‘Ndrangheta, spuntano nuovi “business” nel Ponente ligure (dal Secolo XIX, 25-06.2017)

‘Ndrangheta, spuntano nuovi “business” nel Ponente ligure

DAL SECOLO XIX DEL 25 GIUGNO 2017

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Il 25 Giugno 2017 è uscito sul Secolo XIX un articolo che parlava dei nuovi “business” della ‘ndrangheta nel Ponente Ligure. Affari di ogni genere come ad esempio «edilizia, trasporti, giochi e scommesse, raccolta e smaltimento rifiuti» nei comuni di Bordighera, Sanremo, Taggia e Diano Marina. L’articolo cita pure Ventimiglia, affermando che nella città di confine esiste “un’associazione a delinquere di stampo mafioso”: addirittura “la camera di controllo di Ventimiglia” viene definita. Certo non è una novità per chi attraversa quel territorio. E nemmeno, andrebbe detto, la mafia si occupa solamente di edilizia, trasporti, scommesse, raccolta e smaltimento rifiuti.

A Ventimiglia c’è un grosso traffico che riguarda gli esseri umani: dai passeurs che speculano sui migranti facendosi pagare per passare il confine (non sempre questa operazione va a buon fine), ai trafficanti che avviano alla prostituzione donne di tutte le età, anche con figli, costringendole a vendere il proprio corpo per attraversare il confine ed arrivare nel posto desiderato.
La mafia agisce anche così nel territorio di Ventimiglia, ma sembra che le istituzioni e le autorità, nonostante le ripetute segnalazioni di operatori e volontari, non facciano caso al crescente businnes di esseri umani, alimentato dalla presenza del confine.
Anche i giornalisti del Secolo, come quelli delle altre testate, possono pertanto permettersi di ignorare un fenomeno che collega mafia, ‘ndrangheta e malavita di vario livello: il traffico di esseri umani, che, grazie alla chiusura della frontiera da parte della Francia, sta dilagando in tutto il territorio ventimigliese e si sta rafforzando anno dopo anno.

La vergognosa assenza di un serio lavoro d’inchiesta sullo sfruttamento economico e sessuale delle persone migranti che transitano da Ventimiglia, purtroppo, fa da contraltare ad alcune scelte istituzionali che, consapevoli o meno che siano, vanno a incentivare la creazione di un contesto favorevole alla tratta degli esseri umani e quindi anche agli affari delle varie mafie presenti sul territorio. Una decisione scellerata e assolutamente criminogena, ad esempio, è stato l’ordine di spostare anche donne e bambini all’interno del campo della Croce Rossa Italiana, nella zona del parco Roja: un’area isolata, pericolosa e già segnata dal fenomeno della prostituzione e dalla folta presenza di trafficanti a caccia di affari.

Non dovrebbe essere una novità, insomma, il fatto che il territorio frontaliero italo-francese veda una strutturata azione mafiosa, operativa non soltanto nelle scommesse, trasporti e smaltimento rifiuti, ma impegnata anche nell’ampia fetta di affari legati alla presenza di centinaia di persone che vogliono oltrepassare un confine chiuso. Eppure l’articolo in questione rivela la scoperta dell’estate: a Ventimiglia, e in tutta la Costa Azzurra, “spuntano” la ‘ndrangheta e la camorra, infiltratesi finanche nella criminalità marsigliese. Uno scoop!

Il pressapochismo delle informazioni e la mancanza di approfondimenti concreti, sono un’ennesima occasione persa dalla pregevole stampa italiana di raccontare e documentare anche i pezzi più scomodi e torbidi, e quindi taciuti, della realtà di frontiera. Andando possibilmente anche al di là dello scontato e arcinoto: forse gli inquirenti e i validi giornalisti nostrani si documentano leggendo bei noir come Duri a Marsiglia, ambientato negli anni ’30 del secolo scorso… nel libro, il protagonista in fuga dall’oppressione dell’Italia fascista, giunge a Marsiglia e viene preso a servizio… indovinate da chi? Dai Calabresi, che a Marsiglia e in Costa Azzurra si contendono il controllo del territorio con i Marsigliesi e i Catalani… Niente di nuovo sotto al sole quindi, almeno da qualche decennio.

D’altronde, l’accuratezza del lavoro giornalistico fa ancora luce nella conclusione dell’articolo: «I magistrati hanno anche “attenzionato” le realtà legate alla galassia anarchica, riscontrando presenze nell’attività di volontariato legata all’assistenza dei migranti a Ventimiglia. Hanno inoltre individuato la presenza, ma non radicata sul territorio, di gruppi criminali albanesi, senegalesi e nigeriani». Giulio Gavino, il giornalista che ha scritto questo pezzo, dopo aver snocciolato informazioni approssimative e superficiali sulle mafie agenti nel territorio del Ponente Ligure, conclude quindi l’articolo con estrema pertinenza d’argomenti, tirando in ballo i solidali presenti a Ventimiglia.
Un ennesimo e pacchiano tentativo volto screditare qualsiasi opposizione politica, affiancando in modo vergognoso la realtà della criminalità mafiosa alla presenza di solidali socialmente e politicamente impegnati nel territorio: la chiusa fa piombare “ad arte” sulle teste della fantomatica “galassia anarchica” un’aura oscura di pericolosità sociale e colpevolezza. Illazioni campate per aria che inseguono gli anarchici fin dai tempi di Sacco e Vanzetti: si vede che il nostro giornalista è un cultore degli anni ’20 e ’30 del secolo passato….

Ci sarebbero da farsi quattro risate, se dietro queste righe maldestre non si celasse un’inquietante volontà di spostamento dell’attenzione e falsificazione (o insabbiamento) della realtà, ad uso e consumo di istituzioni che costruiscono continuamente capri espiatori per non ammettere le proprie responsabilità. I vari poteri istituzionali che tollerano, fingono di ignorare, o addirittura favoreggiano il traffico di esseri umani gestito da ’ndrangheta e dai vari gruppi della criminalità italo francese – gli stessi poteri che poi demonizzano i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, per giustificare gli interventi militari in Libia – costruiscono una retorica pelosa, che criminalizza e accusa, non si sa bene di che cosa, il mondo dell’attivismo e della solidarietà ai migranti in transito.
Un impegno diffamatorio e meschino, volto a colpire proprio coloro che lottano concretamente anche contro l’assalto di mafia e trafficanti al contesto migratorio. I solidali, i volontari, gli attivisti, sono gli unici, assieme ai migranti, ad essere criticamente presenti e attenti sul territorio, a vedere e quindi denunciare quanto accade.

