Ventimiglia – Binario 3

Abbiamo trascorso questi ultimi mesi in continuo aggiornamento con i collettivi Kesha Niya e 20K grazie ai quali è stato possibile non rimanere all’oscuro di ciò che accade al confine. Abbiamo tradotto e condiviso i report scritti da Kesha Niya sulle violenze della polizia e sulle condizioni disumane del trattenimento e abbandono in cui vengono lasciate le persone che arrivano al confine di Ventimiglia. Ogni report, ogni telefonata, ogni incontro ci avvicinava sempre più al confine fino a decidere, in un momento di incremento locale dell’infezione covid 19, di partire.

Siamo arrivati in una mattina infrasettimanale, contemporaneamente all’orario in cui la Caritas distribuisce il pasto.  Numerose le persone, tutti maschi, in coda o sedute per terra con indossate le mascherine. Nei loro corpi la rassegnazione: una coda, una mano tesa a prendere il sacchetto, un giro su stessi e avanti un altro. Arrivano da Ventimiglia o direttamente dalla ferrovia e si allontanano seguendo gli stessi percorsi da cui sono arrivati.

Percorsi che facciamo anche noi e che ci portano lungo i binari della stazione praticamente deserti se non per la presenza di personale in divisa prevalentemente della polizia italiana, dell’esercito, di quella francese o della vigilanza privata, del personale ferroviario e di uomini e donne al lavoro. Mentre ferrovieri e lavoratori si muovono tra una banchina e l’altra intenti a fare cose e a trasportarne altre, gli uomini in divisa stazionano, assembrati, per lo più sul binario 3 dove transitano i treni per e dalla Francia.

L’atteggiamento tra le polizie italiane e francesi sembra assai poco collaborativo a tratti quasi ostile. Gli uni impegnati a dirigere il traffico per quelli che vengono fatti scendere dai treni in arrivo dalla Francia e gli altri impegnati a controllare chi in Francia ci sta per andare. Ma entrambi assolutamente interscambiabili nella profilazione razziale della scelta di chi controllare e nelle modalità aggressivo repressive del loro agire. Come già raccontato in diverse occasioni i treni in transito per la Francia stazionano il tempo necessario per permettere alle forze dell’ordine di effettuare quelli che loro chiamano controlli e quelli che più volte sono stati descritti con video testimonianze come vere e proprie aggressioni (persino da striscia la notizia…).

Seguendo le indicazioni che un poliziotto italiano fornisce, come fosse uno steward, a un presubilmente respinto dalla Francia, intravediamo i gruppi di migranti seduti sulle banchine morte della Stazione di Ventimiglia. Decidiamo di percorrere il perimetro esterno della stazione fino al parcheggio presso il ponte della ferrovia. Dietro le grate, sedute sul binario morto, ci sono una ventina di persone. Ci avviciniamo, proviamo a parlare con loro, alla richiesta se hanno un qualche problema di salute, alcuni uomini abbassano la testa mentre una donna, avvicinandosi quasi a coprirne un’altra seduta, ci dice che non ci sono problemi, con un chiaro invito ad andarcene. La sua sicurezza in una situazione prevalentemente maschile e il suo avvicinarsi all’unica ragazza presente ci induce ad ipotizzare un ruolo di controllo e di potere che abbiamo già visto e descritto più chiaramente in un precedente articolo presente nel Blog dal titolo “Come si è permesso al trafficking di creare la rete di sfruttamento a Ventimiglia. La Tratta e la Mafia, la Tratta è Mafia”.

Per il pranzo raggiungiamo in spiaggia alcune compagne di kesha Niya e di 20K. Ci scambiamo racconti, testimonianze, esperienze e sguardi sulle condizioni delle donne in frontiera, vittime del trafficking e dello sfruttamento della prostituzione. Condividiamo i nostri saperi: i ruoli della criminalità organizzata che gestisce il trafficking, la figura del passeur, dello sponsor, del trolley, come vengono reclutate le donne e da chi, quale la rete di sfruttamento a cui sono destinate, cosa sanno, come renderle più consapevoli e autonome circa il loro desiderio o bisogno di migrare o di fermarsi a riposare, come entrare in relazione con loro se così accerchiate da maschi, soprattutto ora che il bar Hobbit, punto di riferimento nel passaparola delle donne sole che transitavano a Ventimiglia, è chiuso causa Covid19.

La stazione di Ventimiglia è luogo di reclutamento di donne che tentano di passare il confine, tutto accade lì, tutti gli attori del crimine organizzato stazionano in quel luogo: c’è il trafficante, il passeur, la madam, il controllore.

Alle 18 ci rechiamo presso il parcheggio davanti al cimitero dove da ormai numerosi anni si alternano diverse associazioni per la distribuzione del cibo, vestiario e coperte, insieme a chi fa assistenza sanitaria e a chi attrezza postazioni con generatori per la ricarica dei cellulari. Neanche il tempo di avvicinarci al piazzale veniamo identificati immediatamente da due agenti della Digos, che stazioneranno in macchina per tutto il tempo della distribuzione. Appena cala il sole l’umidità del fiume avvolge i nostri corpi, fai finta di niente, sai che le persone intorno a te, quella notte come le precedenti e le future, le avranno passate e le passeranno all’addiaccio, senza alcun riparo se non quello di coperte recuperate dai grandi sacchi che escono dalle macchine di alcune volontarie.

La mattina successiva ritorniamo in stazione e raggiungiamo, seguendo i binari, l’area presso il ponte della ferrovia dove incontriamo diverse persone che rispondono alla nostra domanda di necessità di cure mediche. Lo spazio occupato segue una dislocazione per provenienza d’origine ed aree linguistiche, per la maggior parte sono uomini. Chi si avvicina, lamentando dolori forti al corpo, è una donna con la quale cerchiamo di interloquire nonostante il continuo e ripetuto intervento dell’uomo che le sta a fianco. Lei riesce comunque a dirci che c’è un’altra donna che sta male indicando i magazzini prima descritti. Proviamo a cercarla chiedendo ad alcuni uomini che incontriamo lungo i binari, tra loro alcuni si mostrano interessati a noi e iniziano a raccontarci che le donne sole che arrivano in stazione vengono immediatamente circondate da alcuni uomini e allontanate dal resto del gruppo. Nel mentre che ci raccontano questo, intravediamo tre donne col capo chino circondate da un gruppo di uomini, proviamo ad avvicinarci a loro, pensando che tra loro potrebbe esserci la donna malata. Un uomo con una bottiglia di vino bianco in mano ci allontana facendoci capire che non era sua intenzione farci avvicinare. Proviamo a parlare lo stesso con le donne ma nessuna di loro alza la testa, si capisce che sono spaventate e la nostra presenza crea tensione.

