Lo scalpo, parola di origine scandinava, consiste nel praticare un taglio circolare intorno alla testa al fine di strapparne una parte. Solitamente si conosce come una pratica adottata dai nativi americani, ma esiste un’altra storia che la riconosce appartenere ai coloni francesi e inglesi che estraevano un “premio” per ogni persona nativa uccisa, collezionando scalpi. Il gioco del fazzoletto sembra avere origine da lì: tutti si sparpagliano nel campo di gioco e al “via!” ognuno cerca di rubare il fazzoletto o lo “scalpo” degli altri.
Si può solo acchiappare lo scalpo: si è squalificati se ci si spinge, ci si afferra o se si trattiene con la mano il proprio scalpo.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Iniziamo così questa testimonianza di alcuni giorni trascorsi a Ventimiglia perché è questo che i nostri occhi vedono quando un giovane migrante nordafricano ci mostra la ferita sulla testa provocata dalle violenze ricevute, nel mese di luglio, dalla polizia francese. Il medico scriverà sul referto: trauma con scalpo parziale al capo. L’uomo ci racconta che la polizia francese aveva posto rimedio al taglio graffettando con una sparapunti la ferita e ci mostra una lesione al tendine estensore del III dito -che in medicina viene definito “atteggiamento a becco di flauto”- della mano destra. Anch’essa provocata dalla violenza poliziesca. Sarà lesionato a vita, ci dirà il medico, ma necessita di un appuntamento specialistico presso ambulatori di chirurgia della mano che in Liguria si trovano a Savona e Genova.
Inizia così il nostro viaggio nel girone dantesco della Sanità nella provincia di Imperia, inizia così il nostro muoverci tra gli scalpi.
Il primo passo è quello di chiedere il codice STP (straniero temporaneamente presente) che permette alle persone senza permesso di soggiorno di ottenere tutte le cure urgenti e/o essenziali, non potendo avere il medico di famiglia.
Secondo le direttive di A.Li.sa (Azienda Sanitaria Ligure): “Il codice STP può essere rilasciato dalle ASL, dalle Aziende Ospedaliere e dagli IRCCS, ha validità nazionale e ha una durata semestrale rinnovabile”. Su questa base ci rechiamo presso l’ospedale di Bordighera, precisamente al “Centro di prenotazione per le visite mediche” con la richiesta di una visita urgente o essenziale presso un ambulatorio di chirurgia della mano su un ricettario intestato AAICA (Associazione Ambulatorio Internazionale Città Aperta) redatto e firmato da un medico.
L’impiegata ci informa che loro non rilasciano il codice STP e che il luogo deputato a tale funzione si trova presso il Distretto Sanitario ventimigliese “Villa Olga”, distante 3 km dall’ospedale. Ci rimettiamo in viaggio, torniamo a Ventimiglia, arrivati a Villa Olga otteniamo un nuovo diniego: il codice STP viene dato solo alle persone non in regola che “intendono” eseguire la vaccinazione per il Covid 19 e alle persone di provenienza ucraina.
Dopo alcune telefonate all’Ufficio Relazioni col Pubblico e con la responsabile dell’ufficio Esteri il direttore del distretto di Ventimiglia si palesa affermando inopinatamente che “la prassi in Liguria è questa”. Dopo avergli chiarito che tale affermazione è falsa come da indicazioni di A.Li.sa, tanto che a Genova l’STP viene fornito da tutti i distretti sanitari ancorché accompagnati da una richiesta redatta e firmata da un medico, il direttore ci informa che per l’ASL 1 l’unico luogo deputato è il pronto soccorso, e che per il Distretto di Ventimiglia è rappresentato dal pronto soccorso dell’ospedale di Bordighera. Il medesimo da cui siamo stati respinti per dirigerci a Villa Olga.
Il direttore prova, ovviamente senza successo, ad avere una descrizione fisica della persona che sostiene aver dato un’informazione scorretta per avere un capro espiratorio su cui far ricadere la colpa.
Ritorniamo all’ospedale di Bordighera, quindi al pronto soccorso, dove un infermiere gentile ma un po’ contrariato dalla scarsa comunicazione/organizzazione ci fornisce l’STP: andare al pronto soccorso per fare l’STP, un atto amministrativo, significa intasare un luogo dedicato alle emergenze.
Rimane il problema della richiesta per la visita.
Nei distretti sanitari della ASL 3 genovese esistono i medici prescrittori che, valutando e segnalando direttamente sulla richiesta regionale il nome del medico che invia il paziente, forniscono ricetta regionale. Nell’ASL 1 non esiste tale possibilità: il paziente deve per forza essere valutato dal medico del pronto soccorso per convertire la ricetta regionale.
Tale situazione è inaccettabile. In primo luogo, per la persona che necessita di cure (condizione sancita in modo chiaro dalla nostra tanto declamata e decantata costituzione e regolata da indicazioni regionali): se il giovane fosse stato da solo tra le barriere linguistiche e burocratiche, incontrando personale stanco, poco informato e irritato, dovendosi spostare per 9 Km avrebbe probabilmente desistito e sarebbero peggiorate le sue condizioni di salute.
In secondo luogo, tale procedura è estremamente dannosa per i cittadini del territorio: la prassi secondo cui queste procedure, in gran parte burocratiche, siano a carico del pronto soccorso, del personale medico del pronto soccorso e non di quello amministrativo significa intasare il già denutrito ospedale.
Aggiungiamo un altro episodio per evidenziare la progressiva distruzione del sistema sanitario, soprattutto territoriale, che investe nella privatizzazione e nei progetti costosi e faraonici e lascia le persone, malate, in balia del caos e del caso.
Sempre al pronto soccorso dell’ospedale di Bordighera incrociamo una donna in gravidanza al VII mese. Con la stessa trafila assurda ha ottenuto l’STP, ma per fare una visita ostetrico/ginecologica con ecografia è stata inviata con l’ambulanza all’ospedale di Imperia non essendoci localmente un tale servizio, con costi e disagi intuibili.
Ci chiediamo fino a che punto l’anestesia generale riesca a far sì che i cittadini di Ventimiglia e Bordighera non chiedano conto di tale situazione al distretto sanitario, alla ASL 1, ad A.Li.sa (azienda sanitaria ligure) e all’Assessore alla Salute nella figura di Toti, tra l’altro pure presidente della regione Liguria.
Le autorità degli stati, le polizie italiane, francesi e di confine stanno giocando a modo loro allo “scalpo”: tutti si sparpagliano nel campo di gioco e, al “via!”, ognuno cerca di rubare il fazzoletto o lo “scalpo” degli altri.
Si può solo acchiappare lo scalpo: si è squalificati se ci si spinge, ci si afferra o se si trattiene con la mano il proprio scalpo.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Gli sbarchi in Sicilia continuano insieme alle violenze dei confini e alle morti nel cercare di attraversali; violenze che hanno travolto gli argini, lasciando tracce della loro desolazione ovunque.
Le storie delle persone sopravvissute che incontriamo a Ventimiglia con direzione “respingimento” tra i binari della stazione, sotto il ponte di Via Tenda, lungo la spiaggia alla foce del Roja, nel piazzale davanti al cimitero durante la distribuzione serale del cibo, nel parco adiacente al Comune di Ventimiglia mostrano scalpi, scabbia, micosi interdigitali dei piedi, ascessi secondari al vivere in condizioni forzate di scarsa igiene, mal di denti, febbri, traumi dovuti alle violenze frequenti della polizia di confine. E nel mostrare raccontano scenari di sopraffazione e sfruttamento, di connessioni tra lo stato e la mafia, tra la mafia e la polizia.
Un uomo proveniente dall’Africa centrale ci racconta di essere arrivato nel 2013 in Italia, aver fatto richiesta di asilo politico (respinta) ed essere finito irregolare a lavorare come operaio/carpentiere di un imprenditore siciliano, rivelatosi personaggio di spicco della mafia locale. Mentre racconta, intorno a lui, si muovono gli sguardi sperduti e angosciati della compagna incinta e delle loro due bambine.
Nel mese di luglio dopo una persistente mancata retribuzione per un totale di 4000 euro, e dopo le ripetute richieste disattese, l’uomo decide di cercare un nuovo lavoro, sempre sfruttato, sempre irregolare, sempre in Sicilia, sempre nello stesso paese per garantire alle bambine di proseguire la scuola e non sradicarle. Ma l’ex datore di lavoro non lo accetta, lo minaccia, dà fuoco alla casa con la moglie e le figlie che vengono salvate dai vicini. Lo minaccia con una pistola alla testa affermando che non può lavorare per nessun altro, pena la morte. L’imprenditore mafioso sarebbe agli arresti domiciliari ma controlla evidentemente il territorio.
L’uomo ha denunciato tutto alla polizia, sia l’incendio doloso sia le minacce armate, ma non sono stati presi provvedimenti se non consigliargli di scappare. Cosa che ha fatto soprattutto per tutelare la famiglia. Rimane la sua dignità, il desiderio di ottenere “giustizia” che si scontra con l’indolenza, la superficialità se non la connivenza delle autorità. Rimane lo sguardo traumatizzato della moglie, incinta, che non dice più una parola, guarda le sue bambine, è persa, ha paura…
La seconda storia ci viene raccontata da un giovane nordafricano scappato anche lui dalla Sicilia dopo aver scoperto e tentato di fermare traffici di esseri umani.
Ci racconta di legami mafiosi tra il Nordafrica e l’Italia, in particolare con la Sicilia; di come tali traffici siano cresciuti in modo esponenziale durante la pandemia e gli obblighi di quarantena per gli sbarchi. Ci descrive la dislocazione delle persone dalle navi quarantena direttamente in case/lager dove sarebbero perpetrate violenze con avviamenti alla tratta, al lavoro forzato e al trapianto di organi (quest’ultima pratica, talmente terribile da essere inaccettabile anche al solo pensarla, sta avendo riscontro in numerose indagini penali e giornalistiche).
Ci viene detto che tale situazione coinvolgerebbe molti migranti di diverse provenienze, ma in particolare i tunisini perché maggiormente ricattabili essendo il loro paese “considerato dal 2019 dall’Italia un “Paese di origine sicuro” per quanto riguarda il rispetto dei diritti”; ciò determina che siano quelli più respinti sul totale. Ci parla di violenze subite e consigli (intimidazioni?) da parte delle forze dell’ordine di tacere e allontanarsi dalla Sicilia.
Questi sono gli scalpi che le autorità e le polizie di confine mostrano come trofei? È questa la vita che stanno estorcendo alle persone: arti spezzati, corpi bruciati vivi, donne abusate, vite incarcerate, violate, denutrite, malate.
Sono queste le storie delle persone sopravvissute che incontriamo a Ventimiglia: tra gli avanzi gettati di tutti i transiti; lungo le rotaie di un binario morto dove i più giovani chiudono gli occhi sfiniti; nell’attesa di un pasto serale con vista cimitero tra stormi di uccelli che grufolano tra i resti dei resti; nelle notti di un fiume secco dove brulicano topi tra i corpi dormienti che si sono ricavati a stento un giaciglio; tra chi ha lo sguardo già perduto in un mondo che non è più questo, simile al fondale di un mare dove si depositano fotografie di scomparsi.
Sono loro che ci chiedono con fermezza, coraggio e determinazione di raccontare le loro storie.
Giovani uomini, ma anche famiglie, donne e minori non accompagnati provenienti da Siria, Kurdistan, Pakistan, Afghanistan, Iran, Bangladesh percorrono, da circa tre anni, la rotta balcanica attraversando la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia fino all’Italia. La maggior parte di essi non ha intenzione di fermarsi e fare richiesta di asilo in nessuno di questi stati. Bloccate dalla frontiera croata con un uso massiccio della forza e della tortura da parte della polizia, le persone in viaggio hanno formato enormi accampamenti informali prima in Serbia e, poi, in Bosnia. Successivamente, un mix di gruppi intergovernativi (International Organization for Migration – IOM e United Nations High Commissioner for Refugees – UNHCR) e non governativi hanno iniziato a gestire o collaborare alla gestione di campi formali altrettanto enormi, in Bosnia.
Noi siamo medici. Negli anni scorsi abbiamo preso attivamente parte alla lotta no border in Italia e, questa volta, abbiamo partecipato a una spedizione organizzata a seguito del crescendo di notizie sulle violenze e situazioni inumane alle quali è sottoposto chi tenta questo attraversamento.
