23 dicembre 2018. Praticamente è natale, ma la luce sul mare vista dalla frontiera alta ha ancora una bellezza che contrasta con ciò che conosciamo di questo territorio.
Giovani uomini tornano indietro sulla strada in salita perché respinti dal paese dei Gilet Jaunes.
Da questa parte, altri giovani, solo più chiari, sono ormai da anni organizzati per offrirgli qualcosa che assomigli a una colazione. Luminosi e gentili come sempre, gli attivisti di Kesha Nija riescono a trasformare una cunetta dell’inospitale strada in un luogo piacevole e accogliente.
Chi si ferma per mangiare e bere qualcosa, ha l’aspetto di uomo e occhi di bambino. Racconta avventure di sfruttamento e di fatica in diversi paesi o città della nostra penisola. Tutti sorridono, ringraziano, qualcuno ha la forza di augurare a noi buona fortuna.
Uno di questi giovani uomini è stremato. Con gli occhi pieni di paura, non sa come arrivare a Ventimiglia, si sente male e la strada è troppo lunga. Ha solo 4 dita della mano sinistra.
Molti sono i dolori e i disturbi che lamenta. Nulla che sembra possibile trattare con qualche compressa.
Dobbiamo andare a vedere un posto quì vicino, poi ti porteremo noi in città.
Mostra ancora paura, ma si convince.
Quattro donne si dirigono verso un piccolo paese di montagna. Quattro donne alla ricerca di un luogo dove forse delle sorelle vengono sfruttate, vengono vendute per pagarsi l’agognato passaggio a una vita ignota, forse migliore.
Uno dei paesi italiani vuoti. Solo qualche signora anziana e un uomo che fuma una sigaretta affacciato a parlare con un passante.
Intanto, una semplice fontana con qualche dipinto mostra la macabra ironia di cui non capiamo la penultima parola: “affinché le bocche del viaggiatore stremato si perdano nel tuo dolce…. Canto? Cammino? …infinito”.
Ripreso il giovane in macchina veniamo a sapere che un morso di serpente ha causato l’amputazione del dito. Ci dice che è stato trattato, ma il veleno e il male che ne è derivato non finirà mai.
Questo male è misto con il dolore per non poter vedere più la sua compagna di 28 anni, e la bambina, che ormai ha sei anni e che non vede da 4. Proprio in quel momento riceve una video-chiamata. Ci mostra una giovane donna sorridente e una piccola bambina sotto un bellissimo tetto di una casa tradizionale della Guinea Conakry, e sorridendo gli occhi gli si riempiono di lacrime.
Pranziamo con altre due donne importanti per questa terra. Diverse dalla uniforme massa inerte o rancorosa, solidali e umane, la loro vita è ormai una lotta costante e passare del tempo con loro da queste parti è vitale per poter mantenere la fiducia nel genere umano.
Camminiamo poi molto. Di nuovo 4 donne ma diverse, nei luoghi dove in passato le persone si sono fermate, ora vuoti e dove la natura prende il sopravvento.
Agghiacciante spettacolo per noi è la vista del parcheggio di fronte alla chiesa delle Gianchette, dove sono stati montati dei giochi gonfiabili per pochi bambini, chiuso da grate e sorvegliato da un ingente schieramento di poliziotti, per i festeggiamenti del quartiere.
Sappiamo che è importante cercare persone isolate, qualcuna/o che sia più fragile tra queste/i viaggiatori e combattenti. Ragazze vendute per dieci euro. Possibile? Come possiamo fermare questo scempio della razza umana?
Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo “Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia” contenente un insieme di interviste volte a indagare e restituire uno sguardo polifonico sulla situazione nella zona di confine di Ventimiglia durante i passati mesi estivi.
Rimandiamo all’introduzione pubblicata con la prima parte di questo articolo per chiarimenti relativi agli obiettivi, alla metodologia seguita e alla presentazione delle e degli intervistati.
Dopo aver posto domande ai nostri interlocutori circa il tipo di presenza avuto sul territorio di confine di Ventimiglia e sulle caratteristiche e le trasformazioni notate nel paesaggio sociale che caratterizza la zona di frontiera, in questa seconda parte abbiamo provato insieme ai nostri intervistati a delineare in che modo gli avvenimenti e le situazioni che hanno caratterizzato questa zona di frontiera interna all’Europa raccontino qualcosa circa le politiche e lo scenario internazionale.
Per concludere, abbiamo posto la domanda cruciale: cioè quella che riguarda le possibilità e le modalità con cui agire polticamente per contrastare i dispositivi di confinamento e le politiche razziste sperimentate in modo sempre più violento lungo le linee di confine interne ed esterne all’Europa.
Con la speranza che queste riflessioni, maturate a partire dall’esperienza di attiviste/i e militant* impegnati sul campo, possano fornire strumenti critici utili per pensare forme di azione collettive capaci di incidere contro la violenza dei confini,
vi auguriamo un buona lettura.
La redazione
Lungo il confine, si materializzano, in maniera forse più evidente che altrove, anche le conseguenze di scelte prese altrove e di disposizioni di portata nazionale e internazionale. Ci chiediamo, quindi, che ricadute abbiano avuto, a Ventimiglia, i numerosi eventi e provvedimenti che, durante l’estate, hanno influito sulle dimensioni e la gestione dei flussi migratori.
Per Antonio, innanzitutto, è fondamentale tenere in considerazione le politiche di esternalizzazione dei confini: «Quello che si è cercato di fare, sia in Italia che in Europa, è stata l’extraterritorializzazione del confine, impedendo a tutti di vedere cosa succede. Anche se possiamo definire come un canto del cigno la manifestazione della scorsa estate, per diversi anni il confine è stato di fatto un presenza almeno nel pensiero sociale. Far si che il confine diventi invisibile, permette di non avere più in casa il problema. La favola continuamente ripetuta dal sistema è che si stia combattendo il traffico di esseri umani, in realtà lo si mantiene e questo è particolarmente evidente in una realtà molto piccola come Ventimiglia». Nel dettaglio, la questione libica viene riconosciuta da tutti come direttamente determinante la realtà vissuta al confine franco-italiano: «Il governo italiano continua a mantenere i contatti come se ci fossero degli accordi internazionali e come se potesse controllare qualcosa. Che non ci sia effettivamente un controllo è evidente dal fatto che, anche se in un numero minore, le persone continuano ad arrivare e continuano ad essere persone che sono state torturate, che hanno sul loro corpo i segni delle violenze che noi abbiamo visto e fotografato con il loro consenso. Hanno voluto raccontare le torture a scopo di estorsione che hanno subito in Libia. L’interesse nei loro confronti da parte dei carcerieri libici terminava quando ricevevano un certo quantitativo di denaro» (Lia).
Scritta in prossimità del campo di accoglienza gestito da Croce Rossa Italiana
Senza dimenticare che «il caos in Libia è stato in un certo senso costruito e determinato da certi tipi di logiche e di azioni, partendo dall’azione francese per eliminare Ghedafi, passando per gli interessi delle compagnie petrolifere» (Gabriele). Da Ventimiglia si coglie, quindi, la complessità di un quadro nel quale risulta estremamente difficile prevedere tutte le conseguenze delle misure messe in campo: «Un peso poi lo ha la situazione al confine est dell’Europa, in Turchia dove l’Europa ha negoziato con Erdogan un accordo per il controllo dei flussi. La rotta balcanica riattivatasi con la chiusura voluta da Salvini della rotta libica, ha determinato l’arrivo nell’ultimo periodo di persone provenienti dall’Asia più che dall’Africa sub sahariana a Ventimiglia, nonché un’evidentissima diminuzione degli arrivi» (Gabriele).
