Attacco fascista a Richiedenti Asilo Politico – Isola di Lesbo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una testimonianza diretta su quanto avvenuto nell’isola di Lesbo tre giorni fa. L’azione  violenta di un gruppo organizzato fascista, legato ad Alba Dorata, contro i rifugiati in lotta, richiama immediatamente una lunga fila di episodi recenti: come l’azione di blocco della frontiera da parte del gruppo neofascista di Génération Identitaire sul Colle della Scala, la tentata strage di Macerata ad opera del fascio-leghista Traini, il pattugliamento delle coste italiane con la nave C-Star nell’ambito della campagna “Defend Europe” promossa dalla galassia di gruppi legati al format di Génération Identitaire durante la scorsa estate, le numerose manifestazioni organizzate  da diverse sigle politiche contro i centri di accoglienza per richiedenti asilo…

I gruppi promotori, appartenenti tutti alla galassia neofascista e con legami più o meno espliciti tra di loro, hanno evidentemente elaborato una strategia comune. Attaccare i migranti e le persone richiedenti asilo, direttamente e in maniera violenta, arrivando a  prevederne il ferimento e  l’uccisione.

Non sorprendentemente, nonostante la gravità e l’efferatezza degli episodi, questi gruppi vengono lasciati agire indisturbati dai governi europei. Di fatto vengono tollerati attacchi armati  contro civili – compresi i bambini – disarmati, senza protezione alcuna, in condizione di estrema debolezza e vulnerabilità.

Senza sorpresa, si diceva, perché questi gruppi vanno ad agire in situazioni dove, proprio per decisione dei governi europei, la violenza e il mancato rispetto dei diritti fondamentali sono già all’ordine del giorno.

A Lesbo, il campo Moria assomiglia più a un campo di detenzione che ad un centro di accoglienza (così come avviene in Italia per i CPSA e i CARA ), il confine italo-francese da Ventimiglia a Bardonecchia è già, quotidianamente, bloccato e setacciato su base razziale senza nessun bisogno delle sceneggiate fasciste; infine durante i fermi, i controlli, gli sgomberi le persone migranti sono già vittime di numerosi abusi da parte delle forze dell’ordine.

Anche a Ventimiglia, come abbiamo raccontato su questo blog, i fascisti di Casapound e Forza Nuova [1], hanno tentato qualche sortita. Non è da escludere che anche qui tenteranno ancora di sfruttare a fini propagandistici la situazione di forte tensione e di totale vulnerabilità vissuta dai migranti.

Certamente alcuni fatti vanno assunti come indicazioni: i gruppi fascisti non potrebbero agire se non trovassero una situazione estremamente favorevole per poterlo fare e non sarebbero certo lasciati fare se il loro agire fosse di segno politico opposto a quello di chi governa gli Stati europei. Le forze neo – fasciste con la loro ideologia  sovranista e  il loro razzismo violento portano avanti un’opzione neocoloniale non di segno opposto ma solo in competizione con quella ugualmente neocoloniale delle élite europee che governano l’Unione sulla base di un’ideologia tecnocratica e di un razzismo “biopolitico”.

Tuttavia, come i fatti di Lesbo dimostrano, e come la storia dei Balzi Rossi e dell’esperienza politica ventimigliese fino almeno al 2016 sta lì a ricordare, i migranti e le persone in viaggio non assumono solo il ruolo vittime di queste politiche, ma spesso incarnano soggetti politici capaci di produrre forme di resistenza e di conflittualità, in grado di spaventare e mettere in guardia il potere in maniera direttamente proporzionale alla violenza con la quale vengono represse. 


23 APRILE 2018, ISOLA DI LESBO, MITILENE, SAFFOUS SQUARE, ATTACCO FASCISTA AI DANNI DI RICHIEDENTI ASILO IN PROTESTA PACIFICA

Nella giornata di ieri, verso le 7 del pomeriggio, un gruppo di fascisti e nazionalisti greci, circa 200 unità, riconducibili senza dubbio alla tristemente nota organizzazione fascista greca, Alba Dorata, diversi dei quali giunti appositamente da Atene in giornata, attaccava un sit- in pacifico di richiedenti asilo, da giorni in protesta pacifica nella piazza principale della città di Mitilene, sull’isola di Lesbo, hotspot per richiedenti asilo.

I fatti:

Circa una settimana fa, un ragazzo di 27 anni, afghano e residente nel campo Moria perdeva la vita per negligenza delle autorità presenti nel campo, le quali trattavano il suo caso con superficialità, non consentendogli di ricevere le dovute cure e disponendo per il trasporto in ospedale quando era ormai troppo tardi.

In segno di protesta, da martedì 17 aprile circa 200 uomini, donne e bambini, prevalentemente di nazionalità afgana, portavano tende e coperte nella pizza principale della città di Mitilene, occupandola pacificamente fino a ieri sera.

Le loro rivendicazioni erano legate alle loro condizioni di vita nel tristemente noto campo Moria (campo principale sull’isola, dove al momento risiedono più di 6000 persone a fronte di una capienza di circa 3000), alle procedure per le richieste di asilo che richiedono anche anni per molti di loro (12 mesi in media) e alle condizioni igieniche, alimentari e di sicurezza generale del campo, totalmente al di sotto gli standard internazionali.

Ieri pomeriggio un gruppo organizzato di estrema destra composto da persone provenienti da Lesbo, Atene e altre isole arrivava in Sappho Square, diversi dei quali appartenenti a tifoserie organizzate di destra e membri di alba dorata, raggiungeva la piazza ove si trovava il sit- in di protesta, insultandone gli appartenenti e cercando in ogni modo lo scontro fisico per ottenere lo sgombero della piazza.

Il gruppo di aggressori iniziava, dopo un’ora circa di cori e urla ad avanzare verso il gruppo di richiedenti asilo, il quale, senza rispondere alle provocazioni, si posizionava in cerchio cercando di proteggere, formando una barriera, donne e bambini, seduti al centro della piazza.

