Il campo e le persone (Parte 2)

Le persone nella città di frontiera oscillano quindi intorno alle due/trecento teste, considerando chi poi riesce nella notte a varcare il confine e chi arriva il giorno dopo a rimpiazzare il numero di presenze. Ad aprile, il campo gestito dalla Croce Rossa, finanziato e diretto dalla prefettura di Imperia, è stato messo in quarantena a causa della positività di un ospite al Covid. In quel momento, vi erano ospitate circa 120 persone. L’uomo è stato ricoverato all’ospedale di Sanremo, è guarito e non si sono registrati altri casi. Coloro che erano già dentro al campo, per un mese non han potuto uscire, mentre sono stati sospesi i nuovi accessi. Quando la quarantena è terminata e il lockdown è stato revocato, chi era già dentro al campo ha potuto ricominciare ad entrare e uscire dalla struttura, ma il campo ha continuato a non accettare nuove registrazioni. Le persone ancora nei container della CRI sono state riassegnate altrove in Italia, e nel giro di poche settimane ne sono rimaste appena una trentina, in attesa, anche loro, di essere trasferite a breve.

Il campo della Croce Rossa, nell’ex scalo ferroviario ventimigliese del parco Roja, a 4 km dal centro cittadino, era stato approntato d’urgenza nell’estate del 2016. Nel giro di poche settimane, arrivarono al confine oltre seicento persone: il campo venne aperto in fretta e furia, per contrastare gli accampamenti informali che spuntavano ovunque, disturbando il business del turismo dalla Costa Azzurra. Il campo ha una capacità di accoglienza fino a 500/600 persone, e non ha mai avuto uno status giuridico definito, non essendo una struttura d’accoglienza ufficiale, né un cara, né un hotspot, né uno sprar. È stato sempre chiamato “campo di transito”. Vi si fermavano per periodi più lunghi le persone che facevano richiesta d’asilo, da un paio di notti a qualche settimana le persone che volevano proseguire il viaggio, a seconda del tempo necessario per organizzarsi.

Campo Roya

Sebbene fosse (e sia ancora: la chiusura ufficiale della struttura dovrebbe essere ridiscussa in settembre) un luogo isolato tra i raccordi autostradali, attrezzato con una sessantina di container e tensostrutture, fantasmi metallici nel deserto della periferia suburbana, presidiato da forze dell’ordine di ogni tipo, poco accogliente e molto umiliante per chi vi transitava, ha rappresentato per tre anni l’unica forma di “accoglienza” tollerata dalle istituzioni.

Quest’estate qualcosa è cambiato nella volontà delle istituzioni: la quarantena è finita, ma il campo non verrà riaperto. Si attende che escano le ultime persone che ancora vi si appoggiano, per andare verso uno smantellamento definitivo della struttura.

Come ogni stagione estiva ventimigliese che si rispetti, dinnanzi alle trombe dell’emergenzialismo che squillano scoprendo l’uovo di pasqua – la gente migra!- non poteva mancare la passerella di politici “esperti”, a fare il giro di proclami elettorali dichiarando “soluzioni radicali”, e invocando “interventi definitivi” al terribile problema che affligge Ventimiglia da anni: il fatto che esseri umani transitino su questo territorio col desiderio di muoversi liberamente sul globo terrestre. La città “ostaggio dei migranti”, i treni transfrontalieri che accumulano ritardi a causa dei controlli della polizia d’oltralpe, tutti i cittadini arrabbiati, tutte le istituzioni indignate, tutti i politicanti sbalorditi dal fatto che, ancora, la gente si permette di arrivare e pure di dormire, mangiare e camminare in giro per la città, non potendo trovare alcun altro appoggio.

Sono poche le associazioni ancora operative a Ventimiglia: anche le varie ong, dopo il boom del passato, hanno progressivamente chiuso i progetti legati alla frontiera e si sono dileguate. Prima fiaccate e depauperate dalla continua criminalizzazione nei loro confronti, operata dallo scorso governo gialloverde, e infine riassorbite nel processo di normalizzazione che ha finito per spegnere ogni accento di sgomento dinnanzi all’abominio, fino a trasformare Ventimiglia in una macchina scientifica di classificazione e squalificazione umana. Della decina di ong che erano attive, ne sono rimaste appena un paio, oltre alla solidarietà informale, che si arrabatta per sopravvivere tra menefreghismo e crociate repressive.

Le associazioni hanno chiesto più volte che il campo fosse riaperto, pur con tutti i limiti che presentava, segnalando l’incremento di persone in città. Poi, il 2 luglio, lo show della visita di una delegazione del ministero dell’interno, assieme ai vertici della polizia e delle istituzioni provinciali e regionali, ha chiarito bene quali intenzioni si profilano sull’orizzonte frontaliero di Ventimiglia. Il prefetto Di Bari (capo dipartimento delle Libertà Civili e dell’Immigrazione) ha decretato quale sarà il nuovo modello gestionale da applicare a questa frontiera: “L’obiettivo è di individuare non tanto una struttura ma un modulo flessibile di transitorietà per evitare bivacchi a Ventimiglia” un “modulo transitorio, molto provvisorio”!

L’ultimo modello di protocollo repressivo, rimasto in vigore in tutti questi anni, fu la strategia della decompressione messa a punto dal ministro dell’interno Alfano, assieme al capo di polizia Gabrielli, nella primavera 2016: fare arrivare meno gente in città, serrando i controlli sui treni; aprire il campo nell’ex scalo ferroviario, costringendo le persone a spostarsi dal centro cittadino per renderle invisibili; aumentare i pattugliamenti nelle zone turistiche; porre termine all’accoglienza nella chiesa delle Gianchette, troppo vicina al centro città e agli occhi dell’elettorato ventimigliese. Il colpo da maestri fu l’istituzione delle deportazioni interne da Ventimiglia al sud Italia, con i pullman turistici della locale compagnia di trasporti, la Riviera Trasporti. Uno stratagemma dal costo di decine di migliaia di euro,elaborato col solo scopo di sparpagliare le persone sul territorio nazionale, per contenere il numero di quelle che si accalcano a Ventimiglia. La strategia di “alleggerimento del confine” degli scorsi anni, non sembra perciò molto diversa dalle attuali proposte, che prevedono, in sintesi, di mantenere le persone in un costante moto perpetuo di angoscia e non riconoscimento. Alfano dichiarò: “queste persone devono capire che qui non ci possono stare, più vengono al nord, più noi le rimanderemo al sud, perchè non possono essere i migranti a scegliere dove vogliono vivere”. La pratica delle deportazioni interne a mezzo pullman ha continuato ad essere in vigore ancora nelle ultime settimane pre lockdown.

Adesso le traiettorie dell’intolleranza stanno quindi tracciando nuove “soluzioni radicali”, che sanno già di vecchio e di campagna elettorale: “metteremo in campo soluzioni alternative che devono necessariamente passare attraverso un’attività multipla”, dichiara il prefetto Di Bari, lasciando una scia sinistra di interpretazioni possibili su cosa siano le attività multiple che colpiranno ulteriormente le persone in viaggio.

(qui la prima parte; qui la terza parte)