Proponiamo un’analisi dei report redatti dai medici volontari che, da qualche anno, svolgono un’attività di cura e monitoraggio indipendente alla frontiera di Ventimiglia. Lo scopo è quello di individuare e mettere in prospettiva le problematiche sanitarie che si materializzano lungo il confine, cercando di risalire, quando possibile, alle cause politiche e istituzionali, più o meno dirette, che le determinano. La scelta di analizzare un “campione” di report che copra all’incirca un anno è motivata dalla volontà di avere uno sguardo il più possibile complessivo, tenendo conto dei mutamenti della situazione socio-politica e delle variazioni stagionali. Matteo Fano e Cecilia Paradiso sono dottorandi in antropologia all’ EHESS di Marsiglia.
Per prima cosa, vorremmo precisare che i nostri ambiti di ricerca non riguardano direttamente Ventimiglia, tuttavia si tratta di una situazione che conosciamo perché ne seguiamo gli sviluppi da qualche anno. Attraverso questo articolo, in particolare, vogliamo presentare le conseguenze sanitarie della chiusura della vicina frontiera con la Francia, al fine di mostrare l’insensatezza di tale misura che, non solo non risolve il problema della presenza di popolazioni migranti numerose e in condizioni di vita precarie, ma lo aggrava mettendo a rischio l’intera popolazione.
Svolgeremo tale compito attraverso lo sguardo di due medici italiani: Lia, ricercatrice in immunologia (che felicitiamo per il suo recente PhD), e Antonio, medico ospedaliero con 40 anni di esperienza. Entrambi erano impegnati in percorsi politici sull’accesso alle cure per le persone senza documenti già prima che, circa due anni orsono, cominciassero a recarsi a Ventimiglia regolarmente, una o più volte al mese, per curare i-le migranti in transito.
Quest’attività è resa ancora più importante e preziosa dal loro impegno politico: infatti l’esperienza diretta sul campo li ha portati a andare al di là delle semplici pratiche di cura, per portare uno sguardo critico della relazione tra le condizioni sanitarie riscontrate di volta in volta, le scelte politiche che le determinano e il loro ruolo di medici volontari. Tali analisi prendono la forma di report dettagliati che vengono redatti al termine di ognuna delle loro visite e poi diffusi su dei blog d’informazione e riflessione politica, come Parole sul Confine e Effimera.
In particolare, abbiamo deciso di concentrarci sui testi scritti tra novembre 2016 e dicembre 2017, per poter presentare qualche elemento di riflessione, rispetto all’evoluzione della situazione dall’estate 2015: a seguito, quindi, dell’implementazione dei regolamenti di Dublino. L’evento è significativo perché tale misura ha determinato la reintroduzione di controlli militarizzati alle frontiere interne dell’Unione Europea e il respingimento verso l’Italia di un numero sempre più elevato di migranti. Già solo nell’arco della prima settimana, a metà giugno 2015, centinaia di persone si sono ammassate a Ventimiglia: era l’inizio di una successione di eventi, dei quali stiamo ancora osservando gli sviluppi.
Ci sembra opportuno, in incipit, fornire un minimo quadro spaziale, rispetto ai vari campi e luoghi d’accoglienza approntati in città a partire dall’estate 2015:
– Il campo della Croce Rossa: inizialmente situato in prossimità della stazione ferroviaria e poi spostato in una zona industriale a 3 chilometri dal centro. Circolano poche informazioni ufficiali su di esso, ma, grazie alle testimonianze dei-delle migranti, sappiamo che i posti disponibili nei container sono all’incirca 300, mentre il numero delle persone può variare tra 200 e 900: nei momenti di massima affluenza, indipendentemente dalla stagione, si ricorre a delle tende.
– Tre campi informali, autogestiti da assemblee di migranti e solidali, succedutisi temporalmente, tra la fine dell’estate 2015 e la primavera 2016, e quindi sgomberati, uno dopo l’altro, dalla polizia italiana.
– Dei luoghi d’accoglienza gestiti dalla comunità cattolica, locale e non. In particolare, la chiesa di Sant’Antonio, lungo il fiume Roya, nella quale sono stati accolti famiglie, donne e minori, fino al luglio 2017, quando le autorità ne hanno imposto la chiusura, nell’intento di concentrare la totalità della popolazione migrante nel campo della Croce Rossa.