La polizia, in assetto antisommossa, non interveniva in alcun modo, neppure quando il gruppo di fascisti iniziava un fitto lancio di bottiglie, pietre, fumogeni e bengala contro richiedenti asilo, antifascisti e volontari giunti in supporto.

Donne e bambini venivano protetti, pertanto, da coperte e scatole di cartone, mentre rimanevano al centro della piazza sedute, per scelta dei leader della comunità afgana, i quali non avevano intenzione né di reagire né di lasciare la piazza, protette dalla barriera umana formata dagli uomini del gruppo.

Anche dopo gli attacchi fatti con fumogeni e bengala, non vi era alcun tipo di risposta violenta da parte dei richiedenti asilo, i quali restavano fedeli al loro slogan “we want peace not violence”. Ai compagni e alle compagne giunti sul posto in aiuto veniva, inoltre, chiesto di non reagire alle azioni fasciste dagli stessi leader della protesta.

Successivamente, la tensione aumentava quando bottiglie di vetro iniziavano a volare e cassonetti dell’immonidizia venivano dati alle fiamme dal gruppo di estrema destra. Una molotov veniva lanciata all’indirizzo dei richiedenti, fortunatamente impattava contro uno dei furgoni della polizia, polizia complice dei fascisti, che continuava a non respingere i continui assalti fascisti ai danni di donne e bambini, mentre invece era sempre attenta a sparare lacrimogeni in direzione dei migranti e dei solidali intervenuti.

Molte persone restavano, purtroppo, ferite, e diverse di loro restavano intossicate dal fumo sprigionato dai lacrimogeni, inverosimilmente sparati dalla polizia locale ai danni del gruppo di inermi richiedenti asilo, quando avrebbero dovuto, invece, essere rivolti nei confronti del gruppo di estrema destra. Donne e bambini venivano a quel punto messi in sicurezza con l’aiuto numerosi volontari ed antifascisti locali, i quali sostenevano i richiedenti asilo fino alla fine della nottata. Una decina di persone venivano portate, inoltre, in ospedale in quanto ferite o intossicate.

Verso le ore 4 e 30 del mattino la polizia, utilizzando la scusa del voler proteggere la piazza, circondava il gruppo di richiedenti asilo e, dopo averli costretti in un spazio piuttosto ridotto, usando la forza, e un’ingente quantità di spray al peperoncino, sgomberava la piazza, sotto gli occhi compiaciuti dei militanti di estrema destra, portando i migranti uno per uno su diversi autobus, dei quali al momento non si conosce la destinazione.

A quanto risulta circa 35 appartenenti al gruppo di richiedenti asilo presenti nella piazza risultano essere stati posti in stato di fermo senza alcuna accusa formale.

Non si conosce la destinazione della restante parte del gruppo.

La polizia per l’ennesima volta confermava la propria vicinanza agli ambienti di alba dorata utilizzando ogni mezzo a propria disposizione per annichilire qualsiasi forma di protesta portata avanti dai richiedenti asilo, sempre più considerati come l’ultimo gradino della società.

Dopo gli arresti avvenuti nel campo moria lo scorso anno, la polizia greca continua imperterrita ad utilizzare la forza in maniera arbitraria solo ai danni di chi fa parte dell’ultimo gradino della società, fascisti e nazionalisti continuano in Grecia e in tutta Europa, con la protezione delle varie polizie, ad agire indisturbati, mentre compagni e compagne vengono duramente repressi nelle piazze e nei tribunali.

I volontari anonimi presenti sull’isola di Lesbo manifestano la loro solidarietà con i richiedenti asilo arrestati e condannano le azioni fasciste della polizia greca complice dei fascisti greci.

“Pagherete caro, pagherete tutto”.

A.C. volontario presso l’hot spot di Lesbo

[1] https://parolesulconfine.com/casapound-e-salvini-a-ventimiglia-sdoganano-fascisti-e-razzisti/

https://parolesulconfine.com/sullemergere-dei-comitati-cittadini-anti-migranti/

Verso lo sgombero dell’accampamento dei migranti: la quiete prima della tempesta

 

Verso lo sgombero dell’accampamento dei migranti. Ventimiglia, lungo il fiume Roya. 17/04/2018.

Presenza costante di 150 -200 persone in media in viaggio verso l’Europa. Dalla primavera del 2016, un poco alla volta, sono sorti accampamenti spontanei sotto al ponte del cavalcavia che costeggia il fiume. Qualche coperta buttata su pezzi di cartone sono stati i primi segnali di un insediamento precario, eppure necessario, per trascorrere le notti di attesa tra un tentativo e l’altro di attraversare la frontiera italo-francese. Poi sono spuntati, tra i migranti più organizzati, i primi sacchi a pelo, materassi e stuoini. Piano piano, un po’ donate da volontari e un po’ costruite con mezzi di fortuna (pezzi di ferro, bastoni e teli di plastica), negli ultimi mesi sono state approntate tende, tendoni e teepee. A un certo punto qualcuno ha ritenuto necessario sistemare una zona del campo, tra sterpaglie e ghiaia polverosa, per adibirla a moschea: tappeti, grosse pietre a delimitare l’area, uno scaffale arrugginito per ordinare due o tre scritture sacre. Ultimamente erano sorte strutture sempre più simili a delle vere e proprie casette in legno, teloni e coperte. Sono stati recuperati un paio di generatori e fornelletti da campo. Qualcuno particolarmente ottimista e intraprendente aveva aperto in una di queste baracchette un chiosco take away con tazze di latte caldo, samosa fritti, piatti di  verdure calde.

