Ventimiglia: Uomo in mare

A Ventimiglia, il 21 giugno alcuni bagnanti hanno visto affiorare, poco distante dalla riva, il cadavere di un uomo. Il volto sfigurato dalla lunga permanenza in acqua, il corpo ancora vestito: un migrante quasi sicuramente. Queste le poche informazioni che si possono leggere sull’ansa e sulle  testate locali che hanno diffuso la notizia. [1]

 Quest’uomo senza volto, senza identità, va ad aggiungersi al tremendo numero dei morti per mano della violenza delle frontiere. Per mano del capitalismo che impone che la vita degli esseri umani si riduca a merce, per mano degli Stati che sono gli esecutori politici di questo sistema di morte e di tutti quei poteri che cooperano nel funzionamento di questo sistema.

Un uomo senza volto. Un volto sfigurato dalla violenza che si infiltra in ogni angolo di questo sistema, si insinua dentro ogni recesso. Una violenza che sta dentro di noi. Che di questo sistema siamo attori ma troppo spesso ci figuriamo come spettatori.

Se anche quest’uomo avesse avuto ancora il suo volto, il silenzio a cui la sua morte sarebbe stata condannata, glielo avrebbe sottratto.

L’assenza di un volto che, chi combatte ogni giorno la frontiera, nei tanti modi in cui questo è possibile, non potrà dimenticare.

In un mare estivo, celeste e scintillante, in un mare bello, nel mare nostrum, alcuni bagnanti hanno recuperato un corpo. Da dove arriva? Difficile arrivi dalla Francia: le correnti non spingono quasi mai in direzione Italia… dicono i locali. Potrebbe arrivare dal fiume Roya, magari una fuga dai militari francesi appostati nella valle per catturare i migranti che tentano di passare la frontiera, e fuggendo una caduta e poi il fiume… giù a valle fino al mare. Oppure chissà. Chi è? Qual è la sua storia di uomo?

E’ solo un numero. Uno dei tanti numeri dei desaparecidos contemporanei.[2]

Si insinua il dubbio amaro, se abbia senso scriverne, se esistano delle parole con cui rendere giustizia a tanto dolore e a questo male.

Viene in mente un altro corpo, ritrovato nel porto di Genova circa un anno e mezzo fa. [3] Un ragazzo, entrato nel circuito dell'”accoglienza” e finito in fondo al mare, affogato da un dispositivo disumanizzante. Allora più di un centinaio di persone si era riunito per ricordarlo e per ricordarsi che non si può e non ci si deve abituare alla banalità del male e soprattutto che occorre resistere e reagire.

Genova – manifestazione per John Kenedy

Per quest’uomo, ancora e forse per sempre senza nome e senza volto. Per John e per tutte le altre sorelle e fratelli morti ammazzati dalle frontiere con cui si difende il privilegio di pochi e il diritto allo sfruttamento di troppi: è ora di non farsi più sconti!

Le vite delle sorelle e dei fratelli in viaggio contano tanto quanto le nostre.

Dobbiamo cominciare difenderle come difendiamo le nostre e quelle dei nostri car*. Dobbiamo difenderci insieme.

g.b.

[1] http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2018/06/21/migrante-morto-in-mare-a-ventimiglia_a3cc32a4-ecea-49b5-adb7-e719adf5f174.html 

http://genova.repubblica.it/cronaca/2018/06/21/news/migrante_muore_nel_mare_di_ventimiglia-199661940/

http://www.sanremonews.it/2018/06/21/leggi-notizia/argomenti/cronaca/articolo/ventimiglia-migrante-morto-trovato-in-mare-da-alcuni-bagnanti-intervento-della-guardia-costiera.html

http://la-riviera.it/cronaca/migrante-trovato-morto-in-mare-a-ventimiglia/

[2] https://parolesulconfine.com/migranti-riappare-il-fiume-carsico-delle-politiche-eliminazioniste-proprie-del-mondo-occindentale/

[3]http://www.genovatoday.it/cronaca/foce-identificato-cadavere.html

http://effimera.org/john-kenedy-al-presidente-nero-enne-operatori-x-rete-no-borders-genova/

Migranti: il riaffiorare del fiume carsico delle politiche eliminazioniste occidentali

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un testo denso , che mette a tema la politica eliminazionista dei migranti in atto nell’odierna Europa. Un testo che a nostro parere  merita di essere letto con calma e discusso. Contiene infatti una riflessione storica e politica complessiva sulle politiche e sui dispositivi che  governano il fenomeno delle migrazioni verso l’Europa di questi ultimi quindici anni.

