“Malati di confine”. Analisi di un anno di report medicali alla frontiera di Ventimiglia

Proponiamo un’analisi dei report redatti dai medici volontari che, da qualche anno, svolgono un’attività di cura e monitoraggio indipendente alla frontiera di Ventimiglia. Lo scopo è quello di individuare e mettere in prospettiva le problematiche sanitarie che si materializzano lungo il confine, cercando di risalire, quando possibile, alle cause politiche e istituzionali, più o meno dirette, che le determinano. La scelta di analizzare un “campione” di report che copra all’incirca un anno è motivata dalla volontà di avere uno sguardo il più possibile complessivo, tenendo conto dei mutamenti della situazione socio-politica e delle variazioni stagionali. Matteo Fano e Cecilia Paradiso sono dottorandi in antropologia all’ EHESS di Marsiglia.

Per prima cosa, vorremmo precisare che i nostri ambiti di ricerca non riguardano direttamente Ventimiglia, tuttavia si tratta di una situazione che conosciamo perché ne seguiamo gli sviluppi da qualche anno. Attraverso questo articolo, in particolare, vogliamo presentare le conseguenze sanitarie della chiusura della vicina frontiera con la Francia, al fine di mostrare l’insensatezza di tale misura che, non solo non risolve il problema della presenza di popolazioni migranti numerose e in condizioni di vita precarie, ma lo aggrava mettendo a rischio l’intera popolazione.
Svolgeremo tale compito attraverso lo sguardo di due medici italiani: Lia, ricercatrice in immunologia (che felicitiamo per il suo recente PhD), e Antonio, medico ospedaliero con 40 anni di esperienza. Entrambi erano impegnati in percorsi politici sull’accesso alle cure per le persone senza documenti già prima che, circa due anni orsono, cominciassero a recarsi a Ventimiglia regolarmente, una o più volte al mese, per curare i-le migranti in transito.

Quest’attività è resa ancora più importante e preziosa dal loro impegno politico: infatti l’esperienza diretta sul campo li ha portati a andare al di là delle semplici pratiche di cura, per portare uno sguardo critico della relazione tra le condizioni sanitarie riscontrate di volta in volta, le scelte politiche che le determinano e il loro ruolo di medici volontari. Tali analisi prendono la forma di report dettagliati che vengono redatti al termine di ognuna delle loro visite e poi diffusi su dei blog d’informazione e riflessione politica, come Parole sul Confine e Effimera.

In particolare, abbiamo deciso di concentrarci sui testi scritti tra novembre 2016 e dicembre 2017, per poter presentare qualche elemento di riflessione, rispetto all’evoluzione della situazione dall’estate 2015: a seguito, quindi, dell’implementazione dei regolamenti di Dublino. L’evento è significativo perché tale misura ha determinato la reintroduzione di controlli militarizzati alle frontiere interne dell’Unione Europea e il respingimento verso l’Italia di un numero sempre più elevato di migranti. Già solo nell’arco della prima settimana, a metà giugno 2015, centinaia di persone si sono ammassate a Ventimiglia: era l’inizio di una successione di eventi, dei quali stiamo ancora osservando gli sviluppi.

Ci sembra opportuno, in incipit, fornire un minimo quadro spaziale, rispetto ai vari campi e luoghi d’accoglienza approntati in città a partire dall’estate 2015:

Il campo della Croce Rossa: inizialmente situato in prossimità della stazione ferroviaria e poi spostato in una zona industriale a 3 chilometri dal centro. Circolano poche informazioni ufficiali su di esso, ma, grazie alle testimonianze dei-delle migranti, sappiamo che i posti disponibili nei container sono all’incirca 300, mentre il numero delle persone può variare tra 200 e 900: nei momenti di massima affluenza, indipendentemente dalla stagione, si ricorre a delle tende.

Tre campi informali, autogestiti da assemblee di migranti e solidali, succedutisi temporalmente, tra la fine dell’estate 2015 e la primavera 2016, e quindi sgomberati, uno dopo l’altro, dalla polizia italiana.

– Dei luoghi d’accoglienza gestiti dalla comunità cattolica, locale e non. In particolare, la chiesa di Sant’Antonio, lungo il fiume Roya, nella quale sono stati accolti famiglie, donne e minori, fino al luglio 2017, quando le autorità ne hanno imposto la chiusura, nell’intento di concentrare la totalità della popolazione migrante nel campo della Croce Rossa.

– Infine il campo informale e spontaneo, installato lungo il letto del Roya e a tutt’oggi abitato[1]. Questo si sviluppa principalmente nelle zone riparate dai ponti ferroviari e autostradali, ma si estende anche oltre, in quelle zone del letto del fiume, dove più fitta è la vegetazione. Si calcola che ci vivano in media 200 persone, anche se il calcolo non può che essere approssimativo.

Attorno ai vari campi, e in città, si concentra l’azione di vari attori:

– Gli operatori della Croce Rossa.

– I volontari delle associazioni cattoliche e della CARITAS.

– Il personale delle grandi ONG (Come MSF, INTERSOS, AMNESTY INTERNATIONAL e ANAFE) che, dal canto loro, non hanno investito fondi considerevoli in loco e hanno, fino ad ora, condotto principalmente un lavoro di documentazione e redazione di rapporti.

– Infine, attivisti e militanti solidali, locali e non, presenti in città fin dall’estate 2015. Questi, sebbene organizzati in più gruppi a seconda degli orientamenti politici, sono legati da una dinamica di collaborazione finalizzata al sostegno ai migranti. Tale sostegno, come in ogni contesto di lotta “no border”, si esprime sia attraverso rivendicazioni politiche, che attraverso pratiche di solidarietà diretta. Tale rete è stata duramente colpita dalla repressione poliziesca e giudiziaria che si è materializzata in obblighi a lasciare il territorio (fogli di via), in altri provvedimenti giudiziari, ma anche in pressioni e divieti di altro tipo (un esempio su tutti: l’ultimo punto d’informazione e distribuzione di beni di prima necessità dedicato ai-alle migranti è a rischio di sfratto, nonostante in possesso di un regolare contratto di locazione).

E’ proprio tra questi solidali che ritroviamo Lia e Antonio, i due medici che, come abbiamo accennato, da due anni intervengono a Ventimiglia, in quelle zone in cui le istituzioni latitano: inizialmente nei campi autogestiti poi, in seguito agli sgomberi, nella chiesa di Sant’Antonio e infine, quando anche questa è stata chiusa, lungo il letto del fiume.

Vogliamo ancora una volta ringraziarli per il loro lavoro instancabile di cura e di documentazione che ci ha permesso di individuare alcuni nodi attorno ai quali si strutturano delle questioni sanitarie specifiche, in cui fattori di natura differente (amministrativa, politica, sanitaria, personale) si rafforzano vicendevolmente, minando la salute (e la dignità umana) di quei migranti che restano restano bloccati, sospesi in uno spazio tra “due paesi”.

La prima constatazione ha a che vedere con le condizioni materiali di vita alla frontiera: dai report di Lia e Antonio emerge un contesto del quotidiano che si dimostra fonte di problematiche sanitarie, in sé e a causa dello stile di vita a cui conduce, con conseguenze sul piano fisico e psicologico.

Nel frattempo varie persone dall’aspetto quanto meno losco si avvicinano ai ragazzi per parlargli, uno si allontana con due di loro che stanno portando l’acqua. Ci accorgiamo che il tipo losco ha comprato una bottiglia di whiskey e sono già mezzi ubriachi quando arrivano al campo.

Proviamo a parlare con loro del fatto che molti soggetti pericolosi tenteranno di approfittarsi della loro situazione e che bere molto non li aiuterà di certo, il nostro quasi collega ci risponde: “Is this place, my brain is lost”.

«Is this place, my brain is lost 14 maggio 2016»

http://effimera.org/6344-2/

Si può citare, per prima cosa, l’insalubrità di tutti i luoghi di vita, compreso il campo della croce rossa. Questo, da quando la chiesa ha chiuso le sue porte, rimane l’unica struttura ufficiale ancora in funzione ma le condizioni di vita al suo interno non sembrano essere qualitativamente migliori rispetto a quelle lungo il fiume: vi si incontra la stessa promiscuità e, come afferma questo giovane, vi si sente lo stesso freddo:

Un ragazzo eritreo “ospite” del campo della Croce Rossa, con una ferita al piede, ci dice che, anche lì dorme in una tenda e quindi ha ugualmente molto freddo.

«Dicembre a Ventimiglia. Ovvero, il gelo 3 dicembre 2016»

http://effimera.org/dicembre-ventimiglia-ovvero-gelo-amelia-chiara-trombetta-antonio-g-curotto/

Inoltre, il campo è distante dalla città e raggiungibile solo attraverso una strada a scorrimento veloce, lungo la quale si sono già verificati incidenti mortali.

