Riceviamo e volentieri pubblichiamo un testo denso , che mette a tema la politica eliminazionista dei migranti in atto nell’odierna Europa. Un testo che a nostro parere  merita di essere letto con calma e discusso. Contiene infatti una riflessione storica e politica complessiva sulle politiche e sui dispositivi che  governano il fenomeno delle migrazioni verso l’Europa di questi ultimi quindici anni.

L’autore del testo che segue, un uomo con una storia importante e particolare [1], oggi membro del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos [2], non esita a definire queste ultime come “politiche eliminazioniste”. Non è bello ma è reale: se vogliamo riferirci all’agghiacciante conta delle persone decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo le stime ci parlano di oltre 30000 morti, una media di 6  morti al giorno, dal 2003 a oggi. A questo numero vanno aggiunti coloro che sono morti nel tentativo di attraversare le frontiere interne dell’Europa: Ventimiglia, per esempio, ha visto tante donne e uomini fulminati sui treni, nascosti nelle cabine elettriche dei convogli, caduti dalle scarpate nel tentativo di passare la frontiera attraverso i sentieri montani, investiti dalle auto in corsa mentre camminavano sul ciglio della strada che congiunge l’Italia alla Francia. E poi i morti lungo la rotta balcanica, e poi tutti gli scomparsi nel nulla lungo le rotte migratorie africane, nei lager in Libia, in Niger… i cui corpi e le cui identità si sono perse nell’oblio di questa violenza inaudita. E’ un testo importante quello che segue, perché arendtianamente prova a “comprendere” senza giustificare, ossia ripercorre l’attualità sulla scorta della riflessione storica e dell’analisi politica, e propone una verità che molto pochi in Europa oggi sono disposti ad ammettere e cioè che ciò a cui stiamo assistendo non è diverso, per quanto riguarda i modi e le finalità delle politiche governamentali, dalla politica di sterminio nazista o da quella della desaparicion applicata in Argentina tra il ’76 e l’ ’83 sotto il regime della giunta militare di Videla.
E’ un testo  che ci chiama in causa tutti, chiama in causa la nostra responsabilità di fronte alla storia di cui siamo attori e non semplici spettatori; ci parla della necessità di ripoliticizzare quella parte di società cui apparteniamo e che oggi è preda dell’alienazione mediatica e politica che le classi dominanti impongono. Molte sono gli stimoli che un testo di questo tipo propone, molte anche le questioni discutibili. Non su tutto ovviamente ci troviamo d’accordo. Ma come lettrici e lettori ci sentiamo chiamat* non solo a riflettervi ma a trovare le vie per una risposta collettiva, la cui mancanza determina che i numeri di questo massacro, quotidiano e irreversibile, continuino ad aumentare. Numeri dietro ai quali ci sono le vite di esseri umani.

Situazione attuale dei flussi migratori sotto il profilo dei Diritti Umani

L’Assemblea del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos ci offre l’occasione per fare il punto sulla catastrofe umanitaria in corso sotto i nostri occhi, senza che l’opinione pubblica  – vittima di una sindrome da “Lettera rubata “ collettiva – riesca a vederla e tanto meno a tentare di porvi rimedio.

Si tratta di riflessioni dettate da un senso di estrema urgenza, nella speranza di incoraggiare un dibattito  sulle possibili vie da seguire per porre finalmente fine allo stillicidio quotidiano di morti che da troppo ormai ci accompagna e che non possono essere considerate casuali.

Nel tentativo di leggere il problema, occorre premettere che è possibile inquadrare quanto sta accadendo oggi intorno a noi come il riapparire del fiume carsico delle politiche eliminazioniste proprie del mondo occidentale, come la Soluzione finale o quanto accaduto in Argentina sotto la dittatura militare, avvenimenti che ben poco hanno a che vedere, nelle modalità di esecuzione, con quanto portato a termine in Cambogia dai Khmer Rossi, nel Cile di Pinochet, o negli anni ’90 in Ruanda, o con lo stesso genocidio degli armeni, emblematico della capacità di uccidere un gruppo etnico a partire dai primi del ‘900.

