Solidarietà alle compagne e ai compagni per il processo al Brennero

Solidarietà alle persone sotto processo per il Corteo del 7 maggio 2016 al Brennero contro la costruzione di un muro di confine tra Austria e Italia

Con questo contributo vogliamo portare la nostra solidarietà alle compagne e ai compagni che hanno lottato contro la costruzione del muro di confine al Brennero, tra Italia e Austria

Il 5 marzo prossimo la Cassazione deciderà se confermare o meno oltre 125 anni di carcere. In vista di questa scadenza, hanno fatto un appello alla solidarietà presente in un opuscolo in cui sono raccolti una parte dei testi scritti durante quegli anni e che sviluppa in maniera più approfondita quanto accaduto. In questo appello ricordano che il 2 marzo a Trento e il 3 marzo a Bolzano ci saranno due cortei in solidarietà con gli imputati e le imputate del Brennero e con la popolazione di Gaza.

Le compagne e i compagni hanno creato una cassa di solidarietà. Non solo un numero di conto a cui far arrivare contributi economici, ma anche un contatto per avere materiale informativo (anche in francese, inglese e tedesco), organizzare interventi a concerti o altre iniziative di solidarietà, uno spazio in cui confrontarsi.

 “La questione non sono tanto gli anni di carcere che dovremo scontare, ma il rischio che questa condanna porta in sé per la libertà di tutti e tutte”.

Se volete ulteriori informazioni o aggiornamenti, potete consultare il blog all’indirizzo abbatterelefrontiere.blogspot.com 

Qui il link a una panoramica che le compagne e i compagni hanno scritto sulla situazione alle frontiere in quel periodo, la scelta di fare il corteo e degli accenni alla situazione attuale in Italia.

Qui gli opuscoli in italiano, inglese, tedesco e francese 

L’opuscolo costa 2 euro che verranno versati nella Cassa di solidarietà Brennero.

Qui gli opuscoli impaginati per la stampa in italiano (sono pagine in A4, quindi da stampare su A3), inglese, tedesco e francese (sono pagine in A5, quindi da stampare su A4).

Per ricevere gli opuscoli in carta e inchiostro, scrivere a cassasolidarietabrennero@riseup.net

Diamo forza alla solidarietà!

Le ragioni per cui tutte e tutti eravamo il 7 maggio al Brennero non hanno fatto che moltiplicarsi

Ceuta: in marcia per la dignità

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo, resoconto della Marcha por la Dignidad, risposta alla chiamata annuale di mobilitazioni e proteste per la commemorazione della strage avvenuta per mano della Guardia Civil il 6 febbraio 2014 sulla spiaggia del Tarajal, Marocco, al confine con Ceuta.

Ringraziamo lx compagnx che hanno condiviso questa importante testimonianza.

Ceuta: in marcia per la dignità

Come ogni anno dal 2014 a Ceuta si è svolta la Marcha por la Dignidad, in commemorazione delle vittime della strage del Tarajal. Il 6 febbraio di dieci anni fa la Guardia Civil attaccò violentemente un gruppo di circa quattrocento persone che tentavano di attraversare la frontiera a nuoto. Mentre le motovedette della polizia marocchina le inseguivano, la Guardia Civil dalle imbarcazioni aprì il fuoco con proiettili di gomma, colpi a salve, candelotti fumogeni e granate stordenti. Ne uccise almeno quindici e molte delle sopravvissute riportarono gravi ferite. Nonostante la causa civile aperta dalle associazioni per i diritti umani, che ha portato sedici agenti alla convocazione davanti al tribunale di Ceuta, il caso è stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. I più alti organi dello Stato spagnolo e i vertici delle forze di polizia hanno respinto ogni responsabilità e mistificato la realtà, negando l’utilizzo di attrezzatura antisommossa e il coinvolgimento di feriti.

L’iniziativa commemorativa si è aperta la mattina con una conferenza che ha ospitato l’intervento della ricercatrice Viviane Ogou, l’attivista Mouctar Bah, l’artista Abubakar e l’avvocatessa Patuca Fernandez. Gli interventi hanno riguardato il tema del diritto alla migrazione, il razzismo strutturale dell’economia globale e l’esternalizzazione della frontiera. In particolare ci si è soffermatə sull’importanza politica della visibilizzazione e della memoria. Dopo la strage del Tarajal i corpi non sono stati recuperati, è stato il mare a restituirli nei giorni seguenti dopo averli resi irriconoscibili. Il processo di identificazione è durato anni e non si è mai del tutto concluso. La frontiera oltre ad aver ucciso fisicamente le vittime le ha private della loro individualità, cancellandone la dignità in morte oltre che in vita. Come ha affermato l’avvocatessa Fernandez l’atto più violento fu quello di non poter riscattare i corpi, negandone quindi la possibilità di identificazione, memoria e commemorazione. Venne rifiutato inoltre alle famiglie ogni permesso di raggiungere la Spagna per rendere omaggio alle salme e intervenire in tribunale.

Giungendo nell’enclave spagnola dal Marocco, attraverso le alture del Rif, salta agli occhi nella sua interezza il muro che racchiude questa minuscola parte della fortezza Europa. Da qui si arriva alla zona del Tarajal, frontiera sud, unico punto di accesso attualmente percorribile per entrare legalmente nel territorio. E’ su questa spiaggia che si è conclusa la marcia, con un momento di raccoglimento sugli scogli. La frontiera nord è invece blindata dal 2004, sia per quanto riguarda il transito di persone che di merci. L’attraversamento da parte di persone in movimento era frequente fino al 2018, quando un accordo bilaterale ha portato l’inasprimento dei controlli, rendendola inaccessibile. La valla, recinzione in spagnolo, che racchiude completamente Ceuta tagliandola da costa a costa, fu innalzata da tre a sei metri nel 2006. In seguito ad un finanziamento europeo fu portata all’altezza di dieci metri. I nove km del perimetro frontaliero sono costantemente sorvegliati su entrambi i lati. L’esercito marocchino è stanziato in diversi punti con piccole caserme, su terreni che furono espropriati ai precedenti abitanti. Oltre a torrette per l’avvistamento e telecamere, c’è il filo spinato concertina. In seguito a pressioni di associazioni per i diritti umani queste recinzioni provviste di lame furono tolte dal lato spagnolo nel 2018, spostandole però su lato marocchino, finanziate con soldi europei. Questo processo di esternalizzazione delle frontiere comporta anche una presenza capillare di polizia nell’area che precede la frontiera, con funzione di filtro e rastrellamento delle persone in movimento. Dall’altro lato la Guardia Civil pattuglia Ceuta dall’interno, attraverso strade riservate al solo utilizzo militare e tramite appostamenti con sensori termici notturni.

Alcune associazioni attive in loco supportano le persone in transito, la lotta per il diritto a migrare e per l’abbattimento delle profonde disuguaglianze sociali della città. Tra le altre Elin si occupa principalmente dei corsi di spagnolo per le persone presenti al CETI (Centros de Estancia Temporal de Inmigrantes); No Name Kitchen presta sostegno alle persone in strada, per la maggior parte marocchine; Luna Blanca distribuisce gratuitamente i pasti quotidianamente. Sta inoltre nascendo un nuovo centro: ASCS (Agenzia Scalabriniana Cooperazione e Sviluppo) ha avviato un progetto sulle frontiere e investito su Ceuta. Nel centro dove già è attivo uno spazio diurno ricreativo, in cui si svolgono lezioni di spagnolo, sarà aperta una zona abitativa in cui poter offrire ospitalità.

A Ceuta vige un regime normativo speciale, la città ha uno statuto autonomo che prevede la sospensione di Schengen, maggiori restrizioni nell’accesso a servizi pubblici, difficoltà ad ottenere un domicilio e contratto di lavoro. Sono visibili enormi disuguaglianze tra i diversi quartieri, nei quali vige una netta separazione su base razziale, religiosa e disponibilità di risorse economiche. Percorrendone le vie è forte la sensazione di essere chiusə dentro una recinzione. Oltre lo Stretto è intravisibile il continente, apparentemente vicino, ma ancora fuori portata. Attualmente la maggior parte delle persone prova a superare la frontiera a nuoto attraverso la zona costiera del Tarajal. Per quanto il tratto marittimo possa sembrare breve, è estremamente pericoloso a causa delle forti correnti dello Stretto, oltre ad essere costantemente presidiato. L’1 febbraio più di venti minori e una decina di maggiorenni sono riusciti a raggiungere la spiaggia su territorio spagnolo approfittando del maltempo, quando pare esserci meno sorveglianza. I giornali locali affermano che il Governo di Ceuta ha domandato un ulteriore piano di contingenza per poter trasferire i minori, che per ora sono accolti dal centro La Esperanza. Mentre i maggiorenni sono stati rimpatriati in Marocco.

In quanto territorio europeo, su suolo africano, Ceuta rappresenta una rotta migratoria di interesse. Una volta raggiunta è possibile presentare domanda per regolarizzare la propria posizione e avviare la procedura per ottenere documenti europei.  Queste procedure vengono avviate in seguito all’inserimento al CETI. Per coloro che provengono da paesi considerati a rischio è prevista la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, si tratta principalmente di persone originarie dell’area subsahariana, che vengono prese in carico dal CETI. Sono invece escluse da questo servizio le persone del Maghreb, che rimangono quindi tagliate fuori dalla possibilità di presentare domanda e relegate ad un’ulteriore marginalizzazione, in virtù di criteri arbitrari poichè non dettati da alcuna legge. Per queste persone è stato istituito un apposito sportello informatizzato dove poter presentare domanda. Per ragioni tecniche legate alle modalità di prenotazione digitale la maggior parte delle persone non riesce ad accedervi, e si è sviluppato un sistema di compra-vendita delle prenotazioni, a partire da mille euro. Questa esclusione costringe alla vita di strada, e le lunghe attese ne aggravano le condizioni. A Melilla dove la situazione era simile, in seguito ad azioni legali si è riuscito a far accedere al CETI anche persone provenienti dall’area del Maghreb.

Le minorenni e i minorenni secondo la legge europea hanno diritto all’accoglienza a prescindere dalla provenienza. In città sono situati due centri, distinti per genere, nei quali sono costrettə a rimanere fino al raggiungimento della maggiore età. Solo dopo aver compiuto diciotto anni, infatti, potranno spostarsi nel continente con un permesso temporaneo della durata di sei mesi. Durante questo periodo devono regolarizzarsi sul territorio, attraverso contratti lavorativi e abitativi, per poter rinnovare i documenti. A causa di queste rigide condizioni la maggior parte preferisce quindi tentare la traversata. Le persone minorenni hanno come zona di riferimento la scogliera accanto al porto, qui trovano riparo tra gli spazi concavi delle rocce. Di notte chi prova la partenza cerca un nascondiglio per imbarcarsi, questo in gergo viene chiamato risky, data la nota pericolosità del tentativo. Il livello di violenza e mortalità della frontiera è altissimo: il monitoraggio di Caminando fronteras riporta 6.618 vittime nella rotta di accesso alla Spagna nel 2023. Sono 147 le persone uccise nell’ultimo anno nella zona dello stretto, la maggior parte nel tentativo di raggiungere Ceuta a nuoto.

Anche a Melilla nel 2022 si è verificato un terribile massacro. Oltre quaranta persone morirono nel tentativo di superare l’enorme recinzione. L’associazione marocchina per i diritti umani AMDH dichiara che il bilancio delle vittime è destinato a salire poiché sessantaquattro persone risultano disperse da quel giorno. Ong marocchine e spagnole denunciano un accanimento giudiziario contro le persone in movimento arrestate, che hanno ricevuto condanne detentive e sanzioni pecuniarie. A giugno, in occasione dell’anniversario, si terrà la prima manifestazione per chiedere giustizia, verità e riparazione.

Chiara e Timo

Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia (prima parte)

Tra gli obiettivi che ci hanno spint* alla creazione di questo blog, c’è la volontà di documentare Ventimiglia e la frontiera. Il nostro impegno è farlo a partire dalle nostre stesse esperienze o da quelle di chi, in forme e modalità differenti, vive quel territorio, puntualmente o nel lungo termine. Pensiamo si tratti di un approccio fondamentale, nell’ottica di mettere in discussione e decostruire tutte quelle narrazioni che tengono in conto solamente le voci ”forti” : quelle voci che si alzano esclusivamente nei momenti mediaticamente salienti, che non parlano, ma piuttosto gridano, nell’intento di raccogliere facili (e spaventati) consensi, di trarre un qualche tornaconto dall’esporsi sul palcoscenico dell’emergenza.  Numeri – in calo, in aumento… -, minacce – di chiusure, di sgomberi…– e voyeurismo – il degrado, la disperazione…– : questi gli ingredienti principali, in proporzioni variabili, del discorso a reti unificate.

Tv abbandonata presso gli scogli dei Balzi Rossi, Ventimiglia

Pensiamo che comprendere il materializzarsi di un confine interno all’Unione Europea, nel 2018, e misurare il peso e la portata delle politiche istituzionali in materia migratoria, comporti un esercizio attento di articolazione tra quelle che sono le dinamiche a più larga scala – tra esplosione e perdurare di conflitti o dittature, configurazioni economiche neocoloniali, accordi internazionali e politiche nazionali – e la quotidianità della frontiera. Un’articolazione da interrogare costantemente, per cogliere la misura dei mutamenti e delle costanti, e facendo appello alla pluralità di soggettività che vivono e osservano la frontiera.

Nel testo che segue, cerchiamo di raccontare i mesi estivi a Ventimiglia, incrociando i punti di vista e le opinioni di alcune persone che li hanno vissuti da vicino, convint* che capire meglio la frontiera, questa frontiera, sia anche un modo per capire configurazioni socio-politiche di vasta portata, per rendersi conto di quel che, come società, più o meno tacitamente decidiamo di ritenere accettabile.

I punti di vista di cui cerchiamo di rendere conto, infine, esprimono talvolta giudizi e analisi diversificate: ci auguriamo che questa polifonia, oltre a problematizzare i racconti superficiali che invadono lo spazio del dibattito pubblico, possa stimolare l’incrociarsi di prospettive ma anche la voglia di comprendere e agire per l’abbattimento di un sistema fondato sul razzismo e lo sfruttamento.

Abbiamo intervistato persone a noi vicine che durante questa scorsa estate sono state in forme, modalità e tempi diversi nella zona di confine di Ventimiglia. Nonostante le differenze, evidenti nelle risposte che seguiranno,  tutt* gli e le  intervistat* hanno scelto di stare in questa zona di confine in quanto solidal* con le persone migranti e convint* che la libertà di movimento debba essere garantita a tutti e tutte, così come il diritto a una vita libera e felice. Tutt* color* che parleranno, seppur in maniera diversa conducono una lotta contro il regime confinario europeo e le sue conseguenze sulla vita delle persone migranti.

 In sede di redazione dei testi delle interviste, ci è sembrato opportuno  dividere il lungo testo in due post differenti, sia per renderne più scorrevole la lettura, sia perché la mole di informazioni e di analisi è considerevole e merita di avere il giusto spazio per essere eleborata. Pubblicheremo, alla fine, anche il testo integrale in un unico dossier.  Ringraziamo caldamente le e i solidal*, che hanno voluto rispondere alle nostre domande, mettendo a disposizione cuore, testa e tempo:

Gabriele Proglio  – storico culturale orale, lavora presso il Centre for Social Studies dell’università di Coimbra con un progetto che nei prossimi cinque anni intende studiare i confini del Mediterraneo.