Ma ciò non basta a spiegare perché moltissime persone (anche con figli piccoli) si rifiutino di recarvisi, almeno altri due ordini di ragioni influiscono su questa scelta:

– innanzitutto la diffidenza nei confronti della Croce Rossa: una diffidenza che per alcuni rimonta ad esperienze, dirette o in dirette, vissute nei paesi di origine o in quelli di transito, principalmente in Africa;

– quindi, l’assoluta priorità del progetto migratorio, a cui è subordinata la valutazione dell’opportunità di ogni possibilità. In questo caso, ad esempio, l’obbligo di lasciare le proprie impronte per accedere al campo è vissuto come inaccettabile, poiché potenziale ostacolo alla possibilità di stabilirsi nella destinazione prescelta; ma anche la paura di essere arrestati e deportati verso il sud Italia ha il suo peso: il campo lungo il fiume serve, quindi, anche come una sorta di zona franca, dove è più difficile l’ingresso della polizia e più facile un’eventuale fuga):

Discutiamo con vari giovani sudanesi sulle condizioni del campo della croce rossa […] Ci dicono che molti operatori hanno con loro atteggiamenti offensivi e autoritari, li spingono, non gli consentono di stare all’aperto. Devono stare immobili in luoghi per loro adibiti. Il cibo sembra essere pessimo e spesso insufficiente per tutti gli ospiti. Un ragazzo sudanese che parla molto bene in italiano ci spiega che la situazione del campo non è buona, ma anche che i sudanesi hanno sfiducia nella croce rossa. Dice che nel suo paese ci sono stati campi della croce rossa e che, mentre fuori c’è la guerra e vengono usate armi chimiche, la Croce Rossa nega tutto questo.

«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»

http://effimera.org/malasanita-internazionale/

D’altro canto, anche nel campo informale sul fiume le condizioni di salute dei migranti si degradano velocemente: a parte il rischio rappresentato da eventuali piene del fiume (un rischio molto concreto dal momento che ha già lasciato un morto sul terreno), Lia e Antonio testimoniano di condizioni di vita tali da aver ormai reso certe patologie “tipiche” di tale contesto. Ad esempio: l’insalubrità dei luoghi favorisce lo sviluppo e la diffusione d’infezioni dermatologiche e di parassiti.

I ragazzi che sono con lui hanno tutti delle forme di scabbia molto vecchie, dicono da mesi, alcuni con evidenti infezioni batteriche. Uno di loro ci dice in italiano che ha avuto un morso di topo all’orecchio mentre dormiva. […]. È gonfio e c’è del pus. Ha altre lesioni con pus sul corpo.

«Ventimiglia, dopo la piena del fiume 16/12/17»

https://parolesulconfine.com/ventimiglia-dopo-la-piena-del-fiume/report-ventimiglia-immigrazione-1/

Altri passaggi, invece, testimoniano dell’impossibilità di mantenere pulita una piaga o della sovraesposizione alle malattie dell’apparato respiratorio, dovuta al modo di vita all’aria aperta, senza ripari adeguati.

Un’analisi della situazione su una temporalità lunga permette di mettere in evidenza fino a che punto le scelte politiche e istituzionali abbiano contribuito al peggioramento delle condizioni di vita e della salute delle persone. Tali scelte, infatti, mirano ad ostacolare la permanenza delle persone, impedendogli di soddisfare quelli che si definisco bisogni primari, giustificandosi attraverso l’argomento “umanitario” dello scoraggiare potenziali nuovi arrivi.

Si tratta di una vera e propria strategia politica, teorizzata da alcuni attori istituzionali, come dimostrano le dichiarazioni del sindaco di Ventimiglia Ioculano (PD) in occasione di un incontro con gli operatori delle ONG, durante il quale l’acqua potabile, il cibo e le cure mediche sono stati definiti pulling factors, ovvero dei servizi la cui accessibilità incondizionata favorirebbe l’arrivo e la permanenza dei migranti su un territorio.

Facciamo qualche esempio concreto per illustrare le conseguenze materiali di una tale strategia:

– In primis, l’accesso all’acqua potabile, che è stato al centro di una vera e propria battaglia silenziosa. Tutto è cominciato quando Lia e Antonio hanno iniziato a spingersi nel campo sul greto del fiume e subito hanno constatato la diffusione di patologie gastro-intestinali. La chiave di lettura del fenomeno viene fornita da un giovane africano che, prima della partenza verso l’Europa, studiava medicina: in mancanza di una fonte di acqua potabile, i migranti lì accampati bevevano l’acqua del fiume. I due medici, allora, riescono a mobilitare una piccola rete di solidali e ad individuare, proprio a pochi metri dall’area più densamente popolata, un rubinetto collegato alla rete idrica comunale: tuttavia questo era stato manomesso, sottraendone la maniglia. I solidali reagiscono prontamente per sostituirla, ma dovranno ripetere l’operazione a più riprese perché tale maniglia sarà ogni volta asportata dagli abitanti o dagli agenti del comune.

– Un altro esempio è quello del cibo: insufficiente e di bassa qualità, tanto nell’accampamento informale, che in quello della croce rossa, e di cui il Comune, tramite ordinanze, ha interdetto la distribuzione nello spazio pubblico. È evidente che tale situazione non può che contribuire all’indebolimento ulteriore delle persone, già provate dal viaggio e dalle condizioni di vita.

– E infine, come dimostrato dal seguente estratto, persino le visite mediche finiscono per essere considerate dei “servizi” che incoraggiano la presenza dei migranti.

In questo caso, per alcuni giorni un ambulatorio esterno di fortuna è fornito da un gruppo di infermieri scozzesi che hanno costruito un’unità di strada per l’assistenza di base e che dopo Calais, Parigi e Ventimiglia, si recheranno a Como. Da segnalare in questo caso che ci riferiscono che la polizia ha perquisito la suddetta unità e li ha informati dell’esistenza di una fantomatica ordinanza del sindaco che vieterebbe qualsiasi contatto con i migranti, inoltre li avrebbero informati del fatto che in Italia non è possibile esercitare professioni sanitarie in strada.

«Malati di confine 11 e 12 Marzo 2017»

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Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Ventimiglia è solo una delle tappe di un viaggio che può durare qualche mese come vari anni e che possiamo considerare, nel suo insieme, come patogeno.

Vogliamo dire che, spesso, le patologie incontrate dai due medici hanno origine altrove, anche se è innegabile che qui si aggravino a causa della permanenza forzata in una situazione che ostacola anche le più semplici procedure di prevenzione, gestione e cura delle malattie.

Rimuoviamo un’agocannula in una persona con un edema evidente agli arti inferiori allontanatasi spontaneamente dall’ospedale. Gli chiariamo che quella scelta a nostro avviso è stata un errore, ma rimuoviamo comunque l’accesso venoso, poiché avrebbe costituito una pericolosa via d’infezione in una situazione come quella.

«Le torture affiorate 9 luglio 2017»

http://effimera.org/le-torture-affiorate-report-ventimiglia-del-9-luglio-lia-trombetta-cecilia-paradiso-antonio-curotto/

Allo stesso modo, i numerosi traumi riscontrati da Lia e Antonio sono per la maggior parte legati ad “incidenti” di viaggio avvenuti altrove. A questo proposito possiamo individuare tre diverse eziologie:v

Le violenze inflitte direttamente da qualcuno (ad esempio quelle legate ad episodi di tortura, subiti in Africa, come nell’esempio seguente, ma anche in Italia):

Vogliamo auscultargli il torace per capire se c’è qualche problema polmonare percepibile. Vediamo che la schiena è piena di cicatrici. Per capire di che si tratta ci facciamo fare la traduzione della sua storia al telefono da sua sorella maggiore, emigrata molti anni fa negli USA. È una storia molto istruttiva di mala-sanità internazionale. Inizia l’anno prima in Darfur (vedi introduzione del documento Who per lo stato del sistema sanitario in quell’area), quando A. arriva, per esasperazione, ad urlare contro il medico che seguiva sua madre per una malattia cronica. Dice che la sua famiglia non riusciva a pagare l’assistenza sanitaria ed erano disperati. Durante questa lite, il medico chiama la polizia, questa arriva e porta A. in carcere. Lì viene tenuto per due mesi, dove viene quotidianamente frustato e, a detta della sorella, “gli succede tutto ciò che c’è di male”. Non approfondiamo troppo anche perché la comunicazione è difficile. A. è preoccuato che rivelarci queste cose porterà a qualche problema per lui o per la sua famiglia. Viaggia con due bambini piccoli (che sono tra quelli che hanno raffreddore e febbre) e la moglie.