Dalle riflessioni dei nostri interlocutori emerge poi il ruolo delle politiche europee, nello specifico delle conseguenze degli accordi di Dublino, nel produrre erranza e clandestinità: «Molti che si incontrano a Ventimiglia sono stati respinti dagli altri paesi, la Francia in primis. Hanno finito il loro viaggio in situazioni di estremo disagio, di abbandono, di disperazione, a Ventimiglia, e continuano a vagare intorno a questo territorio, magari deportati qualche volta al Sud. Per loro una soluzione non è stata trovata, né nel bene, né nel male. Ci sono alcuni, per esempio, che avevano iniziato una vita in un’altra parte d’Europa e a seguito del Regolamento di Dublino sono stati riportati in Italia e non hanno una via d’uscita se non quella di avere una vita estremamente disagiata come senza fissa dimora, aspettando il nulla. Di persone in questa situazione ne abbiamo incontrate tante, qualcuno si ferma, qualcuno vorrebbe tornare a casa, altri impazziscono, diventano alcolizzati, altri spariscono e alcuni muoiono» (Lia).
Il valico di Ponte S. Ludovico e la costa francese visti dal valico di Ponte S.Luigi
Le persone con cui abbiamo parlato concordano nel rifiutare una lettura che attribuisca all’attuale governo italiano, insediatosi in primavera, tutte le responsabilità della tragedia umana che è oggi la migrazione verso l’Italia, così come il transito e la permanenza nel Bel Paese: «Dal punto di vista nazionale la repressione verso le persone in viaggio è iniziata prima di quest’estate, non direi quindi che il problema sia dovuto dall’attuale governo. La situazione non è chiaramente migliorata, ma tutte le metodiche utilizzate, sono sempre state ideate e attuate precedentemente. Sappiamo che c’è stato interesse da parte dell’attuale governo nel ricevere fascicoli su Ventimiglia per poi prendere delle decisioni in merito, ma al di là della chiusura di qualsiasi campo informale, che era già stata messa in atto precedentemente, non vedo una modifica reale della politica nazionale nella situazione attuale. Gli accordi con la Libia sono proseguiti e hanno fatto sì che le persone arrivassero in quantità sempre inferiori perché bloccate prima, detenute, rinchiuse in veri e propri campi di concentramento, morti in mare, probabilmente detenuti anche in altre parti d’Italia» (Lia).
Quindi, come riporta Lucio, «il primo grande cambiamento è di un anno fa quando c’è stato il decreto Minniti, bloccando i flussi grazie agli accordi con i criminali libici. Durante l’inverno c’è stato un allentamento delle maglie, a causa della rottura di alcuni equilibri, se così si possono chiamare, in Libia e l’apertura di alcune delle prigioni denunciate anche dall’Onu e ci si è ritrovati con persone che partivano anche in una stagione nella quale il clima è peggiore e le condizioni più difficili. Quindi c’è stata l’emergenza freddo e dei momenti davvero difficilissimi quest’inverno. La rottura parziale di quel dispositivo ha fatto sì che si fosse come levato un tappo ad una diga, con la conseguente ondata. Quest’estate, con l’apparente stabilità durata fino a qualche settimana fa in Libia, la situazione è tornata quella del calo di presenze e di arrivi. Adesso si vedrà perché comunque in Libia gli scontri riprendono e la situazione non è per nulla stabile. Sul piano nazionale, a mio avviso, tutto è figlio di quelle politiche, e l’Italia intera deve essere considerata una frontiera, perché chi arriva per la maggior parte non vuole rimanere e subisce quindi le disposizioni dei patti di Dublino…insomma per quanto i vari ministri e governanti attuali vogliano fare campagna elettorale, prima e dopo il voto, la situazione è figlia del decreto Minniti. E’ chiaro che se continui a non offrire un’accoglienza degna, se continui a perseguitare il reato di clandestinità, fai in modo anche che la gente cerchi di perseguire i propri desideri il più velocemente possibile e di andare in un altro Stato, con delle presenze che si riversano a ridosso di ogni confine. Poi il caso della Diciotti è l’ultimo e più eclatante : sono arrivate 177 persone, dopo giorni le porti in provincia di Roma e dopo qualche altro giorno ne ritrovi molte a Ventimiglia. E’ abbastanza chiaro : sono arrivati, ma non per restare in Italia, e se in più non offri nessun’altra possibilità di arrivo se non il barcone, li trovi a ridosso della frontiera dopo poco … e se poi li metterai in un altro centro, la cosa si ripeterà».
Comprendere la continuità è una delle preoccupazioni di Gabriele, al fine di rendere visibili quei meccanismi che strutturano, ad esempio, il mercato del lavoro europeo e la persecuzione di imponenti interessi economici: dei meccanismi che si celano dietro all’approccio emergenziale alla questione migratoria: «c’è una continuità che arriva da Minniti e quindi dal Pd per la gestione di quella che loro definiscono “emergenza migranti”, che però ha le sue radici ancora più indietro: la legge Turco Napolitano. In termini temporali la costruzione di un confine dipende sia dalle forme normative che hanno contraddistinto il contesto nazionale e internazionale, sia dal raffinamento del dispositivo biopolitico come meccanismo per espellere dei corpi e includerne in maniera differenziale altri. I corpi che vengono usati nel bracciantato, trattati, prostituiti, quei corpi che costituiscono un’ampia parte del mercato italiano e europeo del lavoro. Non è una questione di legalità e illegalità ma di sfruttamento, questo è evidente sia nel mercato del lavoro legale che illegale. La lotta all’illegalità rispetto alla questione migrazione è un palliativo per legittimare in termini normativi lo sfruttamento. Il confine funziona come dispositivo in questo senso. Vi è dunque una continuità che arriva se vogliamo da come gli sbarchi sono stati controllati, dalle politiche in termini di esclusione di certi tipi di corpi, della mancata riforma della cittadinanza (sebbene io credo che la cittadinanza dovrebbe essere data a tutti coloro che passano e vivono per un certo tempo su un territorio), della gestione delle frontiere esterne dell’Europa. L’archivio della costruzione delle norme sulle migrazioni non riguarda solo la sedimentazione di leggi, ma è costituito anche da pratiche di segregazione, razzismo, xenofobia e sessismo. Questo archivio continuamente aggiornato e in cui c’è una continuità temporale non è importante solo per leggere la questione immigrazione e lavoro, ma per rendersi conto che esiste una continuità d’egemonia: soggetti che sono poteri forti in questo paese utilizzano i partiti sia per mantenere un controllo del consenso politico (non solo elettorale perché il potere non sta più solamente lì) ma soprattutto un controllo su certi tipi di business e di interessi economici. C’è chiaramente una continuità anche nei termini di classe dirigenziale tra il Pd e la Lega, e questo è evidente analizzando l’archivio di cui parlavamo».
In questo quadro, tra queste reti, trova spazio «la forza dei migranti che riescono ad organizzarsi per passare i confini» (Gabriele).
Quali possono essere, allora, oggi, le strade da percorrere, in quanto solidali e militanti contro le frontiere? Quali possibilità e che senso dare all’impegnarsi in percorsi politici a Ventimiglia? A questi interrogativi, le risposte che abbiamo raccolto possono talvolta mostrare punti di vista differenti, alla luce di esperienze diverse, frequentazioni più o meno lunghe della frontiera, sensibilità individuali. Crediamo sia particolarmente interessante cercare di fare dialogare queste voci, nel tentativo di contribuire a una riflessione comune sulle prospettive di una presenza solidale e militante a Ventimiglia, sugli spazi politici e di lotta da alimentare o inventare.