Lia Trombetta – medico e ricercatrice presso l’Università di Lisbona

Antonio Curotto – medico ospedaliero

Giulia Iuvarafemminista del movimento Non una di meno, attivista del progetto 20k ed educatrice

Lucio Maccarone attivista dell’AutAut357 di Genova, partecipa al progetto 20k dal 2017, nella vita vorrebbe insegnare a scuola

La redazione

La prima domanda che abbiamo posto ai nostri interlocutori riguarda la loro presenza, a Ventimiglia, durante questa estate 2018.

Lia e Antonio spiegano che, rispetto ai mesi passati, per loro si è trattato di continuare il lavoro di monitoraggio e visite mediche ai migranti bloccati alla frontiera: «Siamo stati a Ventimiglia almeno due volte al mese per la durata dell’intero fine settimana. Abbiamo fatto il solito lavoro, sia di sostegno al transito che di raccolta di notizie dal territorio per cercare di capire come evolvesse la situazione » (Lia).

Per altri, l’estate ha invece coinciso con l’occasione per impegnarsi  maggiormente, e in loco, in progetti ai quali si erano già interessate e interessati nei mesi invernali e primaverili. Così Giulia: « Ho iniziato a lavorare un po’ più seriamente su Ventimiglia solo da qualche mese. Ho iniziato, come Non Una di Meno, a seguire un po’ il sister group, che è partito da dicembre scorso, però non ho avuto la possibilità scendere molto, quindi in realtà l’ho seguito tanto in remoto e meno sul campo. Quest’estate sono stata una settimana con il progetto 20 k e ho fatto la volontaria con loro, stando sia ad Eufemia che fuori, e ho seguito più strutturalmente il sister group, attraverso NUDM » ; e Lucio :  « è un anno che seguo più attivamente il progetto 20 k svolgendo un lavoro più ”dalle retrovie”, quindi da qui, da Genova : cercare di raccogliere i beni di prima necessità che a seconda delle stagioni sono stati necessari da portare giù. Abbiamo fatto vari eventi, raccolte fondi e beni di prima necessità e medicine. Dalla primavera mi sono concentrato molto sulla creazione del campeggio di 20k. Il campeggio sta chiudendo in queste settimane ed era necessario per poter garantire una maggior presenza di volontari a Ventimiglia durante tutto l’arco estivo. Per cui è partito durante la settimana del corteo e ha ospitato stabilmente almeno 15 – 20 persone, se non più, garantendo un buon livello di disposizione sul territorio per i monitoraggi e le aperture dell’infopoint, più altre attività di indagine e rapporti sul territorio. Oltre a questo, fino al corteo sono stato qui a Genova assieme ad altri ed altre per organizzare la manifestazione e il 14 ero lì per partecipare alla gestione della manifestazione. Dopodiché sono tornato nella stessa settimana di Giulia ».

Un ragazzo arrivato nella zona di confine per passare la frontiera guarda la costa francese seduto sul litorale italiano a Ventimiglia. Ventimiglia, 2018

La quarta persona con cui abbiamo discusso, Gabriele, ha svolto un lavoro di ricerca sul campo, nell’intento di comprendere il confine, in quanto dispositivo, in una prospettiva calata nella realtà locale e nelle vicende storiche e politiche di lungo corso : «Il mio lavoro quest’estate a Ventimiglia è stato caratterizzato da due tipi di azioni: la raccolta delle memorie non solo dei migranti ma anche degli italiani sulla questione del confine e degli sconfinamenti a Ventimiglia, dalle lotte del 2011, con la cosiddetta emergenza tunisini, fino al 2015, con la lotta dei Balzi rossi, fino alle recenti mobilitazioni; e poi un lavoro più classico, di archivio, basato sull’indagine negli archivi di stato di Ventimiglia e di Imperia, rispetto ai processi penali per immigrazione clandestina durante il fascismo. Il dispositivo di confine ha delle ricadute nel definire e selezionare i corpi secondo un meccanismo di esclusione ed inclusione differenziale. Anche questo meccanismo è legato a uno statuto epistemologico, da una sorta di “archivio”, che si configura nel passato attraverso specifiche strategie del controllo, fondate sul corpo, in particolare sul genere e sulla razza. Durante il fascismo questo controllo è stato esteso ad altre categorie, per esempio quelle politiche che identificavano chi andava in Francia per la fare la Resistenza, ma anche a chi scappava dall’Italia perché non trovava una risposta nel fascismo, persone di ceti molto bassi, che con la loro fuoriuscita esercitavano una critica dal basso al regime, come si evince dalla loro storia. Una critica non solo a quella che era l’organizzazione fascista del lavoro ma anche alle sue politiche patriarcali, autoritarie, gerarchiche». Le due linee di ricerca, quella sul campo e quella d’archivio, acquisiscono spessore e potenziale analitico, accostate l’una all’altra : «Queste due ricerche tessono un rapporto e una connessione tra quello che è stato il passato del fascismo e il presente. Connessioni che sono importanti sia rispetto al meccanismo di inclusione differenziale, sia per l’utilizzo di alcuni metodi repressivi, come nel caso del foglio di via, già utilizzato in epoca fascista. Emerge il ruolo del confine non solo come frontiera, ma anche come strumento per rinegoziare le forme, le strutture e l’organizzazione della società, come dispositivo di controllo biopolitico della società».

Quindi, assieme ai nostri interlocutori, abbiamo cercato di definire il paesaggio sociale ventimigliese degli ultimi mesi : Quali presenze permeano lo spazio pubblico cittadino ? Quali attori sociali sembrano avere un ruolo nel definire le dinamiche socio-economiche a cavallo del confine ?

Per Lia, la risposta non può che iniziare da una costatazione durissima : « l’attore rimasto più importante e che tutto permea sono le mafie. Non è una situazione evidente che si può riconoscere andando a Ventimiglia qualche fine settimana, ma nel corso degli anni la consapevolezza è aumentata e appare evidente che i principali attori sociali siano influenzati da accordi che coinvolgono più forme di associazione a delinquere ».

Antonio aggiunge profondità a questa lettura: « Con il rarefarsi delle persone solidali, la percezione della presenza delle mafie, che ci sono sempre state, si è amplificata attraverso la conoscenza diretta ma anche in maniera indiretta, anche nei racconti di chi e più presente sul territorio. Un altro attore sociale rimasto e da sempre costante sul territorio di Ventimiglia, è costituito dalle forze dell’ordine. L’attività repressiva si esplica in maniere differenti ma prevalentemente tramite il trasferimento coatto, con frequenza settimanale, e la deportazione verso il Sud ».

Una lettura condivisa anche da Giulia, che sottolinea come anche la minor presenza di migranti contribuisca a rendere evidenti certi meccanismi : « forse anche perché c’è meno flusso, si vede più chiaramente quale sia il traffico : davanti alla stazione c’è sempre il gruppo che sta lì e chi scende dal treno sa già dove andare oppure loro lo vanno a prendere… poi, probabilmente tanti di loro sono anche poracci che cercano di svoltarsi la vita come possibile … è anche difficile dare un giudizio univoco : cioè, c’è chi è ‘ndraghetista o al soldo dell’ndraghetista e fa la tratta degli esseri umani ; altri, che magari sono lì da qualche mese e hanno visto lo spiraglio di possibilità per vivere ».

Lucio completa l’analisi, dando spazio a preoccupazioni che hanno a che fare con la complessità del fenomeno e la necessità di non cadere in giudizi univoci : « diciamo che, come diceva Giulia, vengono più allo scoperto e poi si nota di più la presenza di chi resta per qualche mese. Il problema è quanto questo faccia parte di un sistema. E’ una cosa che andrebbe analizzata e di cui bisognerebbe parlare cautamente, perché non si è certi di tutto, ma quel che immagino è che la ‘ndrangheta ventimigliese abbia trovato questo metodo per sfruttare gli ultimi, come al solito, come sullo spaccio e sul mettere in strada a vendere gli ultimi arrivati e più sacrificabili : la stessa cosa vale qui per i passaggi, per cui ci metto l’ultimo che è arrivato, che non ha un soldo per passare e gli dico « se tu mi garantisci dieci passaggi, poi quando ti trovi di là ti ritrovi pure qualche soldo in tasca ». Soldi che non sappiamo assolutamente quantificare. Vuol dire che criminalizzare un passeur oggi è più difficile rispetto al passato, perché è probabile che sia proprio quello con minor mezzi a finire a fare il passeur per racimolare qualcosa ».

La polizia porta al confine le persone catturate nelle retate in città, destinate ad essere deportate coi pullman RT verso Taranto. Ventimiglia, 2018

Lucio conclude dicendo che sicuramente la quotidianità della frontiera è in parte determinata da queste presenze, ma che tutto ciò si definisce all’interno di fenomeni più vasti. Fenomeni il cui impatto sulle vite delle persone sembra assolutamente differenziale, come osserva Giulia: « questo tipo di presenze e dinamiche per alcuni sono determinanti, per altri quasi invisibili ».

Il tema dell’invisibilizzazione apre il discorso alla presenza migrante, sempre più marginalizzata : « per il turista o il frontaliero che viene a comprare alcol e sigarette, in questo momento, la presenza migrante credo non incida in nulla nel suo passaggio a Ventimiglia » (Lucio). Per Giulia, l’ambiente sembrava molto diverso rispetto alle altre volte che era passata da Ventimiglia, « nel senso che, con la chiusura del campo informale, lo spazio pubblico era molto poco attraversato dai migranti, che stavano per lo più nel campo o comunque sempre nella zona di via Tenda ». Antonio, facendo riferimento a fasi attraversate negli ultimi anni, afferma : « Sono ritornati a rendersi meno visibili. L’invisibilità, probabilmente indotta dall’aumento dalla repressione, è aumentata. Pochi giorni fa, abbiamo visto i segni della presenza anche recente delle persone lungo il fiume, ma ne abbiamo incontrate poche. Dai racconti e dalle informazioni sembrerebbe che il passaggio attraverso la città sia molto più rapido. Non c’è più un luogo stanziale, a parte la Croce Rossa, dove le persone in viaggio possano fermarsi e organizzarsi. Ci sono dei gruppi di persone che sono in Italia già da tempo e si spostano da un confine all’altro alla ricerca di “lavoro”, per esempio legato al transito. In una situazione come questa i branchi di lupi che attaccano il gregge sono molto più evidenti ».

Ci chiediamo, quindi, cosa abbia contribuito a questa mutazione.

Il parere di Lia è che  « in merito al cambiamento degli attori sociali è stata determinante la repressione sui solidali, il fatto che siano stati allontanati e la carenza di partecipazione, non solo politica ma affettiva, elementare. Dalle persone che volevano l’abbattimento delle frontiera, alla Caritas, sono state tutte eliminate. Questo ha fatto sì che i vari tipi di sfruttamento, il traffico di esseri umani in genere, dal piccolo trafficante a quello che usa le donne per guadagnare, ad altri tipi di commercio di cui noi possiamo solo intuire le dimensioni, agiscano a nostro parere incontrastati, perché il territorio fondamentalmente non viene vissuto anche da altre persone. Se l’interesse umano è venuto meno, se anche l’interesse politico è venuto a mancare, l’interesse economico è quello che resta, o se ne va per ultimo. Per i piccoli trafficanti il passaggio di persone può costituire l’unica fonte di sopravvivenza. Ciò che spesso si sente ripetere è che noi abbiamo perso. Con “Noi” si intende le persone che hanno partecipato ai balzi rossi, che hanno partecipato ai campi informali del 2016 e che hanno continuato a rimanere sempre in minor numero anche nel 2017, fino a trovarsi oggi inermi di fronte a questa situazione pericolosa. E’ chiaramente pericoloso il fatto di non avere persone ben intenzionate per la strada, di non avere gruppi che possano aiutarsi, una presenza di compagni, di individui che vivano il territorio allo scopo di comprendere questo fenomeno, accompagnarlo, tentare di sviluppare delle strategie contro una situazione assurda e violenta, che non avrei immaginato di vedere sviluppata a questo livello. Questo è l’apice dell’iceberg di una situazione agghiacciante e ovviamente ci si chiede come ciò possa continuare a verificarsi sotto gli occhi di chiunque ». La repressione attuata sugli spazi di stanziamento autonomi è continuata anche dopo la manifestazione, con la chiusura con delle grate di quello che rimaneva del campo informale, facendo sì che il campo della Croce Rossa resti l’unica opzione praticabile per chi transita da Ventimiglia. Praticabile ma certamente non sicura: per Antonio si tratta di « un campo sperimentale, con  alcune delle caratteristiche tipiche dei campi di concentramento, lontano dalla città, difficile da raggiungere, permettendo, almeno teoricamente, un controllo dall’esterno. Ci è stato raccontato da più persone che i rastrellamenti vengono effettuati anche nella zona immediatamente antistante alla Croce Rossa ». Le condizioni del viaggio fino all’Italia, e poi della permanenza nei luoghi in cui questo viaggio trova le sue strozzature, si sono fatte, se possibile, ancor più complicate e dure negli ultimi tempi. Una costatazione, questa, che genera interrogativi importanti in chi, da anni, è a contatto con persone che decidono di partire: «Non sono attori sociali immediatamente comprensibili, perché, per quanto si cerchi di entrare in contatto con loro, non si capisce bene come questo fenomeno continui, nonostante la violenza e la repressione, quale sia esattamente la loro ricerca. Certamente c’è la sfida ad un ordine precostituito che impedisce di viaggiare liberamente, che non permette di chiedere un visto e andare dove si vuole. A parte chi ha avuto la famiglia sterminata dai Janjaweed in Sud Sudan e coloro che raccontano di un immediato rischio di vita, a volte cerchiamo di comprendere questo attore sociale, cercare di capire chiaramente come nasce l’idea del viaggio. Per esempio quando una ragazzina eritrea che va a scuola a un certo punto si mette d’accordo con le sue compagne. Si domandano e decidono «prima che ci mettano a fare il servizio militare a vita, perché non andiamo in Europa?». Le singolarità sono determinanti, abbiamo visto persone che lavoravano in Libia e non volevano andare via, ma per i casini successi lì sono dovuti scappare e partire verso l’Italia, perché era il primo paese disponibile, per poi andare ovunque, al di fuori di esso. Le situazioni sono singole, le ricerche sono varie e molto spesso la ricerca non è sovradeterminata dalla provenienza da un paese, è tutto molto complesso e la comprensione di questo fenomeno è qualcosa di importante, anche per noi» (Lia).

Ingresso a campo CRI nel Parco Roja: al container di polizia vengono controllate impronte e generalità delle persone che chiedono ospitalità. Ventimiglia, 2018

Il quadro ha decisamente delle tinte fosche, ma, nonostante le difficoltà, i solidali non sono scomparsi. Alcune presenze sono individuate unanimemente come particolarmente importanti, perché individuate come punti di riferimento, avendo, negli anni, assicurato la continuità di alcuni percorsi e azioni politiche. Delia in primis.  Si parla anche di quei solidali che sono sopraggiunti in loco proprio per motivi politici e la cui presenza si consolida nel corso del tempo. Tra questi, il Progetto 20k, che, con l’apertura dell’Infopont Eufemia, garantisce un luogo d’incontro e anche di avvicinamento per persone, o gruppi di persone, che arrivano a Ventimiglia con l’intenzione di attivarsi : un esempio, i vari gruppi scout che hanno iniziato a frequentare la zona.