Abbiamo raggiunto Bihać, nel cantone Una-Sana, al nordovest della Bosnia, al confine con la Croazia – circondata da monti e attraversata dal fiume Una. Durante la guerra (tra il 1991 e il 1995) gli abitanti di questa zona hanno vissuto nei rifugi antiaerei, senza acqua ed elettricità, con il cibo razionato. Secondo il Centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, a Bihać sono state uccise 4.856 persone [i].
In questo luogo senza pace, abbiamo potuto conoscere la violenza e la privazione di libertà a cui è sottoposto chi ha un passaporto che non vale nulla, in Europa e nelle sue vicinanze. Abbiamo potuto visitare: siti “di accoglienza” considerati più “dignitosi” per nuclei familiari, donne e minori non accompagnati; enormi campi informali; scheletri di edifici incompiuti o cadenti occupati nel tentativo di salvarsi dal freddo; abbiamo incontrato persone malmenate e torturate dalle diverse polizie, marchiate nei corpi da segni permanenti che molti altri, prima di noi, hanno descritto e raccontato. Esperienza nuova per noi e non comune per chi, in generale, si oppone a tale sistema, abbiamo potuto rivolgere domande dirette a chi fa parte dei grandi gruppi intergovernativi che “normalizzano”, gestiscono e legiferano il destino di chi viaggia.
Il 16 marzo 2016, dopo la chiusura della rotta Balcanica occidentale, Europa e Turchia siglarono un accordo con lo scopo di fermare la migrazione irregolare attraverso la Turchia. In base a esso, tutti i migranti irregolari e richiedenti asilo giunti alle isole greche, le cui richieste di asilo fossero state rigettate, andavano ricondotti in Turchia. Rimandiamo al sito del Parlamento Europeo per la lettura del testo dell’accordo che appare come un’improbabile e allucinatoria previsione del futuro, parzialmente smentita dai fatti. Tra le voci del trattato era previsto che la Turchia si impegnasse a migliorare le condizioni della crisi umanitaria in Siria[ii]
Tutto ciò ha portato alla deviazione dei flussi migratori attraversi la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia e infine l’Italia.
A partire dal 2017 e poi nel 2018 sorgono enormi accampamenti informali in Serbia e in Bosnia. Successivamente nascono in Serbia numerosi centri governativi per migranti, mentre in Bosnia i campi formalmente riconosciuti sono gestiti da International Organization for Migration (IOM, Organizzazione inter-governativa che include 173 paesi, il cui obiettivo sarebbe quello di promuovere condizioni migratorie “umane e ordinate”) e United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), fondato dopo la seconda guerra mondiale.
Da ormai molti anni, sul territorio europeo, diversi gruppi si sono organizzati per dare supporto al transito di coloro che abbiamo deciso di chiamare semplicemente “persone in viaggio”, per non sottostare al meccanismo di divisione in categorie che facilita la distanza e la de-responsabilizzazione.
Da diversi anni incontriamo, nelle nostre strade, donne e uomini sopravvissuti a violenze di ogni genere subite nel corso di questa e altre rotte[iii]
Questo testo deriva da una breve ma traumatica esperienza lungo una frontiera per noi nuova, a confine tra Bosnia e Croazia, sempre più nota per le condizioni di transito inumane, le violenze e le torture efferate perpetrate quotidianamente nei confronti di chi tenta di attraversarla.
Primo Giorno 28/10/19
Il parco dei giovani zoppi
Arriviamo a Bihać, nel cantone Una-Sana, territorio bosniaco confinante con la Croazia, intorno alle 13. Abbiamo alcune informazioni da persone che sono già state in questa zona.
Il passaggio del confine è molto difficile, tanto che il traffico, in questa zona, utilizza una figura definita “runner” che fa da apri-pista per valutare la possibilità del passaggio. I campi formali in Bosnia sono tutti gestiti da IOM che assume personale di sicurezza privata e operatori senza alcuna esperienza, (anche per lavorare con minori), pare assunti tramite campagne su facebook. La procedura per la richiesta di asilo in Bosnia sembra sia molto complessa, ma praticamente nessuno chiede asilo qui.
Partiamo per andare al campo Borici, aperto dal gennaio di questo anno, un edificio dove sono ospitati donne, famiglie e minori e persone definite “con fragilità”. Il “campo modello” del governo. È un edificio, in un parco, la cui destinazione precedente era una casa per studenti.
Quando arriviamo ci sono molti ragazzi giovani e bambini che escono dal palazzo. Fuori c’è un operatore della sicurezza. Tre di noi hanno il permesso per entrare. Da una salita sterrata arriviamo in un piazzale. L’aspetto esterno è abbastanza diroccato. Nel piazzale ci sono 4-5 container. Ci sono bambini che giocano, molte donne e pochi uomini. Ci viene incontro la responsabile e ci dice che potrà dedicarci poco tempo a causa di problemi di sicurezza all’interno della struttura. All’interno ci sono 350 persone, soprattutto famiglie. La maggioranza delle persone viene da Pakistan, Siria, Irak, Kurdistan, Afghanistan. Attualmente non sembrano esserci minori non accompagnati. Il tempo medio di permanenza è di circa 3 mesi. Inoltre c’è un’associazione locale che lavora con le donne. Ci dicono che un medico del servizio sanitario nazionale è al campo 6 volte a settimana e c’è la possibilità di accesso all’ospedale di Bihać per i casi più urgenti. Inoltre affermano che un autobus porta i bambini tutti i giorni a scuola.
Mentre la responsabile ci spiega le caratteristiche del campo, all’improvviso un uomo nel piazzale si accascia a terra circondato da diverse donne. Sembra una crisi epilettica (vera o simulata) e, a un certo punto, arriva un giovane medico. Diverse persone aiutano l’uomo ad alzarsi, poi lui corre e inizia a dare dei pugni sulla parete di un container. La responsabile dice che non può più seguirci, parliamo con una giovane operatrice di IOM. Lei racconta che ha visto gente permanere nel campo anche per un anno. Subito ci dicono di allontanarci per la nostra incolumità e, successivamente, un presunto rappresentante di una ONG arriva trafelato per annunciare che la situazione è molto pericolosa. Vediamo arrivare una macchina della polizia e un’ambulanza.
Nel frattempo il gruppo di noi rimasto all’esterno incontra delle persone di origine afghana nel parco. Tra loro F., una ragazza afghana che viveva in Iran da 21 anni, ha deciso di scappare di casa perché i genitori volevano che sposasse un cugino. Fugge con il suo compagno verso l’Europa e, a Borici, si incontrano anche con un altro parente. Tutti insieme ci dicono che il campo di Borici è molto affollato, ci sono più famiglie (8-10 persone) in una stessa stanza, il cibo non è buono. Vogliono andare in Francia o in Belgio poiché consigliati da amici che gli hanno detto che il sistema eurodac, per l’identificazione delle impronte digitali, non funziona in questi paesi, e quindi non sarebbero rispediti nel primo paese europeo di arrivo. Esprimiamo i nostri dubbi su questo fatto, ma forse con scarso successo.
Sia a F. che al suo compagno è stato rotto il telefono dalla polizia croata, ma non sono stati picchiati, come hanno visto invece accadere ad altre famiglie anche con bambini e donne anziane a cui erano stati anche bruciati i vestiti. Altri due uomini adulti sono conoscenti o familiari della coppia di ragazzi, uno più anziano ci dice che il più giovane, di 18 anni, è stato brutalmente picchiato dalla polizia croata a seguito di uno dei sei tentativi di attraversare la frontiera. Il più giovane mostra la gamba sinistra evidentemente deformata da una precedente frattura e ha visibilmente problemi a camminare.
Insieme a questi ultimi andiamo poi verso la sede di IOM e lungo questo tratto di strada l’uomo più anziano ci dice che uno dei problemi più gravi è che, oltre alla polizia croata, ora nei boschi intorno alla frontiera ci sono persone armate di coltelli che rapinano e feriscono chi passa. Alle nostre domande sulla possibile identità di questi uomini, ci dicono che alcuni di essi sono dei trafficanti.
Tornando verso il campo, passiamo nel parco, in cui camminano molte persone che vivono dentro o intorno a Borici, qualcuno porta con sé buste della spesa.
Molti tra questi giovani zoppicano.
Passiamo di fronte a un grande edificio che pare contenga facoltà islamiche di diritto e pedagogia.
Incontriamo l’altra parte del nostro gruppo, che ci racconta di come la visita al campo di Borici si sia interrotta bruscamente.
Andiamo a vedere se c’è qualcuno in un moderno edificio diroccato, in centro, occupato, praticamente senza mura, dove pare che molti giovani tentino di rifugiarsi almeno durante la notte. Sul corso del fiume incontriamo diversi ragazzini, molti di loro minorenni. Iniziamo a parlarci, molti sono afghani e siriani, hanno quasi tutti la scabbia. Alcuni tra i siriani sono stati fermati in Croazia e in Italia nel tentativo di passare le frontiere e riportati indietro. I documenti rilasciati durante questi respingimenti illegali operati dalla polizia italiana sono stati sequestrati dalla polizia croata. Dicono che la polizia croata è Mafia.
Uno di loro, un ragazzo di 20 anni siriano, dice che anche in città la polizia bosniaca non li lascia stare seduti sugli argini del fiume. Un altro giovane siriano ha la metà destra del corpo ampiamente ustionata e un occhio gravemente lesionato. I suoi amici ci dicono che deve essere operato e ci chiedono come questo possa essere fatto, se in Bosnia o in “Europa”. Parliamo brevemente con lui, ci spiega che un anno prima, in Siria, durante un bombardamento aereo, ha riportato ampie ustioni su tutto il corpo.
Tutti dicono che l’unica acqua che bevono è quella del fiume Una.
Usiamo quasi tutta la crema anti-scabbia che abbiamo, molti antibiotici e alcuni farmaci per il dolore.
Secondo Giorno 29/10/19
La mafia è un elefante bianco
In mattinata incontriamo i rappresentanti di UNHCR. Ci parlano inizialmente dei dati sul transito di persone in Bosnia. Dicono che attualmente ci sarebbero circa 8000 persone nel paese e stimano che almeno il 20-30% in più non siano intercettati dal sistema. Intorno a 3900 si troverebbero nei centri e almeno lo stesso numero al di fuori di essi. Molte famiglie e minori non accompagnati. L’UNHCR ha gruppi definiti “out-reach” per la ricerca di soggetti sul territorio che definiscono “più vulnerabili”. In totale 672 persone, a loro dire, hanno iniziato la procedura d’asilo in Bosnia ma dicono che il sistema per la richiesta non funziona. Sottolineano il proprio impegno nel migliorare questo sistema. In totale pare siano state concesse solo 16 protezioni sussidiarie nel 2018, mentre 604 persone attendono la risoluzione della richiesta.
Imputano al contrasto tra il governo centrale e quello cantonale le colpe per il malfunzionamento del sistema d’asilo. Si insiste molto su questo tema.
Chiediamo se una eventuale richiesta di asilo in Bosnia potrebbe poi impedire il successo di una successiva procedura iniziata in un altro paese d’Europa. Una di loro dice chiaramente: “we are against onward movement, you don’t choose the place where you ask for asylum, we explain to the people that Bosnia has a system in place…”; dunque esprimendo apertamente la propria opposizione a qualsiasi prosecuzione del viaggio successivo a una eventuale richiesta di asilo in Bosnia, imputando tali movimenti all’azione di mafie e trafficanti. Proviamo a esprimere la nostra opinione sul fatto che sia possibile chiedere asilo politico in Bosnia e poi restarci davvero, e le nostre perplessità circa la posizione degli Stati di bloccare delle persone per dei tempi lunghissimi in spazi non idonei.