L’autore del testo che segue, un uomo con una storia importante e particolare [1], oggi membro del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos [2], non esita a definire queste ultime come “politiche eliminazioniste”. Non è bello ma è reale: se vogliamo riferirci all’agghiacciante conta delle persone decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo le stime ci parlano di oltre 30000 morti, una media di 6  morti al giorno, dal 2003 a oggi. A questo numero vanno aggiunti coloro che sono morti nel tentativo di attraversare le frontiere interne dell’Europa: Ventimiglia, per esempio, ha visto tante donne e uomini fulminati sui treni, nascosti nelle cabine elettriche dei convogli, caduti dalle scarpate nel tentativo di passare la frontiera attraverso i sentieri montani, investiti dalle auto in corsa mentre camminavano sul ciglio della strada che congiunge l’Italia alla Francia. E poi i morti lungo la rotta balcanica, e poi tutti gli scomparsi nel nulla lungo le rotte migratorie africane, nei lager in Libia, in Niger… i cui corpi e le cui identità si sono perse nell’oblio di questa violenza inaudita. E’ un testo importante quello che segue, perché arendtianamente prova a “comprendere” senza giustificare, ossia ripercorre l’attualità sulla scorta della riflessione storica e dell’analisi politica, e propone una verità che molto pochi in Europa oggi sono disposti ad ammettere e cioè che ciò a cui stiamo assistendo non è diverso, per quanto riguarda i modi e le finalità delle politiche governamentali, dalla politica di sterminio nazista o da quella della desaparicion applicata in Argentina tra il ’76 e l’ ’83 sotto il regime della giunta militare di Videla.
E’ un testo  che ci chiama in causa tutti, chiama in causa la nostra responsabilità di fronte alla storia di cui siamo attori e non semplici spettatori; ci parla della necessità di ripoliticizzare quella parte di società cui apparteniamo e che oggi è preda dell’alienazione mediatica e politica che le classi dominanti impongono. Molte sono gli stimoli che un testo di questo tipo propone, molte anche le questioni discutibili. Non su tutto ovviamente ci troviamo d’accordo. Ma come lettrici e lettori ci sentiamo chiamat* non solo a riflettervi ma a trovare le vie per una risposta collettiva, la cui mancanza determina che i numeri di questo massacro, quotidiano e irreversibile, continuino ad aumentare. Numeri dietro ai quali ci sono le vite di esseri umani.

Situazione attuale dei flussi migratori sotto il profilo dei Diritti Umani

L’Assemblea del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos ci offre l’occasione per fare il punto sulla catastrofe umanitaria in corso sotto i nostri occhi, senza che l’opinione pubblica  – vittima di una sindrome da “Lettera rubata “ collettiva – riesca a vederla e tanto meno a tentare di porvi rimedio.

Si tratta di riflessioni dettate da un senso di estrema urgenza, nella speranza di incoraggiare un dibattito  sulle possibili vie da seguire per porre finalmente fine allo stillicidio quotidiano di morti che da troppo ormai ci accompagna e che non possono essere considerate casuali.

Nel tentativo di leggere il problema, occorre premettere che è possibile inquadrare quanto sta accadendo oggi intorno a noi come il riapparire del fiume carsico delle politiche eliminazioniste proprie del mondo occidentale, come la Soluzione finale o quanto accaduto in Argentina sotto la dittatura militare, avvenimenti che ben poco hanno a che vedere, nelle modalità di esecuzione, con quanto portato a termine in Cambogia dai Khmer Rossi, nel Cile di Pinochet, o negli anni ’90 in Ruanda, o con lo stesso genocidio degli armeni, emblematico della capacità di uccidere un gruppo etnico a partire dai primi del ‘900.

Per quanto riguarda la Soluzione finale, appare interessante richiamare l’interrogativo posto dall’indifferenza dell’opinione pubblica nei Paesi occupati dal nazifascismo,  nei confronti della sorte riservata agli ebrei. Possibili spiegazioni hanno a che vedere con il fatto che si trattava di una minoranza transnazionale che mai si era piegata al cristianesimo, vissuta come diversa dalla maggioranza delle popolazioni nell’affermarsi di un sempre più forte nazionalismo identitario, quindi bollabile come Altro in tutti gli Stati europei.

A ciò va aggiunto il segreto con cui era stato custodito tutto quanto riguardava la Soluzione finale, dalla sua ideazione alle decisioni adottate per implementarla, il silenzio stampa che ne conseguiva, l’enormità di quanto programmato che lo rendeva impensabile e quindi negabile, l’inesistenza di un reato che ne prevedesse la fattispecie.

Risultava da tutto ciò nell’opinione pubblica, consapevole di essere tagliata fuori dagli arcana imperii, una diffusa acquiescenza  e, nelle alte sfere, la convinzione dell’impunità che avrebbe accompagnato la vittoria dell’Asse nella II guerra mondiale, su cui tutto si giocava.

Ciò tuttavia non spiega come mai i nuclei rurali che convivevano con i campi di sterminio – e quindi con  i reticolati e il filo spinato, la sorveglianza da parte delle SS con cani inferociti, il fumo dal crematorio con il pungente odore che lo accompagnava –  potessero dirsi e dire di non sapere quello che in quei luoghi veniva portato a termine. Come se, al di fuori dalla logica aristotelica, l’uomo potesse allo stesso tempo sapere e non sapere, o per meglio dire sapere e negare a se stesso di sapere, specie in una situazione di diffuso terrore e nel silenzio dei media che plasmano l’opinione pubblica.

Il ruolo dei media è centrale. Negli anni ’70 del secolo scorso, l’affermarsi della televisione nel mondo occidentale appare mettere in crisi la possibilità stessa del ricorso all’uso della forza da parte dei governi. Due esempi sono emblematici: primo, l’esito finale della guerra in Vietnam, che vede la superpotenza occidentale piegarsi di fronte alla capacità di resistenza di un piccolo stato asiatico, data l’indignata mobilitazione con cui l’opinione pubblica occidentale rispondeva alle atrocità commesse da parte americana, che immagini televisive da giornalisti non embedded rendevano indimenticabili, allora come oggi. Secondo, quanto accade l’11 settembre 1973  a Santiago del Cile, dove i militari decidono di utilizzare la televisione per confrontare la popolazione con la percezione immediata della violenza di cui sono capaci, in modo da soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione armata. In effetti, il bombardamento del palazzo presidenziale con la tragica morte del Presidente Allende, i carri armati nelle strade della capitale, i combattimenti contro le poche sacche di resistenza ben presto travolte, lo stadio pieno di detenuti torturati e passati per le armi, le ambasciate stesse invase da disperati alla ricerca di una qualunque via di fuga,  spazzano via, a livello interno, qualunque tentativo di lotta armata. Ma, a livello internazionale, provocano un’unanime ondata di indignazione e condanna da parte dell’opinione pubblica occidentale che non accetta né la violenza né la violazione delle più elementari prassi democratiche. In tal modo, Pinochet s’impadronisce del potere, ma a livello internazionale resta condannato all’ostracismo come un vescovo lebbroso.