«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»

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l’inadeguatezza delle condizioni di viaggio (Ad esempio, il fatto di camminare per lunghe distanze, indossando scarpe di una misura inferiore alla propria; o di intraprendere sentieri di montagna senza averne le competenze necessarie);

– E, infine, le risposte delle istituzioni (e pensiamo, in particolare, alla militarizzazione della frontiera che obbliga i migranti a cercare degli stratagemmi sempre nuovi e sempre più pericolosi per oltrepassarla, con il risultato che, dal 2015, una ventina di persone sono morte nel tentativo di raggiungere la Francia: alcuni investiti mentre camminavano sul bordo dell’autostrada; altri fulminati mentre erano nascosti nel locale tecnico dei treni; altri ancora caduti in montagna mentre percorrevano un sentiero).

Dalla lettura delle testimonianze dei due medici, una constatazione s’impone in modo evidente: Ventimiglia, proprio come Calais o Lampedusa, si configura come un “collo di bottiglia” dove qualsiasi fenomeno patologico, indipendentemente dalla sua natura, tende a aggravarsi. Inoltre, tutta questa situazione non ha conseguenze esclusivamente sul fisico delle persone, ma anche sul loro stato mentale: a tal proposito, alcune testimonianze mettono in evidenza la disperazione, l’apatia e il malessere in cui vivono i migranti a Ventimiglia. Una condizione che spinge alcuni ad annegare i pensieri nell’alcool.

Diversi, tra questi gruppi, hanno bottiglie di plastica tagliate a metà, che usano come bicchieri per bere del vino. Ne parlano con noi abbastanza tranquillamente, dicendo che è quel posto che li induce a bere.

«Ventimiglia libera 11 novembre 2017»

https://parolesulconfine.com/ventimiglia-libera/

Capiamo, allora, sempre meglio il sentimento di frustrazione che traspare da questi scritti: in un tale contesto, in cui gli interventi sanitari non sono né regolari, né coordinati tra gli attori, la messa in opera di vere e proprie strategie di cura è impossibile perché, come dichiarano i due medici, non c’è nessuno a cui affidare il lavoro svolto. Ne risulta una situazione caotica, in cui azioni diverse si giustappongono e sovrappongono una all’altra fino a diventare inutili, se non dannose e, a volte, persino caricaturali… Se solo non si avesse a che fare con la concreta sofferenza di altri esseri umani. A tal proposito, vogliamo citare la storia di un ragazzo sudanese di 30 anni:

Non parla inglese quindi con l’aiuto di un altro connazionale ci mostra l’avambraccio destro molto gonfio. Dice di essere stato sottoposto a una iniezione non meglio definita qualche giorno prima. È molto preoccupato. Gli chiediamo chi fosse stato e per quale motivo, ma non ci sono risposte. Si capisce dalla localizzazione e dal tipo di reazione che si tratta di una intradermoreazione alla tubercolina. Chiediamo quindi spiegazione ai volontari della caritas. Questi ci spiegano, in preda all’ansia, come qualche tempo prima presso un ospedale locale ad un uomo loro “ospite” fosse stata fatta diagnosi di tubercolosi. A seguito di ciò i volontari della caritas avevano chiesto l’intervento della ASL a scopo preventivo per ospiti e volontari presenti nella comunità. Dopo molte resistenze sembra che alcuni operatori della ASL si siano recati presso la parrocchia di S Antonio e abbiano fatto il test di intradermoreazione alla tubercolina solo a 12 uomini, senza ottenere il loro consenso informato, ovvero il tanto sbandierato atto obbligatorio per l’attuazione di qualsiasi procedura medica che coinvolga il corpo di noi “bianchi” e (almeno altrettanto grave), senza che la positività all’intradermoreazione fosse successivamente controllata. In altre parole, sono state sottoposte al test solo alcune delle persone esposte all’eventuale contagio, ma non è stata controllata successivamente la positività o negatività del test. Infatti questo è un test intradermico che evidenzia l’avvenuto contatto del sistema immunitario con il bacillo tubercolare (e non la presenza di malattia in atto) e la cui risposta va controllata da un clinico 48 e 72 h dopo l’intradermoreazione stessa. I controlli positivi devono essere sottoposti a RX torace (linee guida ministero della Salute). Tali controlli non sono mai stati effettuati. Diversi uomini il sabato mattina (48h dopo) presentavano positività all’intradermoreazione anche molto forte ed erano molto turbati da ciò che succedeva al loro avambraccio. Ugualmente turbati erano i volontari della Caritas a cui non è stato spiegato nulla.

«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»

http://effimera.org/malasanita-internazionale/

Questo estratto dimostra come, proprio qui all’interno dell’Europa, il diritto alla salute perde, de facto, la sua universalità per diventare una conseguenza dello status amministrativo.

Le politiche trattate finora sono il risultato di un approccio estremamente miope al fenomeno migratorio contemporaneo, del quale si dà una lettura oltremodo semplificata.

Quest’ultimo è, infatti, considerato come un’urgenza contingente: un momento di crisi a cui bisogna portare risposte in grado di farci “resistere” fino al futuro ristabilimento della “situazione normale”, quella “di prima”, quando è chiaro ci troviamo di fronte ad un processo globale, destinato a cambiare il volto demografico di Ventimiglia e dell’Europa intera. Le conseguenze di tale fenomeno dipenderanno dalla nostra capacità di approntare strategie efficaci a livello strutturale. Tuttavia, l’attuazione di tali strategie diventa impossibile nel contesto attuale.

D’altra parte, è evidente che interventi come quelli miranti a scoraggiare l’arrivo e l’installazione dei migranti tramite la soppressione dei cosiddetti pulling factors siano destinati all’insuccesso: del resto, parliamo di persone che non hanno alternative per proseguire il loro viaggio. Un viaggio nel quale hanno investito troppo (denaro, sofferenza, aspettative, speranze) per tornare indietro… Il solo risultato di tali strategie è di rendere le condizioni di vita delle persone ancora più dolorose: nient’altro.

Ma c’è un ultimo aspetto che vorremmo sottolineare. A Ventimiglia, come altrove, la questione va ben al di là della preoccupazione umanitaria per la salute di questi “viaggiatori illegali”:

– Per prima cosa perché il rischio sanitario riguarda direttamente anche gli “europei”: infatti le condizioni di vita non igieniche e l’assenza di un’efficace sistema di cure non possono che favorire la diffusione di epidemie, i cui agenti patogeni, dal canto loro, non guardano né la nazionalità, né il visto sul passaporto.

– E, infine, perché in assenza di politiche sanitarie strutturali, gli episodi patologici finiscono per essere trattati tardivamente e/o, in mancanza di alternative, inviati al pronto soccorso. Questo non solo ha un costo più elevato per la comunità, ma determina anche la sovrasollecitazione del servizio, aumentando il tempo d’attesa degli altri pazienti.

Concludendo, vorremmo portare l’attenzione sui risultati delle ultime elezioni politiche a Ventimiglia. La Lega ha visto aumentare i propri consensi dal 6% del 2013 al 29%. E’ chiaro, e lo notiamo con estrema amarezza, che in questo clima di isteria generale, sapientemente fomentato per interessi elettorali, il populismo sta avendo la meglio sull’empatia umana e sul buon senso.

Ancora una volta ci chiediamo quale sia lo scopo di mantenere l’accoglienza ai-alle migranti in simili condizioni e invitiamo a riflettere sulle conseguenze politiche e sociali di tutto ciò.

Matteo Fano, Cecilia Paradiso

[1]Durante il lavoro di redazione del presente contributo, i media hanno riportato la notizia dello sgombero anche di questo campo, avvenuto il giorno 18 aprile. Ancora una volta, l’azione repressiva è stata ufficialmente giustificata come un obbligo umanitario, come un atto dovuto, a causa dell’insalubrità e della pericolosità del luogo. Il lavoro di ricerca che ha portato alla stesura del presente articolo, ci rende impossibile credere alla buona fede di tali dichiarazioni: ancora una volta si cerca di nascondere un’azione dettata da interessi politici di breve termine e dalle conseguenze potenzialmente disastrose, dietro un discorso che, alla luce dei fatti, è inconsistente e senza prospettiva alcuna.

Pensavamo all’Europa come un sogno, ora siamo qui: Europa…e non c’è niente

Ventimiglia, dopo l’ennesimo sgombero, 18 e 19 Maggio 2018

È la seconda volta nell’ultimo mese che ci rechiamo a Ventimiglia, dopo lo sgombero del campo informale sotto il ponte di Via Tenda.

All’arrivo in città, nelle strade principali, persiste inalterato il passaggio quasi continuo di giovani migranti a piccoli gruppi. Inoltre, balzano agli occhi i cellulari delle forze dell’ordine con la cospicua presenza di polizia/finanza/carabinieri che si alternano nei piazzali antistante la chiesa si San Antonio.