Già nell’estate del 2016 i media, le istituzioni e le autorità locali hanno avuto buon gioco criminalizzando un gruppo estremamente eterogeneo e numeroso di attivisti, adoperando nei loro confronti l’appellativo di terroristi ed accusandoli di eversione. Addirittura i giornali scrissero di campi estivi d’addestramento alle armi e sciabole portate alle manifestazioni: stupidaggini senza riscontro nella realtà, calunnie per gettare discredito sulle voci che si levarono per contestare il blocco delle frontiere e la privazione della libertà e dignità di centinaia di persone. Nessun giornalista ha dato di conto per quelle bugie.

Il tempo passa, ma le strategie restano uguali: giornali locali e scribacchini conniventi, evidentemente, continuano quest’anno la pantomima contro coloro che si spendono e impegnano in prima persona al fianco delle persone migranti, pur non appartenendo a nessuna associazione, ong o gruppo istituzionale.
Sul secolo XIX l’attivismo finisce equiparato alle sacche mafiose che a Ventimiglia gestiscono, tra le tante altre cose, anche il traffico di esseri umani: come sempre il giornalismo italiano si adegua, con serenità, al ruolo di cane da guardia del potere costituito.

 

 Cati, g.b

 

Il vento soffia e non si può arrestare

Migranti: il vento soffia e non si può arrestare

Lotte, sofferenze, ingiustizie e passioni vissute da un giovane migrante sudanese arrivato in Italia nel 2015 e rimasto per lungo tempo al confine di Ventimiglia. Un’intervista che narra una delle tante storie di chi si è reso protagonista di un importante ciclo di lotta ed ha subito sulla propria pelle la violenza dei dispositivi di governance e la repressione delle istituzioni.

 

Quando sei arrivato in Italia?

J. Sono arrivato a fine Giugno del 2015 a Lampedusa. Appena sbarcato sono stato portato al Centro gestito dalla Croce Rossa Italiana. Ero molto stanco dal viaggio in mare e non stavo capendo cosa mi stava succedendo. Nel 2015 non esistevano ancora gli Hotspot per i migranti, quindi non mi hanno preso le impronte subito dopo lo sbarco.

 

Dopo i 5 giorni all’interno della Centro della CRI cosa è successo?

J. La polizia mi ha prelevato dal centro e mi ha portato ad Agrigento all’interno di un altro Centro nel quale sono stato altri 5 giorni. Ero molto disorientato e non capivo bene perchè non potevo andare dove volevo.

 

E dopo i 5 giorni ad Agrigento?

J. Sono stato nuovamente prelevato insieme ad altre persone. Ricordo che c’erano 4 pullman pronti per noi. La polizia ci disse che la destinazione di quei pullman era differente: uno andava a Napoli, uno a Roma, un altro a Milano e l’ultimo a Padova. Sul mio pullman eravamo 25 persone: 10 sudanesi, 2 nigeriani, 3 senegalesi e 10 del Bangladesh; la nostra destinazione era Padova.

 

Quindi ti hanno portato a Padova. Ma cosa hai pensato quando ti prelevavano per portarti in altri posti?

J. Eh….. ho pensato che fosse una merda. Io pensavo che appena avessi raggiunto l’Europa io fossi libero di poter andare dove volevo, nel mio caso pensavo che potessi raggiungere mio cugino in Inghilterra e richiedere l’asilo politico lì.

 

E dopo che sei arrivato a Padova che cosa è successo? Ti hanno spostato di nuovo?

J. Arrivati a Padova abbiamo dovuto aspettare più di un’ora per entrare in Questura. Il primo ad entrare sono stato io ed in quel momento c’erano solo mediatori pakistani che sapevano un po’ l’arabo ma la polizia non ha voluto che entrassero con me.

 

Quando sei entrato nella stanza della polizia cosa è successo?

J. Mi hanno chiesto di dare le impronte così potevo fare la richiesta di asilo in Italia, ma io non volevo! Perchè, come ho spiegato prima, volevo raggiungere l’Inghilterra e richiedere l’asilo lì. Il poliziotto mi ha aggredito verbalmente ed io ho reagito. Di conseguenza sono arrivati altri tre poliziotti che mi hanno picchiato sui polsi, ma io ho resistito nascondendo le mani. Allora loro mi hanno preso con la forza, tenendomi fermo, e sono riusciti a prendere le impronte.

 

Tutto questo è successo in presenza di un mediatore? E se non c’era, in che lingua parlavate?

J. No! i mediatori non sono stati autorizzati ad entrare perchè non erano mediatori arabi, anche se un po’ l’arabo lo sapevano. Io provavo a parlare l’inglese, all’epoca non lo sapevo molto; ma i poliziotti non capivano niente e mi rispondevano urlandomi addosso in italiano. L’unica cosa che ho capito è la parola “asilo” e il loro gesticolare che si riferiva al prendermi le impronte. Per questo mi sono rifiutato.

 

E dopo che ti hanno preso le impronte?

J. Sono uscito da lì e ho trovato un mediatore arabo che mi ha chiesto cosa era successo. Ho spiegato tutto ma ormai le impronte me le avevano prese. Dopo poco sono rispuntati i poliziotti che mi hanno dato un biglietto del treno per andare a Milano al Centro della CRI. Arrivato a Milano sono stato portato al Centro, non so bene cosa era quel posto, ma ho capito che potevo starci solo 5 giorni e poi o me ne andavo oppure finivo in un centro d’accoglienza. Ma io non volevo restare in Italia, io volevo raggiungere mio cugino in Inghilterra e quindi dopo due giorni lì dentro ho deciso di andarmene. Ho preso un treno che andava a Genova per poi raggiungere Ventimiglia.

 

In tutto questo tu avevi idea dove eri? Conoscevi la geografia italiana?

J. No assolutamente, non ci capivo niente. Ma sono stato contattato da mio zio che mi ha detto di raggiungerlo a Ventimiglia e che avremmo pagato un passeurs insieme per andare in Francia e poi raggiungere l’Inghilterra. Mi sono fidato e sono andato.

 

Arrivato a Ventimiglia che hai fatto?

J. Sono arrivato in stazione e come prima cosa ho chiamato mio zio, ma lui mi ha detto che era dentro al Centro della CRI nel quale prendevano le impronte. Io ho deciso che non volevo più farmi prendere le impronte. Ma ero disorientato, non sapevo dove ero e non sapevo come superare il confine.