Tra cumuli di immondizia, risse tra trafficanti, distribuzioni di cibo e coperte, identificazioni quotidiane, fughe rocambolesche verso la Francia, deportazioni al sud Italia, famiglie che si spezzano e amici che si ritrovano, affari leciti, illeciti, fantasiosi o fallimentari, si sopravive come si può. Ma la situazione diventa sempre più tesa, scoppiano liti violentissime tra le differenti nazionalità: per il controllo del traffico, per aggiudicarsi una tenda vuota, per furti reciproci dei pochi beni con cui viaggiano le persone migranti, per la stanchezza, la paura, la frustrazione.

Il quartiere delle Gianchette si lamenta, le sassaiole degli ultimi mesi e i continui focolai di crisi nutrono un’intolleranza popolare che si fa via via più sorda verso qualsiasi ragionevole soluzione. Le istituzioni si rifiutano anche solo di prendere in considerazione una struttura di transito dignitosa e protetta per le donne e i minorenni. Resta a disposizione il famigerato campo della Croce Rossa, troppo distante e troppo pericoloso per chi non può o non vuole rischiare di finire tra le mani della polizia che circonda il campo e controlla chiunque vi entri tramite impronte digitali.

La primavera ormai è inoltrata, gli arrivi aumenteranno mano a mano che il bel tempo e il mare calmo spingeranno le persone a tentare l’attraversata del Mediterraneo: bisogna “ripulire” Ventimiglia, dare un bel colpo di spugna a tutti e tutto quello che prolifera sotto al ponte. Si indugia; aumentano le ronde delle pattuglie; si invocano presidi militari; si susseguono riunioni tra amministrazione comunale, prefettura, questura, comitati di cittadini. Le elezioni politiche consacrano le destre anti-immigrazione; la gente del quartiere minaccia rivolte e sparge insulti un po’ ai migranti e un po’ a chiunque, volontari o associazioni, provi a dargli una mano. La bottiglia è colma e il tappo, per la millesima volta, sta per saltare ancora.

Eccola di nuovo: l’ordinanza di sgombero primavera-estate dell’accampamento dei migranti a Ventimiglia! Questa volta siamo nel 2018 ma le cause, le dinamiche e purtroppo le conseguenze, sono quelle di sempre. Questa volta non basteranno delle semplici pulizie, come era avvenuto quest’inverno: si deve smantellare tutto. Questa volta non ci sono borsoni e sacchi a pelo, ma una vera e propria cittadella che, in espansione come un’ennesima jungle europea, arriva a lambire le coscienze, il quieto vivere e il decoro di una città che non vuole accettare di essere, e quindi di organizzarsi, per quello che è: una città di frontiera. Davanti ad una frontiera sprangata.

Settimana scorsa si rompono gli imbarazzi: associazioni e ong, convocate dalle istituzioni, apprendono la decisione di sgombero fissato per mercoledì 18 aprile, e vengono invitate a diffondere l’informazione tra le persone migranti, ed a convincere le stesse a spostarsi piuttosto al campo della Croce Rossa. La rassicurazione: per tutta la settimana non verrano organizzati pullman per i trasferimenti forzati al sud Italia, ma la gente deve spostarsi di sua spontanea volontà e lasciare libero lo spazio per i mezzi che entreranno in azione per attuare lo sgombero. Anzi, veramente sui giornali e tra le istituzioni si afferma con convinzione che non si tratti di uno sgombero: l’obiettivo non è portare via le persone (almeno per questa settimana, dalla prossima si ricomincia con le deportazioni e non ne dubita nessuno), ma demolire tutte le loro cose, così da convincerle a sloggiare. Pare che in virtù di questa sfumatura non lo si voglia definire sgombero. Chiamiamolo demolizione, accanimento, miope provvedimento. È lo stesso: domani mattina all’alba arriveranno ruspe, blindati, e il solito armamentario per le occasioni spiacevoli.

Nella giornata di oggi il numero delle forze dell’ordine presenti sul territorio è iniziato ad aumentare: nella serata, una dozzina almeno di pattuglie parcheggiate attorno al commissariato, invece delle solite due o tre, segnalavano un’evidente riunione di coordinamento in corso.

Nel frattempo sotto al ponte ha iniziato a diffondersi un clima strano: l’aria malinconica di qualcosa che sta per finire, ma anche reazioni di orgoglio da parte di molti: non tutti sono disposti ad andarsene, anzi. Una ventina di tende sono state smontate, ma la stra maggioranza delle strutture, verso l’orario di cena, erano ancora tutte lì. Alcune vuote ma moltissime ancora con dentro i ragazzi e le loro cose. Dei gruppetti di migranti particolarmente determinati hanno detto che non se ne vogliono andare, diverse altre persone che si stavano facendo gli affari loro hanno risposto a spallucce agli avvisi di sgombero diffusi dagli operatori delle associazioni.

Volontari di diverse sigle e associazioni hanno distribuito volantini multilingue x spiegare la situazione e delle borse in tela x chi volesse mettersi al riparo le cose da portarsi via. Hanno inoltre suggerito alle persone di smontarsi le tende e metterle in salvo, ma non tutti appunto erano interessati alla faccenda. Nella serata di ieri, lunedì 16 aprile, un gruppone di ragazzi ha fatto un fatalistico festone di addio al campo; ma alle sette e mezza di stasera c’erano ancora almeno un centinaio di persone alla regolare distribuzione di cibo nel parcheggio dinnanzi al cimitero.
Per tutto il giorno nel piazzale delle Gianchette c’è stato un blindato, due o tre pattuglie di polizia e carabineri, mentre i top graduati delle forze dell’ordine si facevano avanti e indietro la via. Molte comunque anche le persone che si stavano organizzando per partire stanotte, sebbene non fossero la maggioranza.

