Abbiamo trascorso questi ultimi mesi in continuo aggiornamento con i collettivi Kesha Niya e 20K grazie ai quali è stato possibile non rimanere all’oscuro di ciò che accade al confine. Abbiamo tradotto e condiviso i report scritti da Kesha Niya sulle violenze della polizia e sulle condizioni disumane del trattenimento e abbandono in cui vengono lasciate le persone che arrivano al confine di Ventimiglia. Ogni report, ogni telefonata, ogni incontro ci avvicinava sempre più al confine fino a decidere, in un momento di incremento locale dell’infezione covid 19, di partire.

Siamo arrivati in una mattina infrasettimanale, contemporaneamente all’orario in cui la Caritas distribuisce il pasto.  Numerose le persone, tutti maschi, in coda o sedute per terra con indossate le mascherine. Nei loro corpi la rassegnazione: una coda, una mano tesa a prendere il sacchetto, un giro su stessi e avanti un altro. Arrivano da Ventimiglia o direttamente dalla ferrovia e si allontanano seguendo gli stessi percorsi da cui sono arrivati.

Percorsi che facciamo anche noi e che ci portano lungo i binari della stazione praticamente deserti se non per la presenza di personale in divisa prevalentemente della polizia italiana, dell’esercito, di quella francese o della vigilanza privata, del personale ferroviario e di uomini e donne al lavoro. Mentre ferrovieri e lavoratori si muovono tra una banchina e l’altra intenti a fare cose e a trasportarne altre, gli uomini in divisa stazionano, assembrati, per lo più sul binario 3 dove transitano i treni per e dalla Francia.

L’atteggiamento tra le polizie italiane e francesi sembra assai poco collaborativo a tratti quasi ostile. Gli uni impegnati a dirigere il traffico per quelli che vengono fatti scendere dai treni in arrivo dalla Francia e gli altri impegnati a controllare chi in Francia ci sta per andare. Ma entrambi assolutamente interscambiabili nella profilazione razziale della scelta di chi controllare e nelle modalità aggressivo repressive del loro agire. Come già raccontato in diverse occasioni i treni in transito per la Francia stazionano il tempo necessario per permettere alle forze dell’ordine di effettuare quelli che loro chiamano controlli e quelli che più volte sono stati descritti con video testimonianze come vere e proprie aggressioni (persino da striscia la notizia…).

Seguendo le indicazioni che un poliziotto italiano fornisce, come fosse uno steward, a un presubilmente respinto dalla Francia, intravediamo i gruppi di migranti seduti sulle banchine morte della Stazione di Ventimiglia. Decidiamo di percorrere il perimetro esterno della stazione fino al parcheggio presso il ponte della ferrovia. Dietro le grate, sedute sul binario morto, ci sono una ventina di persone. Ci avviciniamo, proviamo a parlare con loro, alla richiesta se hanno un qualche problema di salute, alcuni uomini abbassano la testa mentre una donna, avvicinandosi quasi a coprirne un’altra seduta, ci dice che non ci sono problemi, con un chiaro invito ad andarcene. La sua sicurezza in una situazione prevalentemente maschile e il suo avvicinarsi all’unica ragazza presente ci induce ad ipotizzare un ruolo di controllo e di potere che abbiamo già visto e descritto più chiaramente in un precedente articolo presente nel Blog dal titolo “Come si è permesso al trafficking di creare la rete di sfruttamento a Ventimiglia. La Tratta e la Mafia, la Tratta è Mafia”.

Per il pranzo raggiungiamo in spiaggia alcune compagne di kesha Niya e di 20K. Ci scambiamo racconti, testimonianze, esperienze e sguardi sulle condizioni delle donne in frontiera, vittime del trafficking e dello sfruttamento della prostituzione. Condividiamo i nostri saperi: i ruoli della criminalità organizzata che gestisce il trafficking, la figura del passeur, dello sponsor, del trolley, come vengono reclutate le donne e da chi, quale la rete di sfruttamento a cui sono destinate, cosa sanno, come renderle più consapevoli e autonome circa il loro desiderio o bisogno di migrare o di fermarsi a riposare, come entrare in relazione con loro se così accerchiate da maschi, soprattutto ora che il bar Hobbit, punto di riferimento nel passaparola delle donne sole che transitavano a Ventimiglia, è chiuso causa Covid19.