– Infine il campo informale e spontaneo, installato lungo il letto del Roya e a tutt’oggi abitato[1]. Questo si sviluppa principalmente nelle zone riparate dai ponti ferroviari e autostradali, ma si estende anche oltre, in quelle zone del letto del fiume, dove più fitta è la vegetazione. Si calcola che ci vivano in media 200 persone, anche se il calcolo non può che essere approssimativo.
Attorno ai vari campi, e in città, si concentra l’azione di vari attori:
– Gli operatori della Croce Rossa.
– I volontari delle associazioni cattoliche e della CARITAS.
– Il personale delle grandi ONG (Come MSF, INTERSOS, AMNESTY INTERNATIONAL e ANAFE) che, dal canto loro, non hanno investito fondi considerevoli in loco e hanno, fino ad ora, condotto principalmente un lavoro di documentazione e redazione di rapporti.
– Infine, attivisti e militanti solidali, locali e non, presenti in città fin dall’estate 2015. Questi, sebbene organizzati in più gruppi a seconda degli orientamenti politici, sono legati da una dinamica di collaborazione finalizzata al sostegno ai migranti. Tale sostegno, come in ogni contesto di lotta “no border”, si esprime sia attraverso rivendicazioni politiche, che attraverso pratiche di solidarietà diretta. Tale rete è stata duramente colpita dalla repressione poliziesca e giudiziaria che si è materializzata in obblighi a lasciare il territorio (fogli di via), in altri provvedimenti giudiziari, ma anche in pressioni e divieti di altro tipo (un esempio su tutti: l’ultimo punto d’informazione e distribuzione di beni di prima necessità dedicato ai-alle migranti è a rischio di sfratto, nonostante in possesso di un regolare contratto di locazione).
E’ proprio tra questi solidali che ritroviamo Lia e Antonio, i due medici che, come abbiamo accennato, da due anni intervengono a Ventimiglia, in quelle zone in cui le istituzioni latitano: inizialmente nei campi autogestiti poi, in seguito agli sgomberi, nella chiesa di Sant’Antonio e infine, quando anche questa è stata chiusa, lungo il letto del fiume.
Vogliamo ancora una volta ringraziarli per il loro lavoro instancabile di cura e di documentazione che ci ha permesso di individuare alcuni nodi attorno ai quali si strutturano delle questioni sanitarie specifiche, in cui fattori di natura differente (amministrativa, politica, sanitaria, personale) si rafforzano vicendevolmente, minando la salute (e la dignità umana) di quei migranti che restano restano bloccati, sospesi in uno spazio tra “due paesi”.
La prima constatazione ha a che vedere con le condizioni materiali di vita alla frontiera: dai report di Lia e Antonio emerge un contesto del quotidiano che si dimostra fonte di problematiche sanitarie, in sé e a causa dello stile di vita a cui conduce, con conseguenze sul piano fisico e psicologico.
Nel frattempo varie persone dall’aspetto quanto meno losco si avvicinano ai ragazzi per parlargli, uno si allontana con due di loro che stanno portando l’acqua. Ci accorgiamo che il tipo losco ha comprato una bottiglia di whiskey e sono già mezzi ubriachi quando arrivano al campo.
Proviamo a parlare con loro del fatto che molti soggetti pericolosi tenteranno di approfittarsi della loro situazione e che bere molto non li aiuterà di certo, il nostro quasi collega ci risponde: “Is this place, my brain is lost”.
«Is this place, my brain is lost 14 maggio 2016»
Si può citare, per prima cosa, l’insalubrità di tutti i luoghi di vita, compreso il campo della croce rossa. Questo, da quando la chiesa ha chiuso le sue porte, rimane l’unica struttura ufficiale ancora in funzione ma le condizioni di vita al suo interno non sembrano essere qualitativamente migliori rispetto a quelle lungo il fiume: vi si incontra la stessa promiscuità e, come afferma questo giovane, vi si sente lo stesso freddo:
Un ragazzo eritreo “ospite” del campo della Croce Rossa, con una ferita al piede, ci dice che, anche lì dorme in una tenda e quindi ha ugualmente molto freddo.