Continuando a soffermarsi su ciò che ritengono problematico, dicono che frequentemente i loro operatori legali si trovano in difficoltà nel sospetto di una “bogus family composition”, in quanto le persone, a loro dire, non dichiarano lo stesso numero di componenti della famiglia per tutta la durata del viaggio e quando vengono riconosciuti. Per questo si ritiene che non siano “veri” parenti, e che, anche in questo caso, si tratti di situazioni di traffico e sfruttamento, soprattutto per i minori. A nostra domanda su come intendessero gestire questo fenomeno, se volessero avvisare la polizia per iniziare un procedimento legale contro le persone sulla cui composizione familiare ci fossero stati dei dubbi, rispondono in maniera affermativa. Un segno chiaro di ciò sarebbe il fatto che una persona si dichiari zio/zia di qualcuno/qualcuna e poi si separi da esso/essa magari continuando il viaggio indipendentemente. Ci figurano la possibilità di una sorta di controllo e comunicazione delle composizioni dei nuclei familiari in diversi paesi per reprimere queste “pratiche”. Non viene assolutamente presa in considerazione la nostra obiezione che evoca un diverso concetto di famiglia che potrebbe influenzare tali dinamiche.
Una dei rappresentanti UNHCR continua a formulare metafore su degli elefanti: “C’è un’enorme elefante bianco in mezzo alla stanza di cui non ci stiamo occupando” … “se si vuole mangiare un elefante bisogna farlo a pezzi”.
Poiché continuiamo a fare discorsi sulla libertà di movimento, su come anche gli europei non restino bloccati nel primo paese nel quale migrano, eccetera, a un certo punto, iniziano a dire che forse il termine “mafia” era inappropriato. Probabilmente pensando che, in quanto italiani, il termine ci avesse offeso.
All’improvviso finisce il nostro tempo, perché gli operatori UNHCR hanno altri meeting.
Andiamo poi al campo di Sedra. Un altro campo per famiglie e minori non accompagnati, allestito in un vecchio hotel. È un vecchio edificio abbastanza cadente, al secondo piano piove all’interno. C’è poco da dire, ci sembra che i campi abbiano implementato di molto la condizione occupazionale della gioventù locale. I lavoratori che incontriamo sembrano ben disposti verso i rifugiati che vi abitano. Ci raccontano dei turni di 14 ore al giorno delle cuoche della croce rossa.
Dopo la visita, raggiungiamo l’altro gruppo che si trova di fronte al campo di Bira, un altro campo da 1200 posti gestito da IOM dove opera anche Save the children, al quale non ci è permesso l’accesso.
Fa molto freddo. Visitiamo molte persone nel parcheggio, molti ragazzi giovani (anche minorenni), tutti senza vestiti adatti per quel clima, molti con sandali. Aspettano lì fuori, al gelo, di entrare nel campo; quasi tutti hanno ferite infette e scabbia.
Dei ragazzi afghani iniziano a parlarci, è da molto tempo che aspettano di entrare, ma sembra che il campo sia pieno. Molti di loro trovano riparo in un edificio abbandonato non lontano, chiedono se vogliamo andare a vederlo. Ci accompagnano verso una grande costruzione diroccata, senza finestre e in alcuni punti anche senza pareti, sotto una pioggia che si infittisce. Salendo le scale si arriva a un secondo piano invaso dal fumo. In ogni stanza è stato acceso un fuoco, il pavimento è completamente ricoperto di carta e plastica. Ci saranno una cinquantina di persone, ma ci dicono che dormono li in 300 circa. I ragazzi hanno pochi materassi per terra e qualche coperta. Facciamo varie medicazioni e ad alcuni diamo degli antibiotici per malattie dell’apparato respiratorio. Quasi tutti hanno la scabbia, quindi avendo finito il farmaco diciamo che torneremo nel pomeriggio del giorno dopo.
Torniamo al campo di Bira, vediamo molta polizia arrivare. Raccolgono tutte le persone che stazionano nel parcheggio al di fuori del campo e le portano via.
Dopo un’ora da questa retata nuove persone al freddo e sotto la pioggia si avvicinano nuovamente al cancello del campo nella speranza di poter entrare. Tra di loro un ragazzo di provenienza afghana nato nel 2005, ha con sé un documento di identificazione. È appena arrivato da Sarajevo. Cerchiamo di mediare all’entrata del campo con un responsabile dell’IOM per capire se è possibile farlo entrare. Dopo una mezz’ora esce dal campo un funzionario di Save the children che controlla i documenti del ragazzo e gli dice di avvicinarsi alla rete di separazione. Improvvisamente, almeno una ventina di bambini compaiono dal nulla attorniando il funzionario e cercando di attirare la sua attenzione, mostrandogli i documenti sui quali è scritta la loro età.
La sera incontriamo brevemente una operatrice di una nota ONG della zona, che ci spiega l’attività dell’organizzazione. Sembra vi siano importanti limitazioni poste dal governo del cantone Una-Sana.
Ci dice di una circolare che è stata emanata dal governo locale, la quale impedisce ai cittadini di affittare casa alle persone migranti, di ospitarle o di fare qualsiasi atto che determini un assembramento in strada.
La sera apprendiamo che un cameraman solitamente filma e pubblica sui social network le operazioni di polizia.
Terzo Giorno 30/10/19
Leggende di frontiera
La mattina partiamo in auto alla volta di Velika Kladuša, a circa una 40 di km da Bihać.
Lungo il percorso, che in buona parte corre parallelo al confine con la Croazia, incontriamo diverse persone che camminano sulla carreggiata, nonostante il freddo e la pioggia. Ci fermiamo due volte nel tentativo infruttuoso di approvvigionarci presso farmacie locali di antibiotici, ormai agli sgoccioli. Alla seconda sosta avviciniamo un gruppo di persone presso un edificio in disuso, molto sporco, dove avevano riposato. Erano all’ennesimo tentativo di superare la frontiera, vittime di furti e delle consuete umiliazioni, percosse, vessazioni operate dalla polizia croata, non rare anche da parte della polizia slovena.
Li medichiamo e forniamo loro alcuni antidolorifici per i traumi. Raggiungiamo il parcheggio dell’ospedale di Velika Kladuša. Ci viene incontro una giovane attivista francese dell’associazione No name kitchen, un’organizzazione internazionale di volontari per il supporto al transito, che ci rende partecipi delle difficoltà e delle limitazioni nel poter fornire aiuto alle persone in viaggio. Per loro infatti, è necessario rinnovare mensilmente un documento con i dati anagrafici e il domicilio, cosa mai richiesta ad altre persone che sono in Bosnia con un visto turistico.
Giunge quindi una operatrice di MSF, accompagnando 2 giovani uomini, uno in sedia a rotelle e un altro che zoppica, provenienti da una casa occupata visitata da lei nel corso di un monitoraggio. Parlano di altre persone che vivono nell’occupazione e sono in condizioni pessime. I due ragazzi presentano un quadro di scabbia grave con sovra-infezione. Il giovane in sedia a rotelle appare molto debilitato e probabilmente febbrile, alza la testa solo quando la ragazza si rivolge a lui in arabo, per poi ritornare ad accasciarsi su sé stesso. Viene deciso di provare a portarlo presso il campo cittadino Miral. Seguiamo con la nostra auto il loro furgone, arrivati presso il campo ci fermiamo presso il parcheggio esterno. Veniamo dopo poco raggiunti dalle solite guardie private presenti in tutti i campi gestiti IOM che, dopo averci chiesto i documenti, ci intimano con atteggiamento irridente di allontanarci per la nostra incolumità.
Ritornati a Bihać, ci rechiamo all’edificio occupato che si trova nelle vicinanze del campo di Bira. L’aria è ancor più irrespirabile del giorno prima, piove e fa freddo e ci sono molti fuochi accesi nelle stanze. Ci fanno entrare nella stanza meno sporca e dove non c’è un fuoco, per poterli visitare. Il pavimento è ricoperto di scatole di cartone e in un angolo c’è un tappeto. È una moschea improvvisata.
Tutti si accalcano intorno chiamandoci per mostrarci le ferite infette procuratesi nel grattarsi a causa della scabbia, molti hanno la gola arrossata e le tonsille gonfie. Alcuni hanno i piedi rotti da manganellate della polizia croata con ferite aperte e vogliono disperatamente una medicazione per coprirli. Le piante dei piedi, in alcuni casi, hanno ferite poiché la polizia croata gli prende le scarpe, oltre a tutto il resto, costringendoli a camminare scalzi per chilometri. Finiamo praticamente tutti i farmaci che abbiamo e ci accompagnano fuori.
Torniamo davanti al campo di Bira, fa sempre più freddo e piove, ma lì di fronte c’è sempre una folla di giovani fantasmi con coperte in testa per ripararsi, come possibile, dal freddo. Aspettano la notte.
A qualcuno hanno detto che se riesci a resistere, ad aspettare fino a notte inoltrata, a volte, c’è un operatore anziano che ti fa entrare. Ad altri hanno detto, a Tuzla, che forse, quando arriverà la neve, ci saranno degli autobus italiani che verranno per portarli in Italia.
Un ragazzo non riesce più a sedersi per le ferite dovute alla scabbia. Gli diamo ciò che resta dei farmaci. A un altro che ha la febbre diamo un antinfiammatorio, sarebbe meglio assumerlo a stomaco pieno, ma lui non mangerà per oggi.
Giovani pakistani raccontano di essere stati picchiati selvaggiamente dalla polizia croata al confine, un loro amico diciassettenne è stato massacrato di botte da una poliziotta slovena, poiché rifiutava di firmare il foglio in cui era scritto che era maggiorenne.
Molte sono le torture di cui raccontano. Dicono che, in inverno, la polizia croata, dopo aver preso soldi, distrutto telefoni e bruciato vestiti, bagna le persone con acqua gelida e le lascia in un furgone con l’aria condizionata fredda accesa, al contrario dell’estate, quando li lasciano con l’aria condizionata calda.
Oppure, dopo avergli tolto le scarpe, usano i lacci per immobilizzarli ai polsi e poi li spingono giù per terreni scoscesi. Bastonano le persone coi manganelli per lunghissimi minuti, fino a fratturargli gli arti, poi li obbligano a tornare indietro verso la Bosnia.
Ci dicono di respingimenti operati informalmente e nottetempo dalle polizie croata, slovena e italiana, con un percorso a ritroso verso la Bosnia, e nessun documento scritto.
Quarto Giorno 31/10/19 – La città e l’incubo
Andiamo al campo di Vucjak, un enorme campo informale dove ci saranno almeno 800 persone..
Il campo si trova sulla linea di fuoco della guerra degli anni 90 e sono presenti numerosi campi minati nelle vicinanze..
All’ingresso c’è la polizia, ci chiedono i documenti e raccomandano di restare uniti. Piove, fa molto freddo, c’è fango e spazzatura ovunque, molte persone camminano tra grandi tende e tende più piccole. Molti non hanno che sandali. Le tende più ampie sono tutte fornite dalla mezzaluna rossa turca, sembra che siano state spostate qui dal campo di Bira.
Costantemente, con retate effettuate nelle città, le persone sono portate qui dalla polizia. Diversi ragazzi ci chiamano per mostrarci le tende in cui entra acqua, non hanno abbastanza vestiti e coperte, molti si sentono male. Capiamo che per loro è complicato anche solo raggiungere l’ambulatorio più vicino poiché la polizia non li fa uscire dal campo. Devono fare dei complicati percorsi per aggirare il blocco.
Il campo sembra la città di un futuro distopico o di un incubo. In mezzo al fango ci sono esercizi commerciali, una specie di bar e un mercato, e in alcune tende più grandi alcuni ragazzi impastano il pane in grandi bacinelle di plastica. In molte zone del campo ci sono fuochi, nei quali viene gettata anche la spazzatura. Ovunque c’è fumo nero e si sente odore di plastica bruciata.
Tra le tende e il fango si aggirano dei giornalisti, anche italiani, che riprendono le persone senza chiedere alcun consenso.
Ritorniamo nel parcheggio del campo Bira, dove come sempre, ci sono molti ragazzini che aspettano di poter entrare.
Alcuni pakistani ci parlano del fatto di non avere un posto dove stare e di non voler andare nella fabbrica abbandonata perché lì un ragazzo è morto di freddo. Dicono di aver visto il cadavere che veniva portato via da qualcuno venuto da fuori.
Un ragazzo di 16 anni ci mostra un’infezione diffusa a una mano e ci dice che ha bisogno di assistenza medica. Cerchiamo attraverso il cancello di parlare con persone che si occupino di minori, vediamo un ragazzo bosniaco che indossa la maglia di Save the children e gli urliamo attraverso le sbarre che fuori c’è un minore con un problema infettivo. Dice che non è sua responsabilità, ma dell’IOM e si allontana velocemente. Allora cerchiamo di chiamare una donna che invece indossa una maglia di IOM, costei ci dice che il ragazzo deve aspettare indicando un punto vicino alla recinzione. Intanto si rivolge in bosniaco a uno strano individuo di una certa età, vestito in borghese, che continua a guardarci con apparente sguardo di scherno.