 

Come ne sei uscito da questa situazione?

J. In stazione ho incontrato dei solidali che mi hanno spiegato dove ero e dato delle informazioni. Mi hanno spiegato che c’era un campo autogestito con migranti e solidali. Ho deciso di seguirli e sono arrivato con loro al campo dei Balzi Rossi.

 

In che periodo sei arrivato al campo?

J. Era Luglio 2015, non ricordo bene i giorni.

 

Quando sei arrivato ai Balzi Rossi cosa hai trovato?

J. Ero molto stanco e per un paio di giorni ho voluto riposarmi per essere più lucido. Era un campo con tanti migranti e tanti solidali. Tutti aiutavano nella gestione di questo: c’era la cucina, i bagni, le docce, un info point e il magazzino con cibo e vestiti. Ognuno era libero di fare quello voleva, sempre nel rispetto degli altri. Durante il giorno c’erano pure corsi di francese o di inglese fatti dai solidali, c’erano assemblee e discussioni. Io mi sono ambientato ed ho incominciato subito a far parte dell’autogestione di quel campo trovandomi molto bene sia con i migranti e sia con i solidali.

 

Quanto sei stato al campo dei Balzi Rossi?

J. Ci sono stato fino a quando non è stato sgomberato, cioè fino a fine settembre. Lì ho imparato l’inglese, ho aiutato altri migranti perché potessero superare la frontiera, ho conosciuto i solidali che si facevano chiamare no borders ed li ho aiutati a parlare con i migranti. A fine settembre è finito il campo: io ero molto triste perchè all’interno di quello spazio io avevo trovato amici e compagni che sentivo come la mia famiglia. Sono arrivati circa 200 poliziotti alle 5 di mattina. E hanno sgomberato.

 

Ma durante lo sgombero cosa è successo? Tu cosa facevi?

J. Noi ci siamo messi sopra gli scogli, vicino al mare così la polizia non poteva raggiungerci. Noi eravamo circa 100 persone tra migranti e solidali. Siamo stati sugli scogli senza mangiare e bere fino alle 16 circa. Dopo la polizia ha deciso di incominciare a prendere le persone. Dopo poco è arrivato il Vescovo che ha cercato di mediare cercando di convincere noi migranti ad andare con la polizia a Ventimiglia per entrare al Centro della CRI. Noi ci siamo rifiutati e allora la polizia ha incominciato a prenderci con la forza.

 

Dei solidali che ne hanno fatto?

J. Anche loro sono stati presi e portati subito in commissariato, ad alcuni di loro sono stati dati dei foglio di via con l’accusa di pericolosità sociale e tutti gli altri sono stati denunciati.

 

Quindi sei stato separato dai solidali e dove ti hanno portato? Come ti sentivi?

J. Mi hanno portato al Centro della CRI; io ero molto arrabbiato perchè avevano portato via, oltre ai migranti, anche i solidali e li stavano reprimendo con denunce senza aver fatto nulla di male. Ho aspettato 2 ore dentro al Centro della CRI non sapendo cosa fare, poi ho visto che i solidali erano fuori dal Centro ed erano stati tutti rilasciati. Allora mi sono unito a loro. Successivamente ho deciso di entrare nella Chiesa che accoglieva i migranti, sono stato lì due giorni e poi sono andato a vivere con i miei compagni europei. In quei giorni c’è pure stata una manifestazione contro la frontiera ma la polizia non ci ha permesso di partire. Ad un certo punto, quando eravamo rimasti in 30, la polizia ci ha caricati: ci ha picchiato e ci ha rincorso per circa 2 km per poterci manganellare. Io per fortuna non sono stato picchiato però ho visto i miei compagni e le mie compagne venire pestati dalla polizia.

 

Finora solo brutte esperienze con la polizia italiana. Dopo questa manifestazione hai deciso di proseguire il tuo viaggio o di rimanere in Italia?

J. Ho deciso di rimanere in Italia perchè avevo trovato il mio posto, dove mi sentivo libero: a Ventimiglia, con i solidali per aiutare i migranti. Quindi ho fatto la richiesta d’asilo politico a Torino, il 10 novembre 2015 sono andato in questura, mi sono fermato una settimana da degli amici solidali e poi sono ripartito per Ventimiglia.

 

Ma a Ventimiglia vivevi sempre per strada con i migranti? C’era un campo autogestito dopo la fine dei Balzi Rossi?

J. No, non c’era nessun campo autogestito. I migranti vivevano per strada, soprattutto in stazione. Ma era inverno, era tutto molto più tranquillo: i migranti per tutto l’inverno saranno stati al massimo 80. Io vivevo a casa di un solidale nell’entroterra ligure. Andavo spesso a Ventimiglia per aiutare i migranti che arrivavano e non sapevano nulla della città; li trovavo non solo in stazione ma anche vicino al mare. Alcuni stavano dentro al Centro della CRI. In quel periodo facevamo spesso assemblee per organizzarci per trovare una soluzione più dignitosa. I solidali erano con noi.

 

Questo in autunno/inverno 2015/2016. Durante la primavera del 2016 cosa è successo?

J. Sono stato con i no borders. Dopo varie assemblee tra solidali e migranti siamo riusciti a trovare una soluzione quantomeno dignitosa: abbiamo “occupato” un pezzo di terra sotto al cavalcavia in Via Tenda. Non era il massimo ovviamente, vicino al fiume e nella terra, ma eravamo al coperto e tutti insieme. Si è creata una situazione di autogestione, c’era tutto: cibo, vestiti, tende e coperte. Spesso dovevamo dividerci le coperte e le tende perchè non erano abbastanza per tutti, i solidali ricevevano donazioni quindi bisognava arrangiarsi. Ma tutto sommato non era male. Facevamo assemblee tra migranti e poi con i solidali. Ci sono state anche varie giornate di lotta, manifestazioni contro la frontiera. Durante questo periodo la polizia non ci lasciava stare: passava spesso al campo e, guardandoci da lontano, rideva e ci prendeva in giro come se fossimo animali. Spesso i poliziotti provocavano i solidali. Nel frattempo continuavano ad arrivare migranti, continuavano le violenze e le torture sui migranti e le violenze psicologiche a chi provava a portare solidarietà. Finché un bel giorno non è arrivata l’ordinanza di sgombero del campo in Via Tenda per motivi igienici. Mi sono chiesto: “e dove dobbiamo andare noi? Non possono mettere dei bagni e delle docce invece di sgomberarci?”. La risposta dei solidali è stata chiara: “A loro non importa che noi viviamo in condizioni dignitose, a loro importa distruggere l’autorganizzazione”. E così è stato.