Parcheggio davanti al cimitero

Proseguendo il cammino raggiungiamo il parcheggio davanti all’entrata del cimitero.

Qui staziona il camper di kesha niya che fornisce su un tavolino acqua e the un po’ di cibo. Ci sono una decina di ragazzi, prevalentemente sudanesi. Parliamo con loro e visitiamo alcune persone: due sono affette da scabbia, forniamo e spieghiamo come effettuare il trattamento, indicando l’infopoint Eufemia come possibile luogo di approvvigionamento di vestiti e coperte. Arriva un ragazzo sudanese in bicicletta, che più volte ci ha aiutato nelle traduzioni. Ci informa che il giorno prima c’è stata una retata della polizia che ha riempito 3 pullman, quindi circa 140 persone trovate in giro per la città o sulla spiaggia o espulsi dalla Francia. I pullman avevano come destinazione l’hotspot di Crotone. A lui chiediamo come sono distribuite le persone in città. Come ci era stato già detto nell’ultima visita la prevalenza si era recata presso il centro della croce rossa che raccoglie circa 300 persone, comprese una decina di famiglie con bambini.

Spiaggia

Poiché sembra che altre persone dormano in spiaggia, andiamo li, ma questa volta non incontriamo nessuno, nonostante siano ben riconoscibili vari giacigli di fortuna utilizzati per la notte.

Nella visita precedente avevamo incontrato in spiaggia un folto gruppo di ragazzi curdi, con evidenti eritemi cutanei da irradiazione solare, per i quali avevamo aiutato a trovare il modo, non essendo in possesso di documenti e con l’ausilio degli attivisti di Eufemia, di poter ricevere soldi dalla famiglia.

Bar Hobbit

Pranziamo presso il Bar Hobbit di Delia. Con lei parliamo della situazione generale e del particolare stato di crisi del suo locale che tanto ha dato in termini di aiuti materiali e di calore umano alle persone in viaggio. Qui incontriamo un gruppo di attiviste amiche che stanno facendo riprese per un documentario sulla storia di Ventimiglia.

Parcheggio davanti al cimitero

Nel pomeriggio torniamo verso il piazzale antistante al cimitero. Ci accorgiamo con sconforto che il tormentato accesso di fortuna all’acqua potabile, messo in funzione con caparbietà da un amico solidale, è stato nuovamente interrotto.

La volta precedente avevamo percorso l’argine del fiume fino al ponte dell’autostrada senza incontrare alcuno. Questa volta ci sediamo al bordo del piazzale, con alcune persone. Visitiamo un ragazzo per un’estesa micosi alla pianta dei piedi, banale patologia, ma che in queste condizioni dove il poter camminare è fondamentale ed urgente diventa importante. Ricordiamo a tutti di non bere l’acqua del fiume e di informare costantemente i nuovi arrivi sulla necessità di recarsi agli accessi d’acqua potabile, anche se lontani. Assistiamo ad una piccola partita di calcio, a cui partecipa anche un ragazzo bianco. Al termine, ci racconta che è uno che vive a Sanremo, ha fatto una tesi per la laurea magistrale in sociologia presso l’Università di Napoli su interviste eseguite a Ventimiglia riguardo alle ragioni delle migrazioni dal continente africano, in particolare sulla situazione sudanese.

La storia di Musa

Un altro ragazzo, Musa, di 25 anni, ci indica un suo amico per un problema di salute. Iniziamo a parlare e ci racconta del suo “sogno” di studiare – dice di se stesso di essere “educated”. A suo parere se non si ha questa possibilità, non ci sono speranze. A 25 anni si sente già vecchio e sente come se il suo sogno gli stesse sfuggendo di mano.

Il Sudan

Sentendo che ha voglia di parlare, gli chiediamo come abbia deciso di partire. Racconta che in Sudan, le persone del suo villaggio vengono considerate molto forti, per questo la “milizia” le obbliga spesso a lavorare gratuitamente. Per lungo tempo infatti aveva lavorato per loro. Tagliava la legna che poi veniva usata per produrre carbone per la vendita a Khartoum. Dopo molti mesi era riuscito a fuggire e a rifugiarsi a casa di uno zio, che ritenendo che fosse in pericolo, gli aveva consigliato di fuggire in Egitto.

L’Egitto

In Egitto era riuscito a sopravvivere e anche a inviare dei soldi alla famiglia grazie a vari lavori, ma rimaneva il sogno in lui di andare all’Università. In Egitto tuttavia i costi erano eccessivi, avrebbe dovuto pagare circa 450 dollari, che per lui avrebbe significato lavorare una vita.

Decide dunque, benché consapevole del rischio, delle torture a scopo di estorsione nei campi in Libia, dei morti in mare, di affrontare il viaggio per raggiungere l’Europa.

La Libia

Poco dopo essere arrivato in Libia, gli viene proposto da un locale di lavorare per lui. Non conoscendo bene la situazione e avendo bisogno di soldi, accetta. Tuttavia, l’uomo si rivelerà una persona pericolosa e crudele. Ogni notte lo chiude a chiave in una piccola stanza e ogni mattina apre la porta per dargli dei lavori pesanti da fare, minacciandolo di morte e di lasciarlo senza cibo e senza acqua se Musa non farà ciò che lui gli ordina. Musa spiega che tutti in Libia hanno armi in casa. L’uomo ha una moglie e un figlio piccolo. La donna si mostra più umana e ogni volta che suo marito esce, porta a Musa del cibo e dell’acqua. Un giorno però il marito, accorgendosi di ciò, reagisce violentemente e lancia il cibo addosso alla moglie. Da quel giorno Musa rifiuta qualsiasi aiuto dalla donna, dicendole che non vuole che lei venga uccisa da suo marito, troverà da solo il modo di sopravvivere. Dopo due mesi e a seguito di uno studio approfondito dei tempi della vita del libico, riesce a portare un grosso ramo nella stanza e a usarlo per rompere la finestra.

Fugge in strada e riesce a raggiungere un campo informale di sudanesi. Questi gli spiegano che non può rimanere li, perché il suo carceriere potrebbe arrivare e potrebbe anche uccidere tutti. Lo portano in macchina in un altro campo, dove vivono altri sudanesi, da molto tempo. Dice che molti di questi vivono in Libia da più di 20 anni, ci sono anche persone anziane. Loro conoscono il territorio e possono consigliargli dove andare e per chi lavorare (dice: “chi paga e chi no”), chi sono le brave persone e chi è pericoloso.

Vive così alcuni mesi, ma purtroppo un giorno viene scoperto da gruppi paramilitari, che lo portano in un campo di prigionia. Starà lì altri mesi, sarà soggetto a torture e vedrà molte persone torturate. Soprattutto racconta della tortura con l’acqua bollente gettata sulla pelle nuda. A suo parere questa volta i carcerieri sono paramilitari, ma hanno accordi con i militari libici. Nel campo ci sono centinaia di uomini, donne e bambini. Dopo giorni e giorni di tortura, alcuni uomini (dice soprattutto nigeriani), impazziscono. I torturatori gli fanno bere e gli forniscono droghe, successivamente li prendono a lavorare per loro, convincendoli a perpetrare violenze su prigionieri inermi a scopo di estorcergli più denaro possibile. Ad un certo punto, improvvisamente, i prigionieri vengono portati al porto dai loro stessi carcerieri, e gli viene detto: “now, go to Italy”.

“Sogno” e realtà

Alla fine Musa dice soltanto: “pensavamo all’Europa come un sogno, ora siamo quì: Europa…e non c’è niente”. Nella sua vita ha visto tanti campi, anche con donne e bambini, in condizioni terribili. Ha sempre pensato che avrebbe dovuto fare qualcosa per loro, ma senza riuscire a capire cosa, o come.

Questa storia è troppo forte. Non ce la sentiamo di fare altre domande sul viaggio in mare, o su come sia arrivato a Ventimiglia.

Cerchiamo anche noi di appigliarci all’idea del sogno di studiare, anche perchè Musa chiede avidamente cosa sarebbe meglio fare: tentare ancora e ancora il passaggio in Francia? Chiedere i documenti in Italia? Quando potrà avere una casa, andare a scuola e imparare l’italiano, se chiede asilo in Italia?