Sembra che non parli inglese, dopo un po’ gli si affianca un’altra persona più giovane, alto, anch’essa in borghese che però sembra una specie di guardia del corpo. Ci chiede chi siamo e se facciamo parte di qualche associazione, diciamo di no, quindi ci dice lentamente ma decisamente che davanti al campo non si può stare, per problemi di sicurezza, e ci invita a lasciare l’area.
Più tardi scopriremo che l’individuo più anziano è il responsabile della polizia dell’ufficio stranieri.
Decidiamo di ripartire perché provati. Inoltre abbiamo finito tutti i farmaci ed evidentemente la nostra possibilità di agire è, per il momento, molto ridotta.
Tornando in macchina verso l’Italia incontriamo molte persone in cammino, nonostante il freddo e la pioggia.
Per noi il passaggio delle frontiere tra Bosnia e Croazia e tra Croazia e Slovenia è rapido. Il controllo è costituito da un rapido sguardo dentro la macchina e ai passaporti.
A un certo punto, a circa 20 km da Trieste, vediamo due ragazzi che camminano sulla carreggiata. Un centinaio di metri dopo, un cellulare della polizia fermo. Pensiamo di tornare indietro per fare qualcosa, avvertirli, prenderli con noi, ma già un’altra macchina della polizia era giunta ai ragazzi, dietro di noi, li aveva fatti sedere a terra e gli illuminava il volto con le torce. Un poliziotto che stava manovrando il cellulare per tornare indietro, si era fermato e aveva già aperto il portellone sul retro.
Trenta Giugno, zona di confine. Alle 10.00 di sabato 30 Giugno 2018, di nuovo, dopo l’ultimo sgombero, troviamo aumentate le persone che dormono sotto il ponte in via Tenda.
Vediamo circa una quarantina di giacigli. Alcuni uomini in piedi, altri ancora sotto le coperte. Chiediamo loro se hanno qualche problema di salute e ne visitiamo un paio.
Ci aiuta per la traduzione un ragazzo sudanese dall’aria molto tesa. La maggior parte di coloro che si sono fermati per passare la notte sull’argine del fiume sono giovani sudanesi. Decidiamo di salire l’argine fin dove è possibile. L’ambiente è ancora cambiato. Molti territori sono diventati paludosi e dopo il ponte dell’autostrada è difficile proseguire. Ritorniamo indietro guadando le insenature del fiume.
Durante questo percorso riconosciamo e fotografiamo diversi segni di presenza di persone in viaggio: carte da gioco che insegnano i pericoli delle ferrovie, detersivi per lavare i piatti appoggiati vicino all’argine del fiume, lamette riposte ordinatamente in modo da poterle riutilizzare, saponi.
Ci rendiamo conto che esseri umani in viaggio sul nostro territorio sono sempre più costretti a nascondersi e ad adattarsi a condizioni di vita assurde.
Coloro che incontriamo ci dicono che il campo della croce rossa è affollato, con circa 500 persone e che continuano le deportazioni al sud nei giorni feriali, con autobus della Riviera Trasporti. Molte persone, nell’impossibilità di fermarsi sull’argine del fiume durante il giorno, sono costretti a percorrere a piedi varie zone della città, senza una meta.
Andiamo in riva al mare. Anche lungo questo percorso riconosciamo luoghi di pernottamento.
Sulla spiaggia vediamo famiglie e giovani. Il dispiegamento di forze dell’ordine è ingente, anche perché in serata ci sarà una festa patronale che comporterà la chiusura al traffico. Dopo aver pranzato e parlato con Delia, ritorniamo verso via Tenda. Nel pomeriggio tardi passiamo all’infopoint Eufemia. Ci sono persone che conosciamo e tanti ragazzi che sono in attesa di vedere insieme i mondiali di calcio in streaming.
In effetti il calcio è anche il gioco più diffuso tra i giovani maschi in viaggio – ricordiamo ormai centinaia di partite (anche in ciabatte) sotto il sole a picco o al freddo pungente, sull’asfalto di un parcheggio.
All’infopoint visitiamo alcune persone e medichiamo ferite. Sulla porta ci si avvicina un ragazzo. Richiede farmaci antidolorifici come ossicodone e paracetamolo. Il ragazzo è magro, ha il viso tirato e occhi tristi. Chiediamo per quale motivo assuma questi farmaci. Si alza il pantalone e vediamo che c’è un evidente disallineamento delle ossa della gamba destra.
In Libia gli hanno fratturato la tibia ed il perone a scopo di tortura e l’hanno lasciato senza alcuna assistenza. La saldatura tra i capi delle ossa fratturate si è compiuta in modo incongruo, dando luogo ad un danno permanente e solo la chirurgia potrebbe migliorare la situazione. Ci dice che ovviamente camminare in questa condizione provoca dolori importanti su tutto l’arto inferiore dall’anca al piede. E’ già arrivato in Francia e per due volte è stato rimandato indietro alla frontiera.
Gli forniamo degli antidolorifici e cerchiamo di spiegargli che l’assistenza sanitaria in Italia è ancora universale e gratuita per chi non ha mezzi per pagare, che necessita di un intervento chirurgico e che a seguito di questo potrebbe camminare molto meglio.
Rifiuta questa idea, continuando a dirci che prima dovrà raggiungere la sua destinazione.
Ci rimane l’immagine della frattura, pensiamo a come sia possibile che continui a camminare con quel dolore, a tutte le persone torturate e danneggiate permanentemente che sono in viaggio, vittime di violenza dei nuovi campi di concentramento che il nostro Governo finanzia, in accordo con le strutture di potere europee.
Facciamo un giro con l’auto prestataci da una solidale. Arriviamo ai balzi rossi, passiamo la frontiera, sempre molto controllata.
Poi torniamo al parcheggio davanti al cimitero, dove volontari portano la cena. C’è un gruppo di cittadini della Val Roja che fornisce tavoli, fogli e colori per disegnare. Alcuni ragazzi sono impegnati, diversi disegni sono appesi alle grate che circondano il parcheggio. Un ragazzo sudanese disegna la bandiera della Palestina.
Arriva la cena. Ci saranno un’ottantina di persone. Pochi chiedono il nostro aiuto.
Si percepisce negli atteggiamenti e dagli sguardi dei giovani uomini che incontriamo, un malessere sempre maggiore. Immaginiamo che la durezza del viaggio, l’impossibilità anche di fermarsi un attimo per riposare, il fatto di essere costantemente in fuga, li esasperi.
La domenica mattina ritorniamo al parcheggio davanti al cimitero.
Assistiamo alla sveglia da parte della polizia delle persone che si trovano sotto il ponte. Ci avviciniamo loro e cerchiamo di parlare, ma la stanchezza e la tensione che si percepiscono rendono ormai la comunicazione molto difficile.
Alcuni ragazzi mangiano qualcosa su un pezzo di carta, per terra. Ci continuano ad offrire la colazione che si divino in sei o sette.
Dopo aver fatto diversi giri, semplicemente ci sediamo per terra nel parcheggio con loro. Ancora l’immagine irreale di un gruppo di ragazzi che gioca a pallone in un parcheggio. Sulla sinistra, un campo di calcetto sempre chiuso e vuoto, davanti il cimitero, a destra, l’inizio di un quartiere popolare abitato da immigrati calabresi il cui viaggio è ormai troppo distante perché possano venire a confrontarsi con i giovani che ci troviamo davanti.
Arriva un’auto rossa, un uomo molto grasso scende, arriva nei pressi dei ragazzi e offre a tutti sigarette. Rimane a parlare con diversi di loro per un po’, poi torna in macchina e resta a guardarli
Proponiamo un’analisi dei report redatti dai medici volontari che, da qualche anno, svolgono un’attività di cura e monitoraggio indipendente alla frontiera di Ventimiglia. Lo scopo è quello di individuare e mettere in prospettiva le problematiche sanitarie che si materializzano lungo il confine, cercando di risalire, quando possibile, alle cause politiche e istituzionali, più o meno dirette, che le determinano. La scelta di analizzare un “campione” di report che copra all’incirca un anno è motivata dalla volontà di avere uno sguardo il più possibile complessivo, tenendo conto dei mutamenti della situazione socio-politica e delle variazioni stagionali. Matteo Fano e Cecilia Paradiso sono dottorandi in antropologia all’ EHESS di Marsiglia.
Per prima cosa, vorremmo precisare che i nostri ambiti di ricerca non riguardano direttamente Ventimiglia, tuttavia si tratta di una situazione che conosciamo perché ne seguiamo gli sviluppi da qualche anno. Attraverso questo articolo, in particolare, vogliamo presentare le conseguenze sanitarie della chiusura della vicina frontiera con la Francia, al fine di mostrare l’insensatezza di tale misura che, non solo non risolve il problema della presenza di popolazioni migranti numerose e in condizioni di vita precarie, ma lo aggrava mettendo a rischio l’intera popolazione.
Svolgeremo tale compito attraverso lo sguardo di due medici italiani: Lia, ricercatrice in immunologia (che felicitiamo per il suo recente PhD), e Antonio, medico ospedaliero con 40 anni di esperienza. Entrambi erano impegnati in percorsi politici sull’accesso alle cure per le persone senza documenti già prima che, circa due anni orsono, cominciassero a recarsi a Ventimiglia regolarmente, una o più volte al mese, per curare i-le migranti in transito.
Quest’attività è resa ancora più importante e preziosa dal loro impegno politico: infatti l’esperienza diretta sul campo li ha portati a andare al di là delle semplici pratiche di cura, per portare uno sguardo critico della relazione tra le condizioni sanitarie riscontrate di volta in volta, le scelte politiche che le determinano e il loro ruolo di medici volontari. Tali analisi prendono la forma di report dettagliati che vengono redatti al termine di ognuna delle loro visite e poi diffusi su dei blog d’informazione e riflessione politica, come Parole sul Confine e Effimera.
In particolare, abbiamo deciso di concentrarci sui testi scritti tra novembre 2016 e dicembre 2017, per poter presentare qualche elemento di riflessione, rispetto all’evoluzione della situazione dall’estate 2015: a seguito, quindi, dell’implementazione dei regolamenti di Dublino. L’evento è significativo perché tale misura ha determinato la reintroduzione di controlli militarizzati alle frontiere interne dell’Unione Europea e il respingimento verso l’Italia di un numero sempre più elevato di migranti. Già solo nell’arco della prima settimana, a metà giugno 2015, centinaia di persone si sono ammassate a Ventimiglia: era l’inizio di una successione di eventi, dei quali stiamo ancora osservando gli sviluppi.
Ci sembra opportuno, in incipit, fornire un minimo quadro spaziale, rispetto ai vari campi e luoghi d’accoglienza approntati in città a partire dall’estate 2015:
– Il campo della Croce Rossa: inizialmente situato in prossimità della stazione ferroviaria e poi spostato in una zona industriale a 3 chilometri dal centro. Circolano poche informazioni ufficiali su di esso, ma, grazie alle testimonianze dei-delle migranti, sappiamo che i posti disponibili nei container sono all’incirca 300, mentre il numero delle persone può variare tra 200 e 900: nei momenti di massima affluenza, indipendentemente dalla stagione, si ricorre a delle tende.
– Tre campi informali, autogestiti da assemblee di migranti e solidali, succedutisi temporalmente, tra la fine dell’estate 2015 e la primavera 2016, e quindi sgomberati, uno dopo l’altro, dalla polizia italiana.
– Dei luoghi d’accoglienza gestiti dalla comunità cattolica, locale e non. In particolare, la chiesa di Sant’Antonio, lungo il fiume Roya, nella quale sono stati accolti famiglie, donne e minori, fino al luglio 2017, quando le autorità ne hanno imposto la chiusura, nell’intento di concentrare la totalità della popolazione migrante nel campo della Croce Rossa.
– Infine il campo informale e spontaneo, installato lungo il letto del Roya e a tutt’oggi abitato[1]. Questo si sviluppa principalmente nelle zone riparate dai ponti ferroviari e autostradali, ma si estende anche oltre, in quelle zone del letto del fiume, dove più fitta è la vegetazione. Si calcola che ci vivano in media 200 persone, anche se il calcolo non può che essere approssimativo.