Inizia Antonio, difendendo il dovere e il senso del testimoniare: «Nel primo agire dell’attivismo a mio avviso c’è anche il raccontare il territorio, mantenere una memoria di quello che avviene. Fai una cosa e la puoi rivendicare, quello che vedi lo puoi denunciare. Secondo me questa è una forma di attività politica che lì si può e si deve continuare a fare andare avanti». Nel proseguo del ragionamento, Liae Antonio ci offrono delle osservazioni riflessive, rispetto alla loro attività di visite e diffusione di report degli ultimi anni: «La comunità coesa dei Balzi Rossi, o anche dei campi informali del 2016, rispondeva agli avvenimenti in modo chiaro: può aver risposto in modo sbagliato in alcune occasioni, ma rispondeva. Almeno una collettività esisteva. Questo non ha niente a che vedere con me che vado da sola ad esplorare un territorio per capire cosa si può fare e scrivo da sola in merito. Adesso faccio questo perché manca quello che auspicherei: un gruppo di persone che partecipa con il maggior tempo e impegno possibile, che prenda decisioni che mettano insieme chi viaggia e chi è stanziale, perché la differenza tra queste/i non è poi così grande. Attualmente i solidali sono troppo pochi per avere un vero e proprio successo politico e modificare qualcosa realmente. È più probabile che si diano delle risposte simboliche sperando poi che queste attivino qualcosa. E’ un grande insuccesso a mio parere quando, in una situazione di tale gravità, un singolo evento simbolico come una manifestazione, viene considerata una risposta congrua. O è una risposta simbolica o si attende almeno che vi consegua qualcos’altro» (Lia).
Un momento della manifestazione “Ventimiglia città aperta” del 14 luglio 2018
Una visione leggermente diversa, rispetto al lascito della manifestazione del 14 luglio, viene da Giulia. Una visione che, comunque, non manca di esprimere alcune considerazioni rispetto alle difficoltà di un contesto “ostile”: «Secondo me l’agibilità è un pochino mutata dopo il corteo, nel senso che migliaia di persone per strada hanno lasciato qualcosa…qualcosa che ancora potrebbe essere raccolto, nel senso che non tutto è stato raccolto e c’è la possibilità che ci sia ancora qualcosa che possa svilupparsi. L’agibilità politica comunque è quello che è, nel senso che rimane una cittadina che va a destra in una regione che va a destra in un paese che va a destra, quindi le possibilità restano risicate. Probabilmente, pur non essendo fan degli scout, mi ha stupito quanti ragazzi giovani siano passati di lì, volendosi rendere utili, poi sempre magari in un’ottica estemporanea e assistenzialista, però c’è ancora una parte degna di questo paese che vuole metterci le mani dentro. Quindi lo spazio secondo me è questo: continuare a provare a dedicarsi a ciò che c’è di buono, perché c’è e c’è anche in quel territorio e non stancarsi di parlare con la gente perché , magari un po’ timidi, ma ci sono delle persone, anche ragazzi e ragazze giovani della zona, che vivono lì, magari anche seconde generazioni, che vorrebbero partecipare e provare a dire qualcosa. Chiaro che si parla di cose molto piccole, considerando la violenza della situazione, con l’ennesima chiusura dell’acqua, le reti … la direzione è molto chiara, però credo che qualcosa si possa provare a raccoglierlo ancora. Secondo me a Ventimiglia, nei paesi limitrofi e nelle valli … io sono un’inguaribile ottimista, alle volte, ma non credo che si sia alla totale barbarie… che poi sono paesini, cioè banalmente ad Eufemia scade il contratto a dicembre e si deve trovare il modo di posticipare o trovare altro e il problema è che il proprietario non vuole che quello spazio sia aperto al pubblico e non è il fascismo è quella roba tipo “non voglio che vengano rotti i coglioni a me, che ci sia attenzione su quello spazio per colpa vostra”. E’ lì che sta quel margine per far capire il vecchio discorso che non è che se chiedo diritti, è perché ne siano negati a te, però viviamo andando contro il vento costantemente». In linea con quel che dice Giulia, Lucio continua indicando quali potrebbero essere, a suo parere, le potenzialità di un lavoro politico che parta da Ventimiglia come luogo di presa di coscienza e comprensione di fenomeni più ampi, che, sulla frontiera, assumono caratteri di violenza ed evidenza più marcati che altrove: «partendo dai vari gruppi scout mi viene in mente questo aneddoto : alcuni di loro ci hanno raccontato le ragioni che li hanno spinti a venire a Ventimiglia con tutto il loro gruppo: tra di loro, alcuni neo-elettori avevano votato per la Lega e si ponevano il problema del come far capire a quei ragazzi, che frequentano tutto l’anno, che il problema non sono i migranti che ci invadono, quanto piuttosto le politiche che dall’alto generano delle discriminazioni… ecco l’aneddoto degli scout può dare il quadro di quello che è possibile fare a Ventimiglia : intanto arrivare e capire cosa succede su un territorio piccolo in seguito a questi grandi fenomeni e decisioni politiche prese a livello internazionale e, d’altra parte, banalmente provare a trovare momenti di relazione con delle persone bloccate alla frontiera, prendere il tempo di conoscerle e mettere in piedi attività che a volte possono anche semplicemente permettergli di evadere dalla noia quotidiana, che poi è una condizione che accomuna diversi contesti, come quelli delle molte periferie italiane e d’Europa. Qualsiasi attività che possa portare ad una maggiore coscienza di sé o alla socializzazione può essere utile. L’esistente va mantenuto, in più andrebbe implementato qualsiasi tipo di proposta, dalle iniziative estemporanee culturali, come proiezioni di film e spettacoli, magari momenti per socializzare, ma che aiutino anche a conoscere la realtà del momento…Sarebbe forse il momento di fare un invito a chi fa queste queste cose, di andare a fare concerti, spettacoli ecc a Ventimiglia».
Giuliae Luciopropongono un ragionamento a scala territoriale, nel quale il fatto di nutrire spazi di condivisione e arricchimento culturale diventi l’occasione per far incontrare tutti i soggetti che vivono il territorio Giulia, nel lungo o nel breve termine: «Abbiamo anche provato a ragionare sul fatto che manchi una proposta culturale su quel territorio. Una proposta che sia anche il dar luogo a situazioni nelle quali ci si possa incontrare tra persone diverse, cose banali e che però non si danno» (Giulia). A questo proposito, viene evocato un momento, una serata del mese d’agosto, durante la quale un concerto ha offerto la possibilità di confondere tra il pubblico le persone alloggiate nel campo della Croce Rossa e i giovani della zona, permettendo anche una, seppur breve, presa di parola dal palco: «Per il concerto dei Modena City Ramblers, insistendo, essendo una settimana dopo il corteo e avendo un altro tipo di reputazione sul territorio, si è riusciti a spingere sul campo della Croce Rossa per far sì che i ragazzi dal campo potessero andare al concerto, che potessero rientrare più tardi: in quell’occasione hai portato i ragazzi che stanno alla Croce Rossa ad un evento che succede in città, assieme alla cittadinanza e assieme ai giovani locali. Il passo oltre dovrebbe essere riuscire ad organizzare cose tutti assieme» (Lucio).
Incidere almeno sulla dimensione sociale locale, per rendere meno duro il territorio di confine, quindi, come un primo obiettivo possibile: «Si parte anche dall’assunto basic che il razzismo è ignoranza. Poi è evidente che tutto il resto dipende dalla geopolitica, nel senso che non abbiamo parlato del dispositivo frontiera, che evidentemente è il dramma, ma è vero che se, nel tempo che passano a Ventimiglia, potessero camminare per strada senza essere additati o insultati, allora forse anche il dispositivo frontiera potrebbe avere una minore violenza intrinseca, senza riuscire ad annullare tutta la violenza del dispositivo, chiaramente» (Giulia). Quella sui territori di confine è una riflessione condivisa anche da Gabriele: «Mi mette molto in difficoltà dare una risposta in merito all’agibilità politica a Ventimiglia e alle prospettive. Inizialmente arrivato a Ventimiglia pensavo si potesse mettere insieme l’azione politica con quella culturale. Ho visto che è molto più difficile di quello che pensavo. Gli stimoli che potrei dare in questo senso sono essenzialmente due. Il primo parte dall’idea che sia possibile spostare il piano dell’azione politica su Ventimiglia oltre la questione dell’immigrazione. Il confine, visto non solo come frontiera, ma come, al tempo stesso, dispositivo e risultato di una società: reinterpretare il confine in quest’ottica duplice, senza togliere lo sguardo sugli attraversamenti, può forse permettere di ripartire dal territorio di Ventimiglia in termini di lotte con un raggio geografico e di soggettività coinvolte ben più ampio della sola frontiera. Sia in una direzione culturale: rispetto a cosa sia questo confine, a come funzioni, a quali siano le dinamiche di sfruttamento e di esclusione e di soggettivazione dei corpi; sia in un’ottica politica: comprendere e potenziare le capacità di resistenza e di sovversione di certi tipi di logiche. L’altro stimolo che mi sento di suggerire è quello di leggere questo confine in confronto ad altri confini, osservando se vi siano similitudini, differenze con altri dispositivi di confine e con altre società di confine. Riflettendo sulla particolarità dei territori di confine, dovute al fatto che in questi territori sono racchiuse tutte le contraddizioni delle società nazionali, si osserva che questi territori permettono di vedere più chiaramente e distintamente come queste contraddizioni possano essere affrontate in maniera conflittuale».