«Dicembre a Ventimiglia. Ovvero, il gelo 3 dicembre 2016»
http://effimera.org/dicembre-ventimiglia-ovvero-gelo-amelia-chiara-trombetta-antonio-g-curotto/
Inoltre, il campo è distante dalla città e raggiungibile solo attraverso una strada a scorrimento veloce, lungo la quale si sono già verificati incidenti mortali.
Ma ciò non basta a spiegare perché moltissime persone (anche con figli piccoli) si rifiutino di recarvisi, almeno altri due ordini di ragioni influiscono su questa scelta:
– innanzitutto la diffidenza nei confronti della Croce Rossa: una diffidenza che per alcuni rimonta ad esperienze, dirette o in dirette, vissute nei paesi di origine o in quelli di transito, principalmente in Africa;
– quindi, l’assoluta priorità del progetto migratorio, a cui è subordinata la valutazione dell’opportunità di ogni possibilità. In questo caso, ad esempio, l’obbligo di lasciare le proprie impronte per accedere al campo è vissuto come inaccettabile, poiché potenziale ostacolo alla possibilità di stabilirsi nella destinazione prescelta; ma anche la paura di essere arrestati e deportati verso il sud Italia ha il suo peso: il campo lungo il fiume serve, quindi, anche come una sorta di zona franca, dove è più difficile l’ingresso della polizia e più facile un’eventuale fuga):
Discutiamo con vari giovani sudanesi sulle condizioni del campo della croce rossa […] Ci dicono che molti operatori hanno con loro atteggiamenti offensivi e autoritari, li spingono, non gli consentono di stare all’aperto. Devono stare immobili in luoghi per loro adibiti. Il cibo sembra essere pessimo e spesso insufficiente per tutti gli ospiti. Un ragazzo sudanese che parla molto bene in italiano ci spiega che la situazione del campo non è buona, ma anche che i sudanesi hanno sfiducia nella croce rossa. Dice che nel suo paese ci sono stati campi della croce rossa e che, mentre fuori c’è la guerra e vengono usate armi chimiche, la Croce Rossa nega tutto questo.
«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»
http://effimera.org/malasanita-internazionale/
D’altro canto, anche nel campo informale sul fiume le condizioni di salute dei migranti si degradano velocemente: a parte il rischio rappresentato da eventuali piene del fiume (un rischio molto concreto dal momento che ha già lasciato un morto sul terreno), Lia e Antonio testimoniano di condizioni di vita tali da aver ormai reso certe patologie “tipiche” di tale contesto. Ad esempio: l’insalubrità dei luoghi favorisce lo sviluppo e la diffusione d’infezioni dermatologiche e di parassiti.
I ragazzi che sono con lui hanno tutti delle forme di scabbia molto vecchie, dicono da mesi, alcuni con evidenti infezioni batteriche. Uno di loro ci dice in italiano che ha avuto un morso di topo all’orecchio mentre dormiva. […]. È gonfio e c’è del pus. Ha altre lesioni con pus sul corpo.
«Ventimiglia, dopo la piena del fiume 16/12/17»
https://parolesulconfine.com/ventimiglia-dopo-la-piena-del-fiume/report-ventimiglia-immigrazione-1/
Altri passaggi, invece, testimoniano dell’impossibilità di mantenere pulita una piaga o della sovraesposizione alle malattie dell’apparato respiratorio, dovuta al modo di vita all’aria aperta, senza ripari adeguati.
Un’analisi della situazione su una temporalità lunga permette di mettere in evidenza fino a che punto le scelte politiche e istituzionali abbiano contribuito al peggioramento delle condizioni di vita e della salute delle persone. Tali scelte, infatti, mirano ad ostacolare la permanenza delle persone, impedendogli di soddisfare quelli che si definisco bisogni primari, giustificandosi attraverso l’argomento “umanitario” dello scoraggiare potenziali nuovi arrivi.
Si tratta di una vera e propria strategia politica, teorizzata da alcuni attori istituzionali, come dimostrano le dichiarazioni del sindaco di Ventimiglia Ioculano (PD) in occasione di un incontro con gli operatori delle ONG, durante il quale l’acqua potabile, il cibo e le cure mediche sono stati definiti pulling factors, ovvero dei servizi la cui accessibilità incondizionata favorirebbe l’arrivo e la permanenza dei migranti su un territorio.