Voci di corridoio dicono che i mezzi della Docks Lanterna -netturbini, ruspe e ruspette, container e disinfettanti- arriveranno intorno alle otto di domani mercoledì mattina, ma che l’antisommossa, mobilitata per ogni evenienza anche se, come detto, non vuole assolutamente essere uno sgombero, arriverà invece anche prima. E i capoccia del commissariato hanno tenuto a sottolineare che il tempo per fare i bagagli scade stasera: domattina vogliono trovare vuoto. Cosa succederà a chi non se ne è ancora andato, non è dato sapere. Ma hanno specificato che non verrà lasciato il tempo alla gente, domattina, di prendersi nulla: quello che domani è ancora lì, sarà distrutto.

Un pò di ragazzi, con l’arrivo della sera, si stavano spostando a dormire in stazione. La zona della stazione, le postazioni di polizia in frontiera, e in generale le strade della città, con il finire del pomeriggio, erano stranamente vuote rispetto all’ordinario sguinzagliamento di pattuglie e militari: la quiete (e i meeting operativi) prima della tempesta.
Per tutta la notte, domani e anche nei giorni a venire, gruppi di solidali si sono organizzati in turni per monitorare l’evolversi della situazione.

Al momento è difficile prevedere se le persone, evacuate dal ponte, cercheranno riparo in uno dei pochi posti solidali ancora aperti, se preferiranno nascondersi da qualche parte, andare spedite verso i valichi di confine, o cercare riparo momentaneo nelle sale della stazione. Quello che invece si percepisce è confusione, fatalismo, goliardia, rabbia: ragazzi che si affannano a chiudere zainetti, altri che si fanno friggere i samosa al chioschetto-ristorante, altri che brindano, altri che provano a capire cosa accidenti stia succedendo, altri che cercano di saltare sugli ultimi treni della serata verso la Francia, altri che continuano imperterriti a dormire sepolti dalle coperte in mezzo alla spazzatura e quasi sembrano morti, altri ancora che vanno semplicemente avanti coi loro traffici: un ragazzo eritreo è stato imbrogliato da un altro che si era offerto di ritirargli i soldi mandati dalla famiglia.

Quando il ragazzo eritreo ha preso una banconota da cinquanta per andare a comprare al supermercato pannolini e omogeneizzati per due bimbi di pochi mesi che viaggiavano con lui, questa si è rivelata essere falsa. Alla cassa del supermercato hanno deciso di chiamare la polizia: alla fine, dopo un paio d’ore, il ragazzo è stato rilasciato e tutto si è risolto, ma nel delirio del Titanic che affonda è scoppiata per un pò anche questa piccola crisi, con la ragazza sua compagna terrorizzata e in lacrime, mentre intorno la gente impacchettava tende, litigava per assicurarsi un passaggio notturno verso l’Europa, giocava a carte, mangiava polpette fritte, solcava il selciato lurido del sottoponte avanti e indietro, avanti e indietro, senza sapere bene che fare.

Probabilmente la metafora non è felicissima, ma l’immagine che saltava alla mente oggi pomeriggio ( mentre stamattina il clima era ancora abbastanza calmo) è quella di un formicaio improvvisamente scoperchiato da una scarpata. Ognuno che si affanna a racimolare le proprie cose e i propri affetti, a capire dove può andare e che fare, a correre di qua e di là per le due strade che gli sono concesse di percorrere senza essere additati e insultati dalla “Ventimiglia bene” o portati via dalle polizie, a sgomitare per ricaricarsi i cellulari. Come un formicaio inaspettatamente scoperchiato da cui fuoriescono formiche impazzite che devono interrompere il proprio quotidiano lavorìo e riorganizzarsi per affrontare, ciascuna come crede, l’imminente pericolo che incombe.

I sentimenti dei tanti solidali, attivisti, volontari e operatori presenti a partire dall’inizio di questa settimana sono altrettanto schizofrenici: in bilico tra la rabbia per una situazione drammatica e inquietante, pieni di adrenalina e pronti a intervenire laddove si dovesse rendere necessario, un po’ allibiti, un po’ tristi, un po’ ironici davanti a questo formicaio esploso, molto amareggiati per il poco che si può fare, operosi nel cercare soluzioni dell’ultimo minuto ed elargire informazioni a chi cerca di raccapezzarsi nel proprio destino minato per l’ennesima volta, preoccupati per gli eventi in arrivo, un po’ esasperati e un pò ammirati da chi non vuole mollare il presidio rocambolesco che, nei mesi, si è evoluto da un cumulo disordinato di sacchi a pelo a una vera e propria cittadella.

Domani sarà una giornata di trenta ore su ventiquattro.
Sta per arrivare una mazzata come non se ne vedevano da un pò di tempo.
Tutti sappiamo che cambieranno (almeno per un pò) parecchie cose.
Tutti sappiamo che non cambierà nulla.

Owl

Grave ed Illegittimo Respingere Minori al Confine delle Alpi Marittime

A seguito dei dati raccolti durante le attività di monitoraggio svolte da associazioni e avvocati alla stazione di Menton Garavan e alla frontiera di Ponte San Luigi, due sentenze del Tribunale di Nizza prendono di mira le pratiche attuate dalla polizia francese per impedire l’ingresso dei migranti minorenni.

 

 

 

Riconosciuto grave ed illegittimo il respingimento di un Minorenne Eritreo al confine delle Alpi Marittime

Da quando, nel giugno del 2015, la Francia ha ripristinato i controlli alle frontiere, migliaia di persone, donne uomini adulti e bambini, si affidano a trafficanti tentando di passare il confine per continuare il loro percorso migratorio. La cronaca parla di corpi violentati, denudati, umiliati, carbonizzati, schiacciati da Tir e investiti da treni. Gli Stati – quando non sono degli incidenti a terminare tragicamente il viaggio, quando non è un confine, a molti invisibile, a impedire il migrare, quando non è una malattia a rendere impossibile il cammino – agiscono anche attraverso “leggi speciali” e “misure di emergenza” legittimandosi a divenire illegittimi. Continuando così a perpetuare la repressione della libertà di movimento.