Un rapporto, quello tra ciò che succede a ridosso della frontiera e le dinamiche che permeano le nostre società, evocato anche da Lia. In questo senso, il rarefarsi della partecipazione politica su scala locale e il trasferimento di una gran parte del dibattito pubblico nella sfera mediatica, diventano i principali ostacoli alla nascita di movimenti trasversali e radicati, e, allo stesso tempo, determinano una minore capacità di risposta a livello di comunità : « Un’altra ripercussione importante che c’è stata sia a livello nazionale che internazionale è la mancanza di compattezza dei movimenti, di risposta e di partecipazione politica sul territorio. Ciò determina a livello locale che non si riescano ad inventare delle strategie, a metterci dell’energia, a partecipare a un reale conflitto nei confronti di questa situazione assurda e che viola la nostra idea di vita e di convivenza. Non possiamo pensare che questo sia solo un problema di Ventimiglia, avviene in maniera disorganizzata, non corale, avviene in una popolazione che non vive più un minimo di collettività al suo interno e di conseguenza con qualcuno che può passare per lo stesso territorio. Mi capita di parlare con compagne/i che si trovano in altre parti d’Europa, non ultimo oggi un’amica in Austria e i discorsi sono gli stessi, rispetto a tutti quei fatti che qualche tempo fa ci sarebbero sembrati assurdi e li avremmo paragonati alla Shoah: a fatti che abbiamo considerato come aberranti, ad oggi non rispondiamo. Non credo che sia un problema solo italiano, c’erano territori che aborrivano fenomeni che sapevano di razzismo, di neonazismo e fascismo e la risposta è veramente carente oggi rispetto ad una situazione del genere» (Lia). Il rischio che si corre è quindi quello di ritrovarsi a rispondere solo su un piano che non ha la possibilità di innescare processi reali di lotta e cambiamento: «Questo è un problema sociale dato anche dal fatto che la verifica di quello che avviene è sempre delegata ad altri. In grande lo possiamo vedere nell’informazione data dalla televisione per cui se non mostrano una cosa, questa non esiste. Anche tra le persone a noi più affini la definizione il più possibile oggettiva di una situazione viene spesso delegata e non viene assunta con il contatto diretto, questa è una considerazione legata anche alle valutazioni della situazione di Ventimiglia. I risultati ottenuti da grandi incontri sono importanti, ma il pericolo è che esauriscano questa voglia di fare ed intervenire attraverso un atto simbolico ed unico. Già da tempo ma ancora più evidentemente adesso, hanno perso grandemente il loro significato» (Antonio).
Il fatto che emergano punti di vista talvolta distanti tra loro è, per Gabriele, sintomatico della densità che caratterizza i territori di confine: «Sul confine, non è un caso, che appaiano diversi modi di fare politica e di leggere la situazione. Che appaiano diversi posizionamenti politici nei confronti di quelli che sono i soggetti delle misure di controllo, le persone migranti e rispetto ai dispositivi confinari. L’approccio intersezionale è molto importante in questo caso, permette di comprendere come il confine sia un oggetto di studio interessantissimo: è sia il prodotto di una società, la società cioè produce il confine, ma anche il confine segmenta gli spazi della società. Il confine è il dispositivo che produce i rapporti di forza e posizionamento nella società. Quindi è assolutamente normale ci siano molti percorsi e posizioni politiche differenti sul confine. Questi percorsi si incontrano, ma al momento paiono non riuscire a intrecciarsi e solidificarsi».
A distanza di qualche tempo dallo svolgersi delle conversazioni di cui abbiamo riportato gran parte dei contenuti, rileggiamo la trama che ne abbiamo tessuto, dicendoci che il confronto permette di consolidare e problematizzare le analisi, aggiungendo osservazioni, dando profondità e permettendo di riconsiderare alcuni assunti. Ben lontane dalla pretesa di indicare linee più sensate di altre, ci diciamo che stare a Ventimiglia, fare esperienza della realtà e della quotidianità del confine, oggi, ha un senso ben preciso, in un momento storico nel quale riprendono piede i nazionalismi e nello stesso tempo il neoliberismo conquista spazi: lo consideriamo un punto di partenza, forse scontato, ma che prende forza proprio nel momento in cui si articolano e si confrontano le analisi che lo sostengono. Rileggiamo il risultato dell’incrocio di voci diverse e abbiamo più chiaro perché Ventimiglia sia un luogo da cui guardare al mondo, perché da Ventimiglia si debba anche saper ripartire.
Ieri il tribunale di Gap, nelle Hautes-Alpes francesi, ha emesso giudizi pesanti nei confronti di sette persone, accusate di aver favorito l’ingresso illegale in Francia di una ventina di migranti. Si è scelto di non considerare il contesto dell’episodio: una manifestazione, il 22 aprile scorso, che arrivava dopo un intero inverno di drammi e interventi in montagna, per soccorrere chi, totalmente privo di equipaggiamento, si trova ad attraversare valichi alpini innevati, braccato dalla polizia francese. Si è scelto di non dare peso alle condizioni materiali e politiche delle valli franco-italiane: nessuna menzione per la carenza di infrastrutture e sostegno ai migranti dalla parte italiana, nessun accenno alle sortite dei neofascisti, che, proprio in quei giorni, manifestavano pubblicamente la volontà di costituirsi in pattuglie di frontiera autonome e illegali (nessuno di loro è stato inquisito, nessuna inchiesta è stata aperta). Si è scelto di non guardare ai percorsi dei militanti, da anni impegnati nel soccorso in montagna e nella solidarietà attiva. Tutto ciò succede ad un giorno dall’annullamento di un’altra sentenza per “delitto di solidarietà”, caduta su altri militanti, di altre valli frontaliere. Non è semplice esprimere giudizi su tale disparità di trattamento. A caldo, prevale un sentimento di ingiustizia, prevale la rabbia verso una società che accetta di scagionare un eroe, ma che sia uno! Il messaggio sottinteso sembra dire: non osate ripetere le sue gesta, che la solidarietà non diventi appannaggio di tutti, soprattutto se praticata collettivamente e alla luce del sole.
Ci sembra chiaro che, ad essere sanzionata, sia prima di tutto la linea politica che ha animato una manifestazione che, in maniera chiara e radicale, avulsa da qualsiasi velleità umanitaria e assistenzialista, esprime una lotta orizzontale contro i dispositivi di confine, per la libertà di tutt*.
Il tribunale correzionale di Gap (Hautes-Alpes) giovedì ha emesso dei verdetti che vanno fino a quattro mesi di prigione nei confronti di sette militanti, il cui capo d’imputazione è quello di aver aiutato dei migranti a entrare in Francia la primavera scorsa. Due degli imputati, francesi, già condannati in passato e inquisiti in questo stesso dossier giudiziario anche per ribellione, sono stati condannati a dodici mesi di prigione, di cui 4 da scontare in carcere.