Tutti d’accordo anche sul ruolo importantissimo di Kesha Niya, il collettivo internazionale che si occupa di distribuire pasti e viveri.

Antonio riassume le loro traiettorie : «un ruolo essenziale dal punto di vista del supporto al transito e dell’assistenza l’ha svolto Kesha Niya. Finché hanno potuto sono stati nei pressi dei campi informali sotto il ponte. Poi a causa del peggioramento della repressione e dell’arrivo del nuovo prete (che ha mostrato un’immediata avversione per il loro gruppo), si sono dovuti spostare. Al momento, dalle notizie che ci arrivano, sembra che siano al confine, dove alle persone che vengono respinte non vengono forniti cibo e acqua anche per molto tempo ».

Da oltre frontiera, vengono citati gli abitanti della Val Roya, riuniti nell’associazione Roya Citoyenne, e altri cittadini francesi, riuniti intorno a gruppi islamici che effettuano sostegno al transito tramite fornitura di beni di prima necessità ormai da anni. Proprio nel riannodarsi di un confronto con Roya Citoyenne, Lucio vede un segnale positivo: «anche se vessati e costretti a vivere in un territorio militarizzato tutto l’anno, partecipano a degli incontri per discutere di un’azione solidale congiunta. Anche perché poi si è visto che dopo il corteo del 14 luglio uno spiraglio politico, una considerazione in più anche da parte di questi attori sociali c’è: diciamo che l’impressione è che oltre ad essere per la prima volta considerati come un soggetto politico dagli attori istituzionali, anche con gli altri solidali c’è stato una nuova spinta al confronto e per fare progetti assieme». Infine, vengono nominate quelle persone che, singolarmente o in piccoli gruppi, si impegnano per sostenere il transito delle donne e gli avvocati che, senza riuscire a garantire una grande continuità, cercano di contribuire con le loro competenze professionali.

Gabriele, attento alle relazioni tra i diversi attori sociali per finalità di ricerca, ha un’opinione leggermente differente e osserva che le numerose realtà ancora presenti restano piuttosto «divise, lontane una dall’altra, senza coordinamento. In realtà so che c’è un tavolo di coordinamento, ma la dispersione rimane comunque grande su questo territorio di confine, un confine che è il limes tra gli stati ma anche un dispositivo potentissimo che rimette in discussione tutti i significati».

Chi sembra uscito di scena, o comunque molto meno presente che in passato, sono le ONG. Per Lia: «Il tempo delle ONG è un po’ passato. Non ci sono più i medici che avevano tentato di fare l’ambulatorio anche all’esterno, nel campo informale del fiume Roya. Credo ora facciano alcune ore di ambulatorio al giorno nella sede della Caritas. Tutto quello che girava intorno alla Chiesa delle Gianchette. come l’alimentazione e l’assistenza medica, ora credo si svolga presso la Caritas». Una presenza, quindi, valutata come discontinua e poco incisiva:

«Poi le ONG hanno dei pezzetti che si pigliano, con alcuni di noi hanno collaborato, ci sono delle individualità positive, ma anche le ONG non è che facciano un lavoro strutturale e strutturante, fanno raccolta dati quando va bene e quando ci sono, però non è cambiata rispetto agli anni scorsi : continuano a non esserci i medici …»(Giulia) . «Poi è chiaro, se non ci investono dei fondi….loro sono persone che lavorano e se sono in uno due… non possono fare molto altro che monitorare…» (Lucio). Vengono menzionate altre associazioni, che non hanno mai smesso di partecipare al sostegno alle persone in viaggio, come Popoli in Arte, che collabora all’esistenza dello spazio Info point gestito dai 20k.

Un’osservazione di Antonio obbliga a considerare il ruolo degli attori economici ufficiali e delle istituzioni: «secondo me uno degli attori sociali è anche il servizio di trasporto locale (la Riviera Trasporti) che ha appianato il proprio debito tramite questo tipo di attività che noi paghiamo e che ha un costo molto alto per persona. Questo rientra nel discorso dell’industria legata allo sfruttamento. Diventano oggetti di un trasporto forzato pagato da noi».

Pullman della Riviera Trasporti, dedicati alle deportazioni delle persone migranti. Ponte S.Luigi, Ventimiglia, 2018

Quindi, «lo Stato sembra assente o presente solo a livello repressivo, ma probabilmente partecipa anche nel regolare i commerci che derivano dal transito e dalle deportazioni. Il campo della Croce Rossa ha costituito, dall’estate scorsa, l’unico luogo di permanenza esistente. Per l’accordo con lo Stato, la Croce Rossa incamera soldi per l’acquisto del cibo, la gestione e la costruzione delle strutture» (Lia).

Questa ambiguità della presenza istituzionale, tra militarizzazione e repressione, da una parte, e assenza di politiche strutturali e tangibili, viene sottolineata anche da Lucio: « a me è sembrato che ci sia un grosso vuoto : nonostante la presenza militare costate. Ad esempio, il sindaco sembra già in campagna elettorale, per maggio/giugno o quando saranno le amministrative. Tant’è vero che durante la preparazione del corteo, lui che cercava di ostacolarne lo svolgimento, ha detto apertamente « noi su questo tema ci giochiamo la rielezione ». Allora i continui proclami che sta facendo, la presenza a Milano la scorsa settimana (al corteo contro l’incontro Salvini-Orban, n.d.r.) dicono questo: di base non fa nulla, quando c’è la notizia, il gossip, il tema, allora prende parola, ma il tutto è sempre teso a cercare di farsi credito, mentre non pratica nessuna politica istituzionale». Giulia aggiunge: «sembra proprio che stia funzionando la marginalizzazione totale, nel senso che, anche in negativo, non ho visto grande accanimento, se non da parte della polizia soprattutto francese (perché comunque, tramite i monitoraggi, si è visto che ogni giorno succede il peggio del peggio su quei treni). A livello politico istituzionale c’è un vuoto perché l’obiettivo è quello di invisibilizzare : tu non esisti, io di te non parlo neanche.

Baracche bruciate dalle persone migranti lungo il fiume Roja per protestare contro lo sgombero dell’ultimo campo informale. Aprile 2018

E ora che non c’è il campo informale ecc., sono talmente lontani dalla città che il turista potrebbe anche non accorgersi di niente, potrebbe anche sembrare una cittadina qualunque, borghese ecc». La lettura data da Antonio ci permette di valutare le attuali posizioni dell’amministrazione locale in quanto conseguenza di una linea politica scelta, e perseguita, dal 2015: «A livello di amministrazione locale a Ventimiglia c’è un sindaco del PD che è rimasto tale sin dall’inizio, quindi non è cambiato niente. Alle prossime elezioni vincerà probabilmente la Lega, in continuità naturale con le politiche portate avanti fino ad oggi. Ciò rappresenta la fine di questo percorso di imbarbarimento. Dall’inizio c’è stata una sinergia completa tra l’attività repressiva poliziesca e l’amministrazione locale. Per non peggiorare i contrasti con la popolazione locale e le situazioni di disagio evidente delle persone che dormono in strada bastava veramente poco. Bastava un accesso diretto all’acqua potabile, che adesso di nuovo non c’è più, i servizi igienici e una raccolta dei rifiuti. Se avesse fornito queste tre condizioni sarebbe stato differente e avrebbe avuto costi sicuramente inferiori a quelli delle deportazioni e delle periodiche “pulizie” del greto del fiume. Si lasciano vivere le persone nelle condizioni peggiori poi, quando la situazione è arrivata a un limite non più valicabile, arrivano le ruspe a distruggere e togliere tutto. Questa è una politica a mio avviso folle, anche dal punto di vista economico».

Una strategia che, comunque, sembra aver quantomeno rabbonito il dissenso di alcuni abitanti: «In passato ci sono state manifestazioni contro la presenza dei migranti e spesso delle grandi discussioni con gli abitanti del quartiere delle Gianchette, che mostravano evidentemente il loro essere contrari o molto critici, anche piuttosto aggressivamente, alla presenza delle persone in viaggio o almeno alla modalità con cui questa cosa veniva gestita. Dal momento che ora le persone migranti non sono più raggruppate di fronte alle loro abitazioni, questo fenomeno mi sembra sia venuto meno. Non ci sono più manifestazioni, né rimostranze così frequenti. Ogni tanto prima si vedevano dei manifesti lungo la strada con scritte come “Basta degrado” “Ventimiglia libera”, ora non più» (Lia).

Ovviamente, anche la cittadinanza, a ben guardare, esprime posizionamenti differenziati e, secondo Giulia, qualche individualità tra gli abitanti manifesta interesse, «soprattutto portando cibo e vestiti … di certo non si tratta di masse…».

… To be continued …

Picnic contro la frontiera: una giornata di protesta a Sospel

Nella mattinata e nel pomeriggio di Domenica 18 Novembre decine di abitanti del territorio di confine tra Ventimiglia e la Val Roja hanno organizzato nel villaggio di Sospel alcuni momenti di informazione e un picnic contro la frontiera, la sua violenza e le sue conseguenze. Riceviamo e volentieri pubblichiamo il resoconto della giornata di protesta e il testo che è stato volantinato nelle strade di Sospel.

 

Domenica 18 Novembre a Sospel una trentina di abitanti delle valli transfrontaliere hanno rotto il silenzio sulla militarizzazione del territorio e sulle morti, più di 20, che tali politiche securitarie hanno causato. In mattinata si è svolto un volantinaggio nelle vie del paese per comunicare quanto sta accadendo e raccontare la concretezza dell’espressione «la frontiera uccide».

Durante il volantinaggio nelle bacheche pubbliche del paese è stata affissa la lista delle 21 morti documentate sulla frontiera di Ventimiglia e delle Alpi Marittime dal 2016, di ciascuna è spiegata la causa e il luogo della morte.

Successivamente le/i partecipanti si sono ritrovate/i per un pic-nic in un prato che si affaccia sul check-point fisso di Sospel, per denuciarne la presenza e disturbarne la routine del controllo. Durante tutto il pic-nic ogni controllo dei veicoli di passaggio in questo incrocio, che mette in collegamento la Val Roya col resto delle Alpi Marittime, è stato accompagnato dal suono di trombette di carnevale e da slogan contro la frontiera. «plutot chomeur, que controleur» , «moins des militaires, plus des sorcieres» , « la frontière tue, honte à ses guardian»1 gli slogan più cantati.

Alla fine del pic-nic mentre si allontanavano tutte/i le/i partecipanti sono state/i fermate/i e identificate/i dalla gendarmerie.

Resta la convinzione che di pic-nic come questo ce ne vorrebbero 100 o 1000 e che la prossima volta saremo di più.

1 «piuttosto disoccupati che controllori» , « meno militari, più streghe», «la frontiera uccide, vergogna ai suoi guardiani»

Momenti del picnic di protesta contro il confine e la militarizzazione della frontiera- Sospel- Domenica 18 Novembre
Sospel, una delle bacheche del paese in cui è stato affisso l’elenco delle persone decedute a causa della chiusura del confine italo francese dal 2016 a oggi

 

Di seguito, il testo che è stato volantinato per informare le persone sulla situazione lungo la frontiera italo-francese.

 

LA FRONTIERA UCCIDE, BASTA ALLA MILITARIZZAZIONE!

La frontiera di Ventimiglia è chiusa ormai da giugno 2015, ma è a partire dal 2016 che la militarizzazione di tutto il territorio frontaliero diventa massiccia ed invasiva. La prima diretta conseguenza di questa politica di militarizzazione sui due lati della frontiera è la morte di oltre 20 persone. Queste morti non sono conseguenza del caso, ma dei quotidiani respingimenti che costringono le persone a esporsi a rischi crescenti nel tentativo di attraversare il confine.

All’Europa oggi evidentemente non bastano nè gli hotspot (centri di prima identificazione voluti dall’UE nei paesi di primo approdo), nè gli accordi infami sottoscritti con governi autoritari come la Turchia, l’Egitto o le due Libie in guerra tra loro. Di sicuro non bastano le migliaia di persone morte nel Mediterraneo come nelle altre frontiere interne ed esterne. Il ritorno di rigurgiti sovranisti e populisti si sposa con il sogno tecnocratico di Bruxelles laddove ciò a cui aspira è il controllo delle popolazioni indesiderate. Nei sogni degli uni e degli altri le strade devono essere ripulite e le persone selezionate, che questo avvenga per la purezza della razza o per la valorizzazione del centro storico cittadino il succo non cambia.

Un sogno totalitario quindi, che vediamo svolgersi con copioni simili a Ventimiglia come a Claviere o al Brennero. Luoghi di frontiera e di turismo, in cui non vengono risparmiate brutalità e violenze pur di garantirsi un discreto, ma mai totale, controllo della situazione. Il copione tipo prevede una militarizzazione del territorio di cui le popolazioni locali restano passive spettatrici. Ecco, da questo ruolo di spettatori è necessario smarcarsi, è di nuovo il momento di prendere parola contro la frontiera e la sua militarizzazione.

Diverse mobilitazioni si stanno costruendo nelle località di frontiera dell’arco alpino, da qui fino a Trieste. Nelle valli Roya e Bevera da ormai due anni i check-point si moltiplicano e la presenza di militari armati sui sentieri, cosi come nelle strade dei paesi, è la norma. Noi non vogliamo vivere in silenzio in un territorio determinato ormai dalla militarizzazione e dai controlli razziali. Che questi controlli avvengano nelle nostre valli, nelle città o al di là del Mediterraneo resta il fatto che la presenza dell’esercito e delle forze di polizia costruisce e ricostruisce frontiere ovunque, e nessuno è più al sicuro in un mondo così pieno di sbirri.

Basta morti di frontiera, qui e altrove!

Basta militarizzazione!

 

Nuovi fogli di via da Ventimiglia

Volano fogli di via, a Ventimiglia. Soffia un vento caldo, in questo autunno che sembra estate, e al confine tutto cambia ancora, in una calma sempre più spettrale.
Riceviamo e con grande solidarietà pubblichiamo una testimonianza  di quanto successo la  settimana scorsa a Ventimiglia.
Gli effetti della violenta politica razzista dell’attuale governo si sentono, si vedono e si toccano…sempre che si abbiano orecchie, mani e occhi attenti.
Il Decreto Sicurezza non è solo un pezzo di carta o un manifesto di propaganda. E’ un dispositivo giuridico che impone regole ancora piu’ repressive rispetto al precedente decreto Minniti-Orlando, particolarmente effettivo su alcune categorie di popolazione e alcuni comportamenti.
Contestualmente all’entrata in vigore del Decreto, a Ventimiglia la polizia ha spostato la barra dell’azione repressiva ancora più in alto. Le retate in città hanno assunto un carattere, se possibile, più violento e plateale. La “caccia al negro” e il coprifuoco vengono applicati in maniera sempre più sistematica. Per chi prova a denunciare, testimoniare, opporre resistenza, sono pronte misure repressive spropositate, come previsto dal Decreto.
Se Ventimiglia, come collettivamente si è detto tante volte, è un laboratorio e uno specchio potente delle politiche nazionali ed europee, il clima autunnale deve essere considerato con attenzione. La brutalità del razzismo di Stato si fa cieca e più pericolosa, ma su cosa si regge? Un consenso ottenuto con la violenza istituzionale è un consenso fragilissimo. Leggere il Decreto Sicurezza e i suoi effetti impone un esercizio di analisi estremamente realistica, ma anche una capacità critica, per comprendere il groviglio di contraddizioni che vi sta dietro. E’ tutto un modello di società, di economia, di configurazione politica a rigurgitare violenza, nell’impossibilità -o non volontà- di mediare. La durezza di quello che ci circonda è indiscutibile, tocca a noi chidersi se, in questa “crisi” sempre più’vertiginosa, con uno sguardo più ampio e dialettico e con uno sforzo collettivo più determinato sia possibile cogliere, e far crescere, la nostra forza e le nostre possibilità’.