Per quanto riguarda la Soluzione finale, appare interessante richiamare l’interrogativo posto dall’indifferenza dell’opinione pubblica nei Paesi occupati dal nazifascismo,  nei confronti della sorte riservata agli ebrei. Possibili spiegazioni hanno a che vedere con il fatto che si trattava di una minoranza transnazionale che mai si era piegata al cristianesimo, vissuta come diversa dalla maggioranza delle popolazioni nell’affermarsi di un sempre più forte nazionalismo identitario, quindi bollabile come Altro in tutti gli Stati europei.

A ciò va aggiunto il segreto con cui era stato custodito tutto quanto riguardava la Soluzione finale, dalla sua ideazione alle decisioni adottate per implementarla, il silenzio stampa che ne conseguiva, l’enormità di quanto programmato che lo rendeva impensabile e quindi negabile, l’inesistenza di un reato che ne prevedesse la fattispecie.

Risultava da tutto ciò nell’opinione pubblica, consapevole di essere tagliata fuori dagli arcana imperii, una diffusa acquiescenza  e, nelle alte sfere, la convinzione dell’impunità che avrebbe accompagnato la vittoria dell’Asse nella II guerra mondiale, su cui tutto si giocava.

Ciò tuttavia non spiega come mai i nuclei rurali che convivevano con i campi di sterminio – e quindi con  i reticolati e il filo spinato, la sorveglianza da parte delle SS con cani inferociti, il fumo dal crematorio con il pungente odore che lo accompagnava –  potessero dirsi e dire di non sapere quello che in quei luoghi veniva portato a termine. Come se, al di fuori dalla logica aristotelica, l’uomo potesse allo stesso tempo sapere e non sapere, o per meglio dire sapere e negare a se stesso di sapere, specie in una situazione di diffuso terrore e nel silenzio dei media che plasmano l’opinione pubblica.

Il ruolo dei media è centrale. Negli anni ’70 del secolo scorso, l’affermarsi della televisione nel mondo occidentale appare mettere in crisi la possibilità stessa del ricorso all’uso della forza da parte dei governi. Due esempi sono emblematici: primo, l’esito finale della guerra in Vietnam, che vede la superpotenza occidentale piegarsi di fronte alla capacità di resistenza di un piccolo stato asiatico, data l’indignata mobilitazione con cui l’opinione pubblica occidentale rispondeva alle atrocità commesse da parte americana, che immagini televisive da giornalisti non embedded rendevano indimenticabili, allora come oggi. Secondo, quanto accade l’11 settembre 1973  a Santiago del Cile, dove i militari decidono di utilizzare la televisione per confrontare la popolazione con la percezione immediata della violenza di cui sono capaci, in modo da soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione armata. In effetti, il bombardamento del palazzo presidenziale con la tragica morte del Presidente Allende, i carri armati nelle strade della capitale, i combattimenti contro le poche sacche di resistenza ben presto travolte, lo stadio pieno di detenuti torturati e passati per le armi, le ambasciate stesse invase da disperati alla ricerca di una qualunque via di fuga,  spazzano via, a livello interno, qualunque tentativo di lotta armata. Ma, a livello internazionale, provocano un’unanime ondata di indignazione e condanna da parte dell’opinione pubblica occidentale che non accetta né la violenza né la violazione delle più elementari prassi democratiche. In tal modo, Pinochet s’impadronisce del potere, ma a livello internazionale resta condannato all’ostracismo come un vescovo lebbroso.

Si sarebbe detto insomma in quegli anni che la televisione con la sua pervasività e la capacità di scatenare reazioni improntate al senso di etica politica prevalente nelle masse occidentali, avrebbe d’allora in poi vanificato i tentativi degli Stati di fare ricorso alla violenza.

Tre anni dopo, i militari argentini dimostrano che tutto il contrario è analogamente possibile,  purché si riesca a formulare strategie eliminazioniste che, da una parte, tengano buona la popolazione, dall’altra non attirino l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale.

Il ricorso alla desaparición soddisfa entrambe queste esigenze e permette la decimazione , nei suoi elementi migliori, di   una generazione di giovani impegnati e generosi, destinati a diventare la classe dirigente del futuro e decisi a portare avanti un progetto di giustizia sociale e democratica inconciliabile con il neoliberismo  che, dopo il Cile, si voleva a quel punto imporre all’Argentina. La politica ufficiale li bollava come sovversivi che avevano spinto il Paese sull’orlo del caos,  la gerarchia ecclesiastica cattolica non esitava a definirli come cancro da estirpare dal corpo sociale, la maggioranza silenziosa appariva timorosa dell’esito che avrebbe potuto avere una fuga in avanti.