Per uno di loro, M. B., 35 anni, la pena prevede anche una ‘messa alla prova’ di due anni e una multa di 4.000 euro. «Erano due le scelte possibili oggi, si trattava di scegliere tra la solidarietà e la morte. Il tribunale di Gap ha scelto la morte per gli esiliati» – ha dichiarato quest’ultimo all’uscita dal tribunale (https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/12/13/7-de-briancon-les-reactions-apres-les-condamnations-hautes-alpes-gap). In effetti, l’allarme ha suonato in quel di Briançon: le associazioni di aiuto ai migranti (Anafé, Amnesty, Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, Secours catholique…) hanno lanciato l’allerta «sull’insufficienza della presa in carico e il respingimento sistematico di uomini, donne e bambini che cercano di oltrepassare la frontiera franco-italiana (…) mentre inizia la fredda stagione invernale». Si temono altri drammi, considerando che le temperature scendono a -10° in montagna.
Gli altri cinque, due francesi, un’italiana, uno svizzero e un belga-svizzero, dalla fedina penale intonsa, sono stati condannati a sei mesi di prigione con la condizionale. Hanno dieci giorni per ricorrere in appello. Un centinaio di militanti della causa dei rifugiati si sono radunati giovedì pomeriggio sotto le finestre del palazzo di giustizia per sostenere i ‘sette di Briançon, come vengono chiamati. Il tribunale ha seguito le richieste del procuratore di Gap Raphael Balland, che durante il processo dell’8 novembre non aveva invocato l’aggravante di ‘banda organizzata’.
«Sono un po’ basito davanti a una decisione così severa, per dei fatti che sono quantomeno discutibili (…). I gilets jaunes ne hanno fatte di ben più gravi» – si è lamentato Christophe Deltombe, présidente della Cimade, associazione di difesa dei diritti dei migranti. «Ero convito che sarebbero stati rilasciati. Non vedevo dove potessero essere individuati gli elementi materiali e intenzionali dell’infrazione penale. Siamo in pieno in quel che viene chiamato ‘crimine di solidarietà’: sono condannati perché sono stati solidali a delle altre personé» – ha aggiunto.
«Siamo tutti un po’ colpiti da questa decisione. E’ una pena estremamente severa. La motivazione del tribunale non ci ha convinto» – ha reagito da parte sua Maeva Binimelis, uno dei sei avvocati dei militanti. «Questa decisione è un colpo di freno alla direzione presa in favore di una maggiore umanizzazione e individualizzazione delle condanne per delitto di solidarietà, nell’attesa della sua soppressione», critica da parte sua un altro dei difensori, Vincent Brengarth.
L’accusa imputava ai sette militanti, le cui età vanno dai 22 ai 52 anni, di aver facilitato, il 22 aprile, l’entrata in Francia di una ventina di migranti confusi ai manifestanti forzando una barriera eretta dalle forze dell’ordine. Durante l’udienza, gli imputati avevano contestato il fatto di aver coscientemente aiutati i rifugiati a passare la frontiera nel corso della manifestazione. Partita da Clavière, in Italia, questa si era conclusa a Briançon.
Il processo iniziale, previsto in maggio, era stato rapidamente rimandato, per concedere il tempo al Consiglio costituzionale di esprimersi sul ‘delitto di solidarietà’. In luglio, i ‘Saggi’ hanno considerato che, in nome del ‘principio di fraternità’, un aiuto disinteressato al soggiorno irregolare non sarebbe passibile di condanna, l’aiuto all’entrata resterebbe però illegale.
Mercoledì, la Corte di cassazione –la più alta giurisdizione dell’ordine giudiziario in Francia – ha annullato la condanna di Cédric Herrou, diventato un volto noto dell’aiuto ai migranti, e di un altro militante della Valle Roya, condannati in appello per aver assistito dei migranti.
Tra gli obiettivi che ci hanno spint* alla creazione di questo blog, c’è la volontà di documentare Ventimiglia e la frontiera. Il nostro impegno è farlo a partire dalle nostre stesse esperienze o da quelle di chi, in forme e modalità differenti, vive quel territorio, puntualmente o nel lungo termine. Pensiamo si tratti di un approccio fondamentale, nell’ottica di mettere in discussione e decostruire tutte quelle narrazioni che tengono in conto solamente le voci ”forti” : quelle voci che si alzano esclusivamente nei momenti mediaticamente salienti, che non parlano, ma piuttosto gridano, nell’intento di raccogliere facili (e spaventati) consensi, di trarre un qualche tornaconto dall’esporsi sul palcoscenico dell’emergenza. Numeri – in calo, in aumento… -, minacce – di chiusure, di sgomberi…– e voyeurismo – il degrado, la disperazione…– : questi gli ingredienti principali, in proporzioni variabili, del discorso a reti unificate.
Tv abbandonata presso gli scogli dei Balzi Rossi, Ventimiglia
Pensiamo che comprendere il materializzarsi di un confine interno all’Unione Europea, nel 2018, e misurare il peso e la portata delle politiche istituzionali in materia migratoria, comporti un esercizio attento di articolazione tra quelle che sono le dinamiche a più larga scala – tra esplosione e perdurare di conflitti o dittature, configurazioni economiche neocoloniali, accordi internazionali e politiche nazionali – e la quotidianità della frontiera. Un’articolazione da interrogare costantemente, per cogliere la misura dei mutamenti e delle costanti, e facendo appello alla pluralità di soggettività che vivono e osservano la frontiera.
Nel testo che segue, cerchiamo di raccontare i mesi estivi a Ventimiglia, incrociando i punti di vista e le opinioni di alcune persone che li hanno vissuti da vicino, convint* che capire meglio la frontiera, questa frontiera, sia anche un modo per capire configurazioni socio-politiche di vasta portata, per rendersi conto di quel che, come società, più o meno tacitamente decidiamo di ritenere accettabile.
I punti di vista di cui cerchiamo di rendere conto, infine, esprimono talvolta giudizi e analisi diversificate: ci auguriamo che questa polifonia, oltre a problematizzare i racconti superficiali che invadono lo spazio del dibattito pubblico, possa stimolare l’incrociarsi di prospettive ma anche la voglia di comprendere e agire per l’abbattimento di un sistema fondato sul razzismo e lo sfruttamento.
Abbiamo intervistato persone a noi vicine che durante questa scorsa estate sono state in forme, modalità e tempi diversi nella zona di confine di Ventimiglia. Nonostante le differenze, evidenti nelle risposte che seguiranno, tutt* gli e le intervistat* hanno scelto di stare in questa zona di confine in quanto solidal* con le persone migranti e convint* che la libertà di movimento debba essere garantita a tutti e tutte, così come il diritto a una vita libera e felice. Tutt* color* che parleranno, seppur in maniera diversa conducono una lotta contro il regime confinario europeo e le sue conseguenze sulla vita delle persone migranti.
In sede di redazione dei testi delle interviste, ci è sembrato opportuno dividere il lungo testo in due post differenti, sia per renderne più scorrevole la lettura, sia perché la mole di informazioni e di analisi è considerevole e merita di avere il giusto spazio per essere eleborata. Pubblicheremo, alla fine, anche il testo integrale in un unico dossier. Ringraziamo caldamente le e i solidal*, che hanno voluto rispondere alle nostre domande, mettendo a disposizione cuore, testa e tempo:
Gabriele Proglio – storico culturale orale, lavora presso il Centre for Social Studies dell’università di Coimbra con un progetto che nei prossimi cinque anni intende studiare i confini del Mediterraneo.
Lia Trombetta – medico e ricercatrice presso l’Università di Lisbona
Antonio Curotto – medico ospedaliero
Giulia Iuvara – femminista del movimento Non una di meno, attivista del progetto 20k ed educatrice
Lucio Maccarone – attivista dell’AutAut357 di Genova, partecipa al progetto 20k dal 2017, nella vita vorrebbe insegnare a scuola
La redazione
La prima domanda che abbiamo posto ai nostri interlocutori riguarda la loro presenza, a Ventimiglia, durante questa estate 2018.