Proseguiamo il cammino dirigendoci verso l’ultima banchina dove incontriamo un gruppo di persone, sempre maschi, intenti a lavarsi nei pressi di una bocchetta d’acqua posta sotto il binario. Parlando con loro capiamo che sono arrivati da poco a Ventimiglia dalla rotta balcanica e non conoscono né la distribuzione mattutina alla Caritas né quella serale nei pressi del parcheggio del cimitero. Hanno come indicazione il fatto che la stazione sia il luogo dove poter attendere il passaggio del confine senza avere problemi con la polizia. Polizia che per altro continua a mantenere lo stesso assetto a difesa del Binario 3 come nel giorno precedente. Tre di loro presentano infestazione da scabbia, forniamo la terapia e diamo indicazioni su come si arriva alla Caritas, dove possono trovare abiti di ricambio necessari perché la cura sia efficace. Poco più avanti un altro gruppo di 6 persone al quale non riusciamo ad avvicinarci.

binario
Kesha Niya – confine alto

Ci allontaniamo dalla stazione per raggiungere il nuovo presidio di Kesha Niya e 20k presso la frontiera di Ventimiglia, come sempre molto organizzato e popolato. Al nostro arrivo infatti vediamo circa 50 persone, stanche dal lungo percorso che separa la notte nel container dal ritorno verso Ventimiglia. Le persone riposano, mangiano qualcosa, si scambiano informazioni e ipotesi per come affrontare il viaggio in attesa del passaggio del pullman diretto a Ventimiglia. Tra di loro risaltano un gruppo di 6 donne con bambini e ragazzini molto curiosi e attivi provenienti da paesi differenti. Si sono incontrate e riunite lungo il viaggio e sembrano determinate a mantenere la loro autonomia. Vengono più volte avvicinate da un gruppo di uomini, i passeur hanno volti ormai noti tra chi vive il confine, le donne li allontanano comprendendo i loro obiettivi. I passeur si raccolgono in un punto e tra loro vediamo la stessa donna, sicura e autoritaria che il giorno prima lungo i binari ci aveva fatto capire che nessuna persona aveva necessità di cure mediche.

Lasciamo Ventimiglia con la stessa sensazione di sempre. In questi 6 anni di presenza sul confine ne abbiamo vissute di cose, incontrate di persone, partecipato a lotte, condiviso nottate in strada, e tutto ci ritorna alla mente quando nuove compagne ci domandano “ma com’era prima?” quando c’erano le battiture al confine, quando si sono occupati i Balzi Rossi, quando c’erano i campi informali e poi quelli formali.

Proviamo a ripercorrere le contraddizioni, le violenze, le vittorie, gli errori, le sconfitte di quegli anni e da questo viaggio nel tempo e nello spazio intravediamo qualcosa che in tutti questi anni non si era mai mostrato. Dalle occupazioni dei primi mesi del 2015 si è passati a una serie di misure preventive e detentive che hanno lacerato le vite delle persone che hanno attraversato quel confine e fatto guadagnare chi di quel confine ne traeva profitto: stati, polizie, associazioni laiche o cattoliche, ong, ecc… Sappiamo che queste parole potrebbero ferire o far arrabbiare le persone che lavorano con passione in queste realtà associative da molto tempo ma è anche a queste persone che chiediamo di fare, insieme a noi, una pratica di parresia, cioè di dire la verità, come primo atto di capacità critica.

In questo atto di parresia c’è da domandarsi quanto fossimo preparati a vedere nelle lotte dei migranti al confine non solo il diritto di emigrare ma la messa in discussione dell’intera politica coloniale europea. Quando un gruppo di sudanesi, nel 2015, dopo alcuni mesi di presenza a Ventimiglia, scrissero su di un cartello che “Il problema è la frontiera” non parlavano solo di quella di Ventimiglia ma della costruzione dello Stato nazione e delle pratiche di potere e sfruttamento agite da quegli stessi stati nei loro territori portando istanze di emancipazione personale, sociale, “razziale”, intrecciate in modo tale da essere inseparabili.

Lo stesso atto di incessante parresia costato in denunce, obblighi di firma, limitazione della libertà personale, abusi di potere, violenze, minacce e reclusione di chi, solidale, occupa spazi di libertà. È in questi spazi che ad oggi, le associazioni riconosciute e incaricate di monitorare le persone che attraversano il confine, svolgono il loro lavoro, incontrano fisicamente le persone in transito, redigono report e quindi testimoniano che la loro presenza al confine ha un senso per chi li stipendia. E questo accade perché i solidali fanno di quegli spazi dei luoghi protetti, dove le persone in viaggio si sentono più libere di poter parlare, di soffermarsi, dove sanno che quel pasto non si esaurisce in un “dono” ma in un supporto a continuare il loro viaggio.

Il tempo trascorso nello spazio solidale organizzato lungo il confine alto e nel piazzale davanti al cimitero è diverso dal tempo trascorso alla distribuzione della Caritas. Lo dicono i corpi di chi attraversa quei luoghi. Lo dicono i sorrisi di chi dopo il pasto si ferma a far due chiacchiere mentre si attende che il cellulare raggiunga la carica per poter essere riutilizzato. Lo dice il fatto che alla Caritas non ci sono le associazioni incaricate di monitorare le persone che transitano da Ventimiglia, così come non ci sono sulla spiaggia, nel parco o lungo i binari della stazione dove i migranti attendono il trascorrere delle ore. Perché quelli non sono spazi di incontro e non lo sono né per i migranti né per le associazioni e non lo sono stati nemmeno per noi.

Questo è l’atto pratico di parresia che crediamo non possa più essere rimandato né celato. Così come è chiaro che l’interesse delle forze di polizia sia esclusivamente a tutela del Binario 3. Intorno a quel binario ci sono bambini a disposizione di pedofili del luogo o frontalieri; donne a disposizione di passeur che le vendono a trafficanti; giovani assoldati dalla malavita. Ma la difesa dello stato nazione, e quindi del Binario 3, è l’unico per cui vengono messe forze a disposizione e per cui addirittura si crea una “brigata speciale” di interforze poliziesche italofrancesi a tutela dello stesso.

Sciacalli ai confini d’Europa

Giovani uomini, ma anche famiglie, donne e minori non accompagnati provenienti da Siria, Kurdistan, Pakistan, Afghanistan, Iran, Bangladesh percorrono, da circa tre anni, la rotta balcanica attraversando la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia fino all’Italia. La maggior parte di essi non ha intenzione di fermarsi e fare richiesta di asilo in nessuno di questi stati. Bloccate dalla frontiera croata con un uso massiccio della forza e della tortura da parte della polizia, le persone in viaggio hanno formato enormi accampamenti informali prima in Serbia e, poi, in Bosnia. Successivamente, un mix di gruppi intergovernativi (International Organization for Migration – IOM e United Nations High Commissioner for Refugees  – UNHCR) e non governativi hanno iniziato a gestire o collaborare alla gestione di campi formali altrettanto enormi, in Bosnia.