Si sarebbe detto insomma in quegli anni che la televisione con la sua pervasività e la capacità di scatenare reazioni improntate al senso di etica politica prevalente nelle masse occidentali, avrebbe d’allora in poi vanificato i tentativi degli Stati di fare ricorso alla violenza.

Tre anni dopo, i militari argentini dimostrano che tutto il contrario è analogamente possibile,  purché si riesca a formulare strategie eliminazioniste che, da una parte, tengano buona la popolazione, dall’altra non attirino l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale.

Il ricorso alla desaparición soddisfa entrambe queste esigenze e permette la decimazione , nei suoi elementi migliori, di   una generazione di giovani impegnati e generosi, destinati a diventare la classe dirigente del futuro e decisi a portare avanti un progetto di giustizia sociale e democratica inconciliabile con il neoliberismo  che, dopo il Cile, si voleva a quel punto imporre all’Argentina. La politica ufficiale li bollava come sovversivi che avevano spinto il Paese sull’orlo del caos,  la gerarchia ecclesiastica cattolica non esitava a definirli come cancro da estirpare dal corpo sociale, la maggioranza silenziosa appariva timorosa dell’esito che avrebbe potuto avere una fuga in avanti.

In estrema sintesi, è possibile affermare che in un sistema di informazione ormai prevalentemente televisivo o iconografico, si dà per scontato che tutto quanto accade viene rappresentato e che quanto non è rappresentato non accade. Anche in questo caso, poi, l’enormità della desaparición di massa la rendeva impensabile, come lo era stata la Soluzione finale, non soltanto in quanto ancora non prevista come crimine e quindi non riconosciuta dal sistema giuridico,  ma soprattutto in quanto non rientrante nelle categorie storicamente stratificate nella mente umana o nel cosiddetto inconscio collettivo.

Dalla mancata rappresentazione dei cadaveri conseguiva che non c’erano morti e la speranza di ritrovare in vita il giovane improvvisamente scomparso  smorzava qualunque tentativo di rivolta da parte dei familiari, che d’altronde venivano emarginati dalla maggioranza dei non direttamente colpiti. Qualcosa di analogo appariva a livello internazionale, dove la mancanza di immagini di violenza e di morte impediva all’opinione pubblica, ancora focalizzata sul caso cileno, di intuire e mobilizzarsi contro la ben più vasta caccia all’uomo in corso in Argentina.

I militari argentini avevano capito che nel sistema di informazione mediatica  prevalente, esisteva un cono d’ombra in cui poter agire con le mani libere dai lacci e laccioli dei sistemi democratici, sempre che si potesse fare affidamento sul silenzio dei media e su complicità o almeno acquiescenza a livello internazionale.

Gli Stati non potevano non sapere, ovviamente, attraverso le loro ambasciate a Buenos Aires. Ma, più che la tanto sbandierata tutela dei diritti umani,  a contare era la convinzione che l’opinione pubblica occidentale non si sarebbe potuta mobilitare per qualcosa che ignorava.

Soprattutto, erano i parametri della Realpolitik – vale a dire la politica estera tesa a perseguire gli interessi nazionali in materia economica, geostrategica e di stabilità interna, come interpretati dalla classe dirigente di ogni Paese – a guidare il procedere degli Stati, anche democratici, al di fuori di qualunque considerazione etica.

Prima di arrivare alla contemporaneità, tentiamo di evidenziare adesso i punti in comune tra Shoah e desaparición.

Malgrado la prima sia emblematica del genocidio e la seconda rientri, piuttosto, nella fattispecie del politicidio, entrambe sono manifestazioni delle politiche eliminazioniste, che anche i Governi occidentali ritengono di poter attuare, quando ne ravvisano la convenienza e si sentono ragionevolmente sicuri dell’impunità.

Sia pure maturate  nell’ambito di sistemi totalitari, entrambe le tecniche di eliminazione di massa appaiono far affidamento sull’inerzia dell’opinione pubblica a partire dai seguenti fattori:  il segreto e il silenzio stampa o comunque l’inadeguatezza di quest’ultima a dar conto di quanto sta accadendo;  il carattere di minoranza e/o differenziabilità del gruppo preso di mira che non sembra mettere in pericolo il quieto vivere della maggioranza silenziosa;  quella che abbiamo definito l’impensabilità di entrambi i progetti, che non sono all’epoca neanche previsti come crimine, e l’indimostrabilità della loro attuazione mentre la stessa è in corso; la progressiva diffusione del pregiudizio contro gli integranti del gruppo fino alla loro etichettatura come subumani;  l’adozione di leggi discriminatorie e/o razziali;   la criminalizzazione di coloro che cercano di proteggere il gruppo preso di mira;   la responsabilizzazione del gruppo stesso per una congiuntura particolarmente difficile.

Le atrocità attuate dai militari argentini diventano di pubblico dominio alla caduta della dittatura, nel 1983. La relazione finale della commissione nazionale argentina per le persone scomparse (CONADEP) , istituita al ritorno della democrazia, verrà intitolata “Nunca Màs” , a significare che mai più l’umanità dovrà permettere il ripetersi di simili pratiche . Il governo argentino, insieme a quello francese, darà vita in ambito Nazioni Unite alla Convenzione Internazionale Contro la Sparizione Forzata delle Persone, ma la desaparición non sparirà.

