Riceviamo e pubblichiamo un report scritto da un solidale che ha partecipato al corteo “Ventimiglia città aperta” svoltosi il 14 luglio scorso a Ventimiglia. Un testo lucido che, raccontando i fatti, gli avvenimenti vissuti, i fenomeni osservati, fa emergere le enormi contraddizioni soggettive (cioè politiche) e oggettive che ci riguardano come antirazzisti e cittadini europei. La storia non è ancora scritta: la coscienza del mondo in cui viviamo è il primo passo per poter essere “pulling factors” di un mondo radicalmente altro.
Partito alle 9.30 da Marsiglia, arrivo a Ventimiglia intorno all’ora di pranzo. Per prima cosa mi dirigo verso l’info-point Eufemia: là alcuni volontari offrono informazioni e supporto logistico. Un ragazzo, dopo avermi fornito gli ultimi aggiornamenti organizzativi sulla manifestazione, mi consiglia di andare a mangiare al bar bar Hobbit.
Nel clima surreale che la propaganda mediatica e le scelte politiche hanno creato in città, anche scegliere dove mangiare diventa una scelta di campo, una presa di posizione politica: non mi stupisco, allora, di ritrovare lì molti attivisti, alcuni dei quali – si capisce dai calorosi saluti che rivolgono alla proprietaria – dei veri habitués del luogo. Del resto, chi frequenta la città conosce bene la signora Delia e il suo bar vicino alla stazione: non solo è un luogo di ritrovo storico delle lotte “no borders” qui a Ventimiglia, ma anche un punto di riferimento indispensabile per chi si ritrova bloccato qui dalla militarizzazione delle frontiere. Qui questi ultimi possono ricaricare il cellulare, mangiare un panino anche se non hanno soldi o anche solo di riposarsi un attimo bevendo un bicchiere d’acqua pulita… Quindi questo stabilimento farebbe parte di quei “pulling factors” che, secondo la dottrina del sindaco Ioculano, non solo favoriscono l’installazione dei migranti sul territorio, ma addirittura li attirano.
L’impegno della signora Delia, il suo “buonismo”, si dice ora come se fosse un insulto, le è costato un boicottaggio silenzioso da parte degli abitanti e “un’attenzione” particolare da parte delle forze dell’ordine.
Stamattina per esempio – mi racconta Lia – la polizia aveva bloccato la via d’accesso al bar Hobbit: i potenziali avventori venivano fermati da zelanti uomini in divisa che si giustificavano con la necessità di garantire la sicurezza del console francese, installato nella piazzetta adiacente. A parte il fatto che nessuno si era preoccupato di avvertire la signora Delia, che il mattino stesso aveva scoperto di trovarsi all’interno di questa ampia “zona rossa”, viene da interrogarsi sulla pertinenza di un dispositivo di sicurezza di tale ampiezza, dal momento che il tragitto della manifestazione non si sarebbe nemmeno avvicinato all’area… tant’è che, qualche ora dopo, grazie alle proteste, finalmente la linea viene arretrata all’ingresso della piazza, liberando l’entrata del bar: una fila di celerini in tenuta antisommossa resta comunque a sorvegliare gli avventori che, dal canto loro, chiacchierano, mangiano un panino e, in generale, ingannano il tempo davanti al bar.
È qui che incontro Lia e Antonio, appena prima che partano in bicicletta verso in via Tenda, luogo del concentramento della manifestazione: ci sono già stati stamattina appena arrivati, ma vogliono fare un altro “giro visite” prima che la manifestazione parta. Vado con loro.
Arrivati nel piazzale antistante al cimitero ci dirigiamo subito sotto al basso ponte dell’autostrada, dove vari gruppi di persone si riparano dal sole che oggi picchia duro. Ci sistemiamo intorno a una delle biciclette, quella nelle cui sacche laterali sono stoccati i medicinali e il resto degli strumenti del mestiere. Subito facciamo un giro per avvisare i presenti della possibilità di farsi visitare in modo gratuito da medici: Lia ogni volta ha cura di precisare che non sono legati al sistema ufficiale di accoglienza, verso cui ormai si è sviluppata tra i ragazzi una certa diffidenza.
