigrati clandestini. L’ONG non ha accesso che a 8 di questi. «non ci sono registri, né di entrata, né di uscita, racconta un’incaricata di missione di MSF in Libiavii, in visita sulla nave. Non si possono fare dei veri monitoraggi. Un mattino arrivi e mancano 300 persone rispetto al giorno prima… impossibile sapere cosa ne è stato, se sono state uccise, liberate, trasferite in un altro centro o messe su delle imbarcazioni. I prigionieri non si lamentano, per non essere picchiati, ma le condizioni di detenzione sono spaventose.» Spiega anche che nessuno sa dire quante prigioni clandestine si sommino a quelle ufficiali.

Avvolti nelle loro coperte, i rifugiati dormono in sicurezza per la prima volta dopo lungo tempo. Tutta la notte, dei volontari vegliano, parlano con chi non riesce a dormire, posano una mano benevola su una spalla, offrono un sorriso. Domani mattina, i rifugiati saranno trasferiti sulla nave di un’altra ONG che rientra in Italia.

Ibrahim, 40 chili

L’Aquarius ha rimontato la guardia ad ovest di Tripoli, in acque internazionali. Il maggior numero di partenze avvengono da questa parte di costa, al largo di Sabratha. Questa volta la radio gracchia un appello, parlando di tre imbarcazioni. Un’altra nave è già sul posto, ma ha bisogno di rinforzi.

Quando arriviamo un’imbarcazione manca all’appello. I passeggeri delle altre barche dicono che il motore ha avuto un problema e che l’hanno persa di vista. Son tornati indietro, sono annegati, sono alla deriva? Come saperlo? Dobbiamo concentrarci su quelli che sono qui, ammucchiati in una barca di legno e in un canotto mezzo sgonfio. La ronda dei canotti di salvataggio ricomincia. Stavolta ci sono donne, bambini, un neonato di un mese. Pakistani, bengalesi, etiopi, sudanesi, marocchini… Molti minori non accompagnati. E Ibrahim.

Quando sale a bordo si fa il silenzio. È alto, circa due metri. E d’una magrezza irreale, appena 40 kg. Si direbbe uscito da un campo di concentramento. Ha la febbre, riesce appena a camminare, parla in un sussurro. Il medico Craig Spencer lo conduce alla clinica. Ci dirà più tardi che il giovane è del Gambia, ha sedici anni e una setticemia. Sta morendo di fame. Detenuto per sette mesi in una prigione clandestina di Sabratha s’è ammalato dopo aver dovuto stare per una settimana rinchiuso accanto al cadavere in decomposizione di un suo compagno di disavventure. Due volte ha pagato per salire su un canotto, due fallimenti. La terza volta è stato il trafficante stesso, vedendo che stava per morire, che l’ha gettato sulla barca che l’Aquarius ha soccorso.

«Ho vinto una donna»

A bordo le donne sono raggruppate nello Shelterviii. Possono uscire sul ponte, ma nessun uomo ha il diritto di entrare nel loro rifugio. È il regno di Alice, l’ostetrica. Come succede spesso, la maggior parte delle donne sono nigeriane, destinate alle reti della prostituzione europee. A volte la «madame»ix viaggia con loro. Certe sanno cosa le attende, altre sono convinte che saranno parrucchiere o stiliste. Nessuna ha più di 25 anni.

Ciò che succede alle donne africane in Libia è Koubra, una Togolese che viaggia col marito, a raccontarcelo: «basta che un Libico ti trovi per strada, ti prende e ti carica in macchina, poi ti porta da lui e ti rinchiude. Chiama gli amici e dice “ho vinto una donna!”. Che tu sia incinta o meno, che tu sia sola o abbia i bambini in braccio, se ne fregano. Vengono in 5 o 6, ti minacciano con un fucile e poi ti violentano uno alla volta. Quando hanno finito ti dicono di chiamare tuo marito perché paghi un riscatto. Se manca qualche dinaro o se il marito non è puntuale ti trattengono ancora.» Koubra descrive un inferno in terra. «Non puoi fidarti di nessuno. Certi tassisti ti obbligano a succhiarglielo e poi ti abbandonano in mezzo alla strada. E le donne in Libia non si comportano meglio. Ho lavorato per una madre di famiglia che dopo avermi pagato quanto mi doveva ha inviato suo figlio a tagliarmi la strada. Mi ha ripreso tutto.» Dopo tutto quello che ha vissuto, come chiedere a Koubra di fare attenzione alle sfumature? «Un Libico buono non esiste. Un Libico buono è quello che ti lascia vivere, che si accontenta di torturarti