Nel dopo guerra fredda, quello che Bush Senior definisce Nuovo Ordine Mondiale sarà caratterizzato dall’asimmetria scientifico/tecnologica, in primo luogo, ma quindi anche militare, economica e culturale, tra un Occidente che si ricompatta e allarga intorno all’iperpotenza sopravvissuta e il resto del mondo. La guerra torna a essere uno strumento praticabile e praticato, anche da parte di Stati la cui costituzione la ripudia. L’ ideologia della non ideologia neoliberista antepone l’economia alla politica e all’etica, valuta le masse come materiale per la produzione, l’individuo in quanto consumatore – che è l’altra faccia della sua attività lavorativa –  e non in quanto titolare di diritti umani. Più che di globalizzazione sarebbe il caso di parlare di neocolonialismo globale.

L’Occidente continua a vivere confortabilmente la sua età del petrolio, peraltro non suo. L’accaparramento delle risorse, specie energetiche, dei paesi che non si dimostrano in grado di difendere la propria sovranità, permette il mantenimento di livelli di vita e di spreco cui si accompagnano nel resto del mondo sfruttamento della mano d’opera e miseria endemica, disastri ecologici, guerre che sono il mercato necessario per le  nostre industrie e tentativi di proliferazione nucleare,  dittature e Stati falliti, Stati canaglia e vaganti transnazionalità  criminal/terroristiche di origine incerto, capaci di conquistarsi milioni di followers  mostrando nel web cruenti rituali da Medio Evo prossimo venturo.  Ma l’arrivo di nuovi giocatori non deve ingannarci: è il ritorno del Great Game su scala globale, in cui l’Occidente tutto insieme prende il posto dell’Impero Britannico e ancora una volta cerca di ridisegnare Medio Oriente ed Africa a proprio vantaggio, prima che la Russia post sovietica ritrovi il ruolo di superpotenza, che a sua volta la Cina si appresta a svolgere.  Ed è un mondo di cui le masse di migranti e richiedenti asilo sono il portato strutturale, ma non per questo ben visti, anzi spesso non visti per niente,  nella valanga d’informazione dal sistema mediatico, che diventa martellante intrattenimento e baluginante cacofonia autoreferenziale, tutto equiparando in un messaggio subliminale di irresponsabilità, apatia e acquiescenza.

E’ un fatto che dai primi anni 2000 Unione europea e NATO hanno incluso tra i pericoli da affrontare gli effetti destabilizzanti che possono derivare da un arrivo in  massa di migranti e richiedenti asilo, anche se provenienti da  scenari di guerra,  alla pari con il terrorismo e l’interruzione dei flussi energetici, la proliferazione nucleare e la cyber war, ecc. Si tratta, sia detto tra parentesi,  di  contraccolpi  destabilizzanti che  possono aver luogo soltanto in un contesto neoliberista di drastica e costante riduzione della spesa pubblica, quale quello che stiamo vivendo. Basterebbe cambiare le politiche di bilancio per smorzare IL contraccolpo e contrastare  sul nascere le guerre tra poveri.

Resta che, quando l’area economica più ricca  e l’alleanza militare più forte al mondo definiscono come destabilizzante un gruppo umano, quest’ultimo non potrà che diventare bersaglio di politiche di deterrenza.

Sia chiaro, gli Stati hanno  il diritto/dovere di difendere frontiere, coste e acque territoriali, specie in congiunture come quella attuale, caratterizzata da venti di guerra in Medio Oriente e ai confini dell’ex Unione Sovietica,  così come hanno  il diritto di dotarsi di  leggi finalizzate al controllo dell’immigrazione e quello di stabilire accordi bilaterali con paesi di dubbia democraticità.

Da un punto di vista formale, senza entrare nel merito dei singoli contenuti, ciascuna di queste attività normative o pattizie è lecita. Il problema sta nelle ricadute che il combinato disposto di tali attività comporta sui non cittadini, che, sia in quanto richiedenti asilo che in quanto migranti, hanno pur sempre titolo al rispetto dei loro diritti fondamentali e, in primis, del diritto alla vita.  Stiamo parlando dell’operato – anche omissivo – degli Stati europei, della stessa Unione Europea e della stessa NATO, da una parte, degli Stati  africani di attraversamento, dall’altra. E più precisamente degli accordi di Malta (novembre 2015), del patto con la Turchia (marzo 2016), dell’accordo ricatto  con l’Afghanistan (ottobre 2016), del memorandum con la Libia (febbraio 2017),  dei Processi di Rabat e  di Khartoum, che altro non sono che alleanze finalizzate a garantire  sostegno finanziario e militare a regimi non democratici, corrotti e dittatoriali, IN cambio dell’intensificarsi da parte loro della persecuzione ai potenziali “clandestini”, che tentano di arrivare al Mediterraneo. Si sta mettendo a punto un sistema concentrazionario,  sparpagliato ma rispondente a un disegno unitario, in tutto l’enorme bacino africano e mediorientale che fa capo al Mediterraneo, nel quale le torture, i massacri, i trattamenti inumani e degradanti sono da tempo all’ordine del giorno e che se non bloccato  potrebbe diventare  il più complesso sistema eliminazionista della storia dell’umanità.