Noi siamo medici. Negli anni scorsi abbiamo preso attivamente parte alla lotta no border in Italia e, questa volta, abbiamo partecipato a una spedizione organizzata a seguito del crescendo di notizie sulle violenze e situazioni inumane alle quali è sottoposto chi tenta questo attraversamento.

Abbiamo raggiunto Bihać, nel cantone Una-Sana, al nordovest della Bosnia, al confine con la Croazia – circondata da monti e attraversata dal fiume Una. Durante la guerra (tra il 1991 e il 1995) gli abitanti di questa zona hanno vissuto nei rifugi antiaerei, senza acqua ed elettricità, con il cibo razionato. Secondo il Centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, a Bihać sono state uccise 4.856 persone [i].

In questo luogo senza pace, abbiamo potuto conoscere la violenza e la privazione di libertà a cui è sottoposto chi ha un passaporto che non vale nulla, in Europa e nelle sue vicinanze. Abbiamo potuto visitare: siti “di accoglienza” considerati più “dignitosi” per nuclei familiari, donne e minori non accompagnati; enormi campi informali; scheletri di edifici incompiuti o cadenti occupati nel tentativo di salvarsi dal freddo; abbiamo incontrato persone malmenate e torturate dalle diverse polizie, marchiate nei corpi da segni permanenti che molti altri, prima di noi, hanno descritto e raccontato. Esperienza nuova per noi e non comune per chi, in generale, si oppone a tale sistema, abbiamo potuto rivolgere domande dirette a chi fa parte dei grandi gruppi intergovernativi che “normalizzano”, gestiscono e legiferano il destino di chi viaggia.

Dai disegni di Emanuele Giacopetti per il reportage “Do you remember Balkan Route?” (https://www.doyourememberbalkanroute.org

Il 16 marzo 2016, dopo la chiusura della rotta Balcanica occidentale, Europa e Turchia siglarono un accordo con lo scopo di fermare la migrazione irregolare attraverso la Turchia. In base a esso, tutti i migranti irregolari e richiedenti asilo giunti alle isole greche, le cui richieste di asilo fossero state rigettate, andavano ricondotti in Turchia. Rimandiamo al sito del Parlamento Europeo per la lettura del testo dell’accordo che appare come un’improbabile e allucinatoria previsione del futuro, parzialmente smentita dai fatti. Tra le voci del trattato era previsto che la Turchia si impegnasse a migliorare le condizioni della crisi umanitaria in Siria[ii]

Tutto ciò ha portato alla deviazione dei flussi migratori attraversi la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia e infine l’Italia.

A partire dal 2017 e poi nel 2018 sorgono enormi accampamenti informali in Serbia e in Bosnia. Successivamente nascono in Serbia numerosi centri governativi per migranti, mentre in Bosnia i campi formalmente riconosciuti sono gestiti da International Organization for Migration (IOM, Organizzazione inter-governativa che include 173 paesi, il cui obiettivo sarebbe quello di promuovere condizioni migratorie “umane e ordinate”) e United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), fondato dopo la seconda guerra mondiale.

Da ormai molti anni, sul territorio europeo, diversi gruppi si sono organizzati per dare supporto al transito di coloro che abbiamo deciso di chiamare semplicemente “persone in viaggio”, per non sottostare al meccanismo di divisione in categorie che facilita la distanza e la de-responsabilizzazione.

Da diversi anni incontriamo, nelle nostre strade, donne e uomini sopravvissuti a violenze di ogni genere subite nel corso di questa e altre rotte[iii]

Questo testo deriva da una breve ma traumatica esperienza lungo una frontiera per noi nuova, a confine tra Bosnia e Croazia, sempre più nota per le condizioni di transito inumane, le violenze e le torture efferate perpetrate quotidianamente nei confronti di chi tenta di attraversarla.

Primo Giorno 28/10/19

Il parco dei giovani zoppi

Arriviamo a Bihać, nel cantone Una-Sana, territorio bosniaco confinante con la Croazia, intorno alle 13. Abbiamo alcune informazioni da persone che sono già state in questa zona.

Il passaggio del confine è molto difficile, tanto che il traffico, in questa zona, utilizza una figura definita “runner” che fa da apri-pista per valutare la possibilità del passaggio. I campi formali in Bosnia sono tutti gestiti da IOM che assume personale di sicurezza privata e operatori senza alcuna esperienza, (anche per lavorare con minori),  pare assunti tramite campagne su facebook. La procedura per la richiesta di asilo in Bosnia sembra sia molto complessa, ma praticamente nessuno chiede asilo qui.

Partiamo per andare al campo Borici, aperto dal gennaio di questo anno, un edificio dove sono ospitati donne, famiglie e minori e persone definite “con fragilità”. Il “campo modello” del governo. È un edificio, in un parco, la cui destinazione precedente era una casa per studenti.

Quando arriviamo ci sono molti ragazzi giovani e bambini che escono dal palazzo. Fuori c’è un operatore della sicurezza. Tre di noi hanno il permesso per entrare. Da una salita sterrata arriviamo in un piazzale. L’aspetto esterno è abbastanza diroccato. Nel piazzale ci sono 4-5 container. Ci sono bambini che giocano, molte donne e pochi uomini. Ci viene incontro la responsabile e ci dice che potrà dedicarci poco tempo a causa di problemi di sicurezza all’interno della struttura. All’interno ci sono 350 persone, soprattutto famiglie. La maggioranza delle persone viene da Pakistan, Siria, Irak, Kurdistan, Afghanistan. Attualmente non sembrano esserci minori non accompagnati. Il tempo medio di permanenza è di circa 3 mesi. Inoltre c’è un’associazione locale che lavora con le donne. Ci dicono che un medico del servizio sanitario nazionale è al campo 6 volte a settimana e c’è la possibilità di accesso all’ospedale di Bihać per i casi più urgenti. Inoltre affermano che un autobus porta i bambini tutti i giorni a scuola.

Mentre la responsabile ci spiega le caratteristiche del campo, all’improvviso un uomo nel piazzale si accascia a terra circondato da diverse donne. Sembra una crisi epilettica (vera o simulata) e, a un certo punto, arriva un giovane medico. Diverse  persone aiutano l’uomo ad alzarsi,  poi lui corre e inizia a dare dei pugni sulla parete di un container. La responsabile dice che non può più seguirci, parliamo con una giovane operatrice di IOM. Lei  racconta che ha visto gente permanere nel campo anche per un anno. Subito ci dicono di allontanarci per la nostra incolumità e, successivamente, un presunto rappresentante di una ONG arriva trafelato per annunciare che la situazione è molto pericolosa. Vediamo arrivare una macchina della polizia e un’ambulanza.