Nuovi fogli di via da Ventimiglia

 

“Se fai foto ti rompo la macchina fotografica”: questo il buongiorno ricevuto da due compagne che, mercoledì 17 mattina, stavano monitorando lo svolgimento delle operazioni di rastrellamento nelle strade della città di Ventimiglia.
La cornice degli eventi che sono seguiti parla di una routine fatta di razzismo e repressione crescenti verso tutte le persone non bianche che vivono o attraversano questo territorio di frontiera.
Da oltre due anni, una o più volte alla settimana scatta la “caccia al nero”, con controlli e retate nelle strade della città, nella stazione, lungo i valichi di frontiera, sulle spiagge, nei giardini pubblici, dentro ai bar e attorno al centro della Croce Rossa ormai diventato l’unico punto di contenimento e gestione delle centinaia di persone in viaggio.

Lo scopo è deportare settimanalmente decine di persone tramite pullman turistici della Riviera Trasporti, che raccolgono il carico di indesiderati braccati dalla polizia italiana come da quella francese, per spedirli nei centri di controllo e identificazione a Taranto o Crotone, da dove spesso avvengono trasferimenti nei CPR del sud Italia.

Da oltre due anni c’è chi non accetta che le prassi brutali e umilianti del regime del confine scivolino nella normalizzazione e nel silenzio. Fanno schifo i rastrellamenti focalizzati sulla sfumatura del colore di pelle. Fanno schifo i fermi di massa eseguiti nella sala d’attesa della stazione di Ventimiglia, dove le persone sono bloccate e controllate a vista dai militari, mentre sciami di turisti transitano indifferenti a pochi metri di distanza. Fa schifo la processione di procedure e violenze con cui, una alla volta, le persone vengono caricate in frontiera sui bus delle deportazioni: chi non ha il pezzo di carta giusto viene perquisito, sottoposto a controllo medico obbligatorio, spogliato di cinture e stringhe delle scarpe, etichettato con un numero di matricola per la deportazione in atto, infine registrato con un primo piano su busto e volto da un poliziotto munito di fotocamera, e poi via, caricato per l’esilio.

Fa schifo la frontiera.

L’obiettivo è ripulire il territorio da chi non è conforme alle norme e alle regole dell’attuale programma di eugenetica sociale di una società razzista e farlo nel silenzio assenso di una città che sprofonda nell’indifferenza.
E allora ci spieghiamo così gli eventi di mercoledì 17 mattina: nessuna può permettersi di ostacolare la burocratizzazione di questa collaudata macchina di repressione. Davanti all’ennesima retata in spiaggia due compagne si fermano a documentare le scorribande del braccio armato dello stato. Ad uno di questi signori non sta bene: “se fai una foto ti spacco la macchina fotografica” è il preludio all’aggressione che sta per scattare. Tre minuti e le compagne si ritrovano assaltate fisicamente e verbalmente, strattonate e bloccate alle spalle, uno zaino rotto, le macchine fotografiche – una risulterà danneggiata dall’aggressione – ed un telefono cellulare sottratti con prepotenza. Sequestrati gli strumenti con cui si prova a raccontare la verità del confine. Le compagne sono condotte in commissariato e dopo cinque ore in stato di fermo le fastidiose testimoni sono rilasciate con le accuse di resistenza, interruzione di pubblico servizio, oltraggio aggravato e foglio di via obbligatorio da Ventimiglia per tre anni, perché considerate una minaccia all’ordine e alla sicurezza pubblici: non deve esserci clamore, né testimoni critici, né dissenso.

Altri due allontanamenti coatti che si vanno a sommare agli oltre sessanta fogli di via rifilati dal 2015 a coloro che, sostenendo le resistenze e le ribellioni delle persone migranti, hanno lottato contro la frontiera.
Il sistema repressivo costruito in tre anni di regime di confine, aboliti gli spazi di solidarietà e rabbia, vuole che le persone in viaggio siano isolate, bandite e ricattabili.
In un luogo presidiato e pattugliato da militari e polizia, dove il ricatto umanitario è complice del sistema di gestione, controllo e carcerazione e gli unici riferimenti sociali da difendere sono il turismo e il decoro urbano, pericolosa è diventata chi guarda e documenta l’orrore della normalizzazione di tutto questo.

Non ci troverete sottomesse, né cieche, né mute, ma sempre cocciute nemiche delle frontiere.

 

Complici e solidali con le compagne scacciate,
Alcune ribelli del ponente ligure

Cancellati. Ventimiglia, città imprigionata

Ventimiglia. Lunedì 31 agosto

Tra il piazzale di Via Tenda  in cui tutte le sere viene fatta la distribuzione del cibo e la parte del  sottoponte, dove ancora si riunivano le persone migranti per scambiare due chiacchiere all’ombra e dove vi era la possibilità di trovare dell’acqua potabile, subito dopo la manifestazione del 14 luglio è stato costruito  un muretto; poi tra domenica 29 e lunedì 30 luglio sopra al muretto è stata eretta una spessa rete metallica. Ovviamente il committenteè  il Comune.

 

Muretto costruito subito dopo il corteo del 14/07, prima della costruzione della rete

 

Di fatto, l’accesso al sottoponte dal piazzale di fronte al cimitero è ora impedito ed è stato smantellato il tavolino su cui veniva lasciato il contenitore per l’acqua. Da Via Tenda l’unico accesso  rimasto  per raggiungere il sottoponte si trova  ad una cinquantina di metri dal passaggio a livello.

 

Punto del sottoponte con rifornimento di acqua potabile prima della costruzione della rete

 

Molte persone trovano riparo tra i canneti e la vegetazione che occupano parte del letto del fiume Roya: il sottoponte era lo spazio riparato che permetteva di raggiungere velocemente la strada.

 

Sottoponte il giorno prima della costruzione della rete

 

La chiusura con una rete metallica di un accesso all’area, proprio in corrispondenza del luogo in cui le persone migranti si riunivano per consumare il pasto serale e per dei momenti di socialità, oltre ad avere un significato altamente simbolico, ha delle pesanti conseguenze materiali.

 

Rete

Con questa azione il Comune ribadisce e rafforza la politica di invisibilizzazione delle persone migranti. O queste accettano di entrare nel campo della Croce Rossa, situato nel Parco Roya (a diversi km dalla città, per raggiungere il quale si è costretti a percorrere a piedi una strada molto pericolosa) accettando di fatto la segregazione dalla vita sociale del territorio, oppure sono costrette a nascondersi nella vegetazione che circonda il fiume avendo un unico punto di entrata e uscita, distante dai luoghi di accampamento.

Cosa accada alle persone costrette ad accamparsi nel letto del Roya evidentemente allo Stato italiano non interessa, l’importante è che la società legittima sia separata anche fisicamente dal mondo dei marginalizzati e degli esclusi. Invisibili, privati di ogni diritto, finanche del riconoscimento della loro umanità.

 

sottoponte, oggetti abbandonati

 

Pensare a quando tre anni fa le persone migranti occupavano i Balzi Rossi – la scogliera sotto la frontiera francese – per lottare per i propri diritti a spostarsi e a poter vivere liberamente in Europa, dando così inizio ad un’esperienza di lotta e di autogestione eccezionale e guardare a dove si è arrivati oggi, fa riflettere e molto sui passaggi politici avvenuti e in atto e sulle sconfitte subite dalle lotte. Questi tre anni sono stati un percorso fatto di tappe scandite da repressione, da sgomberi continui, dall’affinamento di dispositivi di controllo e disciplinamento. Un percorso di violenza materiale e simbolica inaudita da parte degli Stati e di poteri extrastatali.

Anche Ventimiglia oggi ha il suo “muro” interno , il suo “filo spinato”, la sua piccola “striscia di Gaza”.  I dispositivi di confinamento sono globali, sono la cifra del capitalismo neoliberale e globale odierno.

Il 14 luglio la manifestazione di quasi 10000 persone che ha attraversato la città intemelia si intitolava “Ventimiglia città aperta”. Un auspicio che appare lontano a realizzarsi.

Guardando altre esperienze nate nei campi profughi come in Siria del Nord, in Libano , nei ghetti coloniali nordamericani , nei  territori occupati palestinesi, viene in mente che forse è da dentro, stando in mezzo e vivendo insieme agli invisibilizzati, agli esclusi, ai nuovi colonizzati che possono nascere le esperienze più efficaci di resistenza. Lottando insieme e sfidando l’invisibilità a cui ci condannano, disarticolando il confine concretamente, e non semplicemente rovesciandolo simbolicamente.

Sta di fatto che dal vortice di inumanità che ci sta risucchiando, di cui la rete di Via Tenda è simbolo chiaro e terribile,  dobbiamo provare a venire fuori in qualche modo.

Prima proviamo a farlo e meglio è, il tempo non è “galantuomo”.

 

A cura di g.b..

 

 

 

LA FRONTIERA UCCIDE. La militarizzazione è la sua arma

Foto tratta dal blog https://hurriya.noblogs.org/ Frontiera italo-francese tra la Val di Susa e la Val de la Clarée
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, i comunicati scritti dagli occupanti di Chez Jesus, a proposito del recente ritrovamento del corpo senza vita di una migrante, nel fiume Durance.
Le frontiere uccidono: non è una frase ad effetto, non è un’iperbole da utilizzare enfaticamente. E’ la realtà dei rinnovati confini interni all’Europa degli anni ’10. Ma non sono le impervietà geografiche ad uccidere, non si tratta di fatali incidenti: B. è morta durante un inseguimento da parte della Polizia Nazionale francese e, qualche giorno più tardi, venerdì 18 maggio, dei camminatori hanno trovato M., un giovane senegalese, morto di sfinimento su un sentiero alpino. La caccia al migrante, di cui sono teatro i passi che uniscono la Val Susa a quella della Durance, ha le stesse conseguenze, in termini di vite umane, delle operazioni di militarizzazione e controllo di altre zone di frontiera: dalle acque del Sud del Mediterraneo allo stretto di Calais, da Ventimiglia alle strade dell’Est. In un mondo nel quale i rapporti coloniali si rinnovano e le diseguaglianze continuano ad essere un fertile terreno di estrazione di ricchezza, la grottesca difesa di anacronistici confini nazionali giustifica il massacro, anche a due passi dalle nostre case, anche nel cuore della democraticissima Europa: magari si leverà qualche voce di sdegno, qualche moto di commozione … Oppure, più semplicemente, si aggiungerà un nome alla lista di chi non ce l’ha fatta: le autorità competenti ne parleranno con la freddezza di chi già lo aveva messo in conto, reiterando la normalizzazione di una realtà feroce.

LA FRONTIERA UCCIDE. LA MILITARIZZAZIONE E’LA SUA ARMA.

Una donna è morta. Un cadavere ancora senza nome è stato ritrovato mercoledì 9 maggio all’altezza della diga di Prelles, nella Durance, il fiume che scorre attraverso Briançon.

Una donna dalla pelle nera, nessun documento, nessun appello alla scomparsa, un corpo senza vita e senza nome, come le migliaia che si trovano sul fondo del Mediterraneo.

Questa morte non è una disgrazia inaspettata, non è un caso, non è “strana” per tanti e tante. Non c’ entra la montagna, né la neve o il freddo.

Questa morte è stata annunciata dall’inverno appena passato, dalla militarizzazione che in questi mesi si è vista su queste montagne e dalle decine di persone finite in ospedale per le ferite procuratesi nella loro fuga verso la Francia. È una conseguenza inevitabile della politica di chiusura della frontiera e della militarizzazione.

Questa morte non è una fatalità. È un omicidio, con mandanti e complici ben facili da individuare.

In primis i governi e le loro politiche di chiusura della frontiera, e ogni uomo e donna in divisa che le porta avanti. Gendarmi, polizia di frontiera, chasseurs alpins, e ora pure quei ridicoli neofascisti di Géneration Idéntitaire, pattugliano i sentieri e le strade a caccia dei migranti di passaggio da questi valichi alpini. Li inseguono sui sentieri e nella neve sulle motoslitte; li attendono in macchina in agguato lungo la strada che porta a Briançon e quelle del centro città. Molti i casi quest’inverno di persone ferite e finite all’ospedale in seguito alle cadute dovute alle fughe dalla polizia.

Quella donna era una delle decine di migranti che ogni giorno tentano di andare in Francia per continuare la propria vita. Per farlo, ha dovuto attraversare nella neve, a piedi, quella linea immaginaria che chiamano frontiera. Perché i mezzi di trasporto, sicuri, le erano preclusi data la mancanza di documenti e per la politica razziale di controllo che attuano al confine. Poi è scesa sulla strada, quei 17 chilometri che devono percorrere a piedi per raggiungere la città. È lungo quel tratto che deve essere inceppata in un blocco della polizia, come spesso viene raccontato dalle persone respinte. Probabilmente il gruppo di persone con cui era, che come lei tentava di attraversare il confine, si è disperso alla vista di Polizia o Gendarmerie alla ricerca di indesiderati da acchiappare e riportare in Italia, nel solito gioco dell’oca che questa volta ha ucciso.

Questa donna senza nome deve essere scivolata nel fiume mentre tentava di scappare e nascondersi, uccisa dai controlli poliziesci. L’ autopsia avverà a Grenoble nella giornata di lunedì, solo allora sarà possibile avere maggiori dettagli sulla causa della morte.

La frontiera separa e uccide.

Non dimentichiamo chi sono i responsabili.

11 maggio, Rifugio autogestito Chez Jesus


CRONACHE DI UNA MORTE ANNUNCIATA

È passata una settimana dalla morte di B. Cinque giorni dal ritrovamento del cadavere di una giovane donna, “forse una migrante”, nel fiume sotto Briançon, la Durance.

Questi i fatti.

Un gruppo di quasi una decina di persone parte da Claviere per raggiungere Briançon a piedi. È domenica sera, e come ogni notte i migranti che cercano di arrivare in Francia si ritrovano costretti a camminare per le montagne per evitare i controlli di documenti.

Il gruppo inizia il cammino e poi si divide, una donna fa fatica a camminare ed ha bisogno di supporto. Due persone stanno con lei, e i tre si staccano dal gruppo. Camminano sulla strada, nascondendosi alla luce dei fari di ogni macchina e a ogni rumore.  Infatti la polizia sta attuando una vera caccia al migrante, negli ultimi giorni più che mai. Oltre a nascondersi sui sentieri per sorprendere con le torce chi di passaggio e fare le ronde con le macchine sulla strada, hanno iniziato ad appostarsi sempre più spesso agli ingressi di Briançon e ai lati dei carrefour facendo dei veri posti di blocco.