Lo sbarramento di ogni via d’uscita legale riduce  questi disperati a res nullius , non diversamente dagli ebrei nell’Europa occupata dai nazifascisti o dei desaparecidos nelle mani dei militari argentini, mettendoli  alla mercé dei Diavoli a  cavallo che, dopo essersi macchiati di genocidio in Sud Sudan, adesso sono stati arruolati dal governo sudanese per dar loro la caccia, o delle bande che in Libia li sottopongono a tortura, stupri, lavori forzati o esecuzioni extragiudiziali, vendita come schiavi  o  espianto di organi,  e  infine  in mano agli scafisti, se e quando riescono ad arrivare al Mediterraneo.  Anzi è tutto questo a produrre il lavoro sporco degli scafisti, che tra l’altro finisce per finanziare il terrorismo e altro non è che il sintomo di un’immensa tragedia umanitaria scientemente provocata a monte.

Ma non basta. Non possiamo non dirci che è estremamente improbabile che un barcone possa sfuggire ai controlli incrociati continuamente in atto da parte di aerei,  droni, satelliti, elicotteri, sofisticate apparecchiature radar , ecc. e che lo stesso accada per i gruppi che si avventurano nella traversata del deserto nella speranza di raggiungere  il Mediterraneo o vi sono costretti in direzione contraria, dopo il respingimento. Non mancano testimonianze ad avvalorare l’ipotesi  che i medesimi vengano inquadrati, seguiti fin dall’inizio e lasciati a percorrere fino in fondo il loro calvario,  nell’ambito di una strategia di deterrenza finalizzata a minimizzarne il numero, nell’impossibilità di sradicare del tutto il fenomeno. Non mancano testimonianze su gravissime omissioni di soccorso che di certo costituiscono un illecito internazionale.

Ma loro continuano a tentare di arrivare perché privi di alternative, in fuga come sono da crisi  troppo spesso da noi stessi provocate. E allora,  ecco che le frontiere vengono spinte sempre più in là, oltre la Libia stessa, in Niger adesso,  fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro respingimento,  invisibili perché dispersi nel nulla mediatico,  quindi impensabili e alla fine inesistenti perché quod non est in actis, non est in mundo. E si tenta di criminalizzare  le ONG che accorrono a soccorrere i barconi in pericolo di naufragio, affinché il massacro possa andare avanti senza ostacoli e senza testimoni scomodi.

Sistematicamente respinti nell’invisibilità, sono i desaparecidos nell’Europa di oggi, perché, dobbiamo ripeterlo,  la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel cono d’ombra reso possibile da  qualunque sistema mediatico, anche l’attuale, in cui l’iconografia televisiva si somma ai lati oscuramente manipolatori di Internet,  come lo scandalo Facebook da ultimo dimostra,  in maniera che  l’opinione pubblica non riesca a prenderne la dovuta consapevolezza, o possa almeno dire di non sapere,  come successo sia nella Germania nazista che nell’Argentina dei militari.  Permettete che lo dica: tutto questo ricorda la normalità apparente e in realtà spietata che vedevo intorno a me nel centro di Buenos Aires, in mezzo alla tragedia umanitaria scatenata dai militari argentini.

Come nel caso della Shoah e dei Desaparecidos, ci troviamo di nuovo confrontati a un crimine senza nome, che il Diritto Internazionale penale fatica a riconoscere e non può al momento perseguire. E’ la cifra stessa dei morti, 30mila circa dai primi anni 2000 ad oggi, a dimostrare, a mio avviso, che siamo ancora una volta di fronte a un crimine di lesa umanità.

Eppure, qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi tempi, la Corte europea dei Diritti Umani ha scritto al Ministro italiano dell’Interno a proposito dei respingimenti in Libia, che nell’ottobre 2017 una sentenza della Corte d’Assise di Milano ha dichiarato illegittimi, per via delle atrocità cui i migranti vi vengono sottoposti, il Tribunale Permanente dei Popoli nella sua sentenza del dicembre 2017 a Palermo ha ritenuto di poter affermare l’esistenza di un popolo migrante, cui sono applicabili le norme a tutela dei diritti umani previste dal diritto internazionale. E quanto più dà speranza forse sono i giovani che accorrono a frotte nelle isole greche, riscoprono i sentieri della resistenza contro il nazifascismo ai confini interni all’Ue, si sottopongono a persecuzioni giudiziarie in nome della dignità e della solidarietà, rischiano anche la vita nelle acque internazionali per salvare i disperati sui barconi che affondano. La stessa procura di Roma ha dovuto avviare pur con tutti i limiti possibili immaginabili, un procedimento penale contro i responsabili del ritardo di 5 ore con cui l’11 ottobre 2013 la nave della Marina Militare italiana Libra  è arrivata a soccorrere le vittime di un naufragio nelle acque internazionali delle stretto di Sicilia, causando l’annegamento di 140 persone circa, di cui 60 minori. E’ il cosiddetto naufragio dei bambini, che non sembra peraltro aver suscitato nell’ ondivaga opinione pubblica, oggi sostanzialmente apatica se non ostile,  la contagiosa commozione scatenata dalla foto di un bambino annegato sulla spiaggia turca, fatta rimbalzare, questa sì, per giorni e giorni, sulle televisioni di tutto il mondo.