Ma cosa accade quando un ragazzino eritreo, solo, di 12 anni, viene fatto scendere dalla polizia di frontiera alla stazione di Mentone Garavan, arrestato per ingresso irregolare, venendogli notificato il “refus d’entrée”, messo su un treno per Ventimiglia – condannato alla vulnerabilità giuridica oltre che materiale? Nulla sarebbe accaduto, come nulla è accaduto in questi tre anni di violazioni ai diritti dell’infanzia, se l’ANAFE – Associazione Nazionale per l’Assistenza degli Stranieri alle frontiere –  non avesse presentato con urgenza un ricorso al tribunale di Nizza e soprattutto se non lo avesse vinto.

La sentenza emessa dal Tribunale Amministrativo di Nizza contiene parole molto forti nei confronti delle autorità francesi: disposizioni di legge nazionali e internazionali ignorate, violazioni gravi del diritto europeo di asilo, illegittimo il respingimento del minore alla frontiera e gravi le interferenze alla libertà fondamentali dei diritti dei bambini.

Il giudice, nella valutazione del ricorso cita:

– la Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali;

– la Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 26 gennaio 1990;

– Regolamento (CE) n. 2016-399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, relativo a un codice dell’Unione sulle norme che disciplinano i movimenti di persone oltre frontiera;

– il codice di ingresso e residenza degli stranieri e il diritto di asilo;

– il codice di giustizia amministrativa.

Dagli atti in possesso del giudice che ha emesso la sentenza si ricostruisce quanto sia accaduto il 12 gennaio 2018 quando il giovane eritreo, nato il 1 gennaio del 2006 – quindi dodicenne – viene condotto alle ore 13:40 al posto di polizia di frontiera di Mentone Saint-Louis a seguito di un “controllo” sul treno proveniente da Ventimiglia. Alle ore 14:10, cioè 20 minuti dopo, gli viene notificata la decisione di “refus d’entrée” in Francia e allontanato dal confine. L’ANAFE’ ha immediatamente presentato ricorso e la sentenza che ne consegue impone alle autorità francesi di ristabilire i diritti del minore, rilasciando un lasciapassare per l’ingresso in Francia, dove la sua posizione andrà valutata individualmente in presenza di un interprete qualificato e a un risarcimento di 1500 euro.

Tra le note conclusive si legge come l’ordine pubblico avrebbe commesso nell’esercizio dei suoi poteri, una violazione grave e manifestamente illegale. Ne consegue che la decisione di rifiutare l’ingresso in Francia fosse viziata da una manifesta illegittimità che ha pregiudicato e continuerà a pregiudicare seriamente l’interesse del giovane.

Il giovane eritreo ad oggi è “irreperibile” insieme ai 5mila minori non accompagnati che si stima siano transitati per il confine di Ventimiglia. I dati parlano di 25mila arrivi di minori in Italia nell’anno appena concluso. Molti di loro tentano di proseguire il viaggio, per raggiungere famigliari o paesi in cui ritengono di avere prospettive migliori, scontrandosi con frontiere che continuano a rimanere chiuse, da Ventimiglia al Brennero e con Stati che commettono, nell’esercizio dei propri poteri, gravi violazioni e manifeste illegitimità…. Tribunale di Nizza – Repubblica di Francia – IN NOME DEL POPOLO FRANCESE

I fatti di Bardonecchia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo di I. B., sui “fatti di Bardonecchia” (già pubblicato, qualche giorno fa, sul sito Infoaut [1]).

L’articolo ci pare di notevole interesse perché prova a prendere di petto una questione particolarmente spinosa come quella della frontiera e del suo possibile utilizzo non nazionalista.

Uomini dello stato francese, e per di più armati, sono penetrati entro i confini nazionali per compiere un’operazione di polizia internazionale. In questo modo hanno dimostrato una cosa: il territorio nazionale italiano agli occhi di chi incarna uno degli assi centrali del costituente polo imperialista Continentale è un territorio che può essere attraversato senza troppe remore, soprattutto di fronte alla necessità di portare a termine un’operazione di “polizia internazionale”, finalizzata a garantire la sicurezza della “fortezza Europa”.

Questo significa almeno due cose. Primo: l’esistenza e il rispetto dei confini statuali sono sanciti in primo luogo da rapporti di forza  e non da trattati giuridico – formali. Secondo, diretta conseguenza del primo, il territorio italiano è percepito e considerato dai poteri costituenti europei come uno spazio semicoloniale entro il quale è possibile operare senza chiedere il permesso al Governo di turno. In altre parole la frontiera italiana è legittima nel momento in cui è giocata come fattore di contenimento nei confronti delle popolazioni migranti, inessenziale quando questa si pone frappone alla “volontà di potenza” delle forze trainanti del polo  europeo. Di questo scenario i “fatti di Bardonecchia” ci parlano.

La palese ingerenza francese ha dato il là a una serie di reazioni di marca prettamente nazionalista, tra le quali quella del segretario leghista Salvini,  alle quali, pur con sfumature diverse, si associano tutte le varie forze politiche di marca populista. La “sovranità nazionale”, la sua difesa e riabilitazione, sembra così assumere un valore in sé. Una sorta di “bene comune” che non può essere messo in discussione. Che fare, quindi? Non resta che  mettersi tutti a  gridare “Viva Verdi”, a cantare Va pensiero rispolverando magari le Brigate Garibaldi e il tricolore in chiave “progressista”? Non necessariamente. L’ingerenza francese offre, come l’articolo che segue prova ad argomentare,  anche un’altra via d’uscita. Il problema non è ripristinare la frontiera come forma giuridica cristallizzata dello Stato/Nazione ma, al contrario, combattere la frontiera attraverso un movimento politico meticcio di subalterni che si ponga l’obiettivo di de-territorializzare in permanenza le strutture rigide statuali. Ciò che viene suggerito nel testo che segue è l’invito a usare dialetticamente lo sdegno nei confronti dell’ingerenza francese in territorio italiano.  Cosa che non equivale a sposare le retoriche sul recupero della “sovranità nazionale”, ma a sostenere le spinte verso  la “sovranità” dei subalterni, capace di mettere in discussione, e un giorno forse di spezzare,   la macchina delle “operazioni di polizia internazionale” con il suo carico di violenza, sfruttamento e negazione di libertà.