 

Quando è stato il giorno dello sgombero? Cosa è successo?

J. Il 29 marzo. Ma abbiamo deciso tutti insieme di andarcene prima che arrivasse la celere, non c’erano le condizioni per resistere ad uno sgombero che sembrava potesse essere violento. Mi ricordo che pioveva ma per i preparativi non era un problema perchè eravamo al coperto del cavalcavia. Ci siamo svegliati molto presto per radunare tutto quello che doveva essere portato via: tende, coperte, cucina, cibo e altro. Abbiamo pure ripulito l’aerea. Nel frattempo i solidali cercavano di gestirsi i giornalisti, insistevano a riprenderci mentre facevamo le nostre cose. Richiedevano interviste, alcuni giornalisti erano davvero fastidiosi.

 

Ma vi preparavate per andare dove?

J. Eh… da nessuna parte. Durante l’assemblea del giorno prima i solidali avevano proposto di occupare degli spazi ma molti migranti non erano convinti e allora si era deciso di attendere ancora un giorno o due per parlarne con calma, nel frattempo continuavamo a stare per strada. Ci siamo spostati verso la spiaggia, eravamo circa 400 davanti agli occhi di giornalisti, tv ed abitanti di Ventimiglia. Ma che dovevamo fare? Dove potevamo andare? Lo sgombero era un chiaro segnale da parte delle istituzioni: migranti e solidali non erano i benvenuti nella città. Appena arrivati in spiaggia mi ricordo che i solidali hanno ricevuto una notizia e si sono agitati molto; ho subito chiesto e ho capito il motivo per cui si sono allarmati: la mattina presto del giorno dopo sarebbero arrivati pullman e polizia per portare i migranti nel Sud Italia, negli hotspot, ed arrestare i solidali.

 

E con questa notizia che avete deciso di fare?

J. Abbiamo fatto un’assemblea, non c’erano molte alternative perchè il tempo era davvero poco. Tutti insieme abbiamo deciso di provare a rifugiarci in una chiesa vicino alla spiaggia. Alcuni migranti hanno deciso di nascondersi sui monti e provare a passare il confine, molti hanno accettato di entrare in chiesa. Anche i solidali erano in difficoltà, ma la situazione era pesante e non si poteva aspettare. Il parroco ha deciso di ospitarci dopo che i solidali hanno mediato e gli hanno fatto capire la situazione. Siamo andati in tanti lì dentro, forse 200, nascosti come dei criminali. I solidali hanno girato tutta la notte per provare a recuperare chi era rimasto per strada, io stavo in chiesa ed aiutavo i migranti spiegandogli bene cosa stava succedendo e tranquillizzandoli. In effetti il giorno dopo sono arrivati tanti poliziotti e dei pullman, ma non sono riusciti a prendere tante persone perchè in chiesa loro non potevano entrare. Per questo credo che si siano arrabbiati molto e quindi hanno incominciato a cercare i solidali. Due giorni dopo allo sgombero del campo in Via Tenda dei poliziotti sono entrati in chiesa mentre facevamo assemblea per decidere cosa fare, dove andare, ed hanno preso i solidali.

 

Che cosa hanno fatto ai solidali?

J. Li hanno portati in commissariato, li hanno tenuti tutta la notte e gli hanno dato dei fogli di via e la pericolosità sociale.

 

E voi migranti eravate sempre in chiesa? Eravate spaventati?

J. Noi eravamo in chiesa, non eravamo spaventati ma arrabbiati perchè avevano preso i nostri amici solidali. Abbiamo deciso di fare una manifestazione contro la frontiera. Successivamente siamo rientrati tutti in un’altra chiesa. E da quel momento a Ventimiglia è cambiato tutto: la Chiesa delle Gianchette ospitava i migranti ed è stato chiuso il Centro della CRI vicino alla stazione per aprirne uno nuovo, isolato e lontano da tutto nel Parco Roja. Io continuavo a vivere in una località vicina ma trascorrevo le giornate a Ventimiglia. Dopo poco tempo si era ricreato un campo alle vecchie stalle, vicino al Parco Roja. Ma anche lì non andava bene: la polizia veniva spesso per toglierci la cucina e per prendere i solidali ai quali davano altri fogli di via. Continuavano a reprimere i no borders senza alcuna vera motivazione.

Poi c’è stato il campeggio organizzato dai solidali, era agosto 2016. Sono arrivate tante persone da varie parti dell’Italia e da varie città dell’Europa. Stavamo a Ciaixe, un piccolo paese sopra a Ventimiglia, sui monti. Il giorno prima dell’inizio del campeggio noi migranti ed alcuni solidali abbiamo deciso di fare una dimostrazione politica contro la frontiera: siamo arrivati al confine in 400, ai Balzi Rossi e abbiamo aspettato l’arrivo della polizia proprio per focalizzare il problema alla frontiera. La polizia è arrivata e ci ha vietato di bere: era caldissimo. Alcuni solidali hanno provato a portarci l’acqua ma venivano fermati e gli veniva dato il foglio di via, ancora! Siamo rimasti sotto il sole per tante ore finché la polizia, non ho capito bene per quale motivo, ha deciso di caricarci verso la Francia. Puoi immaginare il risultato. 400 persone che sfondano il confine ed entrano in Francia occupando la spiaggia di Mentone. Io anche sono passato ma sono ritornato indietro quasi subito. Alcuni migranti sono riusciti a non farsi prendere, altri sono stati riportati al Parco Roja, cioè al Centro della CRI. I solidali invece sono stati tenuti in stato di fermo per molte ore e gli hanno dato altri fogli di via.

Il giorno dopo invece è morto d’infarto un poliziotto mentre in circa cinquanta persone cercavamo di salutare i ragazzi reclusi al Centro della CRI. La polizia è stata molto violenta! Ci hanno inseguiti con le camionette, ci hanno picchiato, ci sono stati dieci fermi e due arresti per non aver fatto niente. Nel frattempo la polizia era entrata anche al Freespot, il luogo in cui tenevamo abiti, cibo ed in cui potevamo lavarci e riposarci; era un garage e noi pagavamo l’affitto regolarmente ma alla polizia non andava bene. Hanno fatto molte perquisizioni, hanno portato i solidali in commissariato e hanno fatto chiudere quel posto. In quella giornata è morto un poliziotto, gli è venuto un infarto. Subito le istituzioni locali e la polizia hanno dato la colpa ai no borders ma in realtà questa persona è morta da sola, per il caldo e gli sforzi, i solidali erano pacifici, non hanno fatto male a nessuno.