Nel frattempo il gruppo di noi rimasto all’esterno incontra delle persone di origine afghana nel parco. Tra loro F., una ragazza afghana che viveva in Iran da 21 anni, ha deciso di scappare di casa perché i genitori volevano che sposasse un cugino. Fugge con il suo compagno verso l’Europa e, a Borici, si incontrano anche con un altro parente. Tutti insieme ci dicono che il campo di Borici è molto affollato, ci sono più famiglie (8-10 persone) in una stessa stanza, il cibo non è buono. Vogliono andare in Francia o in Belgio poiché consigliati da amici che gli hanno detto che il sistema eurodac, per l’identificazione delle impronte digitali, non funziona in questi paesi, e quindi non sarebbero rispediti nel primo paese europeo di arrivo. Esprimiamo i nostri dubbi su questo fatto, ma forse con scarso successo.

Sia a F. che al suo compagno è stato rotto il telefono dalla polizia croata, ma non sono stati picchiati, come hanno visto invece accadere ad altre famiglie anche con bambini e donne anziane a cui erano stati anche bruciati i vestiti. Altri due uomini adulti sono conoscenti o familiari della coppia di ragazzi, uno più anziano ci dice che il più giovane, di 18 anni, è stato brutalmente picchiato dalla polizia croata a seguito di uno dei sei tentativi di attraversare la frontiera. Il più giovane mostra la gamba sinistra evidentemente deformata da una precedente frattura e ha visibilmente problemi a camminare.

Insieme a questi ultimi andiamo poi verso la sede di IOM e lungo questo tratto di strada l’uomo più anziano ci dice che uno dei problemi più gravi è che, oltre alla polizia croata, ora nei boschi intorno alla frontiera ci sono persone armate di coltelli che rapinano e feriscono chi passa. Alle nostre domande sulla possibile identità di questi uomini, ci dicono che alcuni di essi sono dei trafficanti.

Tornando verso il campo, passiamo nel parco, in cui camminano molte persone che vivono dentro o intorno a Borici, qualcuno porta con sé  buste della spesa.

Molti tra questi giovani zoppicano.

Passiamo di fronte a un grande edificio che pare contenga facoltà islamiche di diritto e pedagogia.

Incontriamo l’altra parte del nostro gruppo, che ci racconta di come la visita al campo di Borici si sia interrotta bruscamente.

Andiamo a vedere se c’è qualcuno in un moderno edificio diroccato, in centro, occupato, praticamente senza mura, dove pare che molti giovani tentino di rifugiarsi almeno durante la notte. Sul corso del fiume incontriamo diversi ragazzini, molti di loro minorenni. Iniziamo a parlarci, molti sono afghani e siriani, hanno quasi tutti la scabbia. Alcuni tra i siriani sono stati fermati in Croazia e in Italia nel tentativo di passare le frontiere e riportati indietro. I documenti rilasciati durante questi respingimenti illegali operati dalla polizia italiana sono stati sequestrati dalla polizia croata. Dicono che la polizia croata è Mafia.

Uno di loro, un ragazzo di 20 anni siriano, dice che anche in città la polizia bosniaca non li lascia stare seduti sugli argini del fiume. Un altro giovane siriano ha la metà destra del corpo ampiamente ustionata e un occhio gravemente lesionato. I suoi amici ci dicono che deve essere operato e ci chiedono come questo possa essere fatto, se in Bosnia o in “Europa”. Parliamo brevemente con lui, ci spiega che un anno prima, in Siria, durante un bombardamento aereo, ha riportato ampie ustioni su tutto il corpo.
Tutti dicono che l’unica acqua che bevono è quella del fiume Una.
Usiamo quasi tutta la crema anti-scabbia che abbiamo, molti antibiotici e alcuni farmaci per il dolore.

Secondo Giorno 29/10/19

La mafia è un elefante bianco

In mattinata incontriamo i rappresentanti di UNHCR. Ci parlano inizialmente dei dati sul transito di persone in Bosnia. Dicono che attualmente ci sarebbero circa 8000 persone nel paese e stimano che almeno il 20-30% in più non siano intercettati dal sistema. Intorno a 3900 si troverebbero nei centri e almeno lo stesso numero al di fuori di essi. Molte famiglie e minori non accompagnati. L’UNHCR ha gruppi definiti “out-reach” per la ricerca di soggetti sul territorio che definiscono “più vulnerabili”. In totale 672 persone, a loro dire, hanno iniziato la procedura d’asilo in Bosnia ma dicono che il sistema per la richiesta non funziona. Sottolineano il proprio impegno nel migliorare questo sistema. In totale pare siano state concesse solo 16 protezioni sussidiarie nel 2018, mentre 604 persone attendono la risoluzione della richiesta.

Imputano al contrasto tra il governo centrale e quello cantonale le colpe per il malfunzionamento del sistema d’asilo. Si insiste molto su questo tema.
Chiediamo se una eventuale richiesta di asilo in Bosnia potrebbe poi impedire il successo di una successiva procedura iniziata in un altro paese d’Europa. Una di loro dice chiaramente: “we are against onward movement, you don’t choose the place where you ask for asylum, we explain to the people that Bosnia has a system in place…”; dunque esprimendo apertamente la propria opposizione a qualsiasi prosecuzione del viaggio successivo a una eventuale richiesta di asilo in Bosnia, imputando tali movimenti all’azione di mafie e trafficanti. Proviamo a esprimere la nostra opinione sul fatto che sia possibile chiedere asilo politico in Bosnia e poi restarci davvero, e le nostre perplessità circa la posizione degli Stati di bloccare delle persone per dei tempi lunghissimi in spazi non idonei.

Continuando a soffermarsi su ciò che ritengono problematico, dicono che frequentemente i loro operatori legali si trovano in difficoltà nel sospetto di una “bogus family composition”, in quanto le persone, a loro dire, non dichiarano lo stesso numero di componenti della famiglia per tutta la durata del viaggio e quando vengono riconosciuti. Per questo si ritiene che non siano “veri” parenti, e che, anche in questo caso, si tratti di situazioni di traffico e sfruttamento, soprattutto per i minori. A nostra domanda su come intendessero gestire questo fenomeno, se volessero avvisare la polizia per iniziare un procedimento legale contro le persone sulla cui composizione familiare ci fossero stati dei dubbi, rispondono in maniera affermativa. Un segno chiaro di ciò sarebbe il fatto che una persona si dichiari zio/zia di qualcuno/qualcuna e poi si separi da esso/essa magari continuando il viaggio indipendentemente. Ci figurano la possibilità di una sorta di controllo e comunicazione delle composizioni dei nuclei familiari in diversi paesi per reprimere queste “pratiche”. Non viene assolutamente presa in considerazione la nostra obiezione che evoca un diverso concetto di famiglia che potrebbe influenzare tali dinamiche.
Una dei rappresentanti UNHCR continua a formulare metafore su degli elefanti: “C’è un’enorme elefante bianco in mezzo alla stanza di cui non ci stiamo occupando” … “se si vuole mangiare un elefante bisogna farlo a pezzi”.