Le analogie tra quanto sta accadendo oggi – o per meglio dire si sta facendo, perché di un fare si tratta – e quanto accaduto sia nell’Europa occupata dal nazifascismo che nell’Argentina dei militari sono evidenti:
dalle crescenti manifestazioni di intolleranza, xenofobia e razzismo, incoraggiate nell’elettorato e quindi nell’opinione pubblica, da partiti e politici a caccia di consenso, a leggi razziali, come quella che toglie un grado di giudizio nei procedimenti per ottenere lo status di rifugiato, dal segreto sul contenuto degli accordi con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo,  al ricorso alla logica economica a giustificazione dell’asserita impossibilità di salvare e accogliere tutti, da quel siete troppi, mantra continuamente ripetuto e addirittura pubblicamente sfuggito come un lapsus alla stessa Cancelliera Merkel, alla visibilità negata ai morti in mare, ridotti a cifre non dissimili da quelle stampate a fuoco sulle braccia degli internati nei campi di sterminio, in un astratto presente numerico che cancella le migliaia di storie umane travolte, alla già citata criminalizzazione delle ONG che tentano di salvare vite umane nel Mediterraneo, non dissimile da quanto accaduto in Argentina ai pochi avvocati che osarono difendere i diritti umani dei detenuti politici.

Ma più che continuare ad enumerare similitudini,  è il senso di urgenza di fronte alla catastrofe umanitaria oggi in corso intorno a noi a causa delle politiche dell’Unione Europea, della NATO e degli Stati membri che occorre evidenziare, nella speranza di sollecitare un dibattito che possa contribuire a cercare il modo di porre fine al massacro in corso,  portando a giudizio i responsabili individuali e politici di quanto sta accadendo.

Enrico Calamai

[1] http://www.famigliacristiana.it/articolo/enrico-calamai-lo-schindler-dell-argentina.aspx

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/enrico-calamai/774/default.aspx

[2] http://nuovidesaparecidos.net/

 

 

“L’accoglienza ai migranti è indegna”. Diffuso in Francia un rapporto ufficiale sulle pratiche della Polizia di frontiera a Mentone.

Il 5 giugno, il quotidiano Nice Matin (cosi’ come altri giornali francesi) ha pubblicato la notizia dell’avvenuta consegna, nelle mani del ministro degli interni Gérard Collomb, di un rapporto redatto dal Contrôleur général des lieux de détention et de privation de la liberté (controllore generale dei luoghi di detenzione e privazione della libertà). Questa autorità indipendente, creata nel 2007, si è recata a Mentone, per la seconda volta dal 2015, per osservare le pratiche di “accoglienza” ai migranti da parte del SPAFT, il servizio di polizia alle frontiere terrestri. I fatti constatati e le conclusioni del rapporto sono gravissimi: l’accoglienza ai migranti è “indegna”, per la violazione ricorrente e continua dei loro diritti, e per le condizioni materiali dei locali troppo piccoli, nei quali le persone fermate sono costrette a passare ore, nottate intere, nella quasi totale assenza di arredo. Inoltre, sono stati osservati direttamente atti di violenza e respingimenti illegali di minori … l’impunità è tale che, neanche sotto gli occhi di un organo di controllo, i poliziotti si preoccupano di modificare la loro condotta. I numeri forniti sono da capogiro: tra gennaio e agosto 2017, a questo posto di frontiera sono stati respinti 29 144 adulti e 10 434 minori non accompagnati. Di questi ultimi, nello stesso periodo, solo 27, lo 0,3 %, sono stati affidati ai servizi sociali competenti. Abbiamo sotto gli occhi un crimine palese e enorme: come ogni paese europeo, la Francia ha l’obbligo di garantire la presa in carico di ogni minore migrante reperito sul proprio territorio. Da anni militanti, attivisti e soggetti vari, attenti alle dinamiche di frontiera, denunciano queste violenze e soprusi. Nessuna presa di posizione. E neanche davanti ad un rapporto come questo il Ministero dell’interno ha proferito parola: sono da poco scaduti i termini per la presentazione delle osservazioni e non un fiato sulla vicenda. La direzione regionale della polizia delle Alpi Marittime ha risposto in termini burocratici elencando tutte quelle convenzioni e quei protocolli ai quali teoricamente si attiene, ma che nei fatti non rispetta, e difendendo a spada tratta la condotta dei poliziotti. Si è sentita anche qualche voce politica, come succede spesso, ideologicamente troppo schierata su posizioni reazionarie e razziste, per preoccuparsi di rispondere nel merito dei contenuti.

Questo rapporto, e le mancate reazioni che ne sono seguite, sono il ritratto della frontiera: un’ingiustizia perpetrata quotidianamente nell’indifferenza e nell’accettazione.

 

Sui poliziotti alla frontiera di Mentone piomba un rapporto … ed è severo.

http://www.nicematin.com/faits-de-societe/un-rapport-est-tombe-sur-les-policiers-aux-frontieres-de-menton-et-il-est-severe-235847

(link all’originale, da Nice Matin, edizione in linea, pubblicato il 05/06/2018)

A Mentone, l’accoglienza ai migranti da parte della polizia di frontiera è stata giudicata “indegna”.

La visita era imprevista. Quattro persone, dipendenti del controllore generale dei luoghi di privazione di libertà –un’autorità indipendente creata dalla Francia in 2007-, hanno voluto verificare, ad inizio settembre, come fossero prese in carico a Mentone le persone straniere fermate dal servizio della polizia alle frontiere terrestri. La conclusione è secca: controlli a bordo dei treni “au faciès”(leteralmente “alla faccia”, espressione per indicare la discriminatorietà di controlli polizieschi motivati da caratteristiche fisiche), pratiche di respingimento “consistenti nell’invitare dei minori non accompagnati e delle famiglie a riprendere un treno verso l’Italia senza che alcuna procedura sia attivata”, locali “troppo esigui” quando non sono considerati “indegni”, “tensione”, o anche “atto di violenza nei confronti di un giovane migrante” sotto gli occhi dei controllori.