 


 

Bardonecchia, la Gendarmeria francese e noi

 

La Gendarmerie sconfina in Italia e fa irruzione nei locali dell’associazione Rainbow4Africa. Come successo oggi a Bardonecchia, anche a Ventimiglia la polizia francese si arroga, ormai da molto tempo a questa parte, il diritto di operare in territorio italiano. Il teatro è sempre una stazione ferroviaria. In questo caso, ormai lontano dai riflettori mediatici, lo sconfinamento di sovranità è invece pattuito e persino ben accetto. Nessuna levata di scudi, ma piena accettazione e collaborazione istituzionale.

Ora, le strilla per la lesa sovranità del nostro paese da parte di alcuni esponenti politici non sono quindi molto rilevanti né interessanti. Tuttavia, quello che sì è importante è che le persone si sentano in dovere di incazzarsi con il governo francese. Non bisognerebbe contenere questa tendenza, per quanto embrionale possa essere, e che, peraltro, potrebbe anche essere portatrice di quella tanto agognata convergenza di interessi materiali tra persone italiane e migranti. La Francia, in blocco con la Germania e altri paesi dell’Europa continentale, fa leva sulle ingiuste dissimetrie del Regolamento di Dublino per fermare in Italia le migliaia di migranti che riescono a sbarcare sulle nostre coste. Prima che arrivino “a casa loro”. Stessa sorte per la Grecia e per tutti i territori che costituiscono il limes di questa Brave New Europe, impresa politica multinazionale rigorosamente bianca.

Infatti, moltissime di queste persone emigrate, forse la maggior parte, non vogliono certo restare. Si provi a chiedere. Eppure non possono andarsene, non legalmente perlomeno. E allora si muore travolti dai treni a Ventimiglia o assiderati sulle Alpi in Valsusa, in tragici tentativi di attraversare confini sempre più militarizzati e brutali. Oppure, desolante e deprimente alternativa, si resta imbrigliati nel sistema violentemente disciplinare della cosidetta accoglienza, che sembra fatto apposta per rendere impossibile, con precisione scientifica, evntuali forme di ibridazione con la popolazione italiana. Insomma, trattasi di un mero bacino di forza-lavoro gratuita o a bassissimo costo, da pagare rigorosamente in nero, che non fa che incrementare le tensioni razzisteggianti che caratterizzano le società europee sempre più chiuse e risentite.

La verità è che, quando le frontiere esternalizzate in Libia e in Turchia (della cui esistenza siamo vergognosamente corresponsabili, non dimentichiamo) non tengono, è l’Italia stessa a dover assumere lo scomodo ruolo di carceriere dei migranti. Penso e spero che questo nessuno se lo voglia accollare, se non ovviamente i pochi che hanno qualcosa da guadagnarci sopra. E allora basta con la buona accoglienza, la gestione umanitaria e tutto l’armamentario discorsivo della sinistra governista, quella per cui non bisogna mai rompere ma sempre mediare. È funzionale allo scopo assegnato. Ribadiamolo forte e chiaro: il problema è la frontiera.

L’atteggiamento della Francia è infame e inaccettabile e, per quanto pericoloso possa essere in potenza un simile discorso, evidentemente suscettibile di una possibile, ma non certa, deriva nazionalista, bisognerebbe comunque riuscire a padroneggiarlo. Per risignificarlo in un modo totalmente altro, ovviamente, e affinché possa aprire su situazioni inedite e favorevoli. Si può e si deve, a meno che non ci si accontenti di parlare solamente a se stessi. Dopotutto, quello che si esprime è un concetto giusto, comprensibile e plausibilmente anche maggioritario, forse: “Almeno lasciate che le persone vadano a cercar fortuna dove preferiscono, così come già fanno le migliaia di giovani emigranti italiani.” Ah no, pardon, si dice expats, mica migranti.

I.B.

 

[1] https://www.infoaut.org/migranti/bardonecchi-la-gendarmerie-e-noi

Da Ventimiglia: pensieri su testimonianza e sovraesposizione

Ti offro questi dati perché niente muoia,
né i morti di ieri, né i resuscitati di oggi.
Voglio brutale la mia voce, non la voglio bella, non pura,
non voglio si diverta, perché parlo infine dell’uomo e del suo rifiuto,
del suo marcio quotidiano, della sua spaventosa rinuncia.
Voglio che tu racconti.
F. Fanon, Lettera a un francese, p. 60.

Dall’inizio del 2016, siamo stati a Ventimiglia regolarmente e tutte le volte abbiamo voluto scrivere e condividere ciò che abbiamo visto e vissuto.

Ci muoveva la convinzione dell’importanza di descrivere gli eventi di cui eravamo testimoni.

Un forte movimento politico e umano tentava di rovesciare la visione dominante e di condividere spazi politici con chi viaggiava, nonostante la repressione delle istituzioni.

Da allora abbiamo osservato e cercato di delineare ciò che accadeva sul nostro territorio: gli effetti della privazione della libertà di movimento basata sulla provenienza geografica e sul colore della pelle, costringevano un grande numero di persone a vivere in uno spazio artefatto, in condizioni di difficoltà estrema.

Negare l’esistenza di esseri umani, arbitrariamente, in un determinato tempo e luogo, costituisce il presupposto per politiche con cui le istituzioni non solo negano qualsiasi supporto, ma addirittura appaiono tendere all’annientamento della vita stessa.