Antonio racconta che stamattina, quando hanno fatto il primo giro, c’erano solo i pochi africani che avevano dormito qui e un tavolino con un bidone di thè caldo e qualche tanica d’acqua potabile: “Ora c’è più gente, sarà più difficile lavorare”… È vero ma l’atmosfera è così festosa che non ce ne si può veramente lamentare: migranti e europei si mischiano, discutono, ogni tanto qualcuno fa partire un coro o una canzone al ritmo dei tamburi o della fanfara, ed è subito ripreso dai vicini…
I pazienti non si fanno attendere. Il primo gruppo è composto da 6 persone: solo uno ha bisogno di vedere il medico, un altro traduce in inglese e gli altri, semplicemente, gli stanno intorno, discutono tra loro e sembrano dare opinioni: a noi viene tradotto solo il necessario, l’esito di questi scambi. I segni della scabbia sono evidenti, così gli viene spiegato che il problema è dovuto a un parassita che prolifera dove le condizioni igieniche sono precarie. Il ragazzo, quasi sulla difensiva, replica che si lava tutti i giorni, allora Lia spiega che l’acqua non basta, nemmeno se usata con il sapone: bisogna cospargersi di una crema speciale, dal collo in giù e poi cambiare tutti i vestiti. Certo – precisa – basterebbe lavarli ad alte temperature, ma qui non è possibile perciò meglio buttare tutto! Il ragazzo, tramite il traduttore, fa presente che questi che ha indosso sono gli unici vestiti che ha. Gli viene spiegato che all’info-point può trovarne di nuovi. È estremamente grato.
Il gruppo si allontana ma il traduttore torna poco dopo con un’altra persona che lamenta la stessa sintomatologia. Dopo un breve esame delle cicatrici la diagnosi è scabbia, pertanto il paziente riceve gli stessi consigli e lo stesso bicchierino di plastica pieno di crema che il precedente.
Anche il seguente, sempre di origine ovest-africana, non parla alcuna lingua europea perciò, ancora una volta, comunichiamo solo grazie al nostro amico traduttore. Quest’ultimo spiega che il ragazzo ha molto male all’interno del ginocchio destro. Lia, esaminandolo, nota una vecchia cicatrice sullo stinco, ricordo di quella che deve essere stata una brutta ferita, pertanto chiede chiarimenti. Il ragazzo sembra non volerne parlare: dice che è vecchia e che ora il problema è altrove (indica il legamento interno del ginocchio). Non insistiamo. Gli viene allora spiegato che la causa del dolore di cui parla non può essere compresa a occhio nudo: serve una radiografia. Il consiglio è di cercare un ospedale non appena arrivato a destinazione, qualunque essa sia; tutto quello che si può fare, per ora, è fornirgli degli antidolorifici da prendere quando il dolore diventa forte. Mentre sembra che il lavoro sia finito, il ragazzo aggiunge di soffrire di mal di pancia (indica il basso-ventre) e di vomitare spesso. Il primo sospetto, visti i precedenti nel campo informale sul Roja (vd ad esreport 1, 2, 3), è che beva l’acqua del fiume ma, a domanda diretta, nega: ci si lava e basta… Dice che, secondo lui, il problema è quello che mangia. Non c’è modo di andare a fondo alla faccenda: oltre agli antidolorifici, che andranno bene tanto per il ginocchio che per la pancia, lo si lascia con il consiglio di fare delle analisi appena possibile e, nel frattempo, di bere molta acqua pulita.
Con il passare del tempo gli europei diventano sempre di più: ci sono italiani da ogni parte del paese, francesi e un nutrito gruppo di spagnoli (qualcuno dice 250, altri addirittura 400… Io credo che il numero esatti conti poco!) che, partiti da Barcellona intendono raggiungere in carovana la Sicilia. Sorrisi, emozione: siamo tanti. Alcuni sono affaccendati intorno al camion che aprirà il corteo, i più cercano un po’ di riparo dal sole sotto al ponte.
Intanto la gente aumenta, la zona d’ombra sotto il ponte non riesce più a contenere la massa che deborda nel piazzale, riempiendolo poco a poco. Il ragazzo nigeriano, quello che ci ha fatto da traduttore fin’ora, guarda incredulo: “I’ve never experienced something like this, I arrived here just one week ago: when they told me about this demonstration, I thought that we would be not more than 20 or maybe 30 persons…. There are a lot of people here, all a country!”. Il suo entusiasmo scalda il cuore: ci spiega che in Nigeria ha ottenuto una laurea in chimica ma che questa da sola non basta. È partito per l’Europa per raggiungere l’Inghilterra e lì iscriversi a una scuola di business, così da poter aprire un’attività: mi spiega che qui in Europa le università sono migliori. In mano ha uno strano oggetto: una Bibbia elettronica multilingue con cui può ascoltare il brano che desidera o farlo ascoltare ad altri, anche se parlano un’altra lingua. Mi chiede se sono cristiano, rispondo di no: sorride, mi guarda con un certo benevolo paternalismo “No problem, it’s OK: God doesn’t care how do you call him”. Non deve essere la prima volta che riceve tale risposta. Gli chiedo se anche il suo amico, con cui lo vedo girare e scherzare fin dal mio arrivo, è cristiano: sorride ancora “No, he’s muslim”.