Attorno ai vari campi, e in città, si concentra l’azione di vari attori:
– Gli operatori della Croce Rossa.
– I volontari delle associazioni cattoliche e della CARITAS.
– Il personale delle grandi ONG (Come MSF, INTERSOS, AMNESTY INTERNATIONAL e ANAFE) che, dal canto loro, non hanno investito fondi considerevoli in loco e hanno, fino ad ora, condotto principalmente un lavoro di documentazione e redazione di rapporti.
– Infine, attivisti e militanti solidali, locali e non, presenti in città fin dall’estate 2015. Questi, sebbene organizzati in più gruppi a seconda degli orientamenti politici, sono legati da una dinamica di collaborazione finalizzata al sostegno ai migranti. Tale sostegno, come in ogni contesto di lotta “no border”, si esprime sia attraverso rivendicazioni politiche, che attraverso pratiche di solidarietà diretta. Tale rete è stata duramente colpita dalla repressione poliziesca e giudiziaria che si è materializzata in obblighi a lasciare il territorio (fogli di via), in altri provvedimenti giudiziari, ma anche in pressioni e divieti di altro tipo (un esempio su tutti: l’ultimo punto d’informazione e distribuzione di beni di prima necessità dedicato ai-alle migranti è a rischio di sfratto, nonostante in possesso di un regolare contratto di locazione).
E’ proprio tra questi solidali che ritroviamo Lia e Antonio, i due medici che, come abbiamo accennato, da due anni intervengono a Ventimiglia, in quelle zone in cui le istituzioni latitano: inizialmente nei campi autogestiti poi, in seguito agli sgomberi, nella chiesa di Sant’Antonio e infine, quando anche questa è stata chiusa, lungo il letto del fiume.
Vogliamo ancora una volta ringraziarli per il loro lavoro instancabile di cura e di documentazione che ci ha permesso di individuare alcuni nodi attorno ai quali si strutturano delle questioni sanitarie specifiche, in cui fattori di natura differente (amministrativa, politica, sanitaria, personale) si rafforzano vicendevolmente, minando la salute (e la dignità umana) di quei migranti che restano restano bloccati, sospesi in uno spazio tra “due paesi”.
La prima constatazione ha a che vedere con le condizioni materiali di vita alla frontiera: dai report di Lia e Antonio emerge un contesto del quotidiano che si dimostra fonte di problematiche sanitarie, in sé e a causa dello stile di vita a cui conduce, con conseguenze sul piano fisico e psicologico.
Nel frattempo varie persone dall’aspetto quanto meno losco si avvicinano ai ragazzi per parlargli, uno si allontana con due di loro che stanno portando l’acqua. Ci accorgiamo che il tipo losco ha comprato una bottiglia di whiskey e sono già mezzi ubriachi quando arrivano al campo.
Proviamo a parlare con loro del fatto che molti soggetti pericolosi tenteranno di approfittarsi della loro situazione e che bere molto non li aiuterà di certo, il nostro quasi collega ci risponde: “Is this place, my brain is lost”.
Si può citare, per prima cosa, l’insalubrità di tutti i luoghi di vita, compreso il campo della croce rossa. Questo, da quando la chiesa ha chiuso le sue porte, rimane l’unica struttura ufficiale ancora in funzione ma le condizioni di vita al suo interno non sembrano essere qualitativamente migliori rispetto a quelle lungo il fiume: vi si incontra la stessa promiscuità e, come afferma questo giovane, vi si sente lo stesso freddo:
Un ragazzo eritreo “ospite” del campo della Croce Rossa, con una ferita al piede, ci dice che, anche lì dorme in una tenda e quindi ha ugualmente molto freddo.
«Dicembre a Ventimiglia. Ovvero, il gelo 3 dicembre 2016»
Inoltre, il campo è distante dalla città e raggiungibile solo attraverso una strada a scorrimento veloce, lungo la quale si sono già verificati incidenti mortali.
Ma ciò non basta a spiegare perché moltissime persone (anche con figli piccoli) si rifiutino di recarvisi, almeno altri due ordini di ragioni influiscono su questa scelta:
– innanzitutto la diffidenza nei confronti della Croce Rossa: una diffidenza che per alcuni rimonta ad esperienze, dirette o in dirette, vissute nei paesi di origine o in quelli di transito, principalmente in Africa;
– quindi, l’assoluta priorità del progetto migratorio, a cui è subordinata la valutazione dell’opportunità di ogni possibilità. In questo caso, ad esempio, l’obbligo di lasciare le proprie impronte per accedere al campo è vissuto come inaccettabile, poiché potenziale ostacolo alla possibilità di stabilirsi nella destinazione prescelta; ma anche la paura di essere arrestati e deportati verso il sud Italia ha il suo peso: il campo lungo il fiume serve, quindi, anche come una sorta di zona franca, dove è più difficile l’ingresso della polizia e più facile un’eventuale fuga):
Discutiamo con vari giovani sudanesi sulle condizioni del campo della croce rossa […] Ci dicono che molti operatori hanno con loro atteggiamenti offensivi e autoritari, li spingono, non gli consentono di stare all’aperto. Devono stare immobili in luoghi per loro adibiti. Il cibo sembra essere pessimo e spesso insufficiente per tutti gli ospiti. Un ragazzo sudanese che parla molto bene in italiano ci spiega che la situazione del campo non è buona, ma anche che i sudanesi hanno sfiducia nella croce rossa. Dice che nel suo paese ci sono stati campi della croce rossa e che, mentre fuori c’è la guerra e vengono usate armi chimiche, la Croce Rossa nega tutto questo.
D’altro canto, anche nel campo informale sul fiume le condizioni di salute dei migranti si degradano velocemente: a parte il rischio rappresentato da eventuali piene del fiume (un rischio molto concreto dal momento che ha già lasciato un morto sul terreno), Lia e Antonio testimoniano di condizioni di vita tali da aver ormai reso certe patologie “tipiche” di tale contesto. Ad esempio: l’insalubrità dei luoghi favorisce lo sviluppo e la diffusione d’infezioni dermatologiche e di parassiti.
I ragazzi che sono con lui hanno tutti delle forme di scabbia molto vecchie, dicono da mesi, alcuni con evidenti infezioni batteriche. Uno di loro ci dice in italiano che ha avuto un morso di topo all’orecchio mentre dormiva. […]. È gonfio e c’è del pus. Ha altre lesioni con pus sul corpo.
Altri passaggi, invece, testimoniano dell’impossibilità di mantenere pulita una piaga o della sovraesposizione alle malattie dell’apparato respiratorio, dovuta al modo di vita all’aria aperta, senza ripari adeguati.
Un’analisi della situazione su una temporalità lunga permette di mettere in evidenza fino a che punto le scelte politiche e istituzionali abbiano contribuito al peggioramento delle condizioni di vita e della salute delle persone. Tali scelte, infatti, mirano ad ostacolare la permanenza delle persone, impedendogli di soddisfare quelli che si definisco bisogni primari, giustificandosi attraverso l’argomento “umanitario” dello scoraggiare potenziali nuovi arrivi.
Si tratta di una vera e propria strategia politica, teorizzata da alcuni attori istituzionali, come dimostrano le dichiarazioni del sindaco di Ventimiglia Ioculano (PD) in occasione di un incontro con gli operatori delle ONG, durante il quale l’acqua potabile, il cibo e le cure mediche sono stati definiti pulling factors, ovvero dei servizi la cui accessibilità incondizionata favorirebbe l’arrivo e la permanenza dei migranti su un territorio.
Facciamo qualche esempio concreto per illustrare le conseguenze materiali di una tale strategia:
– In primis, l’accesso all’acqua potabile, che è stato al centro di una vera e propria battaglia silenziosa. Tutto è cominciato quando Lia e Antonio hanno iniziato a spingersi nel campo sul greto del fiume e subito hanno constatato la diffusione di patologie gastro-intestinali. La chiave di lettura del fenomeno viene fornita da un giovane africano che, prima della partenza verso l’Europa, studiava medicina: in mancanza di una fonte di acqua potabile, i migranti lì accampati bevevano l’acqua del fiume. I due medici, allora, riescono a mobilitare una piccola rete di solidali e ad individuare, proprio a pochi metri dall’area più densamente popolata, un rubinetto collegato alla rete idrica comunale: tuttavia questo era stato manomesso, sottraendone la maniglia. I solidali reagiscono prontamente per sostituirla, ma dovranno ripetere l’operazione a più riprese perché tale maniglia sarà ogni volta asportata dagli abitanti o dagli agenti del comune.
– Un altro esempio è quello del cibo: insufficiente e di bassa qualità, tanto nell’accampamento informale, che in quello della croce rossa, e di cui il Comune, tramite ordinanze, ha interdetto la distribuzione nello spazio pubblico. È evidente che tale situazione non può che contribuire all’indebolimento ulteriore delle persone, già provate dal viaggio e dalle condizioni di vita.
– E infine, come dimostrato dal seguente estratto, persino le visite mediche finiscono per essere considerate dei “servizi” che incoraggiano la presenza dei migranti.
In questo caso, per alcuni giorni un ambulatorio esterno di fortuna è fornito da un gruppo di infermieri scozzesi che hanno costruito un’unità di strada per l’assistenza di base e che dopo Calais, Parigi e Ventimiglia, si recheranno a Como. Da segnalare in questo caso che ci riferiscono che la polizia ha perquisito la suddetta unità e li ha informati dell’esistenza di una fantomatica ordinanza del sindaco che vieterebbe qualsiasi contatto con i migranti, inoltre li avrebbero informati del fatto che in Italia non è possibile esercitare professioni sanitarie in strada.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Ventimiglia è solo una delle tappe di un viaggio che può durare qualche mese come vari anni e che possiamo considerare, nel suo insieme, come patogeno.
Vogliamo dire che, spesso, le patologie incontrate dai due medici hanno origine altrove, anche se è innegabile che qui si aggravino a causa della permanenza forzata in una situazione che ostacola anche le più semplici procedure di prevenzione, gestione e cura delle malattie.
Rimuoviamo un’agocannula in una persona con un edema evidente agli arti inferiori allontanatasi spontaneamente dall’ospedale. Gli chiariamo che quella scelta a nostro avviso è stata un errore, ma rimuoviamo comunque l’accesso venoso, poiché avrebbe costituito una pericolosa via d’infezione in una situazione come quella.
Allo stesso modo, i numerosi traumi riscontrati da Lia e Antonio sono per la maggior parte legati ad “incidenti” di viaggio avvenuti altrove. A questo proposito possiamo individuare tre diverse eziologie:v
– Le violenze inflitte direttamente da qualcuno (ad esempio quelle legate ad episodi di tortura, subiti in Africa, come nell’esempio seguente, ma anche in Italia):
Vogliamo auscultargli il torace per capire se c’è qualche problema polmonare percepibile. Vediamo che la schiena è piena di cicatrici. Per capire di che si tratta ci facciamo fare la traduzione della sua storia al telefono da sua sorella maggiore, emigrata molti anni fa negli USA. È una storia molto istruttiva di mala-sanità internazionale. Inizia l’anno prima in Darfur (vedi introduzione del documento Who per lo stato del sistema sanitario in quell’area), quando A. arriva, per esasperazione, ad urlare contro il medico che seguiva sua madre per una malattia cronica. Dice che la sua famiglia non riusciva a pagare l’assistenza sanitaria ed erano disperati. Durante questa lite, il medico chiama la polizia, questa arriva e porta A. in carcere. Lì viene tenuto per due mesi, dove viene quotidianamente frustato e, a detta della sorella, “gli succede tutto ciò che c’è di male”. Non approfondiamo troppo anche perché la comunicazione è difficile. A. è preoccuato che rivelarci queste cose porterà a qualche problema per lui o per la sua famiglia. Viaggia con due bambini piccoli (che sono tra quelli che hanno raffreddore e febbre) e la moglie.