Respirare, infine

L’Aquarius ha ricevuto l’ordine di sbarcare i suoi naufraghi a Pozzallo, in Sicilia. Due giorni di navigazione, con 267 persone a bordo, è aberrante in termini di costi, ma è la MRCC che decide. L’Italia vuole mantenere il controllo sulla gestione di questa marea ininterrotta di rifugiati.

Sul ponte posteriore Alice mette della musica. Un contest di danza si improvvisa tra un giovane Bengalese e un Marocchino per la gioia di essere salvi. Molti ridono, battono le mani, accennano qualche passo di danza. Ma molti altri hanno lo sguardo perso e tacciono, cupi in volto. Tra qualche ora saranno in Europa, come saranno accolti? «Li avvertiamo che non sarà facile, ma non spezziamo le loro speranze. I tre giorni che passano sulla nave devono essere una pausa. Possono respirare, riprendere le forze. Non possiamo dirgli brutalmente quello che li aspetta» dice Marcella Kraay, chef de mission per MSF.

Un traffico troppo redditizio

Tutti sulla nave, volontari di MSF e di SOS-Mediterranée sono coscienti di combattere i sintomi e non le cause. Che le soluzioni sono nelle mani dei politici che distolgono lo sguardo. Quanti annegati ci vorranno ancora? «Non capisco perché gli Stati europei non prendano in considerazione ciò che succede nel Mediterraneo e si ostinino a finanziare un sedicente Stato Libicox, s’innervosisce Stephane. Visto che questo Stato non esiste finanziano i passeurs, le milizie che organizzano il traffico di esseri umani. Perché il traffico dovrebbe arrestarsi? È troppo redditizio. La gente paga tra i 500 e i 2500 euro un passaggio sulle navi della morte.» il volontario non si calma «Noi ONGs siamo finanziati al 99% dalla società civile. Facciamo il lavoro che dovrebbero fare i governi e ci sputano in faccia accusandoci di essere in combutta coi passeurs. I paesi europei fingono di curarsi dei diritti umani, di sostenere valori di umanità, ma li calpestano allegramente».

Alla fine le coste siciliane. Quasi più nessuno parla. Le operazioni di sbarco prendono diverse ore, sotto un sole di piombo. Accolti sul molo da figure in tute bianche, mascherate, i rifugiati saranno selezionati, numerati, passati al metal detector, condotti in bus nei centri di detenzione. Sulla nave tutti gli stringeranno un’ultima volta la mano. Alice si nasconderà per piangere. Le nocche di James sbiancheranno stringendo il parapetto. Anton digrignerà i denti per l’impotenza. Poi si rimetteranno al lavoro, puliranno la nave, si prenderanno una sbronza e il giorno dopo partiranno. Con in testa questa frase di Albert Einstein: «il mondo non sarà distrutto da quelli che fanno del male, ma da chi li guarda senza fare nulla

Note

i La Search and Rescue Zone inizia a 12 miglia dalle coste libiche al limite delle acque internazionali.

ii Concorrente cinese di Amazon.

iii I volontari di SOS-Méditerrané si impegnano per tre turni da tre settimane ciascuno. Dopo di che, devono fare una pausa. Alcuni riprendono l’operatività, altri no.

iv Il Maritime Rescue Coordination Center è l’organismo italiano che coordina le azioni delle navi di soccorso presenti in zone. Niente si può fare senza il suo accordo.

v Oasi situata a 600 Km a sud di Tripoli, porta d’ingresso per quelli che arrivano dal deserto e centro nevralgico del traffico umano.

vi Tribù libica.

vii Per delle ragioni di sicurezza, non faremo menzione del suo nome.

viii Rifugio, spazio riservato alle donne.

ix La tenutaria, la madama.

x 3 governi si disputano il potere in Libia, più diverse milizie indipendenti.