Nel frattempo tanti solidali hanno provato a raggiungere Ventimiglia ma venivano presi e gli veniva dato subito un foglio di via, mi sembra che siamo arrivati a 60 fogli di via dal 2015 al 2016.

Continuava la repressione sui solidali, una repressione massiccia.

 

Come ti sei sentito quando hanno incominciato a reprimere i no borders?

J. Ero molto arrabbiato perchè i no borders erano la mia famiglia, i miei fratelli e le mie sorelle e non capivo il motivo per cui la polizia si accaniva così tanto. Con il passare del tempo, invece, sono riuscito a capire: per lo Stato italiano e alle istituzioni tutte i no borders sono un problema, sono pericolosi. Io sono sempre rimasto con loro, ancora oggi sono con loro. Loro stanno dalla parte dei migranti, stanno dalla parte degli esclusi, contro le ingiustizie su tutti (bianchi e neri).

Da quando sono arrivato a Ventimiglia ed ho conosciuto i no borders, ho capito che io voglio aiutare i migranti ed aiutare i solidali.

 

Grazie per questo prezioso racconto. Ma ritorniamo un attimo sulla tua domanda d’asilo. Mi racconti bene cosa è successo?

J. Allora io ho fatto richiesta d’asilo nel Novembre del 2015, ho aspettato un anno ed un mese ma non ho ricevuto nessuna risposta da parte della Questura: ogni volta che mi presentavo all’appuntamento mi rimandavano ad un’altra data senza dirmi il motivo e senza darmi nessun tipo di foglio che attestava che ero un richiedente asilo.

Dopo un anno e mezzo ho deciso di andare in Francia e chiedere l’asilo lì, visto che l’Italia non mi rispondeva. La mia idea era di prendere i documenti in territorio francese e ritornare a Ventimiglia, completamente in regola, per continuare ad aiutare i migranti.

In Francia ho continuato a lottare con i solidali, sono stato a Nizza, Marsiglia, Grenoble e tanti altri posti.

 

Che contatti avevi?

J. Avevo i contatti di solidali, no borders e migranti conosciuti a Ventimiglia o in altre situazioni di lotta.

 

Dove hai fatto richiesta d’asilo?

J. L’ho fatta a Grenoble, sono andato lì perchè avevo il contatto di un solidale. Inizialmente vivevo in una casa occupata dai solidali per i migranti, la polizia ci aveva tolto luce ed acqua per 20 giorni perchè voleva sgomberarci. Dopo tre mesi la casa è andata a fuoco perchè un sudanese al suo interno ha litigato con un altro occupante e ha deciso di dare fuoco alla sua camera dando alle fiamme tutto lo stabile. Dopo il rogo è arrivata la polizia che ci ha portato tutti in una palestra dove abbiamo vissuto per 21 giorni. Successivamente a questi giorni, chi aveva i documenti è stato portato in montagna in alcuni appartamenti, invece chi non aveva i documenti doveva stare in un hotel nel quale però non c’erano tante libertà, quel posto non favoriva l’autodeterminazione.

Io mi sono rifiutato di entrare dentro all’hotel e sono stato ospitato per un po’ da un amico. Successivamente ho vissuto qualche settimana all’interno di un centro aperto dopo lo sgombero di Calais, con amici conosciuti in Italia e in Francia.

In tutti questi mesi ho girato molto la Francia per andare a trovare amici conosciuti a Ventimiglia, solidali e migranti.

Ho aspettato 8 mesi per avere una risposta dall’Italia per colpa della legge Dublino.

 

Che cosa è la legge di Dublino?

J. È la legge per la quale il migrante deve fare richiesta d’asilo nel primo Paese in cui da le impronte digitali. Nel mio caso è l’Italia, come in tanti altri casi. Dato che ho dato le impronte per la prima volta in Italia, la Francia doveva aspettare la risposta italiana e capire se dovevano deportarmi in Italia oppure farmi continuare la richiesta d’asilo in Francia.

 

Ok. E in questi mesi di attesa che cosa dovevi fare?

J. Allora, io ho fatto domanda d’asilo in Francia nel Dicembre del 2016, a Gennaio mi hanno dato la prima risposta dicendomi che io ero un Dublino (cioè avevo già dato le impronte in Italia) e che dovevo aspettare 4 mesi e nel mentre dovevo andare a firmare una volta al mese in prefettura per certificare la mia presenza sul territorio francese.

Dopo 3 mesi è arrivata la risposta italiana: dovevo essere riportato in Italia. Allora ho fatto il ricorso con l’aiuto di un avvocato. Il Tribunale mi ha dato altri 45 giorni di tempo di attesa nei quali dovevo firmare in prefettura due volte alla settimana. Dopo questi 45 giorni mi hanno detto di attendere di nuovo altri 45 giorni e di firmare sempre due volte alla settimana. Nel frattempo è arrivata la risposta del ricorso: non potevo rimanere in Francia. Un giorno sono andato a firmare e la polizia mi ha arrestato. Mi hanno portato in carcere a Lione ed il giorno dopo sono partito alle 11 del mattino per andare in aeroporto. Sono arrivato alle 11.30 in aeroporto, scortato dalla polizia e con le manette come se fossi un criminale. Mi hanno fatto entrare nell’aereo che andava verso l’Italia; alle 13.30 sono arrivato a Cagliari ma la polizia italiana mi ha detto che non potevo restare in Italia e mi hanno messo su un altro volo verso Bastia, in Corsica, quindi di nuovo in Francia; lì la polizia francese era scocciata perchè mi avevano appena decretato l’espulsione dalla Francia, quindi mi hanno fatto prendere un altro aereo alle 16.30 e sono arrivato a Roma alle 17.30.

 

Ma in tutto questo viaggio ti hanno fatto mangiare?

J. Sì, ma poco. Mi hanno dato un po’ di pasta con il tonno, un po’ di pane ed un bicchiere d’acqua, ho mangiato solo due volte in 3 giorni. Inoltre per tutti i 3 giorni ho avuto le manette, me le hanno tolte quando sono arrivato a Roma.

 

A Roma cosa è successo?