– l’inadeguatezza delle condizioni di viaggio (Ad esempio, il fatto di camminare per lunghe distanze, indossando scarpe di una misura inferiore alla propria; o di intraprendere sentieri di montagna senza averne le competenze necessarie);
– E, infine, le risposte delle istituzioni (e pensiamo, in particolare, alla militarizzazione della frontiera che obbliga i migranti a cercare degli stratagemmi sempre nuovi e sempre più pericolosi per oltrepassarla, con il risultato che, dal 2015, una ventina di persone sono morte nel tentativo di raggiungere la Francia: alcuni investiti mentre camminavano sul bordo dell’autostrada; altri fulminati mentre erano nascosti nel locale tecnico dei treni; altri ancora caduti in montagna mentre percorrevano un sentiero).
Dalla lettura delle testimonianze dei due medici, una constatazione s’impone in modo evidente: Ventimiglia, proprio come Calais o Lampedusa, si configura come un “collo di bottiglia” dove qualsiasi fenomeno patologico, indipendentemente dalla sua natura, tende a aggravarsi. Inoltre, tutta questa situazione non ha conseguenze esclusivamente sul fisico delle persone, ma anche sul loro stato mentale: a tal proposito, alcune testimonianze mettono in evidenza la disperazione, l’apatia e il malessere in cui vivono i migranti a Ventimiglia. Una condizione che spinge alcuni ad annegare i pensieri nell’alcool.
Diversi, tra questi gruppi, hanno bottiglie di plastica tagliate a metà, che usano come bicchieri per bere del vino. Ne parlano con noi abbastanza tranquillamente, dicendo che è quel posto che li induce a bere.
Capiamo, allora, sempre meglio il sentimento di frustrazione che traspare da questi scritti: in un tale contesto, in cui gli interventi sanitari non sono né regolari, né coordinati tra gli attori, la messa in opera di vere e proprie strategie di cura è impossibile perché, come dichiarano i due medici, non c’è nessuno a cui affidare il lavoro svolto. Ne risulta una situazione caotica, in cui azioni diverse si giustappongono e sovrappongono una all’altra fino a diventare inutili, se non dannose e, a volte, persino caricaturali… Se solo non si avesse a che fare con la concreta sofferenza di altri esseri umani. A tal proposito, vogliamo citare la storia di un ragazzo sudanese di 30 anni:
Non parla inglese quindi con l’aiuto di un altro connazionale ci mostra l’avambraccio destro molto gonfio. Dice di essere stato sottoposto a una iniezione non meglio definita qualche giorno prima. È molto preoccupato. Gli chiediamo chi fosse stato e per quale motivo, ma non ci sono risposte. Si capisce dalla localizzazione e dal tipo di reazione che si tratta di una intradermoreazione alla tubercolina. Chiediamo quindi spiegazione ai volontari della caritas. Questi ci spiegano, in preda all’ansia, come qualche tempo prima presso un ospedale locale ad un uomo loro “ospite” fosse stata fatta diagnosi di tubercolosi. A seguito di ciò i volontari della caritas avevano chiesto l’intervento della ASL a scopo preventivo per ospiti e volontari presenti nella comunità. Dopo molte resistenze sembra che alcuni operatori della ASL si siano recati presso la parrocchia di S Antonio e abbiano fatto il test di intradermoreazione alla tubercolina solo a 12 uomini, senza ottenere il loro consenso informato, ovvero il tanto sbandierato atto obbligatorio per l’attuazione di qualsiasi procedura medica che coinvolga il corpo di noi “bianchi” e (almeno altrettanto grave), senza che la positività all’intradermoreazione fosse successivamente controllata. In altre parole, sono state sottoposte al test solo alcune delle persone esposte all’eventuale contagio, ma non è stata controllata successivamente la positività o negatività del test. Infatti questo è un test intradermico che evidenzia l’avvenuto contatto del sistema immunitario con il bacillo tubercolare (e non la presenza di malattia in atto) e la cui risposta va controllata da un clinico 48 e 72 h dopo l’intradermoreazione stessa. I controlli positivi devono essere sottoposti a RX torace (linee guida ministero della Salute). Tali controlli non sono mai stati effettuati. Diversi uomini il sabato mattina (48h dopo) presentavano positività all’intradermoreazione anche molto forte ed erano molto turbati da ciò che succedeva al loro avambraccio. Ugualmente turbati erano i volontari della Caritas a cui non è stato spiegato nulla.
Questo estratto dimostra come, proprio qui all’interno dell’Europa, il diritto alla salute perde, de facto, la sua universalità per diventare una conseguenza dello status amministrativo.
Le politiche trattate finora sono il risultato di un approccio estremamente miope al fenomeno migratorio contemporaneo, del quale si dà una lettura oltremodo semplificata.
Quest’ultimo è, infatti, considerato come un’urgenza contingente: un momento di crisi a cui bisogna portare risposte in grado di farci “resistere” fino al futuro ristabilimento della “situazione normale”, quella “di prima”, quando è chiaro ci troviamo di fronte ad un processo globale, destinato a cambiare il volto demografico di Ventimiglia e dell’Europa intera. Le conseguenze di tale fenomeno dipenderanno dalla nostra capacità di approntare strategie efficaci a livello strutturale. Tuttavia, l’attuazione di tali strategie diventa impossibile nel contesto attuale.
D’altra parte, è evidente che interventi come quelli miranti a scoraggiare l’arrivo e l’installazione dei migranti tramite la soppressione dei cosiddetti pulling factors siano destinati all’insuccesso: del resto, parliamo di persone che non hanno alternative per proseguire il loro viaggio. Un viaggio nel quale hanno investito troppo (denaro, sofferenza, aspettative, speranze) per tornare indietro… Il solo risultato di tali strategie è di rendere le condizioni di vita delle persone ancora più dolorose: nient’altro.
Ma c’è un ultimo aspetto che vorremmo sottolineare. A Ventimiglia, come altrove, la questione va ben al di là della preoccupazione umanitaria per la salute di questi “viaggiatori illegali”:
– Per prima cosa perché il rischio sanitario riguarda direttamente anche gli “europei”: infatti le condizioni di vita non igieniche e l’assenza di un’efficace sistema di cure non possono che favorire la diffusione di epidemie, i cui agenti patogeni, dal canto loro, non guardano né la nazionalità, né il visto sul passaporto.
– E, infine, perché in assenza di politiche sanitarie strutturali, gli episodi patologici finiscono per essere trattati tardivamente e/o, in mancanza di alternative, inviati al pronto soccorso. Questo non solo ha un costo più elevato per la comunità, ma determina anche la sovrasollecitazione del servizio, aumentando il tempo d’attesa degli altri pazienti.
Concludendo, vorremmo portare l’attenzione sui risultati delle ultime elezioni politiche a Ventimiglia. La Lega ha visto aumentare i propri consensi dal 6% del 2013 al 29%. E’ chiaro, e lo notiamo con estrema amarezza, che in questo clima di isteria generale, sapientemente fomentato per interessi elettorali, il populismo sta avendo la meglio sull’empatia umana e sul buon senso.
Ancora una volta ci chiediamo quale sia lo scopo di mantenere l’accoglienza ai-alle migranti in simili condizioni e invitiamo a riflettere sulle conseguenze politiche e sociali di tutto ciò.
Matteo Fano, Cecilia Paradiso
[1]Durante il lavoro di redazione del presente contributo, i media hanno riportato la notizia dello sgombero anche di questo campo, avvenuto il giorno 18 aprile. Ancora una volta, l’azione repressiva è stata ufficialmente giustificata come un obbligo umanitario, come un atto dovuto, a causa dell’insalubrità e della pericolosità del luogo. Il lavoro di ricerca che ha portato alla stesura del presente articolo, ci rende impossibile credere alla buona fede di tali dichiarazioni: ancora una volta si cerca di nascondere un’azione dettata da interessi politici di breve termine e dalle conseguenze potenzialmente disastrose, dietro un discorso che, alla luce dei fatti, è inconsistente e senza prospettiva alcuna.
Partiamo a ora di pranzo. Non c’è molto tempo questa volta ma abbiamo appena ricevuto una donazione di farmaci.
Soprattutto vogliamo andare a verificare se, con l’arrivo delle temperature invernali, ci sono persone abbandonate al gelo e quante sono
Purtroppo, la realtà supera ampiamente le nostre previsioni. Giunti in prossimità della ferrovia in via Tenda, osserviamo dall’alto un gran numero di persone in piccoli gruppi, alcuni vicini ad un fuoco, altri che entrano negli anfratti del ponte. Accanto a noi passa un ragazzo in maglietta e pantaloni corti. Sono le 16.30, il sole sta per tramontare e la temperatura si sta abbassando rapidamente.
Ci avviciniamo al primo gruppo di persone a livello della chiesa di Sant’ Antonio ormai silenziosa e spenta. Chiediamo se hanno bisogno di aiuto e informiamo che siamo medici: sono un gruppo di persone sudanesi, presentano malattie evidenti dell’apparato respiratorio, scabbia e traumi da percorsi accidentati in montagna.
Visitiamo circa una trentina di persone, in prevalenza assoluta, come già detto, affette da problemi respiratori, che nelle condizioni attuali non possono che complicarsi nonostante.
Il problema è evidente, a chi abbia occhi e cuore, circa 300 persone sono abbandonate all’addiaccio con temperature che al momento della nostra partenza sono di circa 5 gradi e nella notte saranno ulteriormente più rigide.
Le persone, in prevalenza sudanesi, eritrei spesso minorenni, ma con la presenza anche di pakistani e di persone provenienti dall’Africa Sub Sahariana, si aggirano con vestiti inadatti, avvolti in coperte e intorno a bracieri di fortuna.Incontriamo, anch’essa sdraiata ed avvolta da coperte una ragazza eritrea al quinto mese di gravidanza che si rifiuta assolutamente di recarsi nel campo della Croce Rossa. La ragazza Eritrea non parla inglese, persone che ha conosciuto a Ventimiglia ci dicono che ha 17 anni, ha finito i soldi ed è sola.
Peraltro, un ragazzo eritreo “ospite” del campo della Croce Rossa, con una ferita al piede, ci dice che, anche lì, nel campo Roia, dorme in una tenda e quindi ha ugualmente molto freddo.
Parliamo con molti minorenni. Un ragazzino di 15 anni eritreo e un altro di 17. Gli diciamo di cercare di parlare con l’avvocatessa spesso presente presso l’infopoint Eufemia. Per il più piccolo, cerchiamo di capire se abbia qualche parente che vuole raggiungere in Europa, ma ci risponde che non ha nessuno: no family. Vuole andare in Inghilterra.Un altro ragazzo eritreo ci chiede se parliamo inglese. Non vuole assistenza sanitaria. Vuole dirci soltanto che quel posto è terribile e che lui ha soltanto bisogno di andare a scuola, di lavorare, di mandare soldi alla sua famiglia, ha 22 anni.
Dopo aver chiesto a varie persone se hanno bisogno di noi e visitato dapprima un gruppo di pakistani e quindi un numeroso gruppo di persone sudanesi, aiutati nella traduzione da un ragazzo sudanese che parla inglese molto bene, ci accorgiamo della presenza di una famiglia con 2 bambini.La madre vestita con una giacca leggera, i bambini saltellanti ci salutano stringendoci le mani con le loro manine gelate. Vengono raggiunti da un volontario dell’organizzazione francese e si allontanano per andare a cercare nel loro furgone qualche vestito più pesante.
Incontriamo sulla via del ritorno un amico solidale sudanese. Ci conferma che da quando la chiesa di S Antonio ha chiuso, le donne e le famiglie ormai dormono lungo il fiume. Afferma di aver più volte tentato di indurre queste persone con bambini a trovare rifugio nel campo della Croce Rossa. Almeno per coloro già identificati tramite le impronte digitali nel luogo di sbarco. Il campo Roia, come più volte denunciato è inadeguato ed illegale nella gestione ed accoglienza soprattutto dei minori e delle donne, ma se non altro in questa situazione di urgenza può fornire almeno un luogo coperto. Comunque la diffidenza è troppa, il diniego è assoluto.
Ritornando in via Tenda troviamo aperta la saracinesca dell’infopoint Eufemia. Ci sono due giovani solidali spagnoli. Li informiamo che abbiamo indicato a diverse persone di recarsi domani da loro per il cambio di abiti e per il freddo intenso. Ci informano di avere un po’ di abiti, non molti.
Durante il viaggio di ritorno l’angoscia è grande.