Lia Trombetta
Antonio Curotto

LA FRONTIERA UCCIDE. La militarizzazione è la sua arma

Foto tratta dal blog https://hurriya.noblogs.org/ Frontiera italo-francese tra la Val di Susa e la Val de la Clarée
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, i comunicati scritti dagli occupanti di Chez Jesus, a proposito del recente ritrovamento del corpo senza vita di una migrante, nel fiume Durance.
Le frontiere uccidono: non è una frase ad effetto, non è un’iperbole da utilizzare enfaticamente. E’ la realtà dei rinnovati confini interni all’Europa degli anni ’10. Ma non sono le impervietà geografiche ad uccidere, non si tratta di fatali incidenti: B. è morta durante un inseguimento da parte della Polizia Nazionale francese e, qualche giorno più tardi, venerdì 18 maggio, dei camminatori hanno trovato M., un giovane senegalese, morto di sfinimento su un sentiero alpino. La caccia al migrante, di cui sono teatro i passi che uniscono la Val Susa a quella della Durance, ha le stesse conseguenze, in termini di vite umane, delle operazioni di militarizzazione e controllo di altre zone di frontiera: dalle acque del Sud del Mediterraneo allo stretto di Calais, da Ventimiglia alle strade dell’Est. In un mondo nel quale i rapporti coloniali si rinnovano e le diseguaglianze continuano ad essere un fertile terreno di estrazione di ricchezza, la grottesca difesa di anacronistici confini nazionali giustifica il massacro, anche a due passi dalle nostre case, anche nel cuore della democraticissima Europa: magari si leverà qualche voce di sdegno, qualche moto di commozione … Oppure, più semplicemente, si aggiungerà un nome alla lista di chi non ce l’ha fatta: le autorità competenti ne parleranno con la freddezza di chi già lo aveva messo in conto, reiterando la normalizzazione di una realtà feroce.

LA FRONTIERA UCCIDE. LA MILITARIZZAZIONE E’LA SUA ARMA.

Una donna è morta. Un cadavere ancora senza nome è stato ritrovato mercoledì 9 maggio all’altezza della diga di Prelles, nella Durance, il fiume che scorre attraverso Briançon.

Una donna dalla pelle nera, nessun documento, nessun appello alla scomparsa, un corpo senza vita e senza nome, come le migliaia che si trovano sul fondo del Mediterraneo.

Questa morte non è una disgrazia inaspettata, non è un caso, non è “strana” per tanti e tante. Non c’ entra la montagna, né la neve o il freddo.

Questa morte è stata annunciata dall’inverno appena passato, dalla militarizzazione che in questi mesi si è vista su queste montagne e dalle decine di persone finite in ospedale per le ferite procuratesi nella loro fuga verso la Francia. È una conseguenza inevitabile della politica di chiusura della frontiera e della militarizzazione.

Questa morte non è una fatalità. È un omicidio, con mandanti e complici ben facili da individuare.

In primis i governi e le loro politiche di chiusura della frontiera, e ogni uomo e donna in divisa che le porta avanti. Gendarmi, polizia di frontiera, chasseurs alpins, e ora pure quei ridicoli neofascisti di Géneration Idéntitaire, pattugliano i sentieri e le strade a caccia dei migranti di passaggio da questi valichi alpini. Li inseguono sui sentieri e nella neve sulle motoslitte; li attendono in macchina in agguato lungo la strada che porta a Briançon e quelle del centro città. Molti i casi quest’inverno di persone ferite e finite all’ospedale in seguito alle cadute dovute alle fughe dalla polizia.

Quella donna era una delle decine di migranti che ogni giorno tentano di andare in Francia per continuare la propria vita. Per farlo, ha dovuto attraversare nella neve, a piedi, quella linea immaginaria che chiamano frontiera. Perché i mezzi di trasporto, sicuri, le erano preclusi data la mancanza di documenti e per la politica razziale di controllo che attuano al confine. Poi è scesa sulla strada, quei 17 chilometri che devono percorrere a piedi per raggiungere la città. È lungo quel tratto che deve essere inceppata in un blocco della polizia, come spesso viene raccontato dalle persone respinte. Probabilmente il gruppo di persone con cui era, che come lei tentava di attraversare il confine, si è disperso alla vista di Polizia o Gendarmerie alla ricerca di indesiderati da acchiappare e riportare in Italia, nel solito gioco dell’oca che questa volta ha ucciso.

Questa donna senza nome deve essere scivolata nel fiume mentre tentava di scappare e nascondersi, uccisa dai controlli poliziesci. L’ autopsia avverà a Grenoble nella giornata di lunedì, solo allora sarà possibile avere maggiori dettagli sulla causa della morte.

La frontiera separa e uccide.

Non dimentichiamo chi sono i responsabili.

11 maggio, Rifugio autogestito Chez Jesus


CRONACHE DI UNA MORTE ANNUNCIATA

È passata una settimana dalla morte di B. Cinque giorni dal ritrovamento del cadavere di una giovane donna, “forse una migrante”, nel fiume sotto Briançon, la Durance.

Questi i fatti.

Un gruppo di quasi una decina di persone parte da Claviere per raggiungere Briançon a piedi. È domenica sera, e come ogni notte i migranti che cercano di arrivare in Francia si ritrovano costretti a camminare per le montagne per evitare i controlli di documenti.

Il gruppo inizia il cammino e poi si divide, una donna fa fatica a camminare ed ha bisogno di supporto. Due persone stanno con lei, e i tre si staccano dal gruppo. Camminano sulla strada, nascondendosi alla luce dei fari di ogni macchina e a ogni rumore.  Infatti la polizia sta attuando una vera caccia al migrante, negli ultimi giorni più che mai. Oltre a nascondersi sui sentieri per sorprendere con le torce chi di passaggio e fare le ronde con le macchine sulla strada, hanno iniziato ad appostarsi sempre più spesso agli ingressi di Briançon e ai lati dei carrefour facendo dei veri posti di blocco.

Il gruppo di tre cammina per una quindicina di chilometri e si trova a 4-5 Km da Briançon. All’altezza della Vachette, cinque agenti della Police National sbucano fuori dagli alberi alla sinistra della strada. Sono le 4-5 del mattino di lunedì 7 maggio. I poliziotti iniziano a rincorrerli. Il gruppetto corre e entra nel paesino della Vachette. Uno dei tre si nasconde; gli altri due, un uomo e una donna, corrono sulla strada. L’uomo corre più veloce, cerca di attirare la polizia, che riesce a prenderlo e lo riporta in Italia diretto. La donna scompare.

La polizia prosegue per altre quattro ore le ricerche nel paesino della Vachette. Il fiume è in piena, e i poliziotti concentrano le ricerche sulle sponde della Durance e nella zona del ponte. Poi la Police se n’è andata. Questo operato si discosta totalmente dalle modalità abituali della Police Nationale, che nella prassi cerca i fuggitivi per non più di qualche decina di minuti. Le ricerche concentrate nella zona del fiume rendono chiaro che i poliziotti avessero compreso che qualcosa di molto grave era successo, a causa loro.

50 ore dopo, mercoledì, un cadavere di una donna viene ritrovato bloccato alla diga di Prelles, a 10 km a sud da Briançon. È una donna nigeriana, un metro e sessanta, capelli lunghi scuri con treccine. Cicatrici sulla schiena, una collana con una pietra blu.

Il Procureur della Repubblica di Gap, Raphael Balland, ha dato la notizia il giorno seguente, dicendo che “Questa scoperta non corrisponde a una scomparsa inquietante. Per il momento, non abbiamo nessun elemento che ci permette di identificare la persona e quindi di dire che si tratta di una persona migrante”. Pesanti le dichiarazioni del procuratore.

Una scomparsa “non è inquietante” se non c’è una denuncia, e quindi se si tratta di una migrante? In più il procuratore mente, perché la polizia sapeva che una donna era sparita dopo un inseguimento. Ben pochi i giornali che hanno rilevato la notizia. Sembra che nessuno fosse molto interessato a far uscire la vicenda, anzi. L’interesse è quello di insabbiare questa storia, per evitare un ulteriore scandalo, dopo i due casi di respingimento di donne incinte, che possa scatenare una reazione pubblica davanti alle violenze della polizia.  Un’inchiesta giudiziaria è stata aperta e affidata alla gendarmeria al fine di determinare le circostanze del decesso. Il magistrato ha detto “non avendo elementi che fanno pensare alla natura criminale del decesso, un’inchiesta è stata aperta per determinare le cause della morte”.

Ma anche questo è falso. La natura del decesso è criminale.

Non è una morte casuale, non è un errore. Questo è omicidio. Erano cinque i poliziotti che li hanno inseguiti. Quella donna, B, è morta per causa loro e della politica di leggi che dirige, controlla e legittima le loro azioni. B. è morta perché la frontiera senza documenti non la passi in altro modo. Ma B. non è nemmeno morta a causa della montagna, per errore, e non è morta per la neve quest’inverno. È morta perché stava scappando dalla polizia che in modo sempre più violento si dà alla caccia al migrante. L’hanno uccisa quei cinque agenti, come il sistema di leggi che glielo ordina. Un omicidio con dei mandanti e degli esecutori. Il procuratore di Gap e la prefetto sono responsabili quanto i poliziotti che l’hanno uccisa, date le direttive assassine che danno. Responsabili sono le procure e i tribunali, che criminalizzano i solidali che cercano di evitare queste morti rendendo il più sicuro possibile il passaggio. Responsabili sono tutti i politicanti che portano avanti la loro campagna elettorale sulla pelle delle persone.