Poiché continuiamo a fare discorsi sulla libertà di movimento, su come anche gli europei non restino bloccati nel primo paese nel quale migrano, eccetera, a un certo punto, iniziano a dire che forse il termine “mafia” era inappropriato. Probabilmente pensando che, in quanto italiani, il termine ci avesse offeso.

All’improvviso finisce il nostro tempo, perché gli operatori UNHCR hanno altri meeting.

Andiamo poi al campo di Sedra. Un altro campo per famiglie e minori non accompagnati, allestito in un vecchio hotel. È un vecchio edificio abbastanza cadente, al secondo piano piove all’interno. C’è poco da dire, ci sembra che i campi abbiano implementato di molto la condizione occupazionale della gioventù locale. I lavoratori che incontriamo sembrano ben disposti verso i rifugiati che vi abitano. Ci raccontano dei turni di 14 ore al giorno delle cuoche della croce rossa.

Dopo la visita, raggiungiamo l’altro gruppo che si trova di fronte al campo di Bira, un altro campo da 1200 posti gestito da IOM dove opera anche Save the children, al quale non ci è permesso l’accesso.

Fa molto freddo. Visitiamo molte persone nel parcheggio, molti ragazzi giovani (anche minorenni), tutti senza vestiti adatti per quel clima, molti con sandali. Aspettano lì fuori, al gelo, di entrare nel campo; quasi tutti hanno ferite infette e scabbia.

Dei ragazzi afghani iniziano a parlarci, è da molto tempo che aspettano di entrare, ma sembra che il campo sia pieno. Molti di loro trovano riparo in un edificio abbandonato non lontano, chiedono se vogliamo andare a vederlo. Ci accompagnano verso una grande costruzione diroccata, senza finestre e in alcuni punti anche senza pareti, sotto una pioggia che si infittisce. Salendo le scale si arriva a un secondo piano invaso dal fumo. In ogni stanza è stato acceso un fuoco, il pavimento è completamente ricoperto di carta e plastica. Ci saranno una cinquantina di persone, ma ci dicono che dormono li in 300 circa. I ragazzi hanno pochi materassi per terra e qualche coperta. Facciamo varie medicazioni e ad alcuni diamo degli antibiotici per malattie dell’apparato respiratorio. Quasi tutti hanno la scabbia, quindi avendo finito il farmaco diciamo che torneremo nel pomeriggio del giorno dopo.
Torniamo al campo di Bira, vediamo molta polizia arrivare. Raccolgono tutte le persone che stazionano nel parcheggio al di fuori del campo e le portano via.

Dopo un’ora da questa retata nuove persone al freddo e sotto la pioggia si avvicinano nuovamente al cancello del campo nella speranza di poter entrare. Tra di loro un ragazzo di provenienza afghana nato nel 2005, ha con sé un documento di identificazione. È appena arrivato da Sarajevo. Cerchiamo di mediare all’entrata del campo con un responsabile dell’IOM per capire se è possibile farlo entrare. Dopo una mezz’ora esce dal campo un funzionario di Save the children che controlla i documenti del ragazzo e gli dice di avvicinarsi alla rete di separazione. Improvvisamente, almeno una ventina di bambini compaiono dal nulla attorniando il funzionario e cercando di attirare la sua attenzione, mostrandogli i documenti sui quali è scritta la loro età.

La sera incontriamo brevemente una operatrice di una nota ONG della zona, che ci spiega l’attività dell’organizzazione. Sembra vi siano importanti limitazioni poste dal governo del cantone Una-Sana.

Ci dice di una circolare che è stata emanata dal governo locale, la quale impedisce ai cittadini di affittare casa alle persone migranti, di ospitarle o di fare qualsiasi atto che determini un assembramento in strada.

La sera apprendiamo che un cameraman solitamente filma e pubblica sui social network le operazioni di polizia.

Terzo Giorno 30/10/19

Leggende di frontiera

La mattina partiamo in auto alla volta di Velika Kladuša, a circa una 40 di km da Bihać.

Lungo il percorso, che in buona parte corre parallelo al confine con la Croazia, incontriamo diverse persone che camminano sulla carreggiata, nonostante il freddo e la pioggia. Ci fermiamo due volte nel tentativo infruttuoso di approvvigionarci presso farmacie locali di antibiotici, ormai agli sgoccioli. Alla seconda sosta avviciniamo un gruppo di persone presso un edificio in disuso, molto sporco, dove avevano riposato. Erano all’ennesimo tentativo di superare la frontiera, vittime di furti e delle consuete umiliazioni, percosse, vessazioni operate dalla polizia croata, non rare anche da parte della polizia slovena.

Li medichiamo e forniamo loro alcuni antidolorifici per i traumi. Raggiungiamo il parcheggio dell’ospedale di Velika Kladuša. Ci viene incontro una giovane attivista francese dell’associazione No name kitchen, un’organizzazione internazionale di volontari per il supporto al transito, che ci rende partecipi delle difficoltà e delle limitazioni nel poter fornire aiuto alle persone in viaggio. Per loro infatti, è necessario rinnovare mensilmente un documento con i dati anagrafici e il domicilio, cosa mai richiesta ad altre persone che sono in Bosnia con un visto turistico.

Giunge quindi una operatrice di MSF, accompagnando 2 giovani uomini, uno in sedia a rotelle e un altro che zoppica, provenienti da una casa occupata visitata da lei nel corso di un monitoraggio. Parlano di altre persone che vivono nell’occupazione e sono in condizioni pessime. I due ragazzi presentano un quadro di scabbia grave con sovra-infezione. Il giovane in sedia a rotelle appare molto debilitato e probabilmente febbrile, alza la testa solo quando la ragazza si rivolge a lui in arabo, per poi ritornare ad accasciarsi su sé stesso. Viene deciso di provare a portarlo presso il campo cittadino Miral. Seguiamo con la nostra auto il loro furgone, arrivati presso il campo ci fermiamo presso il parcheggio esterno. Veniamo dopo poco raggiunti dalle solite guardie private presenti in tutti i campi gestiti IOM che, dopo averci chiesto i documenti, ci intimano con atteggiamento irridente di allontanarci per la nostra incolumità.

Ritornati a Bihać, ci rechiamo all’edificio occupato che si trova nelle vicinanze del campo di Bira. L’aria è ancor più irrespirabile del giorno prima, piove e fa freddo e ci sono molti fuochi accesi nelle stanze. Ci fanno entrare nella stanza meno sporca e dove non c’è un fuoco, per poterli visitare. Il pavimento è ricoperto di scatole di cartone e in un angolo c’è un tappeto. È una moschea improvvisata.