Il gruppo di tre cammina per una quindicina di chilometri e si trova a 4-5 Km da Briançon. All’altezza della Vachette, cinque agenti della Police National sbucano fuori dagli alberi alla sinistra della strada. Sono le 4-5 del mattino di lunedì 7 maggio. I poliziotti iniziano a rincorrerli. Il gruppetto corre e entra nel paesino della Vachette. Uno dei tre si nasconde; gli altri due, un uomo e una donna, corrono sulla strada. L’uomo corre più veloce, cerca di attirare la polizia, che riesce a prenderlo e lo riporta in Italia diretto. La donna scompare.

La polizia prosegue per altre quattro ore le ricerche nel paesino della Vachette. Il fiume è in piena, e i poliziotti concentrano le ricerche sulle sponde della Durance e nella zona del ponte. Poi la Police se n’è andata. Questo operato si discosta totalmente dalle modalità abituali della Police Nationale, che nella prassi cerca i fuggitivi per non più di qualche decina di minuti. Le ricerche concentrate nella zona del fiume rendono chiaro che i poliziotti avessero compreso che qualcosa di molto grave era successo, a causa loro.

50 ore dopo, mercoledì, un cadavere di una donna viene ritrovato bloccato alla diga di Prelles, a 10 km a sud da Briançon. È una donna nigeriana, un metro e sessanta, capelli lunghi scuri con treccine. Cicatrici sulla schiena, una collana con una pietra blu.

Il Procureur della Repubblica di Gap, Raphael Balland, ha dato la notizia il giorno seguente, dicendo che “Questa scoperta non corrisponde a una scomparsa inquietante. Per il momento, non abbiamo nessun elemento che ci permette di identificare la persona e quindi di dire che si tratta di una persona migrante”. Pesanti le dichiarazioni del procuratore.

Una scomparsa “non è inquietante” se non c’è una denuncia, e quindi se si tratta di una migrante? In più il procuratore mente, perché la polizia sapeva che una donna era sparita dopo un inseguimento. Ben pochi i giornali che hanno rilevato la notizia. Sembra che nessuno fosse molto interessato a far uscire la vicenda, anzi. L’interesse è quello di insabbiare questa storia, per evitare un ulteriore scandalo, dopo i due casi di respingimento di donne incinte, che possa scatenare una reazione pubblica davanti alle violenze della polizia.  Un’inchiesta giudiziaria è stata aperta e affidata alla gendarmeria al fine di determinare le circostanze del decesso. Il magistrato ha detto “non avendo elementi che fanno pensare alla natura criminale del decesso, un’inchiesta è stata aperta per determinare le cause della morte”.

Ma anche questo è falso. La natura del decesso è criminale.

Non è una morte casuale, non è un errore. Questo è omicidio. Erano cinque i poliziotti che li hanno inseguiti. Quella donna, B, è morta per causa loro e della politica di leggi che dirige, controlla e legittima le loro azioni. B. è morta perché la frontiera senza documenti non la passi in altro modo. Ma B. non è nemmeno morta a causa della montagna, per errore, e non è morta per la neve quest’inverno. È morta perché stava scappando dalla polizia che in modo sempre più violento si dà alla caccia al migrante. L’hanno uccisa quei cinque agenti, come il sistema di leggi che glielo ordina. Un omicidio con dei mandanti e degli esecutori. Il procuratore di Gap e la prefetto sono responsabili quanto i poliziotti che l’hanno uccisa, date le direttive assassine che danno. Responsabili sono le procure e i tribunali, che criminalizzano i solidali che cercano di evitare queste morti rendendo il più sicuro possibile il passaggio. Responsabili sono tutti i politicanti che portano avanti la loro campagna elettorale sulla pelle delle persone.

Se continuiamo così, i morti aumenteranno. È la militarizzazione che mette in pericolo le persone. La polizia, uccide.

14 maggio, Rifugio Autogestito Chez Jesus

Da Ventimiglia a Clavière: la linea curva di un nuovo confine

 

Lungo la curva del nuovo confine : 18 aprile.

 

Il 18 aprile a Ventimiglia il campo informale che si trovava sotto il cavalcavia, nel letto del fiume Roya adiacente a Via Tenda, è stato sgomberato con le ruspe. Sono state portate via le tende, le piccole baracchette sorte da poco, tutti gli oggetti che costituivano l’arredamento di un accampamento da prima improvvisato poi, nel corso dei mesi, stabilizzatosi. In realtà fino a fine febbraio – quando alla situazione già molto dura vissuta dai migranti accampati si era aggiunta l’ondata di gelo siberiano – oltre ai materassi, qualche tenda e tanti oggetti sparsi, non si notava nessun altro segno di insediamento organizzato.[1]

Dalla metà di marzo, in poco più di un mese, col tepore del sole e l’allungarsi delle giornate, velocemente i ragazzi avevano cominciato ad attrezzarsi per sopravvivere un po’ meglio nell’attesa di passare la frontiera…

La paura che l’accampamento prendesse la forma di un campo più stabile, più abitabile e quindi in grado di consolidare relazioni e discorsi, l’avvicinarsi della stagione turistica e il timore del contemporaneo aumentare degli arrivi delle persone migranti, le elezioni comunali alle porte, tutti questi fattori insieme hanno creato il giusto mix in grado di far decretare lo sgombero radicale del campo da parte del Comune in accodo con la Prefettura di Imperia.

Sotto ponte prima dello sgombero

Ventimiglia: il sottoponte di Via Tenda dopo lo sgombero del campo informale

 

20 aprile – 22 aprile

Pochi giorni dopo lo sgombero del campo informale  a Ventimiglia , il 20 aprile per l’esattezza, lungo la stessa frontiera ma nel suo tratto alpino tra l’alta Val di Susa e la Val de la Clarée,  lì dove da qualche mese si è fatta evidente l’apertura di una nuova rotta migratoria e il contemporaneo dispiegarsi di un dispositivo di confine [2], si palesava il network neofascista di Génération Identitaire, noto per la campagna Defend Europe lanciata l’estate scorsa con la nave C-Star  mandata a presidiare le coste italiane contro l’arrivo di migranti attraverso la rotta libica. Un gruppetto di neofascisti ben attrezzati piantava reti di plastica al fondo del Colle della Scala, al confine tra Italia e Francia, dichiarando di mettersi al servizio dello Stato francese nella protezione dei confini nazionali.

Pochi giorni dopo, domenica 22 aprile, in risposta a questa provocazione carica di significato (i fascisti di G.I hanno continuato per giorni le loro scorribande tra il colle della Scala e il Monginevro a caccia di migranti) veniva lanciata un manifestazione antifascista e antirazzista, che vedeva la partecipazione di alcune centinaia di solidali europei che insieme alle persone migranti attraversavano il confine sfidando il dispositivo poliziesco a difesa della frontiera e le ronde neofasciste. In serata, la polizia francese arrestava sei compagni  con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e banda organizzata. Tre dei compagni sarebbero stati rilasciati quasi subito in quanto ritenuti estranei ai fatti; gli altri tre tratti in arresto a Marsiglia, sono stati scarcerati il 3 di maggio con obbligo di dimora in Francia fino al processo che si terrà il 31 maggio.

 

Confine italo-francese

29 aprile

Le notizie che arrivano da Ventimiglia dopo lo sgombero raccontano di persone sparpagliate lungo il corso del fiume Roya, fino alla spiaggia, di qualche presenza in più al Campo della Croce Rossa, di una “bolla” che sembra essere, se mai possibile, ancora più “bolla”, sospesa nel vuoto prodotto dalla violenza che si accumula fosca come le nubi di un temporale e che ogni tanto scroscia fragorosamente per lasciare dietro di sé il silenzio e  rivoli d’acqua che si infiltrano nel terreno.

Ci mettiamo in viaggio verso Clavière, paesino di poche anime nell’alta Val di Susa al confine con la Francia. Da Clavière in poco tempo si arriva al valico del Monginevro che permette di attraversare il confine ed arrivare alla città francese di Briançon. Qui, da poco più di un mese, è nato un presidio di solidarietà con le persone migranti, in uno spazio ricreativo della parrocchia, sotto la Chiesa: Chez Jésus l’hanno chiamato.

 

Clavière: arrivando a Chez Jesus

Arrivati in Val di Susa la temperatura cala bruscamente e all’improvviso ci troviamo circondati da un paesaggio completamente innevato. Incredibile  trovarsi il 30 aprile nel silenzio imbiancato di un paesino di montagna e di confine, dove la stagione sciistica è da poco finita, mentre poco più a sud, sull’altro pezzo di confine, qualcuno ha già cominciato a fare i primi bagni. Una sorpresa, poi, entrare in questo rifugio, che possiede qualcosa della mangiatoia ma dove il calore del bue e dell’asinello è garantito da tante donne e uomini di provenienze diverse che insieme sentono fortemente che queste montagne debbano essere un luogo di libertà e di lotta e non di confinamento, dove razzismo e repressione non debbano avere spazio.

 

Clavière: Chez Jesus

Incontriamo una giovane attivista e militante NO TAV, una compagna abitante della Valle, che da qualche giorno si trova presso Chez Jesus per dare una mano. Sorridente, accogliente, ascolta interessata il breve racconto della situazione a Ventimiglia di cui da queste parti, apprendiamo, non si sa molto… Ci  spiega di come la Valle si sia subito iniziata a mobilitare non appena il numero delle persone in viaggio ha cominciato ad aumentare anche su questo confine. Un aumento repentino, legato sicuramente alla situazione di controllo e repressione sempre peggiore tra Ventimiglia e Mentone. Riflettiamo insieme su come il tessuto politico e sociale della Val di Susa abbia permesso una risposta immediata e organizzata ma soprattutto costante: una risorsa enorme per contrastare la violenza razzista del nuovo dispositivo di confine. Inoltre la geografia dei luoghi qui sicuramente rende più difficile le operazioni di controllo e la militarizzazione del confine rispetto a un territorio come quello della zona costiera tra la Liguria e la Costa Azzurra. Tuttavia occorre essere consapevoli che la militarizzazione probabilmente arriverà anche qui: la compagna ci spiega di come, già da qualche mese,  la polizia italiana abbia iniziato a setacciare i treni che da Torino salgono in valle fino a Bardonecchia: modalità abbastanza simili a quelle viste lungo la tratta Genova – Ventimiglia, richiesta di documenti solamente alle persone di pelle scura che qualora ne siano sprovviste vengono fatte scendere dal treno. Stessa cosa sulle corriere che attraversano la Valle; frequente è l’intervento di polizia che effettua controlli su base razziale, più precisamente in base a parametri somatici che indichino la provenienza da Paesi extra-europei soggetti a colonizzazione e neocolonizzazione. La compagna ci racconta anche della presenza dei militanti di Génération Identitaire, di come stessero continuando a scorrazzare per le montagne lì sopra. Ci presenta un ragazzo che il giorno prima era stato fermato da appartenenti al gruppo neofascista, attrezzati di tutto punto, dotati addirittura di binocoli notturni. La testimonianza ci lascia sorprese: si tratta di fascisti che si dichiarano “non –violenti” e “non razzisti”, che affermano apertamente di voler aiutare la polizia a difendere i confini. In effetti braccano i ragazzi, li fermano e poi fanno una telefonata alla polizia che prontamente interviene. Piena collaborazione dunque tra polizia di Stato e militanti di estrema destra. Il ragazzo con cui parliamo ci racconta di averli allontanati e insultati e di come questi non abbiano fatto altro che attendere l’intervento della polizia. Qualche solidale intorno a noi sorride con disprezzo all’idea di questi personaggi tanto meschini a spasso per le montagne a caccia di uomini, bambini e donne che sfidano la morte per cercare una vita dignitosa.

Momento di silenzio.

Probabilmente, però, c’è poco da ridere. Si tratta di un network europeo con una strategia ben studiata. Da tempo i neo-fascisti hanno capito che per sfidare le elite neoliberiste europee sul terreno del potere, il sovranismo va collocato nella più ampia cornice europea. Nel mondo globale difficilmente si può ambire al ruolo di potenza imperialista senza costruire un blocco continentale. “L’Europa dei popoli” contro “l’Europa delle banche”. L’Europa bianca, cristiana e identitaria, federazione di Stati Nazione sovrani: questo il loro programma. La questione immigrazione in tutto questo diventa essenziale: il progetto prevede la schiavitù neocoloniale per gli immigrati tramite la quale garantire la redistribuzione della ricchezza da questi prodotta ai popoli bianchi e la diffusione dell’ideologia razzista usata come oppio in grado di sedare lo sviluppo di una coscienza di classe internazionalista.[4]

C’è poco da ridere, pensiamo, e molto da fare.

 

E’ ora di muoversi per raggiungere il presidio che si terrà a Bardonecchia in solidarietà di Eleonora, Théo e Bastien, i tre compagni arrestati dopo la manifestazione del 22 aprile. Mentre ci apprestiamo ad andare via scopriamo che ci sono due ragazzi sudanesi che  cercano un passaggio per raggiungere la stazione di Bardonecchia. Hanno provato nei giorni scorsi a passare il confine, ma sono  stati respinti dalla polizia francese. Vogliono andare a Ventimiglia. Vorremmo spiegargli come sia la situazione a Ventimiglia in questi giorni ma non parlano né italiano né inglese né francese, perciò li mettiamo in contatto con una nostra amica che conosce l’arabo. Veniamo così a sapere che sanno benissimo quale sia la situazione  a Ventimiglia perché è da lì che sono andati via il giorno dello sgombero. Non solo, entrambi hanno già passato una volta il confine italiano, nonostante gli siano state prese le impronte nel nostro Paese. Arrivati a destinazione nel Nord Europa dove risiede parte della loro famiglia, dopo alcuni mesi sono stati dublinati e rispediti in Italia. Così di nuovo costretti ad abbandonare affetti e sicurezza, per loro, il gioco mortale del confine ha ripreso forma. Li guardiamo uscire dal rifugio con un tozzo di pane e nutella in mano, circondati dalle montagne innevate. Li accompagna un coro di “buona fortuna, in bocca al lupo!” “ bonne chance, bon  courage!”. Un solidale di Briançon si asciuga gli occhi umidi con la manica della camicia a quadri da montanaro. E osserviamo questi giovanissimi uomini, con la faccia ancora da bambini sotto le occhiaie e il dolore,  ancora una volta siamo colpite bruscamente dalla consapevolezza di quanto sia  diverso il mondo a seconda del posto in cui sei nato e della postazione sociale che ti è toccata in sorte. Sentiamo un forte legame con loro e con gli altri compagni… e pensiamo a quanti addii ancora si dovranno dire, sperando che qui la storia possa prendere velocemente una piega diversa rispetto alla violenza che da tre anni ormai si abbatte su Ventimiglia.

 

 

Arrivati a Bardonecchia, di fronte alla stazione alla spicciolata arrivano un centinaio di compagni. In un attimo è allestito un gazebo, un impianto di amplificazione, cibo, bevande, materiale di informazione. Ci sono compagni da Torino, abitanti della Valle, tanti compagni e solidali francesi. Dal megafono viene ribadito un messaggio chiaro: “ Il 22 aprile su quelle montagne c’eravamo tutt*!” “Libertà di movimento per tutte e tutti!”

 

Ancora una volta in questa valle aleggia lo spirito partigiano. La lotta No Tav in questi anni ci ha mostrato un sentiero che non va abbandonato. I territori non sono di nessuno,  appartengono solo a chi li abita e chi li attraversa nel rispetto della vita, della natura e della storia che contengono, senza fini di lucro o di sfruttamento ma con a cuore la dignità e la  felicità di tutte e tutti. Ce ne andiamo con un nuovo sentiero da calpestare e un’indicazione preziosa, per la quale alcuni compagni, a cui va tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto, stanno pagando il prezzo.