Se continuiamo così, i morti aumenteranno. È la militarizzazione che mette in pericolo le persone. La polizia, uccide.

14 maggio, Rifugio Autogestito Chez Jesus

#FREETHEMORIA35 – Aggiornamento da Lesbo

La foto di copertina rappresenta l’esterno dell’hotspot di Moria nell’isola di Lesbo, vero e proprio centro di detenzione per migranti. (FONTE: REUTERS/Alkis Konstantinid)
Riceviamo e pubblichiamo questa seconda testimonianza da parte di un solidale che da diversi mesi si trova come operatore legale in servizio volontario presso l’hotspot di Lesbo.
Il testo analizza con accuratezza la vicenda giudiziaria dei trentacinque rifugiati processati in seguito alla protesta messa in atto il 18 luglio 2017 nel campo di Moria (hotspot dell’isola di Lesbo) contro le condizioni di vita lesive dei diritti fondamentali a cui sono sottoposti i suoi abitanti.
Un iter giudiziario emblematico della costruzione della nuova condizione coloniale dentro la stessa Europa.
Come hanno messo in evidenza alcuni teorici del postcolonialismo analizzando in particolare il caso dell’India [1] la colonizzazione è un fenomeno in cui la violenza  e la sopraffazione bruta vanno sempre di pari passo con la costruzione di nuovi ordinamenti giuridici. Dallo stato di eccezione – contraddistinto dalla violenza come sospensione di ogni norma – alla ricostruzione di un ordinamento giuridico frutto e giustificazione di quella violenza e di quei rapporti di forza. Il colonialismo classico vide la prospettiva del “legislatore”  affiancata molto presto a quella del “conquistatore”, nella conoscenza così come nella governamentalità.
Tuttavia se nel colonialismo classico la produzione di una normalità coloniale, cioè di una legislazione in grado di riempire il vuoto creato dall’eccezionalità della violenza, è stata strettamente legata al rapporto di implicazione che sin dall’inizio aveva stretto la metropoli (quindi il cittadino occidentale) con le colonie (ossia con i sudditi coloniali) in quanto legati dall’appartenenza “ alla medesima storia collettiva”  c’è da chiedersi quanto il nostro mostruoso presente, di cui questa testimonianza racconta aspetti salienti, sia leggibile attraverso lo stesso nesso.
In un’Europa sempre più chiaramente postcoloniale riemerge la distinzione tra cittadino e suddito coloniale, cioè colui che non gode dello stato di diritto:  una distinzione  creata evidentemente in base ad un criterio razziale. Ma la razza diventa un dispositivo in grado di catturare figure molteplici, destinate con gradi diversi ad appartenere alla schiera dei nuovi colonizzati ai quali, con gradi diversi, vengono negati i diritti civili, sociali e politici. Ancora una volta il governo della migrazione appare come il laboratorio su cui viene sperimentata una nuova governamentalità coloniale. Da questo punto di vista non è affatto inutile ricordare il contenuto del decreto Minniti – Orlando, varato ormai un anno fa, nel quale le tre figure chiave individuate come nuovi sudditi coloniali erano i migranti, i poveri e “gli antagonisti”.
Molte altre riflessioni vengono in mente leggendo questa testimonianza, come per esempio il ruolo giocato dal limbo temporale (una vera e propria tortura psicologica)  a cui vengono costretti i migranti  nella governamentalità della migrazione. Anni persi ad aspettare la risposta dell’ottenimento di uno status grazie a cui essere riconosciuti come soggetti di diritto,  per essere, ad un certo punto, riportati forzatamente al punto di partenza. Il gioco dell’oca a cui sono sottoposti i migranti, deportati da Ventimiglia a Taranto con i bus della Riviera Trasporti, è una delle tante forme che assume questo confine temporale. Un confinamento temporale che , seppure con un’intensità diversa,viene sperimentato anche sui subalterni autoctoni attraverso la precarietà lavorativa e le forme di vita ad essa connessa.
La nuova dimensione coloniale che osserviamo costituirsi nei nostri mondi con il suo carico di violenza e di terrore ha motivo di essere chiamata “post-coloniale” se si è in grado di riconoscere in quel prefisso “post” non solo la sconfitta dei movimenti anticoloniali novecenteschi ma anche la traccia indelebile che essi hanno impresso nella nostra storia, rendendo il mondo davvero globale. La contraddizione oggi è portata al cuore stesso dell’Europa: ogni dispositivo violento di dominio, controllo e segregazione,  in realtà è una risposta alle lotte e alle pratiche di liberazione che partono da una presa di coscienza dell’eguaglianza da parte dei migranti che sfidano l’ipocrisia dell’universalismo occidentale mettendo a nudo il carico di violenza ad esso soggiacente. La migrazione può essere così scoperta non solo come laboratorio di teniche di dominio ma anche come fenomeno i cui soggetti spesso incarnano le vere avanguardie nella lotta contro la brutalità dello status quo.

g.b.

#FREETHEMORIA35

I 35 imputati del processo contro i Moria35 sono stati tutti rimessi in libertà, tuttavia con la sentenza è stato commesso, a parere di chi scrive, un grave errore giudiziario da parte del Tribunale a giuria mista di Chios, in Grecia, dove 32 dei 35 imputati sono stati dichiarati colpevoli di lesioni contro pubblico ufficiale.

Ricordiamo che i 35 imputati erano stati arrestati arbitrariamente e con metodi violenti nel campo di Moria a Lesvos il 18 luglio 2017 in seguito a quella che era partita come una protesta pacifica al di fuori dell’ufficio dell’EASO (l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo).

Il verdetto intrinsecamente pericoloso, raggiunto nonostante la totale mancanza di prove a sostegno delle accuse, arriva dopo un processo durato una settimana che ha continuamente violato i principi fondamentali del giusto processo, garantiti dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e mette seriamente in discussione l’imparzialità, sia dei giudici, sia del procuratore designato per il caso.

32 dei 35 imputati sono stati giudicati colpevoli di lesioni a pubblico ufficiale, ma assolti da tutte le altre accuse. I tre imputati, arrestati invece da un vigile del fuoco fuori dal campo Moria, sono stati ritenuti innocenti da tutte le accuse. La testimonianza contro di loro è stata screditata, ritenuta inconsistente, nonché priva di credibilità in quanto il vigile del fuoco, nel corso di una delle udienze, ha erroneamente identificato persone diverse dalle tre da lui arrestate. Nonostante ciò, nessuno dei testimoni dell’accusa è stato iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico, false dichiarazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza.

Mentre le prove contro i rimanenti 32 imputati erano ugualmente inconsistenti, i tre giudici e i quattro giurati li hanno ritenuti all’unanimità colpevoli. Inoltre, la sentenza è stata raggiunta senza che il pubblico ministero dimostrasse che vi fossero gli elementi necessari per ritenere responsabili dei crimini gli imputati: vi era infatti solo prova di lesioni superficiali ad un agente di polizia, e non c’era alcuna prova credibile che identificasse nessuno dei 32 come aggressore di un agente di polizia.

I testimoni di polizia hanno infatti confermato che tutti e 32 gli imputati arrestati all’interno del campo di Moria erano colpevoli semplicemente perché presenti nella sezione africana del campo dopo che erano cessati gli scontri tra alcuni migranti e la polizia in assetto antisommossa. La conferma da parte della Corte che la colpevolezza può essere ritenuta esistente solo in base alla razza e alla evenutale presenza nei pressi del luogo dove si sono verificati i presunti crimini costituisce un precedente estremamente pericoloso per gli arresti che potrebbero derivare da future rivolte e/o proteste.

I testimoni della difesa inclusi diversi residenti di Mitilene e del Moria Camp hanno confermato che il campo di Moria non è mai stato evacuato, che la gente è entrata ed è uscita dal campo per tutto il pomeriggio attraverso le entrate posteriori e che nel campo la situazione era sotto controllo circa un’ora prima degli arresti.

Molti imputati hanno confermato la loro partecipazione alla protesta che chiedeva la libertà di circolazione da Lesvos alla Grecia continentale, la fine delle ingiuste procedure di asilo sull’isola e che denunciava le terrificanti condizioni in cui i richiedenti asilo sono costretti a vivere nel campo Moria.