Riteniamo che, per non cadere nella complessa macchinazione, basata sulla disumanizzazione degli oggetti delle politiche e di noi spettatori, il primo passo sia la conoscenza di ciò che concretamente e quotidianamente accade intorno alla recentemente rinforzata frontiera, delle donne, degli uomini, delle bambine e dei bambini che tentano di attraversarla e che forzosamente si trovano a vivere nelle sue vicinanze.

Come medici, siamo da sempre politicamente impegnati nella direzione dell’accesso alla salute per tutte e tutti.

Per tale motivo, non potevamo esimerci dal portare il nostro sapere tecnico dove ce ne fosse più bisogno e descrivere nuove/antiche malattie, sviluppate nella deprivazione di quelli che vengono definiti legalmente i determinanti sociali della salute: accesso al cibo e all’acqua potabile, condizioni igieniche e un luogo abitativo adeguati, ecc.

Per essere così pochi, e spesso travolti dagli eventi che si susseguono sempre insensati nell’area di Ventimiglia, abbiamo spesso la sensazione di tralasciare argomenti importanti: la scelta dei luoghi isolati e più miseri per l’installazione di campi profughi formali e informali; la malattia di chi vive il confine come abitante o come solidale; i mestieri, i guadagni ed anche i nuovi carnefici che forzosamente originano dal confine; la tensione e il conflitto costanti, che crea alleanze o le distruggono.

Ultimo, ma non per importanza, il senso politico della lotta di chi viaggia, tentando di affermare il proprio diritto al movimento, alla vita, a non essere discriminato per motivi razziali o geografici.

Quest’ultimo fine settimana, tornando da Ventimiglia con i vestiti pregni di quell’odore acre di fumo che non si ostina ad uscire dalle narici, abbiamo affrontato un ragionamento che tuttavia non può essere più evitato.

Il rap sudanese ci risuona nelle orecchie, insieme al rumore cadenzato dei passi che smuovono di volta in volta le pietre grigie ed appuntite di quel frammento d’Europa che continuiamo a calpestare. L’ odore di burro d’arachidi che cuoce insieme al pomodoro, si mischia nel ricordo con l’olezzo dei rifiuti abbandonati lungo l’argine del fiume Roja, ancora una volta in piena. Quella sponda scandisce la distanza di un attraversamento, Il fiume che s’ingrossa proprio mentre ci apprestiamo a ripartire sotto una pioggia torrenziale.

Abbiamo ascoltato molto altro, davanti agli occhi troviamo altre immagini. Vorremmo utilizzare le dita per incidere su questo foglio tutto ciò che ci rimbomba in testa in questi giorni, le riflessioni che abbiamo condiviso, ciò che abbiamo visto e il poco che siamo riusciti a fare, le parole che abbiamo udito, la pelle che abbiamo toccato.

Desideriamo fortemente che, ancora una volta, la parola si faccia testimonianza.

Testimonianza di questo tempo, dell’assurdità di questo Occidente, questo Occidente dei campi profughi che si allargano nel bel mezzo delle città, proprio di fronte alle case vuote.
Ma è l’11 marzo.

Il confine ci ha tolto la voce. Gli ultimi rivolgimenti politici, destra xenofoba ha al 52, 7%, la repressione sempre più violenta, l’utilizzo dei poveri contro i poveri, fanno si che il racconto di ciò che davvero avviene potrebbe essere molto più facilmente non compreso, o usato ai danni dei nostri compagni viaggiatori.
La neve s’è sciolta.
Della rivolta, di fronte a cui in tanti hanno alzato la testa, non v’è più traccia.

Iniziamo a fare i conti con ciò che vorremmo raccontare di questi giorni. Facciamo un lungo elenco di volti, di persone, di storie che vorremmo riportare. Subito realizziamo che dobbiamo invertire il criterio del ragionamento.“Questo non è il caso di raccontarlo, è un momento troppo delicato”. Poco dopo squilla il telefono, una compagna ci comunica l’ennesima perplessità sul rendere pubblico anche l’ultimo evento che volevamo narrare. Ci guardiamo intorno. Non troviamo più le risposte. O meglio, molte risposte le abbiamo cercate, ma con lo scorrere delle ore capiamo che ogni singolo passaggio del nostro racconto può diventare strumento. Strumento di una guerra, quella che si consuma ogni giorno nelle zone di confine.

L’ago della bilancia tra i rischi e i benefici sembra impazzire di fronte ai nostri occhi. Troppi i rischi delle strumentalizzazioni di una testimonianza. Troppa la distanza tra l’immagine e la possibilità della sua sovraesposizione.

Chi resta? Chi parte? Chi è che sorveglia? Chi sono i sorvegliati? Quali i corpi docili? Chi sono le vittime? Chi i carnefici?

Le tracce si fanno segni. La frontiera è una ferita aperta.

Tutto muta troppo repentinamente.

Il fermo immagine, malgrado tutto, non è sufficiente.
Ci sentiamo come nel mezzo di una distopia.

[Scegliamo perciò di alzare gli occhi dal campo di via Tenda e di prenderci un periodo di pausa, coscienti del fatto che se il pensiero si rifiuta di pesare, di violentare, corre il rischio di subire senza frutti ogni brutalità che la sua assenza ha liberato]

In un testo intitolato Immagini malgrado tutto George Didi Huberman narra la storia di quattro fotografie, quattro immagini scattate da un ebreo del sonderkommando di Auschwitz-Birkenau nell’agosto del ’44. Queste rappresentano i soli frammenti visivi di quanto altrimenti inimmaginabile: in quanto tali, atto di resistenza radicale, poiché strappata al progetto dell’ingranaggio nazista che mirava alla cancellazione totale di ogni traccia della stessa operazione di eliminazione.