Il successivo paziente, anglofono, lamenta dolore al collo: Antonio e Lia notano un rigonfiamento sulla nuca, forse un linfonodo infiammato. Anche in questo caso sarebbe necessario fare altri esami, cosa impossibile per il momento, perciò vengono dati anche a lui degli antidolorifici.
Il seguente dice di avere male alla schiena, precisamente alla base colonna vertebrale. Antonio lo fa piegare in avanti: il ragazzo arriva poco oltre le ginocchia. Rialzandosi fa presente che, per lavoro, sollevava carichi molto pesanti. Il sospetto è che si tratti di ernia: gli viene spiegato in modo intuitivo di cosa si tratta e si esorta anche lui ad andare a fare delle radiografie una volta arrivato a destinazione. Per ora, oltre a degli antidolorifici da prendere quando ha dolore, riceve il consiglio (mimato per assicurarsi che la comprensione sia chiara) di non piegarsi sforzando sulla schiena ma sulle ginocchia.
C’è un momento di calma e per qualche minuto nessuno si avvicina alla “bicicletta-ambulanza”, questo ci lascia il tempo di chiacchierare un po’. Lia mi spiega che il territorio a Ventimiglia è sotto lo stretto controllo della criminalità organizzata, della ‘Ndrangheta per la precisione. La città, grazie alla sua posizione strategica sul confine, è uno snodo fondamentale del contrabbando e di altri traffici: nei suoi dintorni, davanti al cimitero per esempio, si svolgono continuamente e durante tutto il giorno scambi di merci tra un camion e l’altro … Questo per dire – continua – che se i migranti sono qui nel campo informale, è perché ce li lasciano: se la loro presenza disturbasse veramente questi traffici, per esempio attirando troppa attenzione mediatica, di sicuro vi verrebbero cacciati. Se non accade è perché non danno fastidio e, anzi, sono forse una fonte di guadagno: del resto lei è certa che i trafficanti di donne e i “passeurs”, per poter agire, debbano chiedere il permesso. E il permesso, in questi ambienti, si paga.
Mentre chiacchieriamo passeggiamo sotto il ponte: cerchiamo di raggiungere gruppi di migranti che non abbiamo ancora incontrato, per offrire la possibilità di parlare con un medico. Incontriamo così un altro ragazzo proveniente dall’Africa dell’Ovest, questa volta è francofono. Dice di avere male alla testa e al collo, come se quest’ultimo fosse sempre contratto… E poi si lamenta della tosse: non ce l’ha sempre ma ogni tanto ha degli attacchi che durano anche una settimana. Lia lo ausculta e nota un’infiammazione a livello polmonare: sospetta un caso di asma. Descrivo i sintomi al ragazzo e gli chiedo se ha già avuto delle diagnosi a riguardo: lui si riconosce nella descrizione e dice che, in effetti, ha già visto dei medici perché stava già male quando stava “au campo” [della croce rossa. NdA], solo che nessuno ha mai fatto altro che dargli del paracetamolo: non gli hanno mai fatto alcun esame. Lia gli mette nelle mani degli antidolorifici e il necessario per completare un ciclo di antibiotici: questi ultimi serviranno per contrastare l’infiammazione polmonare ma il consiglio è, ancora una volta, di andare a fare dei controlli approfonditi non appena arrivato a destinazione: dice che vuole andare Padova. Prima di andarcene Lia tiene a spiegare per bene la posologia degli antibiotici e ad assicurarsi che il ragazzo abbia capito.
Subito dopo, quello che ormai possiamo considerare il “nostro” traduttore, accompagna un altro gruppo di ragazzi: anche questa volta il paziente è uno solo. Questo, invece di presentare un problema, chiede direttamente una medicina contro i capogiri: Lia spiega che nel loro stock non hanno niente che faccia al caso suo. Il problema, in effetti, è che lo spazio limitato disponibile costringe a fare una selezione tra i farmaci da portare: così quelli per i disturbi meno comuni, come quello in questione, restano fuori. Il consiglio è di andare a domandare alla Caritas, ma la risposta del ragazzo è che ci va ogni giorno, senza ottenere altro che paracetamolo: gli altri annuiscono. Lia spiega che è necessario fare delle analisi per capire la natura del problema che potrebbe avere molte cause diverse: consiglia pertanto di andare a Bordighera, dove c’è un piccolo ospedale, o anche da un medico qualunque generalista. Gli sguardi dei ragazzi sono dubbiosi, Lia ricorda loro che in Italia hanno diritto a tutte le cure mediche necessarie indipendentemente dal loro status amministrativo: nessuno li arresterà, non bisogna aver paura.