Liae Antoniospiegano che, rispetto ai mesi passati, per loro si è trattato di continuare il lavoro di monitoraggio e visite mediche ai migranti bloccati alla frontiera: «Siamo stati a Ventimiglia almeno due volte al mese per la durata dell’intero fine settimana. Abbiamo fatto il solito lavoro, sia di sostegno al transito che di raccolta di notizie dal territorio per cercare di capire come evolvesse la situazione » (Lia).
Per altri, l’estate ha invece coinciso con l’occasione per impegnarsi maggiormente, e in loco, in progetti ai quali si erano già interessate e interessati nei mesi invernali e primaverili. Così Giulia: « Ho iniziato a lavorare un po’ più seriamente su Ventimiglia solo da qualche mese. Ho iniziato, come Non Una di Meno, a seguire un po’ il sister group, che è partito da dicembre scorso, però non ho avuto la possibilità scendere molto, quindi in realtà l’ho seguito tanto in remoto e meno sul campo. Quest’estate sono stata una settimana con il progetto 20 k e ho fatto la volontaria con loro, stando sia ad Eufemia che fuori, e ho seguito più strutturalmente il sister group, attraverso NUDM » ; e Lucio : « è un anno che seguo più attivamente il progetto 20 k svolgendo un lavoro più ”dalle retrovie”, quindi da qui, da Genova : cercare di raccogliere i beni di prima necessità che a seconda delle stagioni sono stati necessari da portare giù. Abbiamo fatto vari eventi, raccolte fondi e beni di prima necessità e medicine. Dalla primavera mi sono concentrato molto sulla creazione del campeggio di 20k. Il campeggio sta chiudendo in queste settimane ed era necessario per poter garantire una maggior presenza di volontari a Ventimiglia durante tutto l’arco estivo. Per cui è partito durante la settimana del corteo e ha ospitato stabilmente almeno 15 – 20 persone, se non più, garantendo un buon livello di disposizione sul territorio per i monitoraggi e le aperture dell’infopoint, più altre attività di indagine e rapporti sul territorio. Oltre a questo, fino al corteo sono stato qui a Genova assieme ad altri ed altre per organizzare la manifestazione e il 14 ero lì per partecipare alla gestione della manifestazione. Dopodiché sono tornato nella stessa settimana di Giulia ».
Un ragazzo arrivato nella zona di confine per passare la frontiera guarda la costa francese seduto sul litorale italiano a Ventimiglia. Ventimiglia, 2018
La quarta persona con cui abbiamo discusso, Gabriele, ha svolto un lavoro di ricerca sul campo, nell’intento di comprendere il confine, in quanto dispositivo, in una prospettiva calata nella realtà locale e nelle vicende storiche e politiche di lungo corso : «Il mio lavoro quest’estate a Ventimiglia è stato caratterizzato da due tipi di azioni: la raccolta delle memorie non solo dei migranti ma anche degli italiani sulla questione del confine e degli sconfinamenti a Ventimiglia, dalle lotte del 2011, con la cosiddetta emergenza tunisini, fino al 2015, con la lotta dei Balzi rossi, fino alle recenti mobilitazioni; e poi un lavoro più classico, di archivio, basato sull’indagine negli archivi di stato di Ventimiglia e di Imperia, rispetto ai processi penali per immigrazione clandestina durante il fascismo. Il dispositivo di confine ha delle ricadute nel definire e selezionare i corpi secondo un meccanismo di esclusione ed inclusione differenziale. Anche questo meccanismo è legato a uno statuto epistemologico, da una sorta di “archivio”, che si configura nel passato attraverso specifiche strategie del controllo, fondate sul corpo, in particolare sul genere e sulla razza. Durante il fascismo questo controllo è stato esteso ad altre categorie, per esempio quelle politiche che identificavano chi andava in Francia per la fare la Resistenza, ma anche a chi scappava dall’Italia perché non trovava una risposta nel fascismo, persone di ceti molto bassi, che con la loro fuoriuscita esercitavano una critica dal basso al regime, come si evince dalla loro storia. Una critica non solo a quella che era l’organizzazione fascista del lavoro ma anche alle sue politiche patriarcali, autoritarie, gerarchiche». Le due linee di ricerca, quella sul campo e quella d’archivio, acquisiscono spessore e potenziale analitico, accostate l’una all’altra : «Queste due ricerche tessono un rapporto e una connessione tra quello che è stato il passato del fascismo e il presente. Connessioni che sono importanti sia rispetto al meccanismo di inclusione differenziale, sia per l’utilizzo di alcuni metodi repressivi, come nel caso del foglio di via, già utilizzato in epoca fascista. Emerge il ruolo del confine non solo come frontiera, ma anche come strumento per rinegoziare le forme, le strutture e l’organizzazione della società, come dispositivo di controllo biopolitico della società».
Quindi, assieme ai nostri interlocutori, abbiamo cercato di definire il paesaggio sociale ventimigliese degli ultimi mesi : Quali presenze permeano lo spazio pubblico cittadino ? Quali attori sociali sembrano avere un ruolo nel definire le dinamiche socio-economiche a cavallo del confine ?
Per Lia, la risposta non può che iniziare da una costatazione durissima : « l’attore rimasto più importante e che tutto permea sono le mafie. Non è una situazione evidente che si può riconoscere andando a Ventimiglia qualche fine settimana, ma nel corso degli anni la consapevolezza è aumentata e appare evidente che i principali attori sociali siano influenzati da accordi che coinvolgono più forme di associazione a delinquere ».
Antonio aggiunge profondità a questa lettura: « Con il rarefarsi delle persone solidali, la percezione della presenza delle mafie, che ci sono sempre state, si è amplificata attraverso la conoscenza diretta ma anche in maniera indiretta, anche nei racconti di chi e più presente sul territorio. Un altro attore sociale rimasto e da sempre costante sul territorio di Ventimiglia, è costituito dalle forze dell’ordine. L’attività repressiva si esplica in maniere differenti ma prevalentemente tramite il trasferimento coatto, con frequenza settimanale, e la deportazione verso il Sud ».
Una lettura condivisa anche da Giulia, che sottolinea come anche la minor presenza di migranti contribuisca a rendere evidenti certi meccanismi : « forse anche perché c’è meno flusso, si vede più chiaramente quale sia il traffico : davanti alla stazione c’è sempre il gruppo che sta lì e chi scende dal treno sa già dove andare oppure loro lo vanno a prendere… poi, probabilmente tanti di loro sono anche poracci che cercano di svoltarsi la vita come possibile … è anche difficile dare un giudizio univoco : cioè, c’è chi è ‘ndraghetista o al soldo dell’ndraghetista e fa la tratta degli esseri umani ; altri, che magari sono lì da qualche mese e hanno visto lo spiraglio di possibilità per vivere ».
Luciocompleta l’analisi, dando spazio a preoccupazioni che hanno a che fare con la complessità del fenomeno e la necessità di non cadere in giudizi univoci : « diciamo che, come diceva Giulia, vengono più allo scoperto e poi si nota di più la presenza di chi resta per qualche mese. Il problema è quanto questo faccia parte di un sistema. E’ una cosa che andrebbe analizzata e di cui bisognerebbe parlare cautamente, perché non si è certi di tutto, ma quel che immagino è che la ‘ndrangheta ventimigliese abbia trovato questo metodo per sfruttare gli ultimi, come al solito, come sullo spaccio e sul mettere in strada a vendere gli ultimi arrivati e più sacrificabili : la stessa cosa vale qui per i passaggi, per cui ci metto l’ultimo che è arrivato, che non ha un soldo per passare e gli dico « se tu mi garantisci dieci passaggi, poi quando ti trovi di là ti ritrovi pure qualche soldo in tasca ». Soldi che non sappiamo assolutamente quantificare. Vuol dire che criminalizzare un passeur oggi è più difficile rispetto al passato, perché è probabile che sia proprio quello con minor mezzi a finire a fare il passeur per racimolare qualcosa ».