Poco riusciamo a fare e ci chiediamo se sia possibile una presa di coscienza della società civile, almeno ora. In questa situazione di vera urgenza, le istituzioni latitano completamente, anzi la nuova ordinanza del sindaco che vieta la somministrazione del cibo ai migranti, emessa per la terza volta, cristallizza l’indecente espressione del potere.
Partiamo al mattino da Genova per Ventimiglia, portiamo con noi una confezione da 1 kg di anti-scabbia galenico fornitoci gratuitamente da una farmacia di Genova.
Dopo un breve ma caldo incontro con Delia nel suo locale, ci rechiamo in bici presso l’info-point Eufemia, in via Tenda.
Mentre ci accordiamo con loro per eventuali consulti a distanza, rumori e voci dall’esterno dell’info-point ci informano che una manifestazione anti migranti sta percorrendo la via su cui si affaccia.
Il gruppo di manifestanti è composto da una cinquantina di persone prevalentemente di mezza età, espressione di questo territorio assai provato, periferia nella periferia. Urlano improperi e minacce in un forte accento calabrese e fanno gesti volgari nella direzione dei solidali. Gli striscioni recitano “Ventimiglia libera”, “vogliamo indietro la nostra città” e frasi simili. Questo breve video rende l’idea della scena che ci si è parata davanti.
Tentiamo di rispondere alle provocazioni ricordando che siamo tutti un po’ emigrati, ma le nostre parole vengono ignorate.
Dopo questo triste spettacolo, ci rechiamo, come sempre, verso il ponte, accompagnati da un giornalista free-lance e da un’infermiera milanese. Appena discesi nell’area dell’argine del fium,e antistante alla chiesa di San Antonio, incontriamo i primi gruppi di ragazzi. Vediamo una distesa di sacchi a pelo e coperte, saranno almeno duecento. Fa freddo, alcune persone sono coricate lì e cercano di scaldarsi con le coperte. Quasi tutti quelli che visitiamo hanno influenza o bronchite. Ancora diversi casi di scabbia. Forniamo il farmaco e li indirizziamo presso l’info-point per il cambio degli abiti.
Vediamo su un divano un gruppo di uomini e una donna. Cerchiamo di parlarle per capire la sua situazione, ha evidentemente avuto dei traumi al volto. È ipovedente, ci spiega che cade spesso accidentalmente riportando diverse ferite. È incinta al terzo mese, ma non vuole stare al centro della croce rossa perché è troppo lontano. Quando cerchiamo di indagare ulteriormente e si rifiuta di parlare.
Dopo poco, un ragazzo apparentemente sudanese accompagna da noi una giovane ragazza eritrea che presenta dolori all’addome e diarrea per aver bevuto quotidianamente l’acqua del fiume. Le diamo una terapia antibiotica, con difficoltà per la barriera linguistica e cerchiamo, nonostante questa, di indirizzarla verso l’info-point Eufemia, dicendole che ci sono avvocati e persone che possono aiutarla.
Diversi, tra questi gruppi, hanno bottiglie di plastica tagliate a metà, che usano come bicchieri per bere del vino. Ne parlano con noi abbastanza tranquillamente, dicendo che è quel posto che li induce a bere. Uno di loro è un ingegnere, parla diverse lingue ed è molto interessato a partecipare alle nostre visite. Ci racconta di avere una sensazione come di “acqua nell’orecchio”, da quando lo hanno colpito con il calcio di un fucile in Libia. Chiaramente per una cosa del genere possiamo solo dare qualche spiegazione o consiglio.
Mentre continuiamo a visitare gente con influenza, bronchite e scabbia prevalentemente, arriva un ragazzo ghanese. Parla sia italiano che inglese. È appena arrivato da Lecce, dove vive in un centro di accoglienza straordinaria. È molto sorpreso della situazione, ci chiede come sia possibile che tutte queste persone stiano nella strada. Dice che tutti nel suo paese gli hanno detto di andare in Francia, per cui era partito con questa convinzione, che credeva giusta. La vista della situazione di Ventimiglia gli ha fatto immediatamente cambiare idea. Ci racconta che anche nel centro dove vive a Lecce c’erano dei problemi, ma che i ragazzi residenti si erano organizzati, avevano manifestato, ottenendo come risultato un importante miglioramento delle condizioni di vita.
Parliamo del problema delle impronte digitali e dell’imposizione del regolamento di Dublino. Scherza dicendo che un africano dovrebbe lasciare le mani in Africa e venire in Europa senza.
Dice, che differenza c’è tra questo posto e l’Africa?
Quindi ci lascia dicendo che Lecce è una bella e grande città e che ci sono molti migranti, sarebbe tornato subito alla stazione a prendere il treno.
Per fortuna, dopo questa giornata angosciante, possiamo andare a rifugiarci a casa di persone solidali e amiche che ci ospitano spesso.
Il giorno dopo, insieme a queste persone solidali, ci rechiamo nuovamente a Eufemia e da li, ancora con l’infermiera, ricominciamo il giro. Ci sono da fare molte medicazioni, il solito problema dei chilometri percorsi con scarpe di taglia sbagliata.
Percorriamo anche tutto il corso del fiume e re-incontriamo la ragazza eritrea con il gruppo degli uomini con cui era il giorno prima. Sembra stare meglio. Preparano tutti insieme da mangiare con una padella su un piccolo fuoco.
Pensiamo di chiedere aiuto telefonicamente a una persona eritrea che conosciamo, per capire se la ragazza si senta in pericolo o sia accompagnata da qualcuno di sua fiducia. Mandiamo dei messaggi a questa persona amica spiegando la situazione della ragazza.
Passano molto tempo al telefono, la ragazza si allontana, poi ci chiama. Riusciamo a capire che è con suo marito, che chiaramente non vorrebbe rimanere in quel posto, ma non può andare via da sola. Ha avuto un forte trauma alla testa, per cui è preoccupata, durante il naufragio e l’incendio della barca con cui ha attraversato il mare. Riconfermiamo la terapia e che stia meglio dopo averla iniziata, e le raccomandiamo nuovamente di cercare le persone solidali in caso di bisogno.
Come spesso accade in questa zona, le persone presenti ci offrono il poco che hanno da mangiare. Anche se gli siamo molto grati per la proposta, dobbiamo continuare il nostro giro lungo il fiume.
Ritornando nel piazzale del cimitero, visitiamo un gruppo di afghani, anche loro con problemi respiratori e gastrici.
Amelia Chiara Trombetta
Antonio Gerardo Curotto
Pubblicato anche su http://effimera.org/ventimiglia-libera-amelia-chiara-trombetta-antonio-g-curotto/
Questa volta siamo arrivati a Ventimiglia a ora di pranzo il 21/10/17.
Avevamo già avuto qualche notizia relativa alla presenza di un gran numero di persone sul fiume (230-240 persone in tutto, circa 50-60 arrivi a notte) da solidali presenti sul campo. Il cambiamento delle rotte ha fatto sì che molte persone provengano ora da paesi diversi dal solito, come la Tunisia. La presenza del centro della croce rossa rende possibile che chiunque in Italia si trovi in una situazione più o meno disperata, pensi di andare a dormire lì per qualche giorno.
Ci avevano anche avvisato che molti sono affetti da scabbia e che diverse persone presentavano ferite infette ai piedi e non avevano nessun accesso ad alcun genere di terapia.
Era per noi anche molto importante verificare se ancora fosse presente l’accesso di fortuna all’acqua potabile installato solo grazie a persone solidali.
Riusciamo ancora una volta a sostenere le spese per il viaggio e per l’acquisto di farmaci d’urgenza grazie all’aiuto dei volontari dell’associazione ambulatorio città aperta e del collettivo genovese AUTAUT.
Giunti alla stazione, vediamo che permane un gran numero di persone all’esterno della stessa, anche donne e bambini. Ci rechiamo al bar di Delia dove in numero delle persone che sono sedute dentro è diminuito, ma persiste un certo via-vai. Richiedono il suo aiuto per caricare la batteria del cellulare o per usare il bagno. La sua ferma disponibilità non cambia, nonostante le molte vicissitudini che ha attraversato da quando la conosciamo. Multe, lutti, malattie. Continua ad essere anche disponibile per aiutarci nel nostro lavoro in diversi modi e interessata a come stiano le persone che visitiamo. Inoltre è evidentemente turbata dall’assenza di un centro per madri e bambini che continuano comunque a passare dal suo locale.
Una ragazza nigeriana da sola, molto giovane, si guarda intorno come se aspettasse qualcuno.
Salutandola e chiedendole come stia ci rendiamo conto che parla italiano e inglese. Dice che si recherà in Francia da suo marito, che andrà in treno. Dopo alcune raccomandazioni, le diciamo che resteremo da quelle parti per due giorni e di contattarci se avesse bisogno di aiuto.
Raggiungiamo il fiume, sul cui greto evidentemente soggiornano molte più persone di quelle presenti quando arriviamo. C’è una distesa quasi continua di coperte. I primi che incontriamo sono un gruppo di sudanesi, alcuni di loro sono stesi e quando ci vedono arrivare ci offrono dei panni per coprirci, poiché dicono che fa molto freddo. Molti sembravano avere delle infezioni delle vie respiratorie, qualche gastroenterite, scabbia. Alcuni hanno camminato per molti giorni con scarpe troppo piccole e hanno degli ascessi delle dita dei piedi.
Un ragazzo dice di avere molto dolore alla schiena da quando ha subito torture in Libia, dove lo hanno bastonato ripetutamente. Ha molte cicatrici lungo la colonna vertebrale.
Un altro ragazzo con una gamba più gonfia dice di avere difficoltà quando cammina. In Libia gli hanno sparato in una coscia e il proiettile è fuoriuscito posteriormente. Visitandolo si sente chiaramente che a quel livello c’è un alterato flusso di sangue, come se dei vasi fossero stati interrotti e si fossero poi ripristinati in maniera anomala. Gli spieghiamo che dovrebbe fare delle visite approfondite e diversi esami diagnostici al più presto per capire cosa è successo. Come tutti vuole partire al più presto, teme anche che avere un documento proveniente dall’Italia potrebbe comportargli dei problemi in futuro, per cui si allontana.
Verso sera raggiungiamo un’altra zona del fiume, dove si trovano giovani ragazzi provenienti dall’Afghanistan. Molti di loro hanno vissuto in Italia e parlano italiano molto bene. Solidali presenti sul territorio ci dicono che temono di uscire dall’area del fiume perché pensano che potrebbero essere portati via dalla polizia. Per questo motivo non si recano nemmeno in ospedale e sono in una situazione peggiore degli altri. Quasi tutti hanno la scabbia e sovra-infezioni batteriche. Noi abbiamo comprato altri antibiotici ma naturalmente non bastano per tutti. Inoltre non basterebbe comunque avere solo gli antibiotici per migliorare realmente la situazione di queste persone e nemmeno per curarle. Lo stato in cui vivono rende praticamente impossibile la guarigione anche per una semplice infezione cutanea. Non possono lavare adeguatamente se stessi o i propri abiti, ne dormono in luoghi idonei o puliti, continuano a lavarsi utilizzando solo l’acqua del fiume. Fortunatamente in qualche modo riescono ad avere accesso all’acqua potabile, nonostante continui ad essergli negata dalle istituzioni.
Quando è già completamente buio, incontriamo due ragazze solidali del collettivo internazionake Kesha Niya che, oltre a portare pasti quotidianamente da Aprile 2017, ora cercano di portare anche un minimo di assistenza alle persone sul fiume data la scarsezza di personale sanitario, solo pulendo le ferite e facendo qualche medicazione. Dicono che hanno dei farmaci provenienti da donazioni, ma che non avendo medici non li usano. Ci scambiamo i contatti poiché potrebbero darli a noi, ma la prossima volta, essendo ormai sera inoltrata.
Andiamo a cercare se sono rimasti altri farmaci all’info-point Eufemia. Gli operatori legali e i solidali sono ancora al lavoro.
Andiamo a riposare da solidali a noi molto vicini.
La mattina dopo andiamo a fare un lungo giro sulla riva del fiume per capire che tipo di persone vi soggiornino e se ci siano donne e bambini.
Incontriamo due giovani sudanesi che parlano molto bene inglese e ci dicono che presto andranno uno in Francia e uno in Inghilterra. Dicono di essere stati accompagnati già da qualcuno per sessanta euro solo fino alla vicina montagna e di essere stati poi lasciati lì con vaghe indicazioni sul percorso. Dicono quindi che la prossima volta pagheranno di più per andare in macchina.