Hanno spiegato, inoltre, che la polizia ha risposto violentemente alla protesta, disperdendo i manifestanti tramite un uso eccessivo di gas lacrimogeno. Altri hanno testimoniato di essere entrati nel campo di Moria dopo che la situazione era tornata alla calma, per poi ritrovarsi arrestati con metodi violenti durante il raid della polizia.

L’eccessiva violenza della polizia è stata confermata nel processo attraverso la documentazione medica delle lesioni subite dagli imputati, le prove video degli arresti e la testimonianza di diversi testimoni e imputati. Il pubblico ministero di Mitilene ha già aperto un’indagine contro agenti di polizia, non idenfiticati (al momento) per aver causato gravi danni fisici a 12 dei 35 imputati.

Il processo a Chios è stato caratterizzato da numerosi e gravi problemi procedurali, tra cui l’assenza di interpreti per la maggior parte del processo e per il tempo molto ristretto concesso a testimoni della difesa ed imputati di fornire la loro testimonianza e/o dichiarazione spontanea.

Una delegazione internazionale di osservatori legali è stata presente durante tutto il processo e pubblicherà un rapporto in merito all’equità del processo a tempo debito.

Sfida ogni logica il fatto che 32 su 35 imputati, nonostante le sconvolgenti riprese video[2]degli attacchi della polizia contro contro gli stessi, nonostante il fatto che i testimoni della polizia non siano stati in grado di identificare nessuno dei 35 in tribunale, siano stati riconosciuti colpevoli.

Questa sentenza arriva solo quattro giorni dopo gli arresti del 23 aprile 2018 e le accuse penali contro 122 persone – per lo più afghane – che avevano protestato pacificamente a Mitilene e che si sono viste brutalmente attaccate da un commando di fascisti prima di essere arrestate dalla polizia. Siamo estremamente preoccupati rispetto alla possibilità che la decisione della Corte di Chios possa incoraggiare ulteriormente lo Stato a continuare a criminalizzare tutte le persone che resistono alle politiche ostili del Governo.

La sentenza è stata impugnata dai 32, condannati a 26 mesi di reclusione con pena sospesa, dopo 9 mesi di ingiusta prigionia. Una pena, peraltro irragionevole poiché aumentata di 19 mesi rispetto ai 7 mesi proposti dal pubblico ministero in sede di rogatoria finale.

Ad ogni modo, i 32 condannati, avendo ottenuto la sospensione condizionale della pena, dopo nove mesi di ingiusta detenzione, sono stati finalmente liberati. Alcuni di loro, tuttavia, avendo ricevuto due decisioni negative rispetto alla loro richiesta di asilo politico in Grecia, rischiano, inverosimilmente, la deportazione in Turchia, in forza dell’accordo EU/TURCHIA.

Nello specifico, sette dei #Moria35 si trovano al momento iscritti nella lista delle persone per le quali è prevista la deportazione in Turchia e conseguentemente si trovano nel concreto pericolo di rimpatrio forzoso nel Paese di origine da dove erano fuggiti negli anni passati.

Con un processo ricco di violazioni procedurali, infatti, le loro domande di asilo sono state respinte. Quindi, dopo aver dovuto subire oltre un anno di trattamenti disumanizzanti nel campo di Moria, dopo essere stati vittime del barbaro attacco posto in essere dalla polizia – attacco seguito da nove mesi di ingiusta detenzione – ora 7 dei #Moria35 rischiano di essere spediti in una prigione turca, per poi essere probabilmente espulsi nei paesi di origine da cui erano fuggiti.

Peraltro, tutti potrebbero beneficiare della protezione umanitaria in Grecia come vittime o testimoni di gravi crimini. Inoltre, tre di loro hanno presentato diverse denunce contro la polizia per l’attacco, le violenze e l’arresto arbitrario subito, e al momento un’indagine risulta essere stata avviata dal pubblico ministero di Mytilene (Lesvos) contro la polizia, indagine per la quale tutti e sette sono testimoni importanti.

La loro evenutale deportazione non solo violerà i loro diritti ad un giusto processo, ma assicurerà l’impunità della polizia nelle proprie politiche di repressione violenta negli hotspot greci.

Seguiranno aggiornamenti.

Alfredo Curto – operatore legale volontario presso l’hotspot di Lesbo

[1] Guha R., Dominance without Egemony. History and Power in Colonial India, Harward University Press, 1997; per approfondire, Mezzadra, Rigo, Diritti d’Europa. Una prospettiva postcoloniale sul diritto coloniale in A. Mezzacane (a cura di), Oltremare. Diritto e istituzioni dal colonialismo all’età postcoloniale, Editoriale scientifica. 2006, Napoli.

[2] https://www.facebook.com/705411139643622/videos/870158543168880/

Da Ventimiglia a Clavière: la linea curva di un nuovo confine

 

Lungo la curva del nuovo confine : 18 aprile.

 

Il 18 aprile a Ventimiglia il campo informale che si trovava sotto il cavalcavia, nel letto del fiume Roya adiacente a Via Tenda, è stato sgomberato con le ruspe. Sono state portate via le tende, le piccole baracchette sorte da poco, tutti gli oggetti che costituivano l’arredamento di un accampamento da prima improvvisato poi, nel corso dei mesi, stabilizzatosi. In realtà fino a fine febbraio – quando alla situazione già molto dura vissuta dai migranti accampati si era aggiunta l’ondata di gelo siberiano – oltre ai materassi, qualche tenda e tanti oggetti sparsi, non si notava nessun altro segno di insediamento organizzato.[1]

Dalla metà di marzo, in poco più di un mese, col tepore del sole e l’allungarsi delle giornate, velocemente i ragazzi avevano cominciato ad attrezzarsi per sopravvivere un po’ meglio nell’attesa di passare la frontiera…

La paura che l’accampamento prendesse la forma di un campo più stabile, più abitabile e quindi in grado di consolidare relazioni e discorsi, l’avvicinarsi della stagione turistica e il timore del contemporaneo aumentare degli arrivi delle persone migranti, le elezioni comunali alle porte, tutti questi fattori insieme hanno creato il giusto mix in grado di far decretare lo sgombero radicale del campo da parte del Comune in accodo con la Prefettura di Imperia.

Sotto ponte prima dello sgombero

Ventimiglia: il sottoponte di Via Tenda dopo lo sgombero del campo informale

 

20 aprile – 22 aprile

Pochi giorni dopo lo sgombero del campo informale  a Ventimiglia , il 20 aprile per l’esattezza, lungo la stessa frontiera ma nel suo tratto alpino tra l’alta Val di Susa e la Val de la Clarée,  lì dove da qualche mese si è fatta evidente l’apertura di una nuova rotta migratoria e il contemporaneo dispiegarsi di un dispositivo di confine [2], si palesava il network neofascista di Génération Identitaire, noto per la campagna Defend Europe lanciata l’estate scorsa con la nave C-Star  mandata a presidiare le coste italiane contro l’arrivo di migranti attraverso la rotta libica. Un gruppetto di neofascisti ben attrezzati piantava reti di plastica al fondo del Colle della Scala, al confine tra Italia e Francia, dichiarando di mettersi al servizio dello Stato francese nella protezione dei confini nazionali.

Pochi giorni dopo, domenica 22 aprile, in risposta a questa provocazione carica di significato (i fascisti di G.I hanno continuato per giorni le loro scorribande tra il colle della Scala e il Monginevro a caccia di migranti) veniva lanciata un manifestazione antifascista e antirazzista, che vedeva la partecipazione di alcune centinaia di solidali europei che insieme alle persone migranti attraversavano il confine sfidando il dispositivo poliziesco a difesa della frontiera e le ronde neofasciste. In serata, la polizia francese arrestava sei compagni  con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e banda organizzata. Tre dei compagni sarebbero stati rilasciati quasi subito in quanto ritenuti estranei ai fatti; gli altri tre tratti in arresto a Marsiglia, sono stati scarcerati il 3 di maggio con obbligo di dimora in Francia fino al processo che si terrà il 31 maggio.

 

Confine italo-francese

29 aprile

Le notizie che arrivano da Ventimiglia dopo lo sgombero raccontano di persone sparpagliate lungo il corso del fiume Roya, fino alla spiaggia, di qualche presenza in più al Campo della Croce Rossa, di una “bolla” che sembra essere, se mai possibile, ancora più “bolla”, sospesa nel vuoto prodotto dalla violenza che si accumula fosca come le nubi di un temporale e che ogni tanto scroscia fragorosamente per lasciare dietro di sé il silenzio e  rivoli d’acqua che si infiltrano nel terreno.