[1]https://parolesulconfine.com/la-quiete-prima-della-tempesta-aspettando-lennesimo-sgombero-a-ventimiglia ;  

https://parolesulconfine.com/emergenza-freddo-o-ulteriore-passo-avanti-verso-il-nuovo-nazismo/

[2]  https://parolesulconfine.com/notizie-dalla-frontiera-tra-bradonecchia-e-briancon/; https://parolesulconfine.com/rotta-migratoria-tra-morte-e-liberta/

[4] https://parolesulconfine.com/isola-di-lesbo-attacco-fascista-a-richiedenti-asilo-politico/

 

 

a cura di g.b., C.J.Barbis

I fatti di Bardonecchia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo di I. B., sui “fatti di Bardonecchia” (già pubblicato, qualche giorno fa, sul sito Infoaut [1]).

L’articolo ci pare di notevole interesse perché prova a prendere di petto una questione particolarmente spinosa come quella della frontiera e del suo possibile utilizzo non nazionalista.

Uomini dello stato francese, e per di più armati, sono penetrati entro i confini nazionali per compiere un’operazione di polizia internazionale. In questo modo hanno dimostrato una cosa: il territorio nazionale italiano agli occhi di chi incarna uno degli assi centrali del costituente polo imperialista Continentale è un territorio che può essere attraversato senza troppe remore, soprattutto di fronte alla necessità di portare a termine un’operazione di “polizia internazionale”, finalizzata a garantire la sicurezza della “fortezza Europa”.

Questo significa almeno due cose. Primo: l’esistenza e il rispetto dei confini statuali sono sanciti in primo luogo da rapporti di forza  e non da trattati giuridico – formali. Secondo, diretta conseguenza del primo, il territorio italiano è percepito e considerato dai poteri costituenti europei come uno spazio semicoloniale entro il quale è possibile operare senza chiedere il permesso al Governo di turno. In altre parole la frontiera italiana è legittima nel momento in cui è giocata come fattore di contenimento nei confronti delle popolazioni migranti, inessenziale quando questa si pone frappone alla “volontà di potenza” delle forze trainanti del polo  europeo. Di questo scenario i “fatti di Bardonecchia” ci parlano.

La palese ingerenza francese ha dato il là a una serie di reazioni di marca prettamente nazionalista, tra le quali quella del segretario leghista Salvini,  alle quali, pur con sfumature diverse, si associano tutte le varie forze politiche di marca populista. La “sovranità nazionale”, la sua difesa e riabilitazione, sembra così assumere un valore in sé. Una sorta di “bene comune” che non può essere messo in discussione. Che fare, quindi? Non resta che  mettersi tutti a  gridare “Viva Verdi”, a cantare Va pensiero rispolverando magari le Brigate Garibaldi e il tricolore in chiave “progressista”? Non necessariamente. L’ingerenza francese offre, come l’articolo che segue prova ad argomentare,  anche un’altra via d’uscita. Il problema non è ripristinare la frontiera come forma giuridica cristallizzata dello Stato/Nazione ma, al contrario, combattere la frontiera attraverso un movimento politico meticcio di subalterni che si ponga l’obiettivo di de-territorializzare in permanenza le strutture rigide statuali. Ciò che viene suggerito nel testo che segue è l’invito a usare dialetticamente lo sdegno nei confronti dell’ingerenza francese in territorio italiano.  Cosa che non equivale a sposare le retoriche sul recupero della “sovranità nazionale”, ma a sostenere le spinte verso  la “sovranità” dei subalterni, capace di mettere in discussione, e un giorno forse di spezzare,   la macchina delle “operazioni di polizia internazionale” con il suo carico di violenza, sfruttamento e negazione di libertà.

 


 

Bardonecchia, la Gendarmeria francese e noi

 

La Gendarmerie sconfina in Italia e fa irruzione nei locali dell’associazione Rainbow4Africa. Come successo oggi a Bardonecchia, anche a Ventimiglia la polizia francese si arroga, ormai da molto tempo a questa parte, il diritto di operare in territorio italiano. Il teatro è sempre una stazione ferroviaria. In questo caso, ormai lontano dai riflettori mediatici, lo sconfinamento di sovranità è invece pattuito e persino ben accetto. Nessuna levata di scudi, ma piena accettazione e collaborazione istituzionale.

Ora, le strilla per la lesa sovranità del nostro paese da parte di alcuni esponenti politici non sono quindi molto rilevanti né interessanti. Tuttavia, quello che sì è importante è che le persone si sentano in dovere di incazzarsi con il governo francese. Non bisognerebbe contenere questa tendenza, per quanto embrionale possa essere, e che, peraltro, potrebbe anche essere portatrice di quella tanto agognata convergenza di interessi materiali tra persone italiane e migranti. La Francia, in blocco con la Germania e altri paesi dell’Europa continentale, fa leva sulle ingiuste dissimetrie del Regolamento di Dublino per fermare in Italia le migliaia di migranti che riescono a sbarcare sulle nostre coste. Prima che arrivino “a casa loro”. Stessa sorte per la Grecia e per tutti i territori che costituiscono il limes di questa Brave New Europe, impresa politica multinazionale rigorosamente bianca.

Infatti, moltissime di queste persone emigrate, forse la maggior parte, non vogliono certo restare. Si provi a chiedere. Eppure non possono andarsene, non legalmente perlomeno. E allora si muore travolti dai treni a Ventimiglia o assiderati sulle Alpi in Valsusa, in tragici tentativi di attraversare confini sempre più militarizzati e brutali. Oppure, desolante e deprimente alternativa, si resta imbrigliati nel sistema violentemente disciplinare della cosidetta accoglienza, che sembra fatto apposta per rendere impossibile, con precisione scientifica, evntuali forme di ibridazione con la popolazione italiana. Insomma, trattasi di un mero bacino di forza-lavoro gratuita o a bassissimo costo, da pagare rigorosamente in nero, che non fa che incrementare le tensioni razzisteggianti che caratterizzano le società europee sempre più chiuse e risentite.

La verità è che, quando le frontiere esternalizzate in Libia e in Turchia (della cui esistenza siamo vergognosamente corresponsabili, non dimentichiamo) non tengono, è l’Italia stessa a dover assumere lo scomodo ruolo di carceriere dei migranti. Penso e spero che questo nessuno se lo voglia accollare, se non ovviamente i pochi che hanno qualcosa da guadagnarci sopra. E allora basta con la buona accoglienza, la gestione umanitaria e tutto l’armamentario discorsivo della sinistra governista, quella per cui non bisogna mai rompere ma sempre mediare. È funzionale allo scopo assegnato. Ribadiamolo forte e chiaro: il problema è la frontiera.

L’atteggiamento della Francia è infame e inaccettabile e, per quanto pericoloso possa essere in potenza un simile discorso, evidentemente suscettibile di una possibile, ma non certa, deriva nazionalista, bisognerebbe comunque riuscire a padroneggiarlo. Per risignificarlo in un modo totalmente altro, ovviamente, e affinché possa aprire su situazioni inedite e favorevoli. Si può e si deve, a meno che non ci si accontenti di parlare solamente a se stessi. Dopotutto, quello che si esprime è un concetto giusto, comprensibile e plausibilmente anche maggioritario, forse: “Almeno lasciate che le persone vadano a cercar fortuna dove preferiscono, così come già fanno le migliaia di giovani emigranti italiani.” Ah no, pardon, si dice expats, mica migranti.

I.B.

 

[1] https://www.infoaut.org/migranti/bardonecchi-la-gendarmerie-e-noi

Cronaca di una morte annunciata

Un articolo di El Pais diffonde il comunicato della rete Interlavapiés sulla morte del cittadino senegalese Mame Mbaye Ndiay

 

Mame Mbaye Ndiay, cittadino senegalese trentacinquenne che esercitava la professione di venditore ambulante, è morto il 15 Marzo 2018 a Madrid, in Calle del Oso, nel quartiere Lavapiès, per un arresto cardiaco verificatosi nel corso di un intervento della polizia municipale.

 

Il fatto ha determinato l’indignazione e la ribellione della comunità senegalese e in generale degli abitanti del quartiere.

Durante la serata del giovedì stesso e la mattina del giorno dopo, si sono verificati forti agitazioni.

Durante i disordini, ai quali la polizia ha risposto violentemente [1], un altro cittadino senegalese di Lavapiés, Ousseynou Mbaye, di 54 anni, è morto a seguito di un ictus cerebrale [2] e Arona Diakhate, di 38 anni, è stato ricoverato per trauma cranioencefalico all’ospedale Fundación Jiménez Díaz di Madrid. Il referto medico mostra che è stato trattato con quindici punti sulla testa e presenta due lividi. Trauma cranioencefalico, con ematomi interni, ma senza rischio di danno neuronale. Diakhate ha una ferita alla testa a seguito di trauma inferto con “un oggetto duro e sconosciuto” [3].

 

Una morte molto simile si è verificata, a Maggio 2017, a Roma. Niam Maguette, un cinquantaquattrenne senegalese, è deceduto nel corso di una operazione di polizia definita “anti-abusivismo”.

Secondo gli agenti, la morte si sarebbe verificata a seguito di un malore, mentre la comunità senegalese ha dato vita a intense manifestazioni di protesta, affermando che fosse stato ucciso e chiedendo l’interruzione delle ripetute operazioni di rastrellamento operate dalla polizia locale di Roma. [4, 5].

A seguito di questi eventi, ritenendo che l’unica certezza sia che a livello europeo si assiste ad un inasprimento della repressione verso donne e uomini già posti in condizioni di sfruttamento dalla mancanza di riconoscimento giuridico, pubblichiamo un articolo che riporta il comunicato della rete interlavapiés, che si definisce “una rete in movimento per la libera circolazione delle persone, perché nessun essere umano è illegale” [6].

Cronaca di una morte annunciata

DAVID FLORES E TERESA ÁLVAREZ-GARCILLÁN (RETE INTERLAVAPIÉS)

La morte di Mame Mbayee non è un fatto casuale, ma la conseguenza del razzismo radicato in alcuni settori della società e delle istituzioni a Madrid.

Ieri pomeriggio Mame Mbayee è morto a causa di un arresto cardiaco. Questo abitante di Madrid stava esercitando la vendita ambulante poco prima a Puerta del Sol.

Ci sono molte versioni degli eventi accaduti prima e dopo la sua morte. La confusione e i disordini ci fanno perdere la concentrazione: chi ha ucciso Mame? Cosa ha ucciso Mame? Nella differenza di queste due domande giace la chiave: Mame è morto per un attacco di cuore ma, nel motivo della sua tragica fine, c’è un lungo filo da seguire che trascende e attraversa tutta la nostra società, con le sue politiche, le sue leggi e le sue istituzioni.

Non possiamo solo pensare che quello che è successo ieri sia stato un incidente. Non è stato un evento isolato. C’è un serio problema strutturale che ha causato la morte di una persona. Mame, senegalese di 35 anni, non aveva documenti nonostante fosse da 12 anni in Spagna. Ha lavorato come ambulante perché non poteva lasciare una cerchia di esclusione. Ad una estremità del cerchio, la premessa che senza un contratto di lavoro non ti danno i documenti; nell’altro, che senza documenti, non puoi avere alcun lavoro. Nel frattempo, l’ultima riforma del codice penale, che ha trasformato le precedenti mancanze in crimini e, con essa, il venditore ambulante in un criminale. Avendo dei precedenti, nessuna offerta di lavoro ti aiuterà a regolarizzare la tua situazione.

Le persone che lavorano in strada e le persone prive di documenti sono spaventate da queste strutture in cui la tensione e la minaccia sono elementi costanti, al livello della strada e al livello della Legge. La persecuzione, i raid, i CIE, il Codice Penale e la mancanza di opportunità sono mattoni di alte mura, forse invisibili a molti, ma molto reali per gli altri. Ripetiamo: ieri non è stato un evento isolato, ma un riflesso di un problema strutturale, in ambito giuridico e politico. Una questione di razzismo e discriminazione.

Gridiamo nelle strade “Sopravvivere non è un crimine!”, Ma con le leggi attuali lo è. Molti come Mame sono venuti qui attraverso mare e deserto con la morte alle calcagna, per poter vivere con dignità e sostenere le loro famiglie. Le regole del gioco sono quelle che sono e, dato che non hanno documenti o lavoro, comprano un sacco di scarpe – o occhiali, profumi o borse – in qualsiasi magazzino all’ingrosso e poi lo rivendono in strada. E questo è considerato un crimine, ma non hanno scelta.

Molti come Mame corrono davanti ai distintivi. E guardano con sguardi sfrenati le orde di persone della Puerta del Sol, sempre all’erta, giorno dopo giorno. Vivono con il cuore in un pugno, finché non scoppia.

La tensione per il timore di essere denunciati non è poca, ma hanno più paura della violenza quotidiana. I gruppi di Lavapiés sono in contatto con il Comune per denunciare la brutalità della polizia. In questi casi è difficile condurre un processo ordinario di denuncia: si tratta di accusare, senza documenti o con il timore di non rinnovarli, niente di più e niente di meno della polizia. E il giorno dopo tornare in strada per vendere, con quegli agenti che cercano di fermarti. In breve, le aggressioni terrorizzano, c’è la paura. La paura serve a rendere la violenza invisibile, confinata nella sfera quasi privata.

Nel centro di Madrid, da agosto 2016, i collettivi hanno documentato in un formato concordato con l’amministrazione cittadina per circa 20 aggressioni fisiche con fratture e contusioni di diversa gravità. Nel luglio del 2017, ad esempio, hanno spinto un ragazzo buttato in un furgone riportando lesioni a diverse vertebre. Al di fuori di questo registro formale, che accetta solo casi con indicazioni fisiche di violenza visibile, vi sono costanti abusi verbali e intimidazioni di ogni tipo.

Lo scopo di questo lavoro sistematico è aprire un percorso sicuro contro l’impunità ma le istituzioni, ribadiscono le loro buone intenzioni senza concretizzarle in mezzi per porre fine al problema. Invece, ci rimandano al Difensore Civico, che è già a conoscenza della violenza e suggerisce lo sviluppo di un programma di identificazione efficace, per garantire azioni non discriminatorie.

Tuttavia, il problema non è limitato a queste azioni. Esiste una dimensione giuridica, legata al codice penale e alla legge sull’immigrazione. I collettivi lavorano su una Proposta di legge per modificare l’articolo 270.4, che classifica la vendita nelle strade come reato. Questa proposta è stata approvata dalla Commissione per la giustizia del Congresso con il sostegno di Unidos Podemos, PSOE, PdeCat, ERC e PNV nel marzo dello scorso anno. Stiamo attualmente prendendo provvedimenti per rendere effettive le modifiche nella legislazione.

No, la persecuzione da parte di due poliziotti in moto non ha ucciso Mame, ma forse il silenzio istituzionale lo ha ucciso. O non è stato il silenzio istituzionale che ha ucciso Mame ma le leggi che lo hanno ucciso. O forse né la polizia né le leggi lo hanno ucciso, ma il razzismo ha ucciso Mame. Sì, Mame è morto. Le circostanze di questa morte sono state tragiche. Le circostanze della sua vita non lo erano meno. Ed è nella vita e nella dignità di tutti i residenti della città ciò su cui vogliamo concentrarci. Ora non solo è necessario svolgere un’indagine per chiarire i fatti, ma il Municipio deve assumersi la responsabilità politica per quanto è successo. L’ambivalenza non è possibile.