Giunti al parcheggio davanti al cimitero notiamo subito una famiglia con un bambino molto piccolo. Sono Sudanesi appena arrivati da Milano. Il bambino sta per prendere in mano una lametta abbandonata su un muro e il padre per fortuna se ne accorge subito e la butta via. Sembrano aver incontrato persone che li conoscevano e comunque tutti i ragazzi presenti sembrano felici di giocare e di aiutarli col bambino. Il bambino (D.) ha un anno e mezzo e mostra inizialmente un evidente diffidenza nei confronti delle persone bianche.
Esprimono il desiderio di partire al più presto. Non vogliono assolutamente andare al campo della croce rossa, né dormire all’esterno perché sarebbe pericoloso per il bambino. La madre è molto giovane ma anche evidentemente una persona molto brillante. Viaggiando tre settimane in Italia ha già imparato un po’ di Italiano e parla bene inglese. Hanno evidentemente bisogno tutti e tre di vestiti puliti. Li accompagniamo all’info-point Eufemia dove rimarranno molto a parlare con l’operatrice legale. Purtroppo hanno una procedura di asilo iniziata in Italia e la notizia che quasi sicuramente saranno rimandati indietro dalla Francia provoca in loro un grande dispiacere.
Nel frattempo D. ha perso gran parte del suo timore e gioca con qualsiasi cosa sia presente all’ingresso dell’info-point, riuscendo a comunicare con tutti i presenti in maniera straordinariamente efficace.
Considerazioni sulla situazione sanitaria al confine di Ventimiglia
a cura dei medici volontari dell’ambulatorio Città Aperta di Genova che da più di un anno prestano servizio sul campo
Da due anni alla frontiera con la Francia si trovano centinaia di persone bloccate per le ripetute decisioni dei governi degli Stati della UE che, di fatto, in quest’ambito, negano diritti e doveri sulla carta fondanti l’Unione Europea.
La salute delle persone in viaggio ivi giunte, è stata gravemente condizionata, oltre che dalla deprivazione di libertà di movimento e personale e dalla mancanza di autodeterminazione, anche dalle carenze igienico sanitarie nei luoghi di transito e di stazionamento in cui queste donne, questi bambini e questi uomini sono costretti.
Dal 2015 ad oggi, diversi sono gli insediamenti informali dove più o meno temporaneamente le persone stazionano prima di tentare di proseguire il proprio viaggio e dove, come medici volontari e solidali, abbiamo tentato, con scarsi mezzi di visitarle e di curarle. Spesso attraverso l’ascolto e l’attenzione e fornendo indicazioni semplici di igiene, come quella di non bere l’acqua del fiume.
Da un campo informale all’altro, durante questi due anni (2015/2017) si è passati attraverso sgomberi successivi, effettuati appunto con motivazioni igienico sanitarie, ma che, non prevedendo una soluzione radicale del problema, hanno comportato, invece, un’ulteriore precarizzazione delle condizioni di vita.
La maggior parte delle persone migranti hanno vissuto e vivono all’aperto su scogli, in ex stalle, sulle rive del fiume, in parcheggi, in assenza di accesso all’acqua potabile, servizi igienici, alimentazione sufficiente ed adeguata.
Le moltissime persone da noi visitate, donne e uomini di ogni età, avevano iniziato il loro viaggio in ottima salute, rappresentando spesso un investimento per le famiglie di origine. In prevalenza si è trattato di persone provenienti da Sudan e dall’Eritrea, ma anche persone di altre nazioni africane, afghani e siriani. Il passaggio attraverso paesi come il Sudan e la Libia aveva comportato praticamente per tutte e tutti carcerazione, violenza e tortura a scopo di estorsione, le cui conseguenze sulla salute fisica e psichica erano ancora evidenti al momento della nostra visita.
Il viaggio e la vita condotti in Italia, aveva determinato un ulteriore deterioramento dello stato di salute. Dopo una superficiale visita di controllo allo sbarco, nonostante l’esistenza teorica di diritti, nessuna tutela e continuità viene assicurata a potenziali richiedenti asilo che tentano di sopravvivere basandosi unicamente sulle proprie risorse.
Mancanza di informazioni, assenza di mediazione culturale, orientamento legale e socio-sanitario sono le cause determinanti dello stato di abbandono in cui versavano coloro che abbiamo visitato.
Nelle centinaia di visite eseguite tra le sponde del fiume, campi informali e la chiesa di Sant’ Antonio, dove siamo stati assai presenti, soprattutto nella fase di maggior affluenza, le malattie prevalenti sono state quelle dovute al disagio delle condizioni di vita. Epidemie di scabbia, malattie esantematiche, infezioni soprattutto delle alte vie respiratorie o delle vie urinarie, patologie gastrointestinali e traumi infatti sono le conseguenze più banali di questo accidentato percorso. Le patologie gravi che abbiamo potuto osservare, di più raro riscontro ma presenti, dato il numero di persone visitate, costituivano ovviamente un pericolo di vita, in tali situazioni.
Il nostro lavoro sarebbe stato impossibile senza l’esistenza e la resistenza di una rete di persone solidali a cui spesso ci siamo riferiti per il supporto al nostro lavoro.
Solidali, provenienti dall’Italia ma anche da altre nazioni, sono stati presenti da sempre su questo territorio. La condivisione del progetto politico per la libertà di movimento e l’autodeterminazione e della quotidianità del campo, è stata a nostro parere la risposta lucida di una parte consapevole della società civile e del variegato mondo dell’attivismo politico: essa ha contribuito a ridurre la condizione di abbandono e invisibilità in cui versavano le vite delle e dei migranti.
Purtroppo la repressione delle istituzioni ha gradualmente determinato una frammentazione tra i gruppi presenti sul territorio e l’allontanamento di molti solidali, fino alla consegna di numerosi fogli di via, ritenuti illegittimi a distanza di mesi.
E’ bene ricordare in questo periodo, in cui la memoria storica è spesso derisa ed umiliata, che questa situazione, che sembra far ammalare chiunque viva da migrante su quel territorio, contravviene non solo ad istintivi sentimenti di umanità, uguaglianza e partecipazione sociale, ma a ben chiare legislazioni internazionali. La salute infatti è stata definita dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 1946, durante la Conferenza Internazionale della Sanità, come uno “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”.
E’considerata un diritto inalienabile dell’individuo, appartenente all’uomo in quanto tale, derivando dall’affermazione del più universale diritto alla vita e all’integrità fisica, di cui rappresenta una delle declinazioni principali. In linea con questa dichiarazione, le principali normative internazionali a tutela della salute come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo (1948) sanciscono questo come uno dei diritti fondamentali dell’individuo e delle collettività e la sua tutela uno dei doveri degli Stati.
E’inoltre da ricordare il Commento generale n. 14 del Comitato per i diritti economici sociali e culturali delle Nazioni Unite (2000), in cui vengono riconosciuti i concetti di disponibilità, accessibilità, accettabilità e qualità dei servizi per la salute e i concetti di determinanti sociali della salute.
I determinanti sociali della salute consistono in condizioni indispensabili perché la salute sia garantita: l’accesso all’acqua potabile sicura, a servizi igienici adeguati, la disponibilità di cibo e nutrimento sufficiente, la sicurezza e la qualità dell’abitazione, la salubrità dell’ambiente di vita e di lavoro, l’accesso alle informazioni relative alla salute, il divieto di discriminazione.
L’articolo 35 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, sotto il titolo “Protezione della Salute” afferma che “ogni individuo ha diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche e che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche e attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”.
Infine, secondo la Carta Costituzionale Italiana (1948) il diritto alla salute è compreso nel nucleo irriducibile dei diritti della persona umana. Il testo di riferimento generale rimane il Decreto Legislativo n. 286 del 1998, che in ambito sanitario sancisce l’inclusione ordinaria nel sistema di tutela sanitaria dei cittadini stranieri, presenti regolarmente o non regolarmente sul territorio nazionale (sentenze 252/2001, 299/2010).
La Corte Costituzionale ha affermato nel 2008 che lo straniero è “titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona” sentenza 248/2008.
Ancora dopo due anni centinaia di persone, si trovano nelle condizioni descritte e la situazione di Ventimiglia viene definita come emergenziale, mentre anche semplici interventi, quali potrebbero essere la fornitura di un accesso all’acqua potabile e servizi igienici, richiesti da singoli, associazioni, ONG, vengono rifiutati perché potrebbero costituire dei fattori che favoriscano la presenza di persone migranti sul territorio. Tale presenza, come già detto, è resa inevitabile, da due anni, a causa della chiusura della frontiera franco-italiana per i soli migranti. E’ oltremodo evidente come l’atteggiamento delle istituzioni, che utilizzano spesso, per definire i propri atteggiamenti, parole proprie di una neo-lingua di orwelliana memoria come: decompressione, hotspot, decoro e degrado ecc, sia in contrasto con i concetti espressi dalla nostra Costituzione e dai quadri legislativi internazionali.
A Ventimiglia, per quanto sia a nostra conoscenza, a parte le ordinanze di sgombero sommario e di divieto di somministrazione di cibo in luoghi pubblici, non vi sono state proposte innovative da parte delle istituzioni. Le persone presenti sul territorio (abitanti e migranti, che continuiamo a considerare come un unico gruppo abitante un territorio ostile), si rendono conto della scarsità delle risposte istituzionali e questo provoca rabbia, frustrazione e la nascita di opposti schieramenti.
A nostro avviso, per rispondere al progressivo deterioramento, occorre superare l’aspetto emergenziale e proporre soluzioni coraggiose, dal breve al lungo termine. La scelta più difficile, sarebbe ovviamente quella del farsi fautori del diritto all’autodeterminazione e alla libera circolazione per tutti, in Europa.
Nell’immediato tuttavia, scelte almeno oculate delle istituzioni, avrebbero dovuto considerare a nostro parere l’ampliamento dell’offerta dei servizi pubblici nei territori di frontiera, soprattutto per tutto ciò che concerne il diritto alla salute delle persone presenti (migranti in transito, richiedenti asilo, locali) e delle attività e strutture per la prevenzione e protezione a prescindere dall’identificazione degli aventi bisogno:
– luoghi abitativi degni non gestiti in forma poliziesca, ma in accordo con i solidali, per non indurre il timore di abitarvi, l’isolamento e la frattura sociale. Abitazioni non poste a chilometri dal centro abitato e raggiungibili con strade non pericolose, dotate servizi igienici ed acqua calda, cibo a sufficienza per tutte le persone presenti.
– l’interruzione delle deportazioni sommarie e ingiustificate che a volte hanno anche separato famiglie (spesso i migranti temono di spostarsi di giorno nella città poiché sanno che possono essere deportati anche se in possesso della tessera del centro della Croce Rossa o se si spostano per raggiungere ospedali o fonti di acqua pubblica) e che inducono disagio anche psichico per la ripetizione infinita del viaggio verso Ventimiglia.
– Implementare i trasporti pubblici locali da Ventimiglia a Bordighera per evitare che gli spostamenti dei codici bianchi avvengano attraverso ambulanze quando non vi sono operatori che spontaneamente si offrono per l’accompagnamento.
Ventimiglia è probabilmente un punto di osservazione facilitato per valutare fenomeni esistenti a livello nazionale e soprattutto in territori dove poteri contrapposti e illegalità diffusa convivono e dove la mancanza di programmazione e la sperimentazione di risposte frammentarie e discontinue senza un obiettivo di lungo termine prevalgono.
Riteniamo sia giusto ampliare il più possibile la consapevolezza su ciò che accade nel nostro territorio, ritenendo che ciò aumenti la libertà di tutti, consentendo la possibilità di informarsi sulle lotte delle persone che lo attraversano, sostenerle e denunciare le violazioni dei diritti fondamentali.
Per i compagni, per le persone della socierà civile, per le nostre e i nostri colleghi medici, infermiere/i, psicologhe/i che abbiano voglia di uscire dai loro ambulatori e che condividano con noi l’idea che spesso l’accesso ai servizi sanitari è negato a chi ne ha più bisogno, siamo disponibili a spiegare più nello specifico le nostre esperienze e a condividere ciò che in questi anni abbiamo appreso da quel territorio.