La polizia porta al confine le persone catturate nelle retate in città, destinate ad essere deportate coi pullman RT verso Taranto. Ventimiglia, 2018
Lucio conclude dicendo che sicuramente la quotidianità della frontiera è in parte determinata da queste presenze, ma che tutto ciò si definisce all’interno di fenomeni più vasti. Fenomeni il cui impatto sulle vite delle persone sembra assolutamente differenziale, come osserva Giulia: « questo tipo di presenze e dinamiche per alcuni sono determinanti, per altri quasi invisibili ».
Il tema dell’invisibilizzazione apre il discorso alla presenza migrante, sempre più marginalizzata : « per il turista o il frontaliero che viene a comprare alcol e sigarette, in questo momento, la presenza migrante credo non incida in nulla nel suo passaggio a Ventimiglia » (Lucio). Per Giulia, l’ambiente sembrava molto diverso rispetto alle altre volte che era passata da Ventimiglia, « nel senso che, con la chiusura del campo informale, lo spazio pubblico era molto poco attraversato dai migranti, che stavano per lo più nel campo o comunque sempre nella zona di via Tenda ». Antonio, facendo riferimento a fasi attraversate negli ultimi anni, afferma : « Sono ritornati a rendersi meno visibili. L’invisibilità, probabilmente indotta dall’aumento dalla repressione, è aumentata. Pochi giorni fa, abbiamo visto i segni della presenza anche recente delle persone lungo il fiume, ma ne abbiamo incontrate poche. Dai racconti e dalle informazioni sembrerebbe che il passaggio attraverso la città sia molto più rapido. Non c’è più un luogo stanziale, a parte la Croce Rossa, dove le persone in viaggio possano fermarsi e organizzarsi. Ci sono dei gruppi di persone che sono in Italia già da tempo e si spostano da un confine all’altro alla ricerca di “lavoro”, per esempio legato al transito. In una situazione come questa i branchi di lupi che attaccano il gregge sono molto più evidenti ».
Ci chiediamo, quindi, cosa abbia contribuito a questa mutazione.
Il parere di Lia è che « in merito al cambiamento degli attori sociali è stata determinante la repressione sui solidali, il fatto che siano stati allontanati e la carenza di partecipazione, non solo politica ma affettiva, elementare. Dalle persone che volevano l’abbattimento delle frontiera, alla Caritas, sono state tutte eliminate. Questo ha fatto sì che i vari tipi di sfruttamento, il traffico di esseri umani in genere, dal piccolo trafficante a quello che usa le donne per guadagnare, ad altri tipi di commercio di cui noi possiamo solo intuire le dimensioni, agiscano a nostro parere incontrastati, perché il territorio fondamentalmente non viene vissuto anche da altre persone. Se l’interesse umano è venuto meno, se anche l’interesse politico è venuto a mancare, l’interesse economico è quello che resta, o se ne va per ultimo. Per i piccoli trafficanti il passaggio di persone può costituire l’unica fonte di sopravvivenza. Ciò che spesso si sente ripetere è che noi abbiamo perso. Con “Noi” si intende le persone che hanno partecipato ai balzi rossi, che hanno partecipato ai campi informali del 2016 e che hanno continuato a rimanere sempre in minor numero anche nel 2017, fino a trovarsi oggi inermi di fronte a questa situazione pericolosa. E’ chiaramente pericoloso il fatto di non avere persone ben intenzionate per la strada, di non avere gruppi che possano aiutarsi, una presenza di compagni, di individui che vivano il territorio allo scopo di comprendere questo fenomeno, accompagnarlo, tentare di sviluppare delle strategie contro una situazione assurda e violenta, che non avrei immaginato di vedere sviluppata a questo livello. Questo è l’apice dell’iceberg di una situazione agghiacciante e ovviamente ci si chiede come ciò possa continuare a verificarsi sotto gli occhi di chiunque ». La repressione attuata sugli spazi di stanziamento autonomi è continuata anche dopo la manifestazione, con la chiusura con delle grate di quello che rimaneva del campo informale, facendo sì che il campo della Croce Rossa resti l’unica opzione praticabile per chi transita da Ventimiglia. Praticabile ma certamente non sicura: per Antonio si tratta di « un campo sperimentale, con alcune delle caratteristiche tipiche dei campi di concentramento, lontano dalla città, difficile da raggiungere, permettendo, almeno teoricamente, un controllo dall’esterno. Ci è stato raccontato da più persone che i rastrellamenti vengono effettuati anche nella zona immediatamente antistante alla Croce Rossa ». Le condizioni del viaggio fino all’Italia, e poi della permanenza nei luoghi in cui questo viaggio trova le sue strozzature, si sono fatte, se possibile, ancor più complicate e dure negli ultimi tempi. Una costatazione, questa, che genera interrogativi importanti in chi, da anni, è a contatto con persone che decidono di partire: «Non sono attori sociali immediatamente comprensibili, perché, per quanto si cerchi di entrare in contatto con loro, non si capisce bene come questo fenomeno continui, nonostante la violenza e la repressione, quale sia esattamente la loro ricerca. Certamente c’è la sfida ad un ordine precostituito che impedisce di viaggiare liberamente, che non permette di chiedere un visto e andare dove si vuole. A parte chi ha avuto la famiglia sterminata dai Janjaweed in Sud Sudan e coloro che raccontano di un immediato rischio di vita, a volte cerchiamo di comprendere questo attore sociale, cercare di capire chiaramente come nasce l’idea del viaggio. Per esempio quando una ragazzina eritrea che va a scuola a un certo punto si mette d’accordo con le sue compagne. Si domandano e decidono «prima che ci mettano a fare il servizio militare a vita, perché non andiamo in Europa?». Le singolarità sono determinanti, abbiamo visto persone che lavoravano in Libia e non volevano andare via, ma per i casini successi lì sono dovuti scappare e partire verso l’Italia, perché era il primo paese disponibile, per poi andare ovunque, al di fuori di esso. Le situazioni sono singole, le ricerche sono varie e molto spesso la ricerca non è sovradeterminata dalla provenienza da un paese, è tutto molto complesso e la comprensione di questo fenomeno è qualcosa di importante, anche per noi» (Lia).
Ingresso a campo CRI nel Parco Roja: al container di polizia vengono controllate impronte e generalità delle persone che chiedono ospitalità. Ventimiglia, 2018
Il quadro ha decisamente delle tinte fosche, ma, nonostante le difficoltà, i solidali non sono scomparsi. Alcune presenze sono individuate unanimemente come particolarmente importanti, perché individuate come punti di riferimento, avendo, negli anni, assicurato la continuità di alcuni percorsi e azioni politiche. Delia in primis. Si parla anche di quei solidali che sono sopraggiunti in loco proprio per motivi politici e la cui presenza si consolida nel corso del tempo. Tra questi, il Progetto 20k, che, con l’apertura dell’Infopont Eufemia, garantisce un luogo d’incontro e anche di avvicinamento per persone, o gruppi di persone, che arrivano a Ventimiglia con l’intenzione di attivarsi : un esempio, i vari gruppi scout che hanno iniziato a frequentare la zona.
Tutti d’accordo anche sul ruolo importantissimo di Kesha Niya, il collettivo internazionale che si occupa di distribuire pasti e viveri.
Antonio riassume le loro traiettorie : «un ruolo essenziale dal punto di vista del supporto al transito e dell’assistenza l’ha svolto Kesha Niya. Finché hanno potuto sono stati nei pressi dei campi informali sotto il ponte. Poi a causa del peggioramento della repressione e dell’arrivo del nuovo prete (che ha mostrato un’immediata avversione per il loro gruppo), si sono dovuti spostare. Al momento, dalle notizie che ci arrivano, sembra che siano al confine, dove alle persone che vengono respinte non vengono forniti cibo e acqua anche per molto tempo ».