Facciamo qualche esempio concreto per illustrare le conseguenze materiali di una tale strategia:
– In primis, l’accesso all’acqua potabile, che è stato al centro di una vera e propria battaglia silenziosa. Tutto è cominciato quando Lia e Antonio hanno iniziato a spingersi nel campo sul greto del fiume e subito hanno constatato la diffusione di patologie gastro-intestinali. La chiave di lettura del fenomeno viene fornita da un giovane africano che, prima della partenza verso l’Europa, studiava medicina: in mancanza di una fonte di acqua potabile, i migranti lì accampati bevevano l’acqua del fiume. I due medici, allora, riescono a mobilitare una piccola rete di solidali e ad individuare, proprio a pochi metri dall’area più densamente popolata, un rubinetto collegato alla rete idrica comunale: tuttavia questo era stato manomesso, sottraendone la maniglia. I solidali reagiscono prontamente per sostituirla, ma dovranno ripetere l’operazione a più riprese perché tale maniglia sarà ogni volta asportata dagli abitanti o dagli agenti del comune.
– Un altro esempio è quello del cibo: insufficiente e di bassa qualità, tanto nell’accampamento informale, che in quello della croce rossa, e di cui il Comune, tramite ordinanze, ha interdetto la distribuzione nello spazio pubblico. È evidente che tale situazione non può che contribuire all’indebolimento ulteriore delle persone, già provate dal viaggio e dalle condizioni di vita.
– E infine, come dimostrato dal seguente estratto, persino le visite mediche finiscono per essere considerate dei “servizi” che incoraggiano la presenza dei migranti.
In questo caso, per alcuni giorni un ambulatorio esterno di fortuna è fornito da un gruppo di infermieri scozzesi che hanno costruito un’unità di strada per l’assistenza di base e che dopo Calais, Parigi e Ventimiglia, si recheranno a Como. Da segnalare in questo caso che ci riferiscono che la polizia ha perquisito la suddetta unità e li ha informati dell’esistenza di una fantomatica ordinanza del sindaco che vieterebbe qualsiasi contatto con i migranti, inoltre li avrebbero informati del fatto che in Italia non è possibile esercitare professioni sanitarie in strada.
«Malati di confine 11 e 12 Marzo 2017»
http://effimera.org/malati-confine-amelia-chiara-trombetta-antonio-curotto
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Ventimiglia è solo una delle tappe di un viaggio che può durare qualche mese come vari anni e che possiamo considerare, nel suo insieme, come patogeno.
Vogliamo dire che, spesso, le patologie incontrate dai due medici hanno origine altrove, anche se è innegabile che qui si aggravino a causa della permanenza forzata in una situazione che ostacola anche le più semplici procedure di prevenzione, gestione e cura delle malattie.
Rimuoviamo un’agocannula in una persona con un edema evidente agli arti inferiori allontanatasi spontaneamente dall’ospedale. Gli chiariamo che quella scelta a nostro avviso è stata un errore, ma rimuoviamo comunque l’accesso venoso, poiché avrebbe costituito una pericolosa via d’infezione in una situazione come quella.
«Le torture affiorate 9 luglio 2017»
Allo stesso modo, i numerosi traumi riscontrati da Lia e Antonio sono per la maggior parte legati ad “incidenti” di viaggio avvenuti altrove. A questo proposito possiamo individuare tre diverse eziologie:v
– Le violenze inflitte direttamente da qualcuno (ad esempio quelle legate ad episodi di tortura, subiti in Africa, come nell’esempio seguente, ma anche in Italia):
Vogliamo auscultargli il torace per capire se c’è qualche problema polmonare percepibile. Vediamo che la schiena è piena di cicatrici. Per capire di che si tratta ci facciamo fare la traduzione della sua storia al telefono da sua sorella maggiore, emigrata molti anni fa negli USA. È una storia molto istruttiva di mala-sanità internazionale. Inizia l’anno prima in Darfur (vedi introduzione del documento Who per lo stato del sistema sanitario in quell’area), quando A. arriva, per esasperazione, ad urlare contro il medico che seguiva sua madre per una malattia cronica. Dice che la sua famiglia non riusciva a pagare l’assistenza sanitaria ed erano disperati. Durante questa lite, il medico chiama la polizia, questa arriva e porta A. in carcere. Lì viene tenuto per due mesi, dove viene quotidianamente frustato e, a detta della sorella, “gli succede tutto ciò che c’è di male”. Non approfondiamo troppo anche perché la comunicazione è difficile. A. è preoccuato che rivelarci queste cose porterà a qualche problema per lui o per la sua famiglia. Viaggia con due bambini piccoli (che sono tra quelli che hanno raffreddore e febbre) e la moglie.