Verso le ore 16 la manifestazione, finalmente, parte. Da via Tenda attraverserà il ponte sul Roja per fare il giro della città vecchia e chiudersi verso le 18h30 nel parco vicino al Municipio, dove sono previsti vari interventi. Sul carro che apre il corteo sventola, come una bandiera, una coperta termica e molti tra i partecipanti indossano uno scampolo dello stesso materiale, quasi come un segno di riconoscimento. Pochi sono gli abitanti di Ventimiglia che partecipano, molti quelli che guardano dal balcone: alcuni sorridono, lo sguardo di altri è meno solidale. Anche alcune delle associazioni attive in città hanno deciso di non integrare la manifestazione, in polemica con alcuni dei gruppi presenti che considerano troppi estremisti. Nonostante questo la partecipazione è imponente e varia. Accanto ad associazioni e collettivi sfila uno spezzone composto solo da africani: reggono uno striscione e danzano, mentre uno di loro con un megafono lancia slogan che vengono ripresi dai compagni. Riconosco alcuni dei ragazzi curati da Lia e Antonio. Ci sorridiamo: i loro occhi brillano.
Arrivati al parco ritrovo Lia e Antonio, che avevo perso di vista all’inizio del corteo. Stanno discutendo con un ragazzo che non sembra completamente lucido e che richiede una medicina specifica per lo stomaco. Dice che gli fa spesso male. Alla domanda se beve o fuma risponde di sì: viene dall’Asia e afferma, con una punta di spacconaggine quasi adolescenziale, che gli asiatici bevono molto… Lui, per esempio, non beve birra ma solo vodka fin da colazione. La diagnosi è evidente e l’efficacia della terapia farmacologica è legata, ovviamente, al controllo del consumo di alcool. Il ragazzo ride e prende la scatola di medicine che gli viene data da Antonio ma, guardandola, si accorge che il dosaggio sia inferiore a quello a cui è abituato: dice che queste non gli faranno nulla, non servono. Credo il ragazzo cercasse semplicemente un po’ di attenzione.
Intanto, mentre al microfono si susseguono gli interventi, il parco viene decorato con lunghi striscioni fatti di bandane fuxia annodate l’una all’altra: è un’iniziativa di “Non una di meno”, si vuole lasciare un segno tangibile del passaggio della manifestazione. Antonio, guardando le persone radunate intorno al carro, si augura che lo spirito di questa mobilitazione non si spenga alla fine di questa giornata, ma venga reinvestito nel quotidiano dei molti partecipanti: questo farà davvero la differenza! Non posso che essere d’accordo con lui.
Dopo gli interventi e i concerti, piano piano, i manifestanti abbandonano il parco. Saluto Lia e Antonio, loro resteranno ancora una notte per fare un altro giro visite domani. Io invece torno a Marsiglia.
Riparto da Ventimiglia verso le ore 23, sulla strada veloce che porta all’autostrada supero vari ragazzi che tornano verso il campo della croce rossa. La strada non è illuminata, né dispone di marciapiedi dato che è a scorrimento veloce, inoltre le banchine sono strette: il pericolo è reale ed è inaccettabile costringere le persone a una tale “roulette russa”; io stesso, nonostante la guida prudente per la coscienza del pericolo, rischio di investire una persona.
Sul tragitto di ritorno penso a quanto poco basterebbe per migliorare le condizioni igieniche e sanitarie delle persone bloccate a Ventimiglia: non abbiamo incontrato casi complicati o malattie esotiche… La maggior parte degli eventi patologici era legato alle condizioni di vita e per essere risolto non richiedeva che qualche accorgimento di buon senso, delle condizioni minime di igiene, medicine comunissime e poco costose e, al massimo, qualche esame di accertamento… Che scusa abbiamo dunque per non fare nulla? Per impedire l’accesso alle condizioni minime d’igiene e alle cure sanitarie di base?
Secondo la distorta dottrina umanitaria dell’amministrazione comunale l’accesso all’acqua potabile, al nutrimento, ai servizi igienici e alle cure mediche, … sarebbero dei “pulling factors” da sopprimere per scoraggiare i migranti a installarsi in città. Io credo che l’unico vero “pulling factor” che costringe queste persone a installarsi a Ventimiglia sia la chiusura della frontiera.
Quelli di cui parla il Sindaco Ioculano, invece, sono le condizioni minime per garantire la sopravvivenza delle persone in transito e scongiurare il rischio di epidemie. E le epidemie riguardano tutti, indipendentemente dallo status amministrativo.
Matteo Fano