In estrema sintesi, è possibile affermare che in un sistema di informazione ormai prevalentemente televisivo o iconografico, si dà per scontato che tutto quanto accade viene rappresentato e che quanto non è rappresentato non accade. Anche in questo caso, poi, l’enormità della desaparición di massa la rendeva impensabile, come lo era stata la Soluzione finale, non soltanto in quanto ancora non prevista come crimine e quindi non riconosciuta dal sistema giuridico,  ma soprattutto in quanto non rientrante nelle categorie storicamente stratificate nella mente umana o nel cosiddetto inconscio collettivo.

Dalla mancata rappresentazione dei cadaveri conseguiva che non c’erano morti e la speranza di ritrovare in vita il giovane improvvisamente scomparso  smorzava qualunque tentativo di rivolta da parte dei familiari, che d’altronde venivano emarginati dalla maggioranza dei non direttamente colpiti. Qualcosa di analogo appariva a livello internazionale, dove la mancanza di immagini di violenza e di morte impediva all’opinione pubblica, ancora focalizzata sul caso cileno, di intuire e mobilizzarsi contro la ben più vasta caccia all’uomo in corso in Argentina.

I militari argentini avevano capito che nel sistema di informazione mediatica  prevalente, esisteva un cono d’ombra in cui poter agire con le mani libere dai lacci e laccioli dei sistemi democratici, sempre che si potesse fare affidamento sul silenzio dei media e su complicità o almeno acquiescenza a livello internazionale.

Gli Stati non potevano non sapere, ovviamente, attraverso le loro ambasciate a Buenos Aires. Ma, più che la tanto sbandierata tutela dei diritti umani,  a contare era la convinzione che l’opinione pubblica occidentale non si sarebbe potuta mobilitare per qualcosa che ignorava.

Soprattutto, erano i parametri della Realpolitik – vale a dire la politica estera tesa a perseguire gli interessi nazionali in materia economica, geostrategica e di stabilità interna, come interpretati dalla classe dirigente di ogni Paese – a guidare il procedere degli Stati, anche democratici, al di fuori di qualunque considerazione etica.

Prima di arrivare alla contemporaneità, tentiamo di evidenziare adesso i punti in comune tra Shoah e desaparición.

Malgrado la prima sia emblematica del genocidio e la seconda rientri, piuttosto, nella fattispecie del politicidio, entrambe sono manifestazioni delle politiche eliminazioniste, che anche i Governi occidentali ritengono di poter attuare, quando ne ravvisano la convenienza e si sentono ragionevolmente sicuri dell’impunità.

Sia pure maturate  nell’ambito di sistemi totalitari, entrambe le tecniche di eliminazione di massa appaiono far affidamento sull’inerzia dell’opinione pubblica a partire dai seguenti fattori:  il segreto e il silenzio stampa o comunque l’inadeguatezza di quest’ultima a dar conto di quanto sta accadendo;  il carattere di minoranza e/o differenziabilità del gruppo preso di mira che non sembra mettere in pericolo il quieto vivere della maggioranza silenziosa;  quella che abbiamo definito l’impensabilità di entrambi i progetti, che non sono all’epoca neanche previsti come crimine, e l’indimostrabilità della loro attuazione mentre la stessa è in corso; la progressiva diffusione del pregiudizio contro gli integranti del gruppo fino alla loro etichettatura come subumani;  l’adozione di leggi discriminatorie e/o razziali;   la criminalizzazione di coloro che cercano di proteggere il gruppo preso di mira;   la responsabilizzazione del gruppo stesso per una congiuntura particolarmente difficile.

Le atrocità attuate dai militari argentini diventano di pubblico dominio alla caduta della dittatura, nel 1983. La relazione finale della commissione nazionale argentina per le persone scomparse (CONADEP) , istituita al ritorno della democrazia, verrà intitolata “Nunca Màs” , a significare che mai più l’umanità dovrà permettere il ripetersi di simili pratiche . Il governo argentino, insieme a quello francese, darà vita in ambito Nazioni Unite alla Convenzione Internazionale Contro la Sparizione Forzata delle Persone, ma la desaparición non sparirà.