«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»
http://effimera.org/malasanita-internazionale/
– l’inadeguatezza delle condizioni di viaggio (Ad esempio, il fatto di camminare per lunghe distanze, indossando scarpe di una misura inferiore alla propria; o di intraprendere sentieri di montagna senza averne le competenze necessarie);
– E, infine, le risposte delle istituzioni (e pensiamo, in particolare, alla militarizzazione della frontiera che obbliga i migranti a cercare degli stratagemmi sempre nuovi e sempre più pericolosi per oltrepassarla, con il risultato che, dal 2015, una ventina di persone sono morte nel tentativo di raggiungere la Francia: alcuni investiti mentre camminavano sul bordo dell’autostrada; altri fulminati mentre erano nascosti nel locale tecnico dei treni; altri ancora caduti in montagna mentre percorrevano un sentiero).
Dalla lettura delle testimonianze dei due medici, una constatazione s’impone in modo evidente: Ventimiglia, proprio come Calais o Lampedusa, si configura come un “collo di bottiglia” dove qualsiasi fenomeno patologico, indipendentemente dalla sua natura, tende a aggravarsi. Inoltre, tutta questa situazione non ha conseguenze esclusivamente sul fisico delle persone, ma anche sul loro stato mentale: a tal proposito, alcune testimonianze mettono in evidenza la disperazione, l’apatia e il malessere in cui vivono i migranti a Ventimiglia. Una condizione che spinge alcuni ad annegare i pensieri nell’alcool.
Diversi, tra questi gruppi, hanno bottiglie di plastica tagliate a metà, che usano come bicchieri per bere del vino. Ne parlano con noi abbastanza tranquillamente, dicendo che è quel posto che li induce a bere.
«Ventimiglia libera 11 novembre 2017»
https://parolesulconfine.com/ventimiglia-libera/
Capiamo, allora, sempre meglio il sentimento di frustrazione che traspare da questi scritti: in un tale contesto, in cui gli interventi sanitari non sono né regolari, né coordinati tra gli attori, la messa in opera di vere e proprie strategie di cura è impossibile perché, come dichiarano i due medici, non c’è nessuno a cui affidare il lavoro svolto. Ne risulta una situazione caotica, in cui azioni diverse si giustappongono e sovrappongono una all’altra fino a diventare inutili, se non dannose e, a volte, persino caricaturali… Se solo non si avesse a che fare con la concreta sofferenza di altri esseri umani. A tal proposito, vogliamo citare la storia di un ragazzo sudanese di 30 anni:
Non parla inglese quindi con l’aiuto di un altro connazionale ci mostra l’avambraccio destro molto gonfio. Dice di essere stato sottoposto a una iniezione non meglio definita qualche giorno prima. È molto preoccupato. Gli chiediamo chi fosse stato e per quale motivo, ma non ci sono risposte. Si capisce dalla localizzazione e dal tipo di reazione che si tratta di una intradermoreazione alla tubercolina. Chiediamo quindi spiegazione ai volontari della caritas. Questi ci spiegano, in preda all’ansia, come qualche tempo prima presso un ospedale locale ad un uomo loro “ospite” fosse stata fatta diagnosi di tubercolosi. A seguito di ciò i volontari della caritas avevano chiesto l’intervento della ASL a scopo preventivo per ospiti e volontari presenti nella comunità. Dopo molte resistenze sembra che alcuni operatori della ASL si siano recati presso la parrocchia di S Antonio e abbiano fatto il test di intradermoreazione alla tubercolina solo a 12 uomini, senza ottenere il loro consenso informato, ovvero il tanto sbandierato atto obbligatorio per l’attuazione di qualsiasi procedura medica che coinvolga il corpo di noi “bianchi” e (almeno altrettanto grave), senza che la positività all’intradermoreazione fosse successivamente controllata. In altre parole, sono state sottoposte al test solo alcune delle persone esposte all’eventuale contagio, ma non è stata controllata successivamente la positività o negatività del test. Infatti questo è un test intradermico che evidenzia l’avvenuto contatto del sistema immunitario con il bacillo tubercolare (e non la presenza di malattia in atto) e la cui risposta va controllata da un clinico 48 e 72 h dopo l’intradermoreazione stessa. I controlli positivi devono essere sottoposti a RX torace (linee guida ministero della Salute). Tali controlli non sono mai stati effettuati. Diversi uomini il sabato mattina (48h dopo) presentavano positività all’intradermoreazione anche molto forte ed erano molto turbati da ciò che succedeva al loro avambraccio. Ugualmente turbati erano i volontari della Caritas a cui non è stato spiegato nulla.