La stazione di Ventimiglia è luogo di reclutamento di donne che tentano di passare il confine, tutto accade lì, tutti gli attori del crimine organizzato stazionano in quel luogo: c’è il trafficante, il passeur, la madam, il controllore.

Alle 18 ci rechiamo presso il parcheggio davanti al cimitero dove da ormai numerosi anni si alternano diverse associazioni per la distribuzione del cibo, vestiario e coperte, insieme a chi fa assistenza sanitaria e a chi attrezza postazioni con generatori per la ricarica dei cellulari. Neanche il tempo di avvicinarci al piazzale veniamo identificati immediatamente da due agenti della Digos, che stazioneranno in macchina per tutto il tempo della distribuzione. Appena cala il sole l’umidità del fiume avvolge i nostri corpi, fai finta di niente, sai che le persone intorno a te, quella notte come le precedenti e le future, le avranno passate e le passeranno all’addiaccio, senza alcun riparo se non quello di coperte recuperate dai grandi sacchi che escono dalle macchine di alcune volontarie.

La mattina successiva ritorniamo in stazione e raggiungiamo, seguendo i binari, l’area presso il ponte della ferrovia dove incontriamo diverse persone che rispondono alla nostra domanda di necessità di cure mediche. Lo spazio occupato segue una dislocazione per provenienza d’origine ed aree linguistiche, per la maggior parte sono uomini. Chi si avvicina, lamentando dolori forti al corpo, è una donna con la quale cerchiamo di interloquire nonostante il continuo e ripetuto intervento dell’uomo che le sta a fianco. Lei riesce comunque a dirci che c’è un’altra donna che sta male indicando i magazzini prima descritti. Proviamo a cercarla chiedendo ad alcuni uomini che incontriamo lungo i binari, tra loro alcuni si mostrano interessati a noi e iniziano a raccontarci che le donne sole che arrivano in stazione vengono immediatamente circondate da alcuni uomini e allontanate dal resto del gruppo. Nel mentre che ci raccontano questo, intravediamo tre donne col capo chino circondate da un gruppo di uomini, proviamo ad avvicinarci a loro, pensando che tra loro potrebbe esserci la donna malata. Un uomo con una bottiglia di vino bianco in mano ci allontana facendoci capire che non era sua intenzione farci avvicinare. Proviamo a parlare lo stesso con le donne ma nessuna di loro alza la testa, si capisce che sono spaventate e la nostra presenza crea tensione.

Proseguiamo il cammino dirigendoci verso l’ultima banchina dove incontriamo un gruppo di persone, sempre maschi, intenti a lavarsi nei pressi di una bocchetta d’acqua posta sotto il binario. Parlando con loro capiamo che sono arrivati da poco a Ventimiglia dalla rotta balcanica e non conoscono né la distribuzione mattutina alla Caritas né quella serale nei pressi del parcheggio del cimitero. Hanno come indicazione il fatto che la stazione sia il luogo dove poter attendere il passaggio del confine senza avere problemi con la polizia. Polizia che per altro continua a mantenere lo stesso assetto a difesa del Binario 3 come nel giorno precedente. Tre di loro presentano infestazione da scabbia, forniamo la terapia e diamo indicazioni su come si arriva alla Caritas, dove possono trovare abiti di ricambio necessari perché la cura sia efficace. Poco più avanti un altro gruppo di 6 persone al quale non riusciamo ad avvicinarci.

binario

Kesha Niya – confine alto

Ci allontaniamo dalla stazione per raggiungere il nuovo presidio di Kesha Niya e 20k presso la frontiera di Ventimiglia, come sempre molto organizzato e popolato. Al nostro arrivo infatti vediamo circa 50 persone, stanche dal lungo percorso che separa la notte nel container dal ritorno verso Ventimiglia. Le persone riposano, mangiano qualcosa, si scambiano informazioni e ipotesi per come affrontare il viaggio in attesa del passaggio del pullman diretto a Ventimiglia. Tra di loro risaltano un gruppo di 6 donne con bambini e ragazzini molto curiosi e attivi provenienti da paesi differenti. Si sono incontrate e riunite lungo il viaggio e sembrano determinate a mantenere la loro autonomia. Vengono più volte avvicinate da un gruppo di uomini, i passeur hanno volti ormai noti tra chi vive il confine, le donne li allontanano comprendendo i loro obiettivi. I passeur si raccolgono in un punto e tra loro vediamo la stessa donna, sicura e autoritaria che il giorno prima lungo i binari ci aveva fatto capire che nessuna persona aveva necessità di cure mediche.