Nel dopo guerra fredda, quello che Bush Senior definisce Nuovo Ordine Mondiale sarà caratterizzato dall’asimmetria scientifico/tecnologica, in primo luogo, ma quindi anche militare, economica e culturale, tra un Occidente che si ricompatta e allarga intorno all’iperpotenza sopravvissuta e il resto del mondo. La guerra torna a essere uno strumento praticabile e praticato, anche da parte di Stati la cui costituzione la ripudia. L’ ideologia della non ideologia neoliberista antepone l’economia alla politica e all’etica, valuta le masse come materiale per la produzione, l’individuo in quanto consumatore – che è l’altra faccia della sua attività lavorativa –  e non in quanto titolare di diritti umani. Più che di globalizzazione sarebbe il caso di parlare di neocolonialismo globale.

L’Occidente continua a vivere confortabilmente la sua età del petrolio, peraltro non suo. L’accaparramento delle risorse, specie energetiche, dei paesi che non si dimostrano in grado di difendere la propria sovranità, permette il mantenimento di livelli di vita e di spreco cui si accompagnano nel resto del mondo sfruttamento della mano d’opera e miseria endemica, disastri ecologici, guerre che sono il mercato necessario per le  nostre industrie e tentativi di proliferazione nucleare,  dittature e Stati falliti, Stati canaglia e vaganti transnazionalità  criminal/terroristiche di origine incerto, capaci di conquistarsi milioni di followers  mostrando nel web cruenti rituali da Medio Evo prossimo venturo.  Ma l’arrivo di nuovi giocatori non deve ingannarci: è il ritorno del Great Game su scala globale, in cui l’Occidente tutto insieme prende il posto dell’Impero Britannico e ancora una volta cerca di ridisegnare Medio Oriente ed Africa a proprio vantaggio, prima che la Russia post sovietica ritrovi il ruolo di superpotenza, che a sua volta la Cina si appresta a svolgere.  Ed è un mondo di cui le masse di migranti e richiedenti asilo sono il portato strutturale, ma non per questo ben visti, anzi spesso non visti per niente,  nella valanga d’informazione dal sistema mediatico, che diventa martellante intrattenimento e baluginante cacofonia autoreferenziale, tutto equiparando in un messaggio subliminale di irresponsabilità, apatia e acquiescenza.

E’ un fatto che dai primi anni 2000 Unione europea e NATO hanno incluso tra i pericoli da affrontare gli effetti destabilizzanti che possono derivare da un arrivo in  massa di migranti e richiedenti asilo, anche se provenienti da  scenari di guerra,  alla pari con il terrorismo e l’interruzione dei flussi energetici, la proliferazione nucleare e la cyber war, ecc. Si tratta, sia detto tra parentesi,  di  contraccolpi  destabilizzanti che  possono aver luogo soltanto in un contesto neoliberista di drastica e costante riduzione della spesa pubblica, quale quello che stiamo vivendo. Basterebbe cambiare le politiche di bilancio per smorzare IL contraccolpo e contrastare  sul nascere le guerre tra poveri.

Resta che, quando l’area economica più ricca  e l’alleanza militare più forte al mondo definiscono come destabilizzante un gruppo umano, quest’ultimo non potrà che diventare bersaglio di politiche di deterrenza.

Sia chiaro, gli Stati hanno  il diritto/dovere di difendere frontiere, coste e acque territoriali, specie in congiunture come quella attuale, caratterizzata da venti di guerra in Medio Oriente e ai confini dell’ex Unione Sovietica,  così come hanno  il diritto di dotarsi di  leggi finalizzate al controllo dell’immigrazione e quello di stabilire accordi bilaterali con paesi di dubbia democraticità.