Quello che è successo ieri non è una fatalità, è una conseguenza di un problema che esiste in città. Un problema di razzismo strutturale, mancanza di responsabilità e abbandono di una popolazione vulnerabile [6]

1)http://www.publico.es/sociedad/protestas-lavapies-muerte-mantero-perseguido.html

2)http://www.eldiario.es/desalambre/senegales-ictus-muerte-lavapies_0_751025056.html

3)http://www.eldiario.es/desalambre/servicios-emergencia-desplomo-porrazo-Policia_0_750675282.html

4)http://elpais.com/elpais/2018/03/16/3500_millones/1521210124_575744.html

5)http://www.publico.es/sociedad/protestas-lavapies-muerte-mantero-perseguido.html

6)http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/03/roma-ambulante-fugge-durante-i-controlli-e-muore-dopo-caduta-investito-dai-vigili-no-e-stato-un-malore/3560326/

 

Traduzione di Lia Trombetta

 

Altra rotta migratoria: una strada tra morte e libertà

Tra la Val di Susa e la Valle della Clarée da circa un anno si è aperta un’altra rotta migratoria.

Negli ultimi mesi, il numero delle persone migranti che tentano il passaggio di confine attraversando il Colle della Scala è andato aumentando a causa dell’inasprirsi dei controlli e della violenza nella zona di frontiera di Ventimiglia, una rotta resa sempre più pericolosa e difficile da percorrere.

Pubblichiamo una serie di articoli (tradotti dal francese all’italiano dalla nostra redazione), che aiutano a comprendere la situazione migratoria in questa più recente zona di confine, nonché il comunicato di presentazione di una realtà solidale – Briser les Frontières – nata recentemente in Val di Susa.

Il primo articolo di cui proponiamo la traduzione è uscito il 24/11/2017 su La Depeche.fr, nella sezione Attualità sulla salute pubblica.

Gli articoli che seguono raccontano del replicarsi, anche lungo il confine delle Hautes-Alpes, della stessa politica fatta di violenza, respingimenti e militarizzazione, messa in atto ormai da quasi tre anni alla frontiera di Ventimiglia. Di fronte all’aprirsi dell’ennesima rotta migratoria – che dimostra come le politiche repressive non solo siano inumane ma anche sostanzialmente inutili – il Governo francese, in palese difficoltà, arriva a negare la libertà di stampa.

Concludiamo con la presentazione di Briser les Frontières e con l’invito alla loro prima iniziativa, domani 15/12, a San Didero, Val Susa.

La frontiera, la montagna e la caccia al migrante: l’appello delle guide alpine.

“Migranti : le guide alpine lanciano l’allerta sui pericoli dell’attraversamento in montagna.” (https://www.ladepeche.fr/article/2017/11/24/2691350-migrants-guides-alpins-alertent-dangers-traversee-montagne.html)

Dopo aver attraversato il Mediterraneo, un numero crescente di migranti originari dell’Africa dell’ovest cerca di oltrepassare le Alpi per raggiungere la Francia. Mettendo in pericolo la loro vita. Senza equipaggiamento e nel timore delle forze dell’ordine appostate in montagna, presto si confronteranno con la rigidità dell’inverno ad alta quota. Numerose associazioni di ‘montanari’ fanno appello alle autorità perchè salvino questi richiedenti asilo. Facciamo il punto con Yannick Vallençant, presidente del sindacato professionale della montagna e vice-presidente fondatore di Guide senza frontiere.

Durante lo scorso agosto, due migranti sono precipitati al col de l’Echelle (Hautes Alpes), nel tentativo di evitare la polizia, che perlustra la montagna lungo le rotte di migrazione dei rifugiati africani. Altri migranti hanno subito amputazioni alle dita di mani e piedi a causa dei congelamenti. La mancanza di equipaggiamento, la persecuzione poliziesca, le condizioni meteorologiche particolarmente dure in montagna mettono in pericolo la salute e la vita di questi richiedenti asilo.

Alla vigilia dell’entrata nel periodo invernale e di fronte a questa inquietante situazione di carattere umanitario, un gruppo di professionisti della montagna ha deciso di scrivere al presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. Nella lettera, denunciano “ la situazione drammatica vissuta dai gruppi di migranti durante il passaggio delle frontiere alpine nel settore del Mercantour, di Brainçon e di Modane”. Il freddo, l’altitudine … “alle difficoltà e ai rischi propri alla montagna si aggiungono la paura di incrociare le forze di polizia e la volontà di sfuggirgli in ogni modo”, continuano i firmatari.

Congelamenti, ipotermie, incidenti, la montagna è pericolosa tutto l’anno: “ anche quando si è dotati di 4 strati di abbigliamento, di calzature tecniche, e si è allenati, resta pericolosa. E in inverno tutto si complica”, sottolinea Yannick Vallençant. Oltre al mal di montagna, che puo’ colpire alcune persone, il freddo aumenta a quelle altitudini. Il col de l’Echelle si trova a 1.700 m d’altitudine. In montagna, “si cala facilmente di 1° C ogni 100 m”, precisa.

“Ultimamante abbiamo registrato attorno ai -7°C, ma si puo’ tranquillamente scendere a -15°C e a volte -20° C durante l’inverno”. Il rischio di congelamenti, che puo’ condurre all’amputazione degli arti coinvolti, è reale. Per non parlare dell’ipotermia che puo’ provocare la morte. I migranti, assolutamente non equipaggiati (alcuni attraversano il passo in espadrillas) soffrono di un affaticamento ulteriore, dovuto allo stato di salute già deteriorato durante il loro percorso e a causa delle condizioni nelle quali lo hanno affrontato. Inoltre, la maggior parte di loro viene da paesi caldi …

Lo spirito di cordata

Animati dallo ‘spirito di cordata’, sinonimo di missioni di sicurezza, di soccorso e solidarietà, i firmatari della lettera giudicano “impensabile lasciare i migranti al loro destino”. E’ “il senso piu’ profondo del nostro mestiere di guide quello di assicurare la sicurezza di tutti in montagna, senza discriminazioni”. “Ci auguriamo che i responsabili politici prendano coscienza della realtà”, prosegue. A questo scopo, “proponiamo loro di venire personalmente, per rendersi conto sul posto dei rischi concreti”.

Il 17 dicembre prossimo, un camper di soccorso sarà installato nella valle della Clarée. Aperto a tutte e tutti, “permetterà di avere una visione chiara delle realtà di uno di questi percorsi ad alto rischio”.

 

Liberté Fraternité Egalité: ulteriori passaggi verso il nuovo fascismo di Stato, anche in Francia.

 

Il 17 novembre scorso, appariva sul giornale svizzero Le Temps,  a firma della giornalista Caroline Christinaz un reportage (https://www.letemps.ch/monde/2017/11/17/col-lechelle-jeunes-migrants-pieges-froid-renvoyes-france?utm_source=amp) sulla situazione al confine italo – francese tra la Val di Susa e la Valle della Clarée divenuto recentemente zona di transito dei migranti diretti in Francia.

Presso il Colle della Scala, alcuni giovani migranti piegati dal freddo e respinti dalla Francia. La valle della Clarée, situata nel dipartimento delle Hautes-Alpes, è teatro della crisi migratoria. I migranti che attraversano il Colle della Scala sono in maggioranza minorenni – una condizione che, secondo le associazioni, non è presa in considerazione dalle autorità.”  – questa la traduzione italiana del  titolo del suddetto articolo.
Immagine ripresa da: https://www.letemps.ch/monde/2017/11/17/col-lechelle-jeunes-migrants-pieges-froid-renvoyes-france?utm_source=amp
L’articolo racconta in presa diretta il tentativo di attraversamento del confine da parte di giovanissimi migranti, quasi tutti minorenni, con il sostegno di un solidale francese incontrato lungo la strada:

“Le prime nevi erano cadute all’inizio della settimana. Sabato sera  scorso, sulla strada del Colle della Scala, a 1762 metri di altitudine, non lontano dalla frontiere franco-italiana, Alain è inquieto. Fa freddo e il vento soffia attraverso i larici. La luna non è ancora spuntata ma malgrado l’oscurità, lui riesce a vedere.

Sono le 23 e lui non è solo. Grandi fari accesi, numerosi veicoli della gendarmerie risalgono la sua stessa strada. Alain, guida di montagna in pensione, sa che queste cime, per quanto belle siano, nascondono delle trappole. Ma loro lo ignorano.

Un rumore. Il Briançonese accende la sua torcia. Dietro un tronco, un sacco rosso, poi un viso. La figura non si muove. “Non abbiate paura”, apostrofa Alain. Loro si erano seduti con la schiena alla strada, dietro un tronco. Uno dopo l’altro escono dall’oscurità. Sono quattro. Tacciono. Uno di loro porta un piumino, gli altri si accontentano di una giacca che hanno abbottonato fino al collo. Ai loro piedi degli zainetti. “Avete freddo?” “Sì”. “Sete? Fame?” “Sì”. “Quanti anni avete?” Il ragazzo col piumino risponde: “16 anni, signore. Sono nato il 10 ottobre 2001”. I suoi tra compagni dicono lo stesso. Affermano tutti di avere meno di 18 anni e accettano il tè caldo e delle galettes al cioccolato che gli offre il pensionato.”

L’articolo continua descrivendo come, da circa un anno, la Valle della Clarée sia interessata da questo fenomeno che aumenta di mese in mese. Nel 2017, secondo le stime ufficiali, circa 1600 migranti sono riusciti ad attraversare il confine passando per questa zona e di questi 900 erano minorenni. All’aprirsi della nuova  rotta migratoria è seguita la militarizzazione del confine, con l’aumento dei controlli, dei posti di blocco e ovviamente degli arresti, delle multe e delle denunce per tutti coloro che hanno cominciato a offrire solidarietà concreta alle persone in viaggio. Nonostante questo, una parte non esigua di abitanti delle valli ha deciso di non abbassare la testa e di non girare lo sguardo di fronte a quanto accade lungo i sentieri delle proprie montagne.

“L’ultima tappa di una lunga peripezia”

“Fa molto fresco qui”, sottolinea a suo modo uno dei quattro giovani migranti. Si chiama Lansana e viene dalla Guinea- Conakry. Prima di arrivare su questa strada che serve da pista di sci di fondo in inverno, ha attraversato un continente, un mare e una penisola. Le carceri libiche, le torture, così come il Mediterraneo e le imbarcazioni a motore precarie, sono alcune delle prove che lui ha affrontato.

I suoi tre compagni, ugualmente. Se desiderano arrivare in Francia è per scappare alla strada in Italia. In Francia abbiamo delle conoscenze e parliamo il francese, spiegano mentre sorvegliano la strada. In qualsiasi momento una volante della gendarmerie li può intercettare. “Sistematicamente vengono rinviati in Italia” spiega Alain.

L’uomo è cosciente di trovarsi in una situazione delicata poiché la sfumatura tra lo statuto di trafficante e di solidale è poco chiara per dei semplici cittadini. Questa incertezza giuridica ricade sulle azioni intraprese dagli abitanti della regione.

(…)

Già nel 2015 avevano avuto un assaggio del contesto migratorio. A causa dello smantellamento del campo di Calais, il Comune di Briançon si era proposto volontario per accogliere una parte dei migranti provenienti dal Nord della Francia. Ma molto velocemente, la città del dipartimento delle Hautes-Alpes si era sentita invasa. Ad oggi il CRS (Cordinamento rifugio solidale) , uno spazio messo a disposizione dalla comunità cittadina, oltre a Chez Marcel, una casa occupata da un collettivo, fanno parte di quei luoghi che offrono rifugio ai migranti.

“ Al momento dei controlli, il rifiuto di ingresso è sistematico. Non se ne considera né l’età, né la domanda d’asilo. E’ totalmente illegale e criminale”, denuncia Michel Rousseau, tesoriere dell’associazione Tous Migrants. Nel 2015, la foto del piccolo Aylan trovato morto annegato su una spiaggia turca aveva creato un movimento di indignazione a Briançon. “Noi non ci riconosciamo nella politica europea in materia di immigrazione. Che il Mediterraneo si trasformi in un cimitero ci è insopportabile”, dichiara ancora. “Noi non vogliamo che le nostre montagne divengano un secondo Mediterraneo. La reazione del prefetto che vuole respingere queste persone ci lascia scioccati. Noi abbiamo deciso di organizzare quello che lo Stato non fa: l’accoglienza.”

“Questa situazione è insostenibile”

“Ritorniamo sul Colle della Scala. Alain ha chiamato un amico in aiuto. Tutti e due vogliono portare i quattro minori al centro di accoglienza di Briançon. Prendono la situazione in mano e scendono lungo la valle. Non c’è tempo per l’esitazione. Cosa rischiano? Al volante, l’amico si sfoga: “Non ci importano i nostri rischi, questa situazione è insostenibile. Noi viviamo in un equilibrio instabile. Se noi non gli offriamo un aiuto, questi ragazzi restano in mezzo alla strada”.

All’entrata del paese di Val-des- Prés, la strada si insinua tra le abitazioni. La gendarmerie blocca la strada. “Documenti di identità”, esclama il rappresentante delle forze dell’ordine. L’operazione è interrotta. I giovani migranti devono salire sulla macchina della polizia. Quanto ad Alain e al suo compagno, ritornano a casa loro con una convocazione, per il giorno dopo, in commissariato. Prima di separarsi, i due francesi domandano i nomi ai quattro ragazzi incontrati sul Colle. Si chiamano: Rosé, Thierno, Mamadou e Lansana.

Sulla montagna, lungo la strada che passa tra  il Colle della Scala e la stazione sciistica di Bardonecchia, un cippo di pietra marca la frontiera.  E’ qui che la polizia francese li ha lasciati dopo l’interrogatorio, a l’una del mattino di domenica, indicando l’Italia e invitandoli a tornarci.”

L’articolo che abbiamo parzialmente tradotto e commentato è stato il frutto di un reportage che ha determinato il fermo e la denuncia da parte della polizia francese dei due giornalisti che lo stavano realizzando. Una pagina buia di negazione della libertà di stampa che segnala, se ce ne fosse ulteriore bisogno, come lo stato di diritto, considerato la base delle società democratiche occidentali, sia da tempo soggetto a un radicale smantellamento in direzione di una pratica di esercizio del potere palesemente improntata alla discriminazione e alla violenza.
Questo il comunicato pubblicato da Reporters sans frontières il 14 novembre 2017 (link all’originale: https://rsf.org/…/deux-journalistes-interpelles-par-la…) riguardo la suddetta vicenda:

“Due giornalisti fermati dalla polizia francese durante la realizzazione di un reportage sui migranti
In seguito al fermo di due giornalisti che stavano realizzando un reportage sui migranti che, dall’Italia, entrano clandestinamente in Francia, Reporters sans frontières (RSF) ricorda che la pratica del giornalismo non è un crimine e che la protezione delle fonti è un diritto.