J. Eravamo in tutto 10 persone, abbiamo aspettato un po’ per sapere cosa dovevano fare con noi. Io avevo i documenti della richiesta d’asilo in Italia, i solidali mi hanno aiutato a capire che dovessi fare e l’avvocato mi ha detto che non potevano trattenermi ma dovevano rilasciarmi. Ma così non è stato, infatti dopo qualche ora che ero in aeroporto, la polizia se n’è andata chiudendoci inizialmente dentro allo stanzino che usano per fare i controlli. C’era molto freddo perchè c’era l’aria condizionata e ci avevano detto che avremmo dormito lì. Non avevo vestiti con me perchè non avevo avuto la possibilità di prendere niente in casa e non potevo chiedere una coperta perchè ci avevano lasciati soli. Poi un uomo ci ha aperto la stanza, ma comunque non potevamo uscire dall’aeroporto, solo noi, i turisti, le persone europee entravano ed uscivano, noi non potevamo nemmeno andarci a fumare una sigaretta. Ho passato la notte lì dentro. La mattina seguente, fino alle 10.00, non si è visto nessuno. Successivamente sono arrivati dei poliziotti ai quali ho fatto vedere il mio C3 (il foglio della richiesta d’asilo si chiama così), dopo un po’ di tempo mi hanno dato un biglietto per andare a Torino, dove avevo fatto la richiesta d’asilo nel 2015; la cosa buffa è che dopo avermi trattato in modo pessimo durante la deportazione negandomi cibo, informazioni e tenendomi ammanettato, poi mi hanno pagato un biglietto da 92 euro per andare a Torino.

Sono uscito dall’aeroporto di Fiumicino e ho preso il treno per Milano e da lì dovevo prendere il treno per Torino, ma ho deciso di andare a Genova per andare a trovare degli amici solidali conosciuti a Ventimiglia.

 

In quelle giornate qualcuno ti ha aiutato ad uscire fuori da quella situazione?

J. Sì sì, tanti solidali mi hanno aiutato, mi chiamavano spesso e mi chiarivano la situazione.

 

Secondo te perchè in Italia hai aspettato tanto e stai aspettando ancora per avere l’audizione alla Commissione che deve decidere sul tuo permesso di soggiorno?

J. Secondo me perchè per un anno e mezzo io ho vissuto a Ventimiglia ed ho lottato con i no borders che sono stati criminalizzati e additati più di una volta come terroristi. Fanno sempre così, ai migranti che si ribellano alle loro condizioni, gliela fanno pagare con l’attesa per la Commissione, con la detenzione nei CIE oppure con l’espulsione dal territorio.

 

Grazie mille per aver raccontato la tua esperienza. Buona fortuna per il tuo futuro.

J. Grazie mille a voi.

 

Cati

Le onde come il filo spinato

Mediterraneo : dieci giorni in mare a bordo della Aquarius

Le onde come il filo spinato

Apparso su CQFD n°156 (luglio-agosto 2017), rubrica Attualità, di Marie Nennès, illustrato da Suzanne Friedel / SOS Méditerranée; messo in linea il 10/07/2017. Tradotto dal francese su libera iniziativa da Federico de Salvo e Cecilia Paradiso.

Dal febbraio 2016, l’Aquarius solca le acque internazionali al largo della Libia per portare soccorso ai migranti che tentano la traversata verso l’Europa. Una delle rotte più mortali al mondo: più di duemila persone sono già annegate percorrendola nel 2017. Noleggiata da SOS-Meéditerranée, l’Aquarius è una delle navi di soccorso presenti nella zona – la sola a pattugliarla tutto l’anno. CQFD si è potuto imbarcare sull’Aquarius per una decina di giorni.

A est, i primi barlumi si fanno più precisi. Sono le h 5,30. Dalla plancia, Basile scruta l’orizzonte al binocolo già da un’ora buona. Invano. L’Aquarius è di ritorno nella SAR zonei dopo quindici giorni tirata a secco. Tutti sono nervosi. Per un po’, ci si è sentiti in colpa per essere stati assenti. Da qualche parte là davanti, un punto nero nella notte potrebbe attendere disperatamente di essere soccorso. Un canotto pneumatico grigio, senza luci, invisibile ai radar a meno di cinque miglia, con a bordo centinaia di persone, senza acqua, e sempre più spesso senza motore. Il mare è brutto, il vento soffia da nord. «Non succederà niente oggi, valuta Andreas, il secondo. I canotti non possono lasciare le coste con questo tempo, non riescono a superare le prime onde.»

«Non restare con le braccia conserte»

Volontario di SOS-Méditerranée, Basile continua comunque la sua guardia, presto sostituito da James, poi da Svenja. E così di seguito, ogni due ore, fino a notte. «Quello che era vero anche solo l’anno scorso lo è di meno in meno adesso, spiega Alain, robusto, proveniente dalla Martinica, con alle spalle già una decina di turni a bordo. Prima, i trafficanti aspettavano che il mare fosse in buone condizioni per mandare i canotti. E alcuni passeggeri erano dotati di giubbotti salvagente. Oggi, i gommoni comprati a 130 euro su Alibabaii hanno rimpiazzato le barche da pesca. E prendono il largo anche con il cattivo tempo. A quelli che non vogliono salire a bordo viene sparato nella macchia vicino alle spiagge. I passeurs dicono agli altri: “l’Italia è dritto davanti a voi, ci sarete in tre ore!” I motori marci spesso si bloccano nel giro di qualche ora, per mancanza di carburante. Oppure, altri malviventi arrivano per rubare il motore e lasciano i migranti alla deriva.»

Per la decina di volontari di SOS-Méditerranée, la giornata trascorre in esercitazioni di salvataggio: bisogna rodare i nuoviiii, fargli acquisire gli automatismi. Non si tratta di novizi, la maggior parte di loro ha già esperienza da marinaio, ma questo lavoro è particolare. Davanti a delle persone in preda al panico e alle proprie emozioni, devono saper reagire, calmare, rassicurare. «Mi ricorderò per sempre del mio primo salvataggio, racconta Stéphane Broc’h, ho preso uno schiaffone.» Questo bretone un filo taciturno coordina i soccorsi in acqua. E’ la prima mano che afferra il naufrago. Sono già diversi mesi che ha lasciato il suo lavoro di meccanico di marina nel Pacifico per imbarcarsi con SOS. «Non potevo restare con le braccia conserte, avevo bisogno di agire, per dormire in pace, potermi guardare allo specchio. Avevo le competenze e quindi sono venuto.» Più tardi nel pomeriggio, è l’equipe di Medici senza frontiere (MSF) che garantirà la formazione in primo soccorso, spiegando come prendersi carico dei rifugiati a bordo e a quali sintomi prestare attenzione.