Tutti si accalcano intorno chiamandoci per mostrarci le ferite infette procuratesi nel grattarsi a causa della scabbia, molti hanno la gola arrossata e le tonsille gonfie. Alcuni hanno i piedi rotti da manganellate della polizia croata con ferite aperte e vogliono disperatamente una medicazione per coprirli. Le piante dei piedi, in alcuni casi, hanno ferite poiché la polizia croata gli prende le scarpe, oltre a tutto il resto, costringendoli a camminare scalzi per chilometri. Finiamo praticamente tutti i farmaci che abbiamo e ci accompagnano fuori.

Torniamo davanti al campo di Bira, fa sempre più freddo e piove, ma lì di fronte c’è sempre una folla di giovani fantasmi con coperte in testa per ripararsi, come possibile, dal freddo. Aspettano la notte.

A qualcuno hanno detto che se riesci a resistere, ad aspettare fino a notte inoltrata, a volte, c’è un operatore anziano che ti fa entrare. Ad altri hanno detto, a Tuzla, che forse, quando arriverà la neve, ci saranno degli autobus italiani che verranno per portarli in Italia.

Un ragazzo non riesce più a sedersi per le ferite dovute alla scabbia. Gli diamo ciò che resta dei farmaci. A un altro che ha la febbre diamo un antinfiammatorio, sarebbe meglio assumerlo a stomaco pieno, ma lui non mangerà per oggi.

Giovani pakistani raccontano di essere stati picchiati selvaggiamente dalla polizia croata al confine, un loro amico diciassettenne è stato massacrato di botte da una poliziotta slovena, poiché rifiutava di firmare il foglio in cui era scritto che era maggiorenne.

Molte sono le torture di cui raccontano. Dicono che, in inverno, la polizia croata, dopo aver preso soldi, distrutto telefoni e bruciato vestiti, bagna le persone con acqua gelida e le lascia in un furgone con l’aria condizionata fredda accesa, al contrario dell’estate, quando li lasciano con l’aria condizionata calda.

Oppure, dopo avergli tolto le scarpe, usano i lacci per immobilizzarli ai polsi e poi li spingono giù per terreni scoscesi. Bastonano le persone coi manganelli per lunghissimi minuti, fino a fratturargli gli arti, poi li obbligano a tornare indietro verso la Bosnia.

Ci dicono di respingimenti operati informalmente e nottetempo dalle polizie croata, slovena e italiana, con un percorso a ritroso verso la Bosnia, e nessun documento scritto.

Quarto Giorno 31/10/19 – La città e l’incubo

Andiamo al campo di Vucjak, un enorme campo informale dove ci saranno almeno 800 persone..

Il campo si trova sulla linea di fuoco della guerra degli anni 90 e sono presenti numerosi campi minati nelle vicinanze..

All’ingresso c’è la polizia, ci chiedono i documenti e raccomandano di restare uniti. Piove, fa molto freddo, c’è fango e spazzatura ovunque, molte persone camminano tra grandi tende e tende più piccole. Molti non hanno che sandali. Le tende più ampie sono tutte fornite dalla mezzaluna rossa turca, sembra che siano state spostate qui dal campo di Bira.

Costantemente, con retate effettuate nelle città, le persone sono portate qui dalla polizia. Diversi ragazzi ci chiamano per mostrarci le tende in cui entra acqua, non hanno abbastanza vestiti e coperte, molti si sentono male. Capiamo che per loro è complicato anche solo raggiungere l’ambulatorio più vicino poiché la polizia non li fa uscire dal campo. Devono fare dei complicati percorsi per aggirare il blocco.

Il campo sembra la città di un futuro distopico o di un incubo. In mezzo al fango ci sono esercizi commerciali, una specie di bar e un mercato, e in alcune tende più grandi alcuni ragazzi impastano il pane in grandi bacinelle di plastica. In molte zone del campo ci sono fuochi, nei quali viene gettata anche la spazzatura. Ovunque c’è fumo nero e si sente odore di plastica bruciata.

Tra le tende e il fango si aggirano dei giornalisti, anche italiani, che riprendono le persone senza chiedere alcun consenso.

Ritorniamo nel parcheggio del campo Bira, dove come sempre, ci sono molti ragazzini che aspettano di poter entrare.

Alcuni pakistani ci parlano del fatto di non avere un posto dove stare e di non voler andare nella fabbrica abbandonata perché lì un ragazzo è morto di freddo. Dicono di aver visto il cadavere che veniva portato via da qualcuno venuto da fuori.

Un ragazzo di 16 anni ci mostra un’infezione diffusa a una mano e ci dice che ha bisogno di assistenza medica. Cerchiamo attraverso il cancello di parlare con persone che si occupino di minori, vediamo un ragazzo bosniaco che indossa la maglia di Save the children e gli urliamo attraverso le sbarre che fuori c’è un minore con un problema infettivo. Dice che non è sua responsabilità, ma dell’IOM e si allontana velocemente. Allora cerchiamo di chiamare una donna che invece indossa una maglia di IOM, costei ci dice che il ragazzo deve aspettare indicando un punto vicino alla recinzione. Intanto si rivolge in bosniaco a uno strano individuo di una certa età, vestito in borghese, che continua a guardarci con apparente sguardo di scherno.

Sembra che non parli inglese, dopo un po’ gli si affianca un’altra persona più giovane, alto, anch’essa in borghese che però sembra una specie di guardia del corpo. Ci chiede chi siamo e se facciamo parte di qualche associazione, diciamo di no, quindi ci dice lentamente ma decisamente che davanti al campo non si può stare, per problemi di sicurezza, e ci invita a lasciare l’area.

Più tardi scopriremo che l’individuo più anziano è il responsabile della polizia dell’ufficio stranieri.

Decidiamo di ripartire perché provati. Inoltre abbiamo finito tutti i farmaci ed evidentemente la nostra possibilità di agire è, per il momento, molto ridotta.

Tornando in macchina verso l’Italia incontriamo molte persone in cammino, nonostante il freddo e la pioggia.

Per noi il passaggio delle frontiere tra Bosnia e Croazia e tra Croazia e Slovenia è rapido. Il controllo è costituito da un rapido sguardo dentro la macchina e ai passaporti.

A un certo punto, a circa 20 km da Trieste, vediamo due ragazzi che camminano sulla carreggiata. Un centinaio di metri dopo, un cellulare della polizia fermo. Pensiamo di tornare indietro per fare qualcosa, avvertirli, prenderli con noi, ma già un’altra macchina della polizia era giunta ai ragazzi, dietro di noi, li aveva fatti sedere a terra e gli illuminava il volto con le torce. Un poliziotto che stava manovrando il cellulare per tornare indietro, si era fermato e aveva già aperto il portellone sul retro.