Lasciamo Ventimiglia con la stessa sensazione di sempre. In questi 6 anni di presenza sul confine ne abbiamo vissute di cose, incontrate di persone, partecipato a lotte, condiviso nottate in strada, e tutto ci ritorna alla mente quando nuove compagne ci domandano “ma com’era prima?” quando c’erano le battiture al confine, quando si sono occupati i Balzi Rossi, quando c’erano i campi informali e poi quelli formali.

Proviamo a ripercorrere le contraddizioni, le violenze, le vittorie, gli errori, le sconfitte di quegli anni e da questo viaggio nel tempo e nello spazio intravediamo qualcosa che in tutti questi anni non si era mai mostrato. Dalle occupazioni dei primi mesi del 2015 si è passati a una serie di misure preventive e detentive che hanno lacerato le vite delle persone che hanno attraversato quel confine e fatto guadagnare chi di quel confine ne traeva profitto: stati, polizie, associazioni laiche o cattoliche, ong, ecc… Sappiamo che queste parole potrebbero ferire o far arrabbiare le persone che lavorano con passione in queste realtà associative da molto tempo ma è anche a queste persone che chiediamo di fare, insieme a noi, una pratica di parresia, cioè di dire la verità, come primo atto di capacità critica.

In questo atto di parresia c’è da domandarsi quanto fossimo preparati a vedere nelle lotte dei migranti al confine non solo il diritto di emigrare ma la messa in discussione dell’intera politica coloniale europea. Quando un gruppo di sudanesi, nel 2015, dopo alcuni mesi di presenza a Ventimiglia, scrissero su di un cartello che “Il problema è la frontiera” non parlavano solo di quella di Ventimiglia ma della costruzione dello Stato nazione e delle pratiche di potere e sfruttamento agite da quegli stessi stati nei loro territori portando istanze di emancipazione personale, sociale, “razziale”, intrecciate in modo tale da essere inseparabili.

Lo stesso atto di incessante parresia costato in denunce, obblighi di firma, limitazione della libertà personale, abusi di potere, violenze, minacce e reclusione di chi, solidale, occupa spazi di libertà. È in questi spazi che ad oggi, le associazioni riconosciute e incaricate di monitorare le persone che attraversano il confine, svolgono il loro lavoro, incontrano fisicamente le persone in transito, redigono report e quindi testimoniano che la loro presenza al confine ha un senso per chi li stipendia. E questo accade perché i solidali fanno di quegli spazi dei luoghi protetti, dove le persone in viaggio si sentono più libere di poter parlare, di soffermarsi, dove sanno che quel pasto non si esaurisce in un “dono” ma in un supporto a continuare il loro viaggio.

Il tempo trascorso nello spazio solidale organizzato lungo il confine alto e nel piazzale davanti al cimitero è diverso dal tempo trascorso alla distribuzione della Caritas. Lo dicono i corpi di chi attraversa quei luoghi. Lo dicono i sorrisi di chi dopo il pasto si ferma a far due chiacchiere mentre si attende che il cellulare raggiunga la carica per poter essere riutilizzato. Lo dice il fatto che alla Caritas non ci sono le associazioni incaricate di monitorare le persone che transitano da Ventimiglia, così come non ci sono sulla spiaggia, nel parco o lungo i binari della stazione dove i migranti attendono il trascorrere delle ore. Perché quelli non sono spazi di incontro e non lo sono né per i migranti né per le associazioni e non lo sono stati nemmeno per noi.

Questo è l’atto pratico di parresia che crediamo non possa più essere rimandato né celato. Così come è chiaro che l’interesse delle forze di polizia sia esclusivamente a tutela del Binario 3. Intorno a quel binario ci sono bambini a disposizione di pedofili del luogo o frontalieri; donne a disposizione di passeur che le vendono a trafficanti; giovani assoldati dalla malavita. Ma la difesa dello stato nazione, e quindi del Binario 3, è l’unico per cui vengono messe forze a disposizione e per cui addirittura si crea una “brigata speciale” di interforze poliziesche italofrancesi a tutela dello stesso.