Quello che li ossessiona

Mezzogiorno, il giorno seguente. Dalla plancia, Alexandre Moroz, il capitano bielorusso, avvisa: ha appena ricevuto una chiamata del MRCCiv. Un canotto è alla deriva a cinque ore di navigazione a est. L’Aquarius è l’imbarcazione di salvataggio più vicina, bisogna andare. La tensione sale – arriveremo in tempo? Poi si riabbassa leggermente: un cargo turco è vicino, raccoglierà i naufraghi che saranno in seguito trasferiti sulla nostra nave.

E’ notte quando il trasbordo inizia. Per due ore, il gommone di salvataggio moltiplica le andate e ritorno da una nave all’altra, trasportando quindici persone per volta. Stravolti, i primi superstiti posano un piede esitante sul ponte, sostenuti dalle braccia e i sorrisi di Charly e Christina: «Benvenuto, fratello, Welcome, Salam aleikoum.» Una sola donna, incinta, in mezzo a 117 uomini. Per la maggior parte maliani, ma anche ghanesi, gambiani, senegalesi: quasi tutta l’Africa dell’ovest è rappresentata. Tutti sono a piedi nudi, alcuni hanno anche il torso nudo. I loro abiti puzzano di gasolio, merda, sudore e paura. Li si fa spogliare, lavare e cambiare. Tutti ricevono il medesimo kit: vestiti puliti, una coperta, acqua e biscotti ipercalorici. I medici individuano i feriti, organizzano le prime cure. Alcuni crollano dalla fatica, altri tremano sulle loro gambe. Poco a poco, i visi si distendono. Dopo qualche ora iniziano a raccontare. La paura durante la traversata, quella di annegare su quella barchetta sovraccarica. Ma non è questa paura che tende i visi, infossa le orbite. No, quel che li ossessiona è la Libia.

«Venduto come una capra»

Bouba, un gambiano robusto di una trentina d’anni, berretto di lana calato sulla testa e sorriso inossidabile, si lancia: «Sono venuto in Libia per lavorare. Pensavo di poterci trovare un futuro, ma è stata una cattiva idea. Ci sono restato un anno. E’ poco, un anno, ma laggiù mi è sembrato lunghissimo: la vita era difficilissima.» Il sorriso sparisce. «Sono stato rapito non appena giunto a Sabhav. Il passeur libico incontrato ad Agadès mi aveva venduto ad una banda di Beni Walivi. Mi hanno rinchiuso con più di un centinaio di persone, uomini e donne, giovani e vecchi. Non so se si trattasse di una prigione ufficiale, c’erano dei prigionieri con i documenti in regola, permesso di lavoro e tutto. Non mi è stata data nessuna spiegazione.»

Il racconto si fa difficile, Bouba deglutisce a fatica: «La loro unica motivazione sono i soldi. Ti prendono tutto quello che hai, addirittura ti spogliano per vedere se nascondi qualcosa. Poi ti chiedono di chiamare la tua famiglia perché mandino dei soldi. Se non ne hai, ti picchiano. Se ne hai, ti picchiano comunque, per far sì che i tuoi parenti sentano le grida al telefono. Io, sono solo, non ho nessuno, quindi ho dovuto lavorare in schiavitù. Volevano 3.500 dollari per la mia libertà! E poi, un giorno, mi hanno fatto partire senza che io sappia perché

Omar, giovane senegalese di 19 anni, racconta una storia simile: «Volevo andare in Europa, ma mi hanno venduto. Come una capra! Ho riacquistato la libertà in cambio di denaro, ma sono stato catturato di nuovo dopo qualche giorno. Mi picchiavano tutti i giorni, non mi davano da mangiare e mi hanno obbligato a chiamare la mia famiglia. E anche dopo il versamento di un riscatto, non mi hanno liberato. Una notte ho rotto la porta e sono scappato.»

Detenzione spaventosa

Le storie si seguono e si assomigliano, con più o meno violenza, più o meno fortuna. Molti esibiscono delle brutte cicatrici, provocate da manette troppo strette ai polsi e alle caviglie. Alcuni soffrono di piaghe infette e bruciature, altri di malattie della pelle contratte nella promiscuità dei centri di detenzione. All’incirca una metà di loro, in partenza, non aveva alcuna intenzione di passare in Europa, ma non hanno avuto altra possibilità che imbarcarsi per fuggire il caos libico e salvarsi la pelle.

Secondo MSF, esistono 42 centri di detenzione ufficiali in Libia, dove sono rinchiusi gli immigrati clandestini. L’ONG non ha accesso che a 8 di questi. «non ci sono registri, né di entrata, né di uscita, racconta un’incaricata di missione di MSF in Libiavii, in visita sulla nave. Non si possono fare dei veri monitoraggi. Un mattino arrivi e mancano 300 persone rispetto al giorno prima… impossibile sapere cosa ne è stato, se sono state uccise, liberate, trasferite in un altro centro o messe su delle imbarcazioni. I prigionieri non si lamentano, per non essere picchiati, ma le condizioni di detenzione sono spaventose.» Spiega anche che nessuno sa dire quante prigioni clandestine si sommino a quelle ufficiali.

Avvolti nelle loro coperte, i rifugiati dormono in sicurezza per la prima volta dopo lungo tempo. Tutta la notte, dei volontari vegliano, parlano con chi non riesce a dormire, posano una mano benevola su una spalla, offrono un sorriso. Domani mattina, i rifugiati saranno trasferiti sulla nave di un’altra ONG che rientra in Italia.

Ibrahim, 40 chili

L’Aquarius ha rimontato la guardia ad ovest di Tripoli, in acque internazionali. Il maggior numero di partenze avvengono da questa parte di costa, al largo di Sabratha. Questa volta la radio gracchia un appello, parlando di tre imbarcazioni. Un’altra nave è già sul posto, ma ha bisogno di rinforzi.

Quando arriviamo un’imbarcazione manca all’appello. I passeggeri delle altre barche dicono che il motore ha avuto un problema e che l’hanno persa di vista. Son tornati indietro, sono annegati, sono alla deriva? Come saperlo? Dobbiamo concentrarci su quelli che sono qui, ammucchiati in una barca di legno e in un canotto mezzo sgonfio. La ronda dei canotti di salvataggio ricomincia. Stavolta ci sono donne, bambini, un neonato di un mese. Pakistani, bengalesi, etiopi, sudanesi, marocchini… Molti minori non accompagnati. E Ibrahim.