L’accusa principale: i diritti dei migranti, secondo il rapporto, non sono rispettati. “In nessun momento , durante la loro missione, i controllori hanno visto dei poliziotti leggere alle persone le decisioni che li riguardavano o spiegargli nel dettaglio la portata di tali decisioni”.

Infine, “I controllori hanno constatato che dei minori non accompagnati fermati sul territorio (nazionale francese, n.d.r.) sono stati ricondotti in Italia, quando in nessun caso possono essere oggetto di misure di allontanamento”. L’integralità del rapporto si evince da una frase: “la presa in carico quotidiana delle perosne straniere si effettua in condizioni indegne et irrispetose nei confronti dei loro diritti”.

Il ministero degli interni, al quale era destinanto il rapporto, non ha fatto alcuna osservazione da quando lo ha ricevuto.

Eric Ciotti, deputato della prima circoscrizione delle Alpi-Marittime, ha denunciato “un rapporto non oggettivo e diffamatorio nei confronti dei poliziotti”.

Sul sito del Contrôleur général des lieux de privation de liberté è possibile scaricare il rapporto integrale (81 pagine):

http://www.cglpl.fr/2018/rapport-de-la-deuxieme-visite-des-services-de-la-police-aux-frontieres-de-menton-alpes-maritimes/

Bucare il Confine

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di un compagno e ricercatore – Gabriele Proglio CES-Universidade de Coimbra – che in questo periodo si trova sul Confine di Ventimiglia. Un interessante aggiornamento e un’intensa riflessione sul costante esercizio alla ricerca di una prospettiva decolonizzata e anticolonialista.

Note, perché è da poco, pochissimo che sono sul confine. Queste sono solo note. Eppure, man mano che recupero i pezzi dell’archivio del movimento che ha bucato il confine di Ventimiglia/Menton, mi rendo conto della potenza di quello che è stato. Ma non è finita. O meglio, sì, lo è, quella stagione. Ma i frammenti sono ancora vivi. Ossia, tutte le persone che ho incontrato, finora, non hanno fatto un passo indietro. Fogli di via, provvedimenti di pericolosità sociale, denunce e fermi: ogni tipo di misura è stata adottata per rompere l’unità, per mandare in pezzi un’entità che varcava i e talvolta prescindeva dai confini ideologici delle tante soggettività coinvolte. Ma nessuno si è arreso, anzi, la resistenza continua. Adesso, e non solo a Ventimiglia. Anche in tutta la Liguria, con persone che arrivano da ogni parte della Penisola – da Torino a Roma. Ma facciamo, per il momento, un salto agli aggiornamenti, a cosa succede sul confine.

La scorsa settimana ho girato in lungo e in largo Ventimiglia. La stazione, l’infopoint, il parcheggio davanti al cimitero, le Gianchette, e poi, più di una volta sono stato alla frontiera ‘di mezzo’, quella da cui si può vedere, giù in basso, il vecchio confine di stato con l’istallazione di Pistoletto. Per la precisione è giovedì mattina, e sono da poco passate le 12. Salgo dai giardini Hambury, facendomi largo tra le curve con lo sguardo. Giù, in fondo, poco prima del primo blocco italiano, ci sono tre persone con valige alla mano. Stanno telefonando. Ancora una curva, e poi eccomi più vicino. Sono due uomini e una donna. Neri. Come ogni volta, metto in crisi il mio sguardo. Ho visto il nero e letto il luogo d’origine: Nigeria. Cerco di spostare l’attenzione dai loro corpi al mio vedere. È una visualità che, nonostante tutto, va ancora decostruita. È un processo senza fine che setaccia le immagini e i loro significati, che sposta il centro dal sapere all’ascoltare, dal vedere all’essere in contatto. Decentro la mia posizione e creo, continuamente, una narrazione che non afferma, costruendo corpi e luoghi – proprio come facevano i colonialisti e gli esploratori – ma che nasce dalle relazioni con le soggettività. Non è né mia, né dell’altro: è libera e reinventa il significato dei corpi, dei generi, dei colori. Sovverte le categorie e mescola talmente tanto le lingue da fare nascere nuovi lemmi: gemme con radici sul confine come stato-in-essere, ossia come costante, perenne, incessabile condizione di corpi fuori posto. Altrimenti ‘i migranti’ sarebbero ridotti a corpi sbagliati, diversi e inattesi; corpi spaventosi, pericolosi e nemici; corpi da compatire, da cacciare, da evitare; corpi del desiderio, dell’evasione, terreni di sfogo delle ansie bianche: questa è una parte delle genealogia razzista.

Sono curve, poche curve che creano un’onda che si riverbera in me. Rimetto in discussione la mia posizione, il mio privilegio, bianco; lo guido, in questo caso; è nel mio portafoglio, vicino a un paio di banconote da venti euro. Arrivo davanti al confine, e mi lascio alle spalle i tre. Vedo una macchina della polizia e, poco dietro, un pullman di Riviera Trasporti, la compagnia che, in pochi anni, ha risolto i conti in rosso… diventando il vettore principale della deportazione al Sud. Mi fermo dall’altra parte della strada, nello slargo. Faccio alcune foto. C’è molta polizia, e, poco più avanti, un mezzo dell’esercito con tre militari a bordo. Aspetto una decina di minuti. Davanti a me, fuori dagli uffici della polizia di frontiera, c’è movimento. Due digos si parlano animatamente. Uno di questi indica il pullman. Alzo gli occhi e vedo che è pieno. Stanno per partire, destinazione Bari. Sopra ci sono uomini e donne. Intanto, altre persone, bloccate nella notte, vengono indirizzate, da un terzo uomo, verso la scala che porta sul marciapiede. Torneranno a Ventimiglia, a piedi.