«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»
http://effimera.org/malasanita-internazionale/
Questo estratto dimostra come, proprio qui all’interno dell’Europa, il diritto alla salute perde, de facto, la sua universalità per diventare una conseguenza dello status amministrativo.
Le politiche trattate finora sono il risultato di un approccio estremamente miope al fenomeno migratorio contemporaneo, del quale si dà una lettura oltremodo semplificata.
Quest’ultimo è, infatti, considerato come un’urgenza contingente: un momento di crisi a cui bisogna portare risposte in grado di farci “resistere” fino al futuro ristabilimento della “situazione normale”, quella “di prima”, quando è chiaro ci troviamo di fronte ad un processo globale, destinato a cambiare il volto demografico di Ventimiglia e dell’Europa intera. Le conseguenze di tale fenomeno dipenderanno dalla nostra capacità di approntare strategie efficaci a livello strutturale. Tuttavia, l’attuazione di tali strategie diventa impossibile nel contesto attuale.
D’altra parte, è evidente che interventi come quelli miranti a scoraggiare l’arrivo e l’installazione dei migranti tramite la soppressione dei cosiddetti pulling factors siano destinati all’insuccesso: del resto, parliamo di persone che non hanno alternative per proseguire il loro viaggio. Un viaggio nel quale hanno investito troppo (denaro, sofferenza, aspettative, speranze) per tornare indietro… Il solo risultato di tali strategie è di rendere le condizioni di vita delle persone ancora più dolorose: nient’altro.
Ma c’è un ultimo aspetto che vorremmo sottolineare. A Ventimiglia, come altrove, la questione va ben al di là della preoccupazione umanitaria per la salute di questi “viaggiatori illegali”:
– Per prima cosa perché il rischio sanitario riguarda direttamente anche gli “europei”: infatti le condizioni di vita non igieniche e l’assenza di un’efficace sistema di cure non possono che favorire la diffusione di epidemie, i cui agenti patogeni, dal canto loro, non guardano né la nazionalità, né il visto sul passaporto.
– E, infine, perché in assenza di politiche sanitarie strutturali, gli episodi patologici finiscono per essere trattati tardivamente e/o, in mancanza di alternative, inviati al pronto soccorso. Questo non solo ha un costo più elevato per la comunità, ma determina anche la sovrasollecitazione del servizio, aumentando il tempo d’attesa degli altri pazienti.
Concludendo, vorremmo portare l’attenzione sui risultati delle ultime elezioni politiche a Ventimiglia. La Lega ha visto aumentare i propri consensi dal 6% del 2013 al 29%. E’ chiaro, e lo notiamo con estrema amarezza, che in questo clima di isteria generale, sapientemente fomentato per interessi elettorali, il populismo sta avendo la meglio sull’empatia umana e sul buon senso.
Ancora una volta ci chiediamo quale sia lo scopo di mantenere l’accoglienza ai-alle migranti in simili condizioni e invitiamo a riflettere sulle conseguenze politiche e sociali di tutto ciò.
Matteo Fano, Cecilia Paradiso
[1]Durante il lavoro di redazione del presente contributo, i media hanno riportato la notizia dello sgombero anche di questo campo, avvenuto il giorno 18 aprile. Ancora una volta, l’azione repressiva è stata ufficialmente giustificata come un obbligo umanitario, come un atto dovuto, a causa dell’insalubrità e della pericolosità del luogo. Il lavoro di ricerca che ha portato alla stesura del presente articolo, ci rende impossibile credere alla buona fede di tali dichiarazioni: ancora una volta si cerca di nascondere un’azione dettata da interessi politici di breve termine e dalle conseguenze potenzialmente disastrose, dietro un discorso che, alla luce dei fatti, è inconsistente e senza prospettiva alcuna.