[i] https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2019/11/05/bosnia-migranti-rotta-balcanica-vujiak

[ii] http://www.europarl.europa.eu/legislative-train/theme-towards-a-new-policy-on-migration/file-eu-turkey-statement-action-plan(1/11/19)

[iii] Vedere ad esempio l’articolo sul sito Parole sul confine: “Malati di confine”. Analisi di un anno di report medicali alla frontiera di Ventimiglia (https://parolesulconfine.com/malati-di-frontiera-analisi-di-un-anno-di-report-medicali-alla-frontiera-di-ventimiglia/)

 

                Bosnia 28-31 novembre 2019

Prima della neve

Sabato 27 febbraio è stata una giornata di lavoro intenso sotto al ponte di via Tenda.

Avremmo fatto almeno 40 visite.

Rispetto alla scorsa estate ci sono più persone che vivono sotto al ponte del cavalcavia lungo al fiume, con un numero senza precedenti di donne e bambini anche molto piccoli.

L’insediamento sembra sempre più stabile, con baracche costruite con pezzi di legno e teli di plastica. Le persone che vivono lì sono prevalentemente eritree e sudanesi. Al momento, tutte le donne sole e le madri sono eritree.

Le persone che abbiamo visitato erano giovanissime. Tantissime affette da scabbia. Spesso con sovra-infezioni molto importanti. Grazie alla nostra disponibilità di farmaci e grazie alle scorte di indumenti stivati presso l’infopoint Eufemia abbiamo potuto somministrare il trattamento antiscabbia a molte persone, dopo esserci assicurati che avessero compreso come eseguire correttamente tutta la procedura.

Molti ragazzi avevano l’influenza, alcuni di loro sembravano avere la polmonite. Per questi ultimi, avvalendoci dell’aiuto nella traduzione di compagni di viaggio o di persone solidali, abbiamo scritto delle lettere di invio al pronto soccorso, perché eseguissero una radiografia del torace.

Moltissime persone presentavano ferite infette, difficili da tenere pulite per le pessime condizioni igieniche della vita sotto al ponte e per l’impossibilità di lavarsi.

Le persone erano molte e la difficoltà di comunicazione, associata alla precarietà del luogo e alla mancanza di un minimo di riservatezza, creavano difficoltà per tutti.

Per il pomeriggio di sabato avevamo in programma un incontro con alcune donne solidali del territorio, per fare chiarezza in merito al diritto all’assistenza sanitaria per le persone senza documenti in Italia e per spiegare le patologie più comunemente da noi osservate nel corso di questi anni a Ventimiglia. L’incontro è andato molto bene, e durante questo molte solidali hanno espresso la preoccupazione per la condizione della gente sotto al ponte, visto l’arrivo del freddo intenso:  più volte si sono tentate telefonate alle autorità della zona per capire cosa fosse possibile fare in proposito.

In serata siamo rimasti a Ventimiglia per un aperitivo organizzato per sostenere il bar Hobbit di Delia. Delia è una delle pochissime persone (se non l’unica) che gestisce un’attività commerciale ad essere sempre stata accogliente con chi viaggia, diventando, nei mesi, un punto di riferimento per tutti coloro che si impegnano in attività di solidarietà diretta e concreta con le persone in viaggio. Prima dell’inizio dell’aperitivo, Delia ha parlato a lungo con un gruppo di boy-scout giunti per la prima volta a Ventimiglia, con l’obiettivo di comprendere meglio la situazione e maturare una consapevolezza rispetto alla chiusura delle frontiere e alle storie delle persone migranti che rimangono bloccate a Ventimiglia. Delia ha raccontato loro i fatti salienti di questi due anni e mezzo e ha espresso anche molte lungimiranti considerazioni su come la convivenza con persone giovani e con storie diverse potrebbe costituire un elemento di stimolo e un arricchimento per tutti nella città di Ventimiglia.

A riprova del suo, fondamentale, ruolo di riferimento per le persone in transito, siamo stati chiamati da lei per visitare una giovanissima mamma eritrea di circa 16 anni con una bimba di pochi mesi: ambedue con la scabbia. E’ stato estremamente difficile comunicare con la ragazza, nonostante ci fosse qualcuno che tentava di fare da traduttore. Appariva spaventata, voleva andare al più presto a prendere il treno. Non capivamo se avesse fatto o meno il trattamento per la scabbia. Infine si è defilata velocemente, seguita da alcuni solidali che in seguito ci hanno informato che, salita sul treno, pare avesse poi anche superato Mentone.

La mattina seguente, per favorire il dialogo con le persone che avessero problemi di salute, abbiamo deciso di montare sotto al ponte un gazebo che alcuni solidali, medici e non, hanno procurato appositamente per questo scopo e che viene conservato presso l’info-point Eufemia.

Le temperature, intanto, si stavano abbassando. Abbiamo visitato diverse persone, alcune con i segni mai completamente guariti delle torture subite in Libia, come dolori persistenti nelle sedi di diverse bruciature sul tronco. Un giovane sudanese aveva un danno corneale evidente, risultato di un colpo in faccia infertogli in Libia con il calcio di un fucile. Gli abbiamo detto che chiaramente non potevamo fare nulla in quelle condizioni e gli abbiamo consigliato di farsi visitare una volta raggiunto il paese di arrivo. Abbiamo poi visto ancora molte persone affette da scabbia. Una solidale ci raggiunge accompagnata dalla giovane madre eritrea visitata il giorno prima su segnalazione di Delia e da un suo connazionale. Veniamo così a sapere che la polizia francese l’aveva, nel frattempo, identificata a Cannes e nonostante si trattasse di una persona di minore età con una figlia di tre mesi, l’aveva rispedita in Italia. 

Era di nuovo a Ventimiglia sotto il ponte, più confusa che mai. Siamo almeno riusciti a convincerla, questa volta, a sottoporre sé stessa e la piccola al trattamento per la scabbia.  È stata dunque accompagnata da una amica solidale all’infopoint e qui aiutata nella la procedura del trattamento antiscabbia per sé stessa e per sua figlia.

Nel pomeriggio siamo partiti per Genova mentre iniziava a nevicare forte e a fare molto freddo.

È difficile accettare che, in tutta Europa, anche nelle situazioni climatiche più estreme, la scelta sia stata di impedire il libero movimento di esseri umani in virtù della re-istituzione dei confini, anche se il rischio per la salute delle persone che rimangono intrappolate  è così grave.

Nel caso italiano, e nello specifico a Ventimiglia, era  noto da giorni che il gelo sarebbe giunto anche a basse quote dove in genere non arriva, ovvero anche lì sotto quel ponte dove bambine e bambini, donne e uomini vivono già in condizioni estreme.

Sotto quel ponte, dove già da anni ormai i diritti a condizioni igieniche decenti, al cibo, all’acqua, sono stati negati.

Falsamente di queste politiche inumane si è arrivati ad accusare proprio le vittime , facendosi scudo della presenza di un centro di accoglienza della croce rossa, molto difficile da raggiungere a piedi senza rischiare la vita, vista la strada molto percolosa, nonché illegale secondo le leggi dello Stato in quanto donne e uomini, bambine e bambini, anche non accompagnati, sono costretti a vivere promiscuamente in container.