Accendo la macchina e faccio inversione. Torno indietro e, dopo qualche curva, mi trovo davanti ai tre che avevo lasciato prima. Chiedo se vogliono un passaggio. Felicissimi, mi dicono di sì. Salgono rapidamente. Joy, questo il nome della donna, mi racconta del suo viaggio per arrivare in Europa. È di Abuja, in Nigeria. “Sono andata via, senza sapere dove…” – si ferma, sospira, poi riprende “dove andare”. “Ma qui – mi spiega – oltre il mare dei bianchi, c’era la fortuna”. Le chiedo che percorso ha fatto e quanto ci ha messo. Fino in Niger in pullman e in auto. Poi, di là, non ci sono regole: ‘non ti puoi fidare di nessuno, solo del denaro’. Riprende il silenzio, e aggiunge ‘il denaro, però, non ti salva, ma non basta: servono le persone’. Mi spiega di come è arrivata in Libia, grazie ad altri amici nigeriani, con numerose telefonate. Gli altri due, ci ascoltano dietro e ogni tanto annuiscono. Joy parla molto bene inglese e mi pare determinata, vuole passare dall’altra parte. Siamo quasi all’infopoint, dove mi hanno chiesto di portarli. Mi chiedono il numero di telefono e poi parlano tra di loro. Ecco il parcheggio, mi fermo. Ci salutiamo e mi incammino verso il bar Hobbit, per salutare Delia.

Attraverso la città che è divisa per linee di colore. Non vi sono limitesfisici, come muri, ma vere e proprie zone che sono destinate ai bianchi o ai neri. Se dovessi usare una metafora, parlerei di una geografia a macchie di leopardo. Ci sono spazi solo per bianchi, spazi solo per neri e zone di contatto. In queste ultime, cerco sempre di fare attenzione a come avviene la mobilità. Tre sono gli elementi che credo primari: i non bianchi non si possono fermare nelle zone ‘condivise’ con i bianchi: possono solo essere di passaggio; le zone bianche sono visibili, le zone dei non bianchi sono celate allo sguardo, cioè eccedono la normalità del vivere la città. Bisogna, in sostanza, prendere sentieri, salire su gradini, invertire lo sguardo, abbassarsi o alzarsi. Se la conoscenza della città è fatta di memorie visuali, i luoghi dei non bianchi sono svelati da prospettive e orizzonti inusuali, che eccedono le forme di mobilità (a piedi, in bici, in auto). Infine, i luoghi dei non bianchi sono spazi liminali costruiti intorno ai rapporti personali e di gruppo, proprio come la città calviniana di Ersilia.

Sono quasi davanti all’Hobbit Bar. Joy mi chiama: “puoi tornare, vorremmo parlarti”. Le chiedo se è tutto apposto. Mi risponde che non ci sono problemi, ma che vuole avere informazioni. Prendo un caffè, al volo e faccio la strada a ritroso. Cinque minuti e sono da loro. Joy mi saluta nuovamente e mi chiede come andare dall’altra parte. Non so risponderle. Vorrei, ma non lo so. Mi dice che deve raggiungere la sorella di suo marito, a Marsiglia. “Potete aspettare e riprovare” aggiungo io. Lei dice che non sa, che forse prenderanno il treno per Milano e proveranno in un altro modo. Li saluto e mi incammino verso la macchina.

Accendo l’auto e rimango fisso a guardare loro che si allontanano. Penso che esistano più tracciati e che ogni percorso è costantemente ridefinito dalle memorie. E cosa sono le memorie se non reti di relazioni, di contatti, di emozioni e di pratiche dell’essere in diaspora. Sospesi in un luogo che è in costante ridefinizione, bisogna essere fluidi e parte di un movimento corale. Non si è solo individui, soggetti; anzi, come mi hanno detto in tanti, in questi mesi, si è, prima di tutto, parte di quello spostamento collettivo. Ragiono e trovo delle simmetrie con le mobilitazioni che sono nate dal 2015. Dobbiamo distruggere un mito: la Fortezza Europa non esiste. Già, non è una Fortezza, inespugnabile. Non è solamente un muro, che si può scalare o abbattere. Non è soltanto un mare, che si può attraversare. L’Europa dei confini è fatta di dispositivi di riconoscimento, di posizionamento e soggettivazione dei corpi, di inclusione differenziale o di espulsione. Per fare saltare questi dispositivi, non basta la forza. Non basta neppure la strategia. È necessario essere movimento, ossia costruire una rete capace di traghettare da un luogo a un altro le persone. Ed è proprio per questo che la repressione ha lavorato nel dividere, sezionare e scomporre l’unità nella differenza. Prima ha puntato sulla linea del colore, separando bianchi e neri. Poi ha segmentato ogni gruppo fino a ridurlo a unità, all’individuo isolato, solo, senza strumenti. Sistema, questo, che è proprio del capitalismo più avanzato e di riproduzione di cicli di sfruttamento. Ma il movimento, quello politico e quello delle persone, non si può arrestare. Ci sarà sempre un modo per passare oltre. È necessario spostare l’attenzione dall’immigrazione alla persona, dalla frontiera al dispositivo di confine. Come? Se questa è un’apologia a violare illegalmente i confini? Sì, lo è, senza dubbio e con forza. Perché i movimenti, di ogni tipo, eccedono la legge e reinventano la lingua, pensando la giustizia sociale con pratiche condivise.

A cura di Gabriele Proglio (CES-Universidade de Coimbra)