Nella loro forma originaria, non sono altro che delle fotografie mosse, scure, sul fondo delle quali si scorgono soltanto le ombre di alcune persone, in fila verso l’inferno dell’uomo che annulla se stesso.

A partire da quelle immagini, Didi Huberman scrive un testo che parla del valore della testimonianza, sostenendo che proprio l’incompletezza di quei frammenti a rendere le immagini comprensibili. In breve, le modifiche che queste subiscono nel corso del tempo, tese a definire più chiaramente l’oggetto della rappresentazione, secondo l’autore non fanno altro che trasformarle da testimonianza in feticcio. In tal modo esse  mostrano esattamente ciò che ci si aspetta ed il nostro sguardo viene costretto al “riconoscimento”:
Ma l’immagine, secondo il filosofo non è mai nulla, né tutta, né una.

Ogni immagine è già sempre immersa in un linguaggio e può essere compresa a partire dall’atto che l’ha resa possibile. Ogni immagine, per diventare testimonianza, necessita di un contesto e di un immaginario al quale far riferimento. L’immaginario che si dispone attorno all’analisi di un evento, possiede però anche il potere di definirne il regime di verità. E allora è la distanza dello sguardo che ci consente di non cadere nell’oscenità della rappresentazione: quando lo sguardo diventa voyeuristico e l’orrore irrompe nel quotidiano. L’immaginario si traspone nel reale e si confonde con esso: in questo caso non siamo più di fronte all’evento, ma davanti alla sua spettacolarizzazione.

Cercando l’immagine-tutto non facciamo altro che affermare la necessità del simbolo. Ed il simbolo dell’orrore può essere soltanto riconosciuto ed “evitato”, ma mai compreso. Di fronte al simbolo ci si limita ad individuare, a ravvisare, ciò che si presume come già conosciuto. In questo senso, è proprio il piano dell’azione ad essere negato dialetticamente: si paralizza la stessa possibilità di mettere in relazione l’immagine con l’altro da sé. Tutto di quelle immagini ci parla dell’orrore della Shoah: gli spazi, le sbavature, il fuoco con cui è stata scattata, ci consentono di “vedere” la mano tremante al di là dell’obiettivo che corre il rischio di produrla, ogni particolare ci rivela qualcosa in più di quell’evento/immagine.

La negazione operata dalla trasformazione di quell’immagine in un immagine feticcio, trasforma invece l’evento, da problema semantico a “problema semiotico”: l’immagine diventa segno ed il segno può essere riconosciuto, ma mai compreso. Come sostiene Émile Benveniste, la differenza fra riconoscere e il comprendere rinvia infatti a due facoltà distinte della mente: la capacità di percepire l’identità fra l’anteriore e l’attuale da una parte, e quella di percepire il significato di una nuova enunciazione dall’altra.
Negando la possibilità semantica dell’immagine, si nega anche la possibilità di agire il nuovo, intrinseca nella pratica stessa della significazione.

[Cosa c’entra tutto questo con Ventimiglia? Probabilmente, che in qualche modo la morsa nella quale ci siamo sentiti immersi, è la medesima.  Anche noi, eravamo parte di quella scena. Ecco, in questo momento Ventimiglia è una realtà sovraesposta, ed ogni immagine che possiamo tentare di restituirne, corre il rischio di divenire necessariamente un’immagine feticcio, utile a rafforzare il regime di verità costruito da qualcun altro. In questo momento gli sguardi che si indirizzano su quella frontiera sono sguardi complici, che cercano di comprendere, ma che sanno già cosa hanno bisogno di riconoscere, a quale immaginario far riferimento]

Forse è proprio in questi giorni che abbiamo sentito sulla pelle tutta la violenza di ciò che Nicholas De Genova definisce lo “spettacolo del confine” Quel preciso meccanismo che si attiva sul confine, e che consente di essenzializzare l’ineguaglianza facendo sì che l’alterità prodotta giuridicamente possa essere concepita come differenza categoriale. Nello spettacolo del confine scena ed osceno sono, difatti, dialetticamente interconnessi: l’intera vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli ed alle radici di quella finzione stanno la divisione sociale del lavoro e la specializzazione del potere.

Il confine è modellato proceduralmente come «sito di trasgressione», e per questo, la scena che si dispone e che genera la necessità dell’esclusione, viene allestita attraverso il ricorso ad un supplemento di oscenità. Ciò che definisce tale produzione dell’oscenità è il fatto che essa venga costruita non solo da un processo di occultamento, ma soprattutto da una fase di esposizione selettiva.

In questo senso, la scena dell’esclusione dischiude e riafferma compulsivamente il «fatto osceno dell’inclusione subordinata»: in questo modo, la politica della cittadinanza pone le condizioni per essere tradotta in una politica essenzialista della differenza.

E’ la stessa regolamentazione istituzionale del regime migratorio a produrre nello stesso atto costituente il presupposto dell’illegalità migrante, lasciandola apparire come il frutto di una mancanza intrinseca dei soggetti, ponendo le basi del processo di razzializzazione. Lo spettro del confine intensifica il grado in cui tutta la vita del migrante è resa aliena, mobilitata a sostegno di allarmanti segnali di separazione ed allontanamento diretti contro i ”sempre già inclusi”, che fondano la partizione in cui la macchina governamentale amministra le condotte.

Forse la prossima volta useremo i rumori e i suoni di quella terra di mezzo e di nessuno, oppure torneremo a raccontare la malattia del confine così come tentiamo di curarla, in chi viaggia e in noi stessi.

Come in questo caso e come sempre, sarà utile mettere insieme i saperi di compagne e compagni, viaggiatrici e viaggiatori, per avere una visione completa della realtà, immaginare possibili alternative e modalità per attuarle.

Marta Menghi
Lia Trombetta
Antonio Curotto

Fotografie: Emanuela Zampa