Ci mettiamo in viaggio verso Clavière, paesino di poche anime nell’alta Val di Susa al confine con la Francia. Da Clavière in poco tempo si arriva al valico del Monginevro che permette di attraversare il confine ed arrivare alla città francese di Briançon. Qui, da poco più di un mese, è nato un presidio di solidarietà con le persone migranti, in uno spazio ricreativo della parrocchia, sotto la Chiesa: Chez Jésus l’hanno chiamato.

 

Clavière: arrivando a Chez Jesus

Arrivati in Val di Susa la temperatura cala bruscamente e all’improvviso ci troviamo circondati da un paesaggio completamente innevato. Incredibile  trovarsi il 30 aprile nel silenzio imbiancato di un paesino di montagna e di confine, dove la stagione sciistica è da poco finita, mentre poco più a sud, sull’altro pezzo di confine, qualcuno ha già cominciato a fare i primi bagni. Una sorpresa, poi, entrare in questo rifugio, che possiede qualcosa della mangiatoia ma dove il calore del bue e dell’asinello è garantito da tante donne e uomini di provenienze diverse che insieme sentono fortemente che queste montagne debbano essere un luogo di libertà e di lotta e non di confinamento, dove razzismo e repressione non debbano avere spazio.

 

Clavière: Chez Jesus

Incontriamo una giovane attivista e militante NO TAV, una compagna abitante della Valle, che da qualche giorno si trova presso Chez Jesus per dare una mano. Sorridente, accogliente, ascolta interessata il breve racconto della situazione a Ventimiglia di cui da queste parti, apprendiamo, non si sa molto… Ci  spiega di come la Valle si sia subito iniziata a mobilitare non appena il numero delle persone in viaggio ha cominciato ad aumentare anche su questo confine. Un aumento repentino, legato sicuramente alla situazione di controllo e repressione sempre peggiore tra Ventimiglia e Mentone. Riflettiamo insieme su come il tessuto politico e sociale della Val di Susa abbia permesso una risposta immediata e organizzata ma soprattutto costante: una risorsa enorme per contrastare la violenza razzista del nuovo dispositivo di confine. Inoltre la geografia dei luoghi qui sicuramente rende più difficile le operazioni di controllo e la militarizzazione del confine rispetto a un territorio come quello della zona costiera tra la Liguria e la Costa Azzurra. Tuttavia occorre essere consapevoli che la militarizzazione probabilmente arriverà anche qui: la compagna ci spiega di come, già da qualche mese,  la polizia italiana abbia iniziato a setacciare i treni che da Torino salgono in valle fino a Bardonecchia: modalità abbastanza simili a quelle viste lungo la tratta Genova – Ventimiglia, richiesta di documenti solamente alle persone di pelle scura che qualora ne siano sprovviste vengono fatte scendere dal treno. Stessa cosa sulle corriere che attraversano la Valle; frequente è l’intervento di polizia che effettua controlli su base razziale, più precisamente in base a parametri somatici che indichino la provenienza da Paesi extra-europei soggetti a colonizzazione e neocolonizzazione. La compagna ci racconta anche della presenza dei militanti di Génération Identitaire, di come stessero continuando a scorrazzare per le montagne lì sopra. Ci presenta un ragazzo che il giorno prima era stato fermato da appartenenti al gruppo neofascista, attrezzati di tutto punto, dotati addirittura di binocoli notturni. La testimonianza ci lascia sorprese: si tratta di fascisti che si dichiarano “non –violenti” e “non razzisti”, che affermano apertamente di voler aiutare la polizia a difendere i confini. In effetti braccano i ragazzi, li fermano e poi fanno una telefonata alla polizia che prontamente interviene. Piena collaborazione dunque tra polizia di Stato e militanti di estrema destra. Il ragazzo con cui parliamo ci racconta di averli allontanati e insultati e di come questi non abbiano fatto altro che attendere l’intervento della polizia. Qualche solidale intorno a noi sorride con disprezzo all’idea di questi personaggi tanto meschini a spasso per le montagne a caccia di uomini, bambini e donne che sfidano la morte per cercare una vita dignitosa.

Momento di silenzio.

Probabilmente, però, c’è poco da ridere. Si tratta di un network europeo con una strategia ben studiata. Da tempo i neo-fascisti hanno capito che per sfidare le elite neoliberiste europee sul terreno del potere, il sovranismo va collocato nella più ampia cornice europea. Nel mondo globale difficilmente si può ambire al ruolo di potenza imperialista senza costruire un blocco continentale. “L’Europa dei popoli” contro “l’Europa delle banche”. L’Europa bianca, cristiana e identitaria, federazione di Stati Nazione sovrani: questo il loro programma. La questione immigrazione in tutto questo diventa essenziale: il progetto prevede la schiavitù neocoloniale per gli immigrati tramite la quale garantire la redistribuzione della ricchezza da questi prodotta ai popoli bianchi e la diffusione dell’ideologia razzista usata come oppio in grado di sedare lo sviluppo di una coscienza di classe internazionalista.[4]

C’è poco da ridere, pensiamo, e molto da fare.

 

E’ ora di muoversi per raggiungere il presidio che si terrà a Bardonecchia in solidarietà di Eleonora, Théo e Bastien, i tre compagni arrestati dopo la manifestazione del 22 aprile. Mentre ci apprestiamo ad andare via scopriamo che ci sono due ragazzi sudanesi che  cercano un passaggio per raggiungere la stazione di Bardonecchia. Hanno provato nei giorni scorsi a passare il confine, ma sono  stati respinti dalla polizia francese. Vogliono andare a Ventimiglia. Vorremmo spiegargli come sia la situazione a Ventimiglia in questi giorni ma non parlano né italiano né inglese né francese, perciò li mettiamo in contatto con una nostra amica che conosce l’arabo. Veniamo così a sapere che sanno benissimo quale sia la situazione  a Ventimiglia perché è da lì che sono andati via il giorno dello sgombero. Non solo, entrambi hanno già passato una volta il confine italiano, nonostante gli siano state prese le impronte nel nostro Paese. Arrivati a destinazione nel Nord Europa dove risiede parte della loro famiglia, dopo alcuni mesi sono stati dublinati e rispediti in Italia. Così di nuovo costretti ad abbandonare affetti e sicurezza, per loro, il gioco mortale del confine ha ripreso forma. Li guardiamo uscire dal rifugio con un tozzo di pane e nutella in mano, circondati dalle montagne innevate. Li accompagna un coro di “buona fortuna, in bocca al lupo!” “ bonne chance, bon  courage!”. Un solidale di Briançon si asciuga gli occhi umidi con la manica della camicia a quadri da montanaro. E osserviamo questi giovanissimi uomini, con la faccia ancora da bambini sotto le occhiaie e il dolore,  ancora una volta siamo colpite bruscamente dalla consapevolezza di quanto sia  diverso il mondo a seconda del posto in cui sei nato e della postazione sociale che ti è toccata in sorte. Sentiamo un forte legame con loro e con gli altri compagni… e pensiamo a quanti addii ancora si dovranno dire, sperando che qui la storia possa prendere velocemente una piega diversa rispetto alla violenza che da tre anni ormai si abbatte su Ventimiglia.

 

 

Arrivati a Bardonecchia, di fronte alla stazione alla spicciolata arrivano un centinaio di compagni. In un attimo è allestito un gazebo, un impianto di amplificazione, cibo, bevande, materiale di informazione. Ci sono compagni da Torino, abitanti della Valle, tanti compagni e solidali francesi. Dal megafono viene ribadito un messaggio chiaro: “ Il 22 aprile su quelle montagne c’eravamo tutt*!” “Libertà di movimento per tutte e tutti!”

 

Ancora una volta in questa valle aleggia lo spirito partigiano. La lotta No Tav in questi anni ci ha mostrato un sentiero che non va abbandonato. I territori non sono di nessuno,  appartengono solo a chi li abita e chi li attraversa nel rispetto della vita, della natura e della storia che contengono, senza fini di lucro o di sfruttamento ma con a cuore la dignità e la  felicità di tutte e tutti. Ce ne andiamo con un nuovo sentiero da calpestare e un’indicazione preziosa, per la quale alcuni compagni, a cui va tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto, stanno pagando il prezzo.

[1]https://parolesulconfine.com/la-quiete-prima-della-tempesta-aspettando-lennesimo-sgombero-a-ventimiglia ;  

https://parolesulconfine.com/emergenza-freddo-o-ulteriore-passo-avanti-verso-il-nuovo-nazismo/

[2]  https://parolesulconfine.com/notizie-dalla-frontiera-tra-bradonecchia-e-briancon/; https://parolesulconfine.com/rotta-migratoria-tra-morte-e-liberta/

[4] https://parolesulconfine.com/isola-di-lesbo-attacco-fascista-a-richiedenti-asilo-politico/

 

 

a cura di g.b., C.J.Barbis