La giornalista svizzera Caroline Christinaz, che lavora per Le Temps, e il giornalista francese Raphaël Krafft, in missione per il Magazine della redazione di France Culture, sono stati fermati, nella notte tra sabato e domenica, mentre realizzavano un reportage sui migranti che entrano clandestinamente in Francia, attraverso il passo dell’Echelle, nelle Hautes-Alpes, in provenienza dall’Italia. Sono stati fermati ad un posto di blocco, mentre erano a bordo di automobili guidate da alcuni abitanti della zona di Briançon, che avevano soccorso quatro migranti minori non accompagnati. I due giornalisti sono stati convocati, il giorno seguente, alla gendarmerie di Briançon.

Nel corso dell’ interrogatorio, Caroline Christinaz ha scoperto di essere convolta in una denuncia per “aiuto all’entrata, alla circolazione o al soggiorno irregolare di stranieri sul territorio francese”. Fatti che possono generare pene pecuniarie pesanti e detenzioni fino a cinque anni di prigione. La giornalista svizzera ha presentato il proprio tesserino da giornalista, ha spiegato che stava realizzando un reportage. «Per due ore, la maggior parte delle domande che mi sono state rivolte miravano all’ottenimento di informazioni sulle mie fonti e sulle persone con le quali mi trovavo », spiega Caroline Christinaz, che specifica di non aver smesso di ripetere ai gendarmi che, in quanto giornalista, desiderava far valere il proprio diritto a proteggere le fonti. I gendarmi hanno inoltre reclamato l’acquisizione del suo telefono portatile e dei codici d’accesso relativi. La giornalista ha dichiarato di essere stata interrogata a proposito della propria vita privata, per poter valutare le sue capacità finanziarie e stabilire l’ammontare della multa, prima di essere fotografata e obbligata a depositare le proprie impronte.

« Realizzare un reportage sui migranti o su coloro che vanno in loro soccorso non puo’ essere considerato un crimine», ricorda Catherine Monnet, redattrice capo di RSF. «Trattare un giornalista come un sospetto, quando non fa che esercitare la propria professione è un ostacolo al libero esercizio del giornalismo. Reporters sans frontières ricorda inoltre che un giornalista non puo’ essere costretto a rivelare l’identità delle proprie fonti, stando al fatto che la protezione delle fonti giornalistiche è un diritto previsto dalla legge del 1881 » .

Convocato qualche ora piu’ tardi, nel pomerigio, Raphaël Krafft è stato ascoltato in qualità di testimone. Per il momento i due giornalisti non hanno alcuna idea delle possibili conseguenze della faccenda.

La Francia risulta al 39° posto nel Classement de la liberté de la presse (classifica della libertà di stampa) stabilito da Reporters sans frontières (RSF).”

Briser les Frontières – iniziativa

Pubblichiamo infine il comunicato di presentazione del gruppo solidale nato in Val di Susa, Briser les Frontières, che domani sera terrà la sua prima iniziativa di presentazione.

Nell’ ambito dell’ ultimo anno la frontiera di Ventimiglia è stata completamente militarizzata, costringendo di fatto i migranti a cercare più a nord dei valichi per la Francia.
Storicamente la Valsusa è stata sempre territorio di passaggio per chi aveva necessità di oltrepassare le Alpi, la scorsa estate però i numeri di coloro che hanno tentato la traversata sono di gran lunga aumentati rispetto agli anni precedenti.

Negli ultimi mesi, la stazione dei treni di Bardonecchia, ha visto tra i 15 e i 50 passaggi giornalieri.
La voce di una possibilità è corsa di bocca in bocca ed oggi, nonostante il gelo che è sceso sul Colle della Scala e sul Monginevro, ci sono all’ incirca una decina di persone che scarsamente equipaggiate  tentano la traversata ogni giorno, molte delle quali non hanno mai visto la neve.

Il comune di Bardonecchia, estremamente preoccupato di fare una brutta figura con chi ha la fortuna di essere chiamato turista, ha deciso di chiudere la stazione dei treni alle 21 buttando letteralmente in mezzo alla strada coloro che cercano un riparo per la notte.

Si getta la polvere sotto al tappeto, aspettando la tragedia nell’ indifferenza.
Ancora è ben chiaro in noi, il ricordo di Mamadou, il ragazzo di 27 anni trovato in stato di ipotermia sul Colle della Scala l’ inverno passato, cui hanno dovuto amputare entrambe i piedi e quest’ anno i passaggi sono aumentati di molto.
Tra la Valsusa ed il Brianzonese è nata una rete di persone che hanno scelto la solidarietà all’ indifferenza, una rete che abbiamo deciso di chiamare Briser les Frontières.

Abbattere le frontiere, un obiettivo comune per chi lotta contro coloro che devastano la natura per movimentare merce e turisti su treni ad alta velocità, chiudendo al contempo tutti gli spazi a coloro che non gli rendono il giusto profitto e preparando il terreno per quello che rischia di  diventare l’ ennesimo cimitero a cielo aperto.

L’ indifferenza è complicità!

Mail: briserlesfrontieres@gmail.com
Cel: +393485542295

torna al blog

 

 

 

 

Verso la militarizzazione del Mediterraneo

Dalla “securizzazione” delle città come Ventimiglia, allo spiegamento di forze militari in mare. Italia, UE e Nato affrontano con mezzi militari “la crisi dei rifugiati”, prendendo il controllo del Mediterraneo.

 

Fonte: Sito web Parlamento del Regno Unito, Rapporto su Operation Sophia del maggio 2016 https://publications.parliament.uk/pa/ld201516/ldselect/ldeucom/144/14407.html

Il 28 luglio 2017, con delibera del Consiglio dei ministri, il governo italiano ha dato il via ad una nuova missione militare nel sud del Mediterraneo, questa volta all’interno delle acque territoriali libiche.

L’Italia è infatti già militarmente presente nel Mediterraneo. E’ alla guida dell’operazione europea EUNAVFOR MED dal 2015, partecipa alla missione Nato Operation Sea Guardian dal 2011 (prima con il nome di Operation Active Endeavour) ed è attualmente impegnata nelle operazioni Frontex Triton, Poseidon (mar Egeo) e Indalo.

La nuova missione, che si basa su di un accordo tra il primo ministro italiano Gentiloni e Fayez al Sarraj, premier del Governo di Accordo Nazionale (GNA), voluto dalle Nazioni Unite, consente alle navi italiane di entrare nelle acque territoriali libiche. Il fatto che Al Serraj, dopo aver smentito che accordi prevedessero tanto (2) , sia stato contraddetto dal suo stesso ministro degli esteri (3) e infine superato dal generale Haftar che il 2 agosto ha ordinato alla guardia costiera di attaccare qualsiasi nave militare entrasse nelle acque nazionali senza l’autorizzazione dell’esercito (4) , è solo un indizio di quello che è già stato denominato “il pantano libico”.

Il governo di Al Serraj, con sede a Tripoli, controlla solo un terzo del territorio libico, l’altro governo, con sede a Tobruk sostiene il generale Khalifa Haftar, capo del Esercito Nazionale Libico (LNA) che controlla la Libia orientale. Oltre ai governi di Tripoli e Tobruk sul territorio libico operano Daesh, le milizie islamiche, Fajr, la Brigata Battar, gli Islamici di Ansar al Sharia, gli uomini del Consiglio rivoluzionario, Ali Qiem Al Garga’i, emissari di al-Baghdadi, i Fratelli musulmani di Al Sahib, gli ex membri del Gruppo combattente libico pro al Qaeda, Omar al Hassi, i mujaheddin del Wilayat Trabulus, le milizie di Zintan, 200 altre organizzazioni e oltre un centinaio tribù.(5)

Fonte: Al Jazeera English

Gli obbiettivi della missione navale e le similitudini con EUNAVFOR MED

“La missione ha l’obiettivo di fornire supporto per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani, con compiti che si aggiungono a quelli già svolti per la sorveglianza e la sicurezza nell’area del Mediterraneo centrale” (6), è quanto si legge nel Comunicato stampa relativo alla riunione del Consiglio dei ministri del 28 luglio.

L’obiettivo risulta molto simile al principale mandato di EUNAVFOR MED, alias Operation Sophia, la missione navale europea a guida italiana attiva nel Sud del Mediterraneo dal 22 giugno 2015. Questo consiste infatti nell’ “intraprendere sforzi sistematici per identificare, acquisire e disporre delle imbarcazioni e dei mezzi utilizzati, o sospettati di esserlo, dai contrabbandieri o trafficanti di migranti, al fine di contribuire ai più ampi sforzi dell’UE per interrompere il modello di business delle reti di contrabbando e tratta di esseri umani nell’area centro-meridionale del Mediterraneo e prevenire l’ulteriore perdita di vite umane in mare.” (7)

Secondo diverse analisi (8) tuttavia EUNAVFOR MED non si è neppure avvicinata al suo obiettivo e questo nonostante dal settembre 2016 sia impegnata anche in operazioni all’interno delle acque territoriali libiche per l’addestramento di Guardia costiera e marina militare.

Due diversi report del parlamento del Regno Unito, che partecipa alla missione. hanno messo in luce le criticità legate all’operazione militare. Nel resoconto del maggio 2016 si legge “gli arresti effettuati riguardano target di basso livello e la distruzione delle imbarcazioni ha semplicemente spinto i trafficanti a utilizzare canotti di gomma, che sono ancora più insicuri delle imbarcazioni di legno.” (9) A questo proposito vale la pena notare come l’adozione di imbarcazioni meno sicure da parte dei trafficanti sia stata addebitata in Italia al “pull factor” (fattore di attrazione) che avrebbero costituito le operazioni di ricerca e soccorso effettuate da diverse ONG nel Mediterraneo (10).

Il nuovo report del 12 luglio 2017 infine definisce Operation Sophia una missione fallita e individua tra le cause la mancanza di un governo unificato con cui contrastare il traffico di essere umani che avviene in territorio libico (11) . Secondo il resoconto la missione non dovrebbe essere rinnovata dal momento che “il traffico comincia sulla terra ferma, una missione navale rappresenta quindi lo strumento sbagliato per affrontare questo business pericoloso, inumano e senza scrupoli. Nel momento in cui le navi iniziano la navigazione è troppo tardi.” Sono infatti ormai anni che i trafficanti non si trovano più a bordo delle imbarcazioni che trasportano i migranti e nessuno dei punti di partenza delle stesse, Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzue, Tagiura e Tarabuli, si trova sotto il controllo del governo di Serraj (12).

Anche la marina militare libica ha mosso pesanti accuse alla missione europea. Nel maggio 2016 il suo portavoce Ayoub Qasim, ha dichiarato che essa non aveva ancora aiutato la guardia costiera libica nel controllo delle acque territoriali, denunciandone anche la passività nei casi di traffico di petrolio da parte di imbarcazioni che poi facevano rotta verso l’Europa (13). Nell’agosto dello stesso anno, Qasim ha poi accusato Operation Sophia di essere mera propaganda e di consentire il traffico di carburante e delle altre risorse libiche, oltre a non fermare i trafficanti (14).

Nonostante questo il 25 luglio 2017 il Consiglio Europeo ha esteso il mandato di EUNAVFOR MED al 31 dicembre 2018.

Sia la missione europea che quella italiana condividono l’obbiettivo del contrasto al traffico di esseri umani, così come le scarse possibilità di realizzarlo. Entrambe scaturiscono inoltre dall’approccio che sta andando per la maggiore tra i governi europei: la migrazione è una minaccia alla sicurezza e va affrontata con mezzi militari  (15).

A livello dei singoli stati, questa politica si è concretizzata in muri, blocchi delle frontiere, militarizzazione delle città e trasferimenti coatti, mentre a livello sovranazionale si è tradotta nel rafforzamento delle operazioni di Frontex, con l’aumento delle risorse finanziarie e l’estensione della loro area d’intervento (16), e nell’istituzione della missione navale europea EUNAVFOR MED.

Perfettamente coerente con questa logica risulta anche la criminalizzazione delle ONG impegnate in azioni di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo (17), che hanno svolto nel 2017, il 35% delle azioni di soccorso in mare. L’imposizione del codice di condotta, volto a limitarne l’operatività, è stato infatti imposto indiscriminatamente a tutte le organizzazioni, nonostante la maggioranza di esse non destasse sospetti riguardo a contatti con i trafficanti o all’ingresso nelle acque libiche.

Il contrasto dell’immigrazione illegale, che la missione navale italiana antepone al traffico di essere umani, ha come unico target realizzabile i migranti stessi. Per quanto cerchi di trovare legittimazione nel nobile scopo di salvare vite umane dalla morte in mare, appare sorda e cieca se quelle stesse vite si perdono in centri di detenzione in Libia, lontano dagli occhi di testimoni diretti e miopi giornalisti nostrani.

L’area coperta dalle missioni militari a cui si aggiunge quella italiana e l’interdizione de facto all’ingresso delle organizzazione non governative nelle zone limitrofe alle acque territoriali libiche, delinea uno scenario, o meglio un teatro delle operazioni, esclusivamente militare in cui, se si escludono i mercantili di passaggio, gli unici civili sono i migranti.

Ma nel Mar Mediterraneo, ufficialmente, non c’è nessuna guerra.

Grage

 

 

1 http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/07/28/cdm-vara-missione-italiana-in-libia-navi-aerei-700-militari-_82cfdb5f-f546-4cd0-91f1-315fcee5b703.html
2 http://www.corriere.it/politica/17_luglio_28/missione-libia-maggioranza-variabile-si-fi-dubbi-mdp-b6dbdb68-7304-11e7-be4a-3ab7f672a608.shtml
3 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-28/si-cdm-missione-libia-gentiloni-e-supporto-non-enorme-invio-flotte-e-aerei–131931.shtml?uuid=AEWZOK5B
4 http://www.bbc.com/news/world-africa-40812304
5 http://www.huffingtonpost.it/2017/07/28/tutti-i-rischi-delle-navi-italiane-nel-pantano-libico_a_23054388/
6 Comunicato stampa del Consiglio dei ministri n°40 del 28/07/2017 http://www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-40/7891
7 https://eeas.europa.eu/csdp-missions-operations/eunavfor-med/36/about-eunavfor-med-operation-sophia_en
8 Centre for European Political Studies: https://www.ceps.eu/system/files/Thrust%20to%20CSDP%20S%20Blockmans%20CEPS%20Special%20Report.pdf
State Watch: http://www.statewatch.org/analyses/no-302-operation-sophia-deterrent-effect.pdf
9 https://publications.parliament.uk/pa/ld201516/ldselect/ldeucom
/144/14402.htm
10 http://www.valigiablu.it/ong-migranti-trafficanti-inchieste/
11 https://www.parliament.uk/business/committees/committees-a-z/lords-select/eu-external-affairs-subcommittee/news-parliament-2017/operation-sophia-follow-up-publication/
12 http://www.huffingtonpost.it/2017/07/28/tutti-i-rischi-delle-navi-italiane-nel-pantano-libico_a_23054388/
13 http://www.libyanexpress.com/libyan-navy-force-eu-naval-mission-looks-away-from-oil-smuggling-ships/
14 http://www.libyaobserver.ly/news/navy-spokesman-operation-sophia-propaganda-italy-wants-have-more-time-continue-stealing-libya%E2%80%99s
15 https://www.iss.europa.eu/content/operation-sophia-tackling-refugee-crisis-military-means
16 http://europa.eu/rapid/press-release_IP-15-4813_en.htm
17 http://www.a-dif.org/2017/03/09/perche-danno-fastidio-le-ong-che-salvano-i-migranti-in-mare/