Quando sale a bordo si fa il silenzio. È alto, circa due metri. E d’una magrezza irreale, appena 40 kg. Si direbbe uscito da un campo di concentramento. Ha la febbre, riesce appena a camminare, parla in un sussurro. Il medico Craig Spencer lo conduce alla clinica. Ci dirà più tardi che il giovane è del Gambia, ha sedici anni e una setticemia. Sta morendo di fame. Detenuto per sette mesi in una prigione clandestina di Sabratha s’è ammalato dopo aver dovuto stare per una settimana rinchiuso accanto al cadavere in decomposizione di un suo compagno di disavventure. Due volte ha pagato per salire su un canotto, due fallimenti. La terza volta è stato il trafficante stesso, vedendo che stava per morire, che l’ha gettato sulla barca che l’Aquarius ha soccorso.

«Ho vinto una donna»

A bordo le donne sono raggruppate nello Shelterviii. Possono uscire sul ponte, ma nessun uomo ha il diritto di entrare nel loro rifugio. È il regno di Alice, l’ostetrica. Come succede spesso, la maggior parte delle donne sono nigeriane, destinate alle reti della prostituzione europee. A volte la «madame»ix viaggia con loro. Certe sanno cosa le attende, altre sono convinte che saranno parrucchiere o stiliste. Nessuna ha più di 25 anni.

Ciò che succede alle donne africane in Libia è Koubra, una Togolese che viaggia col marito, a raccontarcelo: «basta che un Libico ti trovi per strada, ti prende e ti carica in macchina, poi ti porta da lui e ti rinchiude. Chiama gli amici e dice “ho vinto una donna!”. Che tu sia incinta o meno, che tu sia sola o abbia i bambini in braccio, se ne fregano. Vengono in 5 o 6, ti minacciano con un fucile e poi ti violentano uno alla volta. Quando hanno finito ti dicono di chiamare tuo marito perché paghi un riscatto. Se manca qualche dinaro o se il marito non è puntuale ti trattengono ancora.» Koubra descrive un inferno in terra. «Non puoi fidarti di nessuno. Certi tassisti ti obbligano a succhiarglielo e poi ti abbandonano in mezzo alla strada. E le donne in Libia non si comportano meglio. Ho lavorato per una madre di famiglia che dopo avermi pagato quanto mi doveva ha inviato suo figlio a tagliarmi la strada. Mi ha ripreso tutto.» Dopo tutto quello che ha vissuto, come chiedere a Koubra di fare attenzione alle sfumature? «Un Libico buono non esiste. Un Libico buono è quello che ti lascia vivere, che si accontenta di torturarti

Respirare, infine

L’Aquarius ha ricevuto l’ordine di sbarcare i suoi naufraghi a Pozzallo, in Sicilia. Due giorni di navigazione, con 267 persone a bordo, è aberrante in termini di costi, ma è la MRCC che decide. L’Italia vuole mantenere il controllo sulla gestione di questa marea ininterrotta di rifugiati.

Sul ponte posteriore Alice mette della musica. Un contest di danza si improvvisa tra un giovane Bengalese e un Marocchino per la gioia di essere salvi. Molti ridono, battono le mani, accennano qualche passo di danza. Ma molti altri hanno lo sguardo perso e tacciono, cupi in volto. Tra qualche ora saranno in Europa, come saranno accolti? «Li avvertiamo che non sarà facile, ma non spezziamo le loro speranze. I tre giorni che passano sulla nave devono essere una pausa. Possono respirare, riprendere le forze. Non possiamo dirgli brutalmente quello che li aspetta» dice Marcella Kraay, chef de mission per MSF.

Un traffico troppo redditizio

Tutti sulla nave, volontari di MSF e di SOS-Mediterranée sono coscienti di combattere i sintomi e non le cause. Che le soluzioni sono nelle mani dei politici che distolgono lo sguardo. Quanti annegati ci vorranno ancora? «Non capisco perché gli Stati europei non prendano in considerazione ciò che succede nel Mediterraneo e si ostinino a finanziare un sedicente Stato Libicox, s’innervosisce Stephane. Visto che questo Stato non esiste finanziano i passeurs, le milizie che organizzano il traffico di esseri umani. Perché il traffico dovrebbe arrestarsi? È troppo redditizio. La gente paga tra i 500 e i 2500 euro un passaggio sulle navi della morte.» il volontario non si calma «Noi ONGs siamo finanziati al 99% dalla società civile. Facciamo il lavoro che dovrebbero fare i governi e ci sputano in faccia accusandoci di essere in combutta coi passeurs. I paesi europei fingono di curarsi dei diritti umani, di sostenere valori di umanità, ma li calpestano allegramente».

Alla fine le coste siciliane. Quasi più nessuno parla. Le operazioni di sbarco prendono diverse ore, sotto un sole di piombo. Accolti sul molo da figure in tute bianche, mascherate, i rifugiati saranno selezionati, numerati, passati al metal detector, condotti in bus nei centri di detenzione. Sulla nave tutti gli stringeranno un’ultima volta la mano. Alice si nasconderà per piangere. Le nocche di James sbiancheranno stringendo il parapetto. Anton digrignerà i denti per l’impotenza. Poi si rimetteranno al lavoro, puliranno la nave, si prenderanno una sbronza e il giorno dopo partiranno. Con in testa questa frase di Albert Einstein: «il mondo non sarà distrutto da quelli che fanno del male, ma da chi li guarda senza fare nulla

Note

i La Search and Rescue Zone inizia a 12 miglia dalle coste libiche al limite delle acque internazionali.

ii Concorrente cinese di Amazon.

iii I volontari di SOS-Méditerrané si impegnano per tre turni da tre settimane ciascuno. Dopo di che, devono fare una pausa. Alcuni riprendono l’operatività, altri no.

iv Il Maritime Rescue Coordination Center è l’organismo italiano che coordina le azioni delle navi di soccorso presenti in zone. Niente si può fare senza il suo accordo.

v Oasi situata a 600 Km a sud di Tripoli, porta d’ingresso per quelli che arrivano dal deserto e centro nevralgico del traffico umano.

vi Tribù libica.

vii Per delle ragioni di sicurezza, non faremo menzione del suo nome.

viii Rifugio, spazio riservato alle donne.

ix La tenutaria, la madama.

x 3 governi si disputano il potere in Libia, più diverse milizie indipendenti.