Da un punto di vista formale, senza entrare nel merito dei singoli contenuti, ciascuna di queste attività normative o pattizie è lecita. Il problema sta nelle ricadute che il combinato disposto di tali attività comporta sui non cittadini, che, sia in quanto richiedenti asilo che in quanto migranti, hanno pur sempre titolo al rispetto dei loro diritti fondamentali e, in primis, del diritto alla vita.  Stiamo parlando dell’operato – anche omissivo – degli Stati europei, della stessa Unione Europea e della stessa NATO, da una parte, degli Stati  africani di attraversamento, dall’altra. E più precisamente degli accordi di Malta (novembre 2015), del patto con la Turchia (marzo 2016), dell’accordo ricatto  con l’Afghanistan (ottobre 2016), del memorandum con la Libia (febbraio 2017),  dei Processi di Rabat e  di Khartoum, che altro non sono che alleanze finalizzate a garantire  sostegno finanziario e militare a regimi non democratici, corrotti e dittatoriali, IN cambio dell’intensificarsi da parte loro della persecuzione ai potenziali “clandestini”, che tentano di arrivare al Mediterraneo. Si sta mettendo a punto un sistema concentrazionario,  sparpagliato ma rispondente a un disegno unitario, in tutto l’enorme bacino africano e mediorientale che fa capo al Mediterraneo, nel quale le torture, i massacri, i trattamenti inumani e degradanti sono da tempo all’ordine del giorno e che se non bloccato  potrebbe diventare  il più complesso sistema eliminazionista della storia dell’umanità.

Lo sbarramento di ogni via d’uscita legale riduce  questi disperati a res nullius , non diversamente dagli ebrei nell’Europa occupata dai nazifascisti o dei desaparecidos nelle mani dei militari argentini, mettendoli  alla mercé dei Diavoli a  cavallo che, dopo essersi macchiati di genocidio in Sud Sudan, adesso sono stati arruolati dal governo sudanese per dar loro la caccia, o delle bande che in Libia li sottopongono a tortura, stupri, lavori forzati o esecuzioni extragiudiziali, vendita come schiavi  o  espianto di organi,  e  infine  in mano agli scafisti, se e quando riescono ad arrivare al Mediterraneo.  Anzi è tutto questo a produrre il lavoro sporco degli scafisti, che tra l’altro finisce per finanziare il terrorismo e altro non è che il sintomo di un’immensa tragedia umanitaria scientemente provocata a monte.

Ma non basta. Non possiamo non dirci che è estremamente improbabile che un barcone possa sfuggire ai controlli incrociati continuamente in atto da parte di aerei,  droni, satelliti, elicotteri, sofisticate apparecchiature radar , ecc. e che lo stesso accada per i gruppi che si avventurano nella traversata del deserto nella speranza di raggiungere  il Mediterraneo o vi sono costretti in direzione contraria, dopo il respingimento. Non mancano testimonianze ad avvalorare l’ipotesi  che i medesimi vengano inquadrati, seguiti fin dall’inizio e lasciati a percorrere fino in fondo il loro calvario,  nell’ambito di una strategia di deterrenza finalizzata a minimizzarne il numero, nell’impossibilità di sradicare del tutto il fenomeno. Non mancano testimonianze su gravissime omissioni di soccorso che di certo costituiscono un illecito internazionale.

Ma loro continuano a tentare di arrivare perché privi di alternative, in fuga come sono da crisi  troppo spesso da noi stessi provocate. E allora,  ecco che le frontiere vengono spinte sempre più in là, oltre la Libia stessa, in Niger adesso,  fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro respingimento,  invisibili perché dispersi nel nulla mediatico,  quindi impensabili e alla fine inesistenti perché quod non est in actis, non est in mundo. E si tenta di criminalizzare  le ONG che accorrono a soccorrere i barconi in pericolo di naufragio, affinché il massacro possa andare avanti senza ostacoli e senza testimoni scomodi.

Sistematicamente respinti nell’invisibilità, sono i desaparecidos nell’Europa di oggi, perché, dobbiamo ripeterlo,  la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel cono d’ombra reso possibile da  qualunque sistema mediatico, anche l’attuale, in cui l’iconografia televisiva si somma ai lati oscuramente manipolatori di Internet,  come lo scandalo Facebook da ultimo dimostra,  in maniera che  l’opinione pubblica non riesca a prenderne la dovuta consapevolezza, o possa almeno dire di non sapere,  come successo sia nella Germania nazista che nell’Argentina dei militari.  Permettete che lo dica: tutto questo ricorda la normalità apparente e in realtà spietata che vedevo intorno a me nel centro di Buenos Aires, in mezzo alla tragedia umanitaria scatenata dai militari argentini.