Everything is lost

Ci rechiamo all’infopoint Eufemia perché dobbiamo incontrare un’amica avvocata dell’ASGI con cui abbiamo in passato collaborato e i solidali del collettivo 20 K, per aggiornamenti vari. La mattina di sabato 13/01/18 Eufemia è, come al solito, pieno di gente. Cerchiamo di contare i cellulari in carica e saranno almeno 80.

A. ci informa che il numero delle persone in viaggio si è ridotto dalla nostra ultima visita, ma è comunque alto rispetto al periodo invernale. Circa 150 nel campo della croce rossa, 150/200 al di fuori. Ci informano inoltre del gran numero di donne e bambini che dormono sulle rive del fiume e di come persista il loro rifiuto a recarsi presso il centro CRI, anche per una sola notte. Il passa parola tra i migranti informa infatti i nuovi arrivati della scarsa accessibilità del luogo. La strada per giungervi è lunga e pericolosa (https://parolesulconfine.com/parco-roja-minaccia-la-sicurezza/) e del fatto che nonostante il freddo le persone dormano in tende dove le temperature sono basse, e che ci sono poche docce e in questo periodo solo con acqua fredda.

I compagni del gruppo 20k cercano al contempo, in questo periodo, per la grande affluenza di donne, di tenere aperto l’infopoint solo per loro due giorni a settimana, così da riuscire ad avere dei contatti diretti e passare del tempo insieme, dando loro, in qualche modo, la possibilità anche solo di lavarsi.

Passeremo un giorno e mezzo sotto il ponte con alcune/i compagne/i.

Abbiamo già tentato di descrivere le condizioni di vita e di salute delle persone che abbiamo incontrato a Ventimiglia.

Questa volta vorremmo raccontare i cambiamenti che abbiamo osservato e che sono per noi più significativi.

Ci sono diversi insediamenti, che appaiono più stabili nella loro precarietà, mucchi di coperte hanno al di sopra dei teli blu come quelli che si mettono sotto le tende.

Giunti sul fiume dopo pochi passi quello che balza agli occhi è il gran numero di bambini, molto piccoli (1 o 2 anni) e giovani donne. Molti di loro si sono ammalati. Si tratta soprattutto di malattie dell’apparato respiratorio e gastroenterico.

Degli uomini sudanesi ed eritrei ci chiedono qualcosa che suona come: vedete questi bambini? Sono troppo piccoli. Qui fa troppo freddo per loro.

Ci sono alcune donne che hanno evidentemente delle patologie. Una di loro, magrissima e molto bassa, lamenta dolori addominali e stipsi. A nostro parere deve avere qualche problema di salute, ma da lungo tempo. La visitiamo in uno delle loro grandi “tende” di coperte e teli. Visitandola è chiaro che ci sia qualche disturbo addominale, da quando l’anno prima è stata sottoposta a un taglio cesareo. Le consigliamo di andare in ospedale per fare almeno delle analisi generali e magari un’ecografia. Più tardi prenderemo accordi con i compagni 20k che la accompagneranno al vicino pronto soccorso. All’uscita, il giorno dopo, ci diranno che le analisi erano negative, sembrava non esserci nulla di molto grave. La signora però all’ospedale si era molto agitata e voleva allontanarsi poiché pensava che gli uomini che viaggiavano con lei sarebbero potuti andare via per tentare di attraversare il confine, lasciandola indietro.

Ritornata al campo semplicemente affermava di non avere più nulla dei documenti rilasciati dall’ospedale. Le spieghiamo che, anche in assenza di alterazioni acute, ci sarebbero potuti essere d’aiuto per sapere se ci fossero delle problematiche pregresse. “Everything is lost”, ci dice, con aria scostante.

Tra gli uomini la scabbia è più diffusa del solito e il farmaco che abbiamo, grazie a chi ci sostiene a Genova, si esaurisce rapidamente, purtroppo quindi non possiamo trattare tutti, nonostante presso l’infopoint Eufemia ci siano ancora vestiti e coperte che potremmo usare per completare efficacemente la terapia.

È stato doloroso osservare come lo stato di abbandono abbia inoltre determinato diversi episodi di aspri contrasti tra le persone che vivono sul fiume.

Un ragazzo afgano ci racconta che mentre dormiva gli è stato rubato lo zaino con dentro tutto ciò che possedeva. Ci chiede se la polizia cercherebbe il colpevole se la chiamasse. Più tardi lo incontriamo che esplora tutta la riva del fiume. Poi una terza volta ci raggiunge molto agitato dicendoci di chiamare la polizia poiché aveva incontrato dei ragazzi sudanesi che stavano lavando i suoi asciugamani, probabilmente per riutilizzarli. Volevano da lui dei soldi in cambio di informazioni sul suo zaino. Dopo averli minacciati, era stato anche picchiato. Cerchiamo di parlare con tutti, nonostante la situazione sia molto tesa, ed evidentemente sappiamo che non otterremo neanche i documenti del ragazzo, contenuti nello zaino disperso.

Il secondo giorno visitiamo ancora molte persone. Sempre gli stessi problemi. C’è ancora qualcuno che, meno informato degli altri, non usa l’accesso di fortuna all’acqua potabile, beve l’acqua del fiume e ha di conseguenza infezioni intestinali. Ancora tanti casi di scabbia, bronchiti e febbri.

Molti bambini raffreddati per cui siamo costretti a dividere una compressa di tachipirina in otto parti, non essendo fin ora equipaggiati con farmaci pediatrici.
Veniamo ad un certo punto chiamati da un gruppo di ragazzi che ci indica: “doctor.. sudani… problem”..andiamo a vedere. Un ragazzo dalla provenienza incerta (gli eritrei e i sudanesi affermeranno poi che non è di nessuno dei due paesi) sembra abbia dato un forte colpo in testa a un giovane sudanese, che urla e ha copiose tracce di sangue sulla maglia. Anche lui grida: andrò dalla polizia. Cerchiamo di capire com’è la ferita, di medicarlo e pulirlo dal sangue come possiamo. Per fortuna la ferita non sembra molto profonda.

Alla fine riparliamo con i compagni del gruppo 20 k della necessità di rimettersi in contatto con la ASL per cercare di avere un contatto diretto e un sostegno terapeutico almeno per il problema della scabbia, poiché ovviamente, sarebbe assurdo e inutile affollare il pronto soccorso con decine di persone che hanno questa infezione.

Inoltre, ci troviamo d’accordo con i compagni con cui parliamo sul fatto che la presenza fisica e la condivisione negli spazi della città dove i migranti sono relegati sarebbe auspicabile se il numero delle persone solidali aumentasse e che ovviamente non basta l’arrivo a singhiozzo di sostegno ai pochi che si trovano già sul territorio.