Da oltre frontiera, vengono citati gli abitanti della Val Roya, riuniti nell’associazione Roya Citoyenne, e altri cittadini francesi, riuniti intorno a gruppi islamici che effettuano sostegno al transito tramite fornitura di beni di prima necessità ormai da anni. Proprio nel riannodarsi di un confronto con Roya Citoyenne, Luciovede un segnale positivo: «anche se vessati e costretti a vivere in un territorio militarizzato tutto l’anno, partecipano a degli incontri per discutere di un’azione solidale congiunta. Anche perché poi si è visto che dopo il corteo del 14 luglio uno spiraglio politico, una considerazione in più anche da parte di questi attori sociali c’è: diciamo che l’impressione è che oltre ad essere per la prima volta considerati come un soggetto politico dagli attori istituzionali, anche con gli altri solidali c’è stato una nuova spinta al confronto e per fare progetti assieme». Infine, vengono nominate quelle persone che, singolarmente o in piccoli gruppi, si impegnano per sostenere il transito delle donne e gli avvocati che, senza riuscire a garantire una grande continuità, cercano di contribuire con le loro competenze professionali.
Gabriele, attento alle relazioni tra i diversi attori sociali per finalità di ricerca, ha un’opinione leggermente differente e osserva che le numerose realtà ancora presenti restano piuttosto «divise, lontane una dall’altra, senza coordinamento. In realtà so che c’è un tavolo di coordinamento, ma la dispersione rimane comunque grande su questo territorio di confine, un confine che è il limes tra gli stati ma anche un dispositivo potentissimo che rimette in discussione tutti i significati».
Chi sembra uscito di scena, o comunque molto meno presente che in passato, sono le ONG. Per Lia: «Il tempo delle ONG è un po’ passato. Non ci sono più i medici che avevano tentato di fare l’ambulatorio anche all’esterno, nel campo informale del fiume Roya. Credo ora facciano alcune ore di ambulatorio al giorno nella sede della Caritas. Tutto quello che girava intorno alla Chiesa delle Gianchette. come l’alimentazione e l’assistenza medica, ora credo si svolga presso la Caritas». Una presenza, quindi, valutata come discontinua e poco incisiva:
«Poi le ONG hanno dei pezzetti che si pigliano, con alcuni di noi hanno collaborato, ci sono delle individualità positive, ma anche le ONG non è che facciano un lavoro strutturale e strutturante, fanno raccolta dati quando va bene e quando ci sono, però non è cambiata rispetto agli anni scorsi : continuano a non esserci i medici …»(Giulia) . «Poi è chiaro, se non ci investono dei fondi….loro sono persone che lavorano e se sono in uno due… non possono fare molto altro che monitorare…» (Lucio). Vengono menzionate altre associazioni, che non hanno mai smesso di partecipare al sostegno alle persone in viaggio, come Popoli in Arte, che collabora all’esistenza dello spazio Info point gestito dai 20k.
Un’osservazione di Antonio obbliga a considerare il ruolo degli attori economici ufficiali e delle istituzioni: «secondo me uno degli attori sociali è anche il servizio di trasporto locale (la Riviera Trasporti) che ha appianato il proprio debito tramite questo tipo di attività che noi paghiamo e che ha un costo molto alto per persona. Questo rientra nel discorso dell’industria legata allo sfruttamento. Diventano oggetti di un trasporto forzato pagato da noi».
Pullman della Riviera Trasporti, dedicati alle deportazioni delle persone migranti. Ponte S.Luigi, Ventimiglia, 2018
Quindi, «lo Stato sembra assente o presente solo a livello repressivo, ma probabilmente partecipa anche nel regolare i commerci che derivano dal transito e dalle deportazioni. Il campo della Croce Rossa ha costituito, dall’estate scorsa, l’unico luogo di permanenza esistente. Per l’accordo con lo Stato, la Croce Rossa incamera soldi per l’acquisto del cibo, la gestione e la costruzione delle strutture» (Lia).
Questa ambiguità della presenza istituzionale, tra militarizzazione e repressione, da una parte, e assenza di politiche strutturali e tangibili, viene sottolineata anche da Lucio: « a me è sembrato che ci sia un grosso vuoto : nonostante la presenza militare costate. Ad esempio, il sindaco sembra già in campagna elettorale, per maggio/giugno o quando saranno le amministrative. Tant’è vero che durante la preparazione del corteo, lui che cercava di ostacolarne lo svolgimento, ha detto apertamente « noi su questo tema ci giochiamo la rielezione ». Allora i continui proclami che sta facendo, la presenza a Milano la scorsa settimana (al corteo contro l’incontro Salvini-Orban, n.d.r.) dicono questo: di base non fa nulla, quando c’è la notizia, il gossip, il tema, allora prende parola, ma il tutto è sempre teso a cercare di farsi credito, mentre non pratica nessuna politica istituzionale». Giuliaaggiunge: «sembra proprio che stia funzionando la marginalizzazione totale, nel senso che, anche in negativo, non ho visto grande accanimento, se non da parte della polizia soprattutto francese (perché comunque, tramite i monitoraggi, si è visto che ogni giorno succede il peggio del peggio su quei treni). A livello politico istituzionale c’è un vuoto perché l’obiettivo è quello di invisibilizzare : tu non esisti, io di te non parlo neanche.
Baracche bruciate dalle persone migranti lungo il fiume Roja per protestare contro lo sgombero dell’ultimo campo informale. Aprile 2018
E ora che non c’è il campo informale ecc., sono talmente lontani dalla città che il turista potrebbe anche non accorgersi di niente, potrebbe anche sembrare una cittadina qualunque, borghese ecc». La lettura data da Antonio ci permette di valutare le attuali posizioni dell’amministrazione locale in quanto conseguenza di una linea politica scelta, e perseguita, dal 2015: «A livello di amministrazione locale a Ventimiglia c’è un sindaco del PD che è rimasto tale sin dall’inizio, quindi non è cambiato niente. Alle prossime elezioni vincerà probabilmente la Lega, in continuità naturale con le politiche portate avanti fino ad oggi. Ciò rappresenta la fine di questo percorso di imbarbarimento. Dall’inizio c’è stata una sinergia completa tra l’attività repressiva poliziesca e l’amministrazione locale. Per non peggiorare i contrasti con la popolazione locale e le situazioni di disagio evidente delle persone che dormono in strada bastava veramente poco. Bastava un accesso diretto all’acqua potabile, che adesso di nuovo non c’è più, i servizi igienici e una raccolta dei rifiuti. Se avesse fornito queste tre condizioni sarebbe stato differente e avrebbe avuto costi sicuramente inferiori a quelli delle deportazioni e delle periodiche “pulizie” del greto del fiume. Si lasciano vivere le persone nelle condizioni peggiori poi, quando la situazione è arrivata a un limite non più valicabile, arrivano le ruspe a distruggere e togliere tutto. Questa è una politica a mio avviso folle, anche dal punto di vista economico».
Una strategia che, comunque, sembra aver quantomeno rabbonito il dissenso di alcuni abitanti: «In passato ci sono state manifestazioni contro la presenza dei migranti e spesso delle grandi discussioni con gli abitanti del quartiere delle Gianchette, che mostravano evidentemente il loro essere contrari o molto critici, anche piuttosto aggressivamente, alla presenza delle persone in viaggio o almeno alla modalità con cui questa cosa veniva gestita. Dal momento che ora le persone migranti non sono più raggruppate di fronte alle loro abitazioni, questo fenomeno mi sembra sia venuto meno. Non ci sono più manifestazioni, né rimostranze così frequenti. Ogni tanto prima si vedevano dei manifesti lungo la strada con scritte come “Basta degrado” “Ventimiglia libera”, ora non più» (Lia).
Ovviamente, anche la cittadinanza, a ben guardare, esprime posizionamenti differenziati e, secondo Giulia, qualche individualità tra gli abitanti manifesta interesse, «soprattutto portando cibo e vestiti … di certo non si tratta di masse…».