Come nel caso della Shoah e dei Desaparecidos, ci troviamo di nuovo confrontati a un crimine senza nome, che il Diritto Internazionale penale fatica a riconoscere e non può al momento perseguire. E’ la cifra stessa dei morti, 30mila circa dai primi anni 2000 ad oggi, a dimostrare, a mio avviso, che siamo ancora una volta di fronte a un crimine di lesa umanità.

Eppure, qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi tempi, la Corte europea dei Diritti Umani ha scritto al Ministro italiano dell’Interno a proposito dei respingimenti in Libia, che nell’ottobre 2017 una sentenza della Corte d’Assise di Milano ha dichiarato illegittimi, per via delle atrocità cui i migranti vi vengono sottoposti, il Tribunale Permanente dei Popoli nella sua sentenza del dicembre 2017 a Palermo ha ritenuto di poter affermare l’esistenza di un popolo migrante, cui sono applicabili le norme a tutela dei diritti umani previste dal diritto internazionale. E quanto più dà speranza forse sono i giovani che accorrono a frotte nelle isole greche, riscoprono i sentieri della resistenza contro il nazifascismo ai confini interni all’Ue, si sottopongono a persecuzioni giudiziarie in nome della dignità e della solidarietà, rischiano anche la vita nelle acque internazionali per salvare i disperati sui barconi che affondano. La stessa procura di Roma ha dovuto avviare pur con tutti i limiti possibili immaginabili, un procedimento penale contro i responsabili del ritardo di 5 ore con cui l’11 ottobre 2013 la nave della Marina Militare italiana Libra  è arrivata a soccorrere le vittime di un naufragio nelle acque internazionali delle stretto di Sicilia, causando l’annegamento di 140 persone circa, di cui 60 minori. E’ il cosiddetto naufragio dei bambini, che non sembra peraltro aver suscitato nell’ ondivaga opinione pubblica, oggi sostanzialmente apatica se non ostile,  la contagiosa commozione scatenata dalla foto di un bambino annegato sulla spiaggia turca, fatta rimbalzare, questa sì, per giorni e giorni, sulle televisioni di tutto il mondo.

Le analogie tra quanto sta accadendo oggi – o per meglio dire si sta facendo, perché di un fare si tratta – e quanto accaduto sia nell’Europa occupata dal nazifascismo che nell’Argentina dei militari sono evidenti:
dalle crescenti manifestazioni di intolleranza, xenofobia e razzismo, incoraggiate nell’elettorato e quindi nell’opinione pubblica, da partiti e politici a caccia di consenso, a leggi razziali, come quella che toglie un grado di giudizio nei procedimenti per ottenere lo status di rifugiato, dal segreto sul contenuto degli accordi con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo,  al ricorso alla logica economica a giustificazione dell’asserita impossibilità di salvare e accogliere tutti, da quel siete troppi, mantra continuamente ripetuto e addirittura pubblicamente sfuggito come un lapsus alla stessa Cancelliera Merkel, alla visibilità negata ai morti in mare, ridotti a cifre non dissimili da quelle stampate a fuoco sulle braccia degli internati nei campi di sterminio, in un astratto presente numerico che cancella le migliaia di storie umane travolte, alla già citata criminalizzazione delle ONG che tentano di salvare vite umane nel Mediterraneo, non dissimile da quanto accaduto in Argentina ai pochi avvocati che osarono difendere i diritti umani dei detenuti politici.

Ma più che continuare ad enumerare similitudini,  è il senso di urgenza di fronte alla catastrofe umanitaria oggi in corso intorno a noi a causa delle politiche dell’Unione Europea, della NATO e degli Stati membri che occorre evidenziare, nella speranza di sollecitare un dibattito che possa contribuire a cercare il modo di porre fine al massacro in corso,  portando a giudizio i responsabili individuali e politici di quanto sta accadendo.

Enrico Calamai

[1] http://www.famigliacristiana.it/articolo/enrico-calamai-lo-schindler-dell-argentina.aspx

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/enrico-calamai/774/default.aspx

[2] http://nuovidesaparecidos.net/