Le vie del signore sono finite – Ventimiglia 10/11 Novembre

Le vie del signore sono finite.  Ventimiglia 10/11 Novembre

 

“Esco dalla stazione. Piove, e la pioggia mi accompagnerà per tutto il fine settimana. Nessuna divisa sui binari e nella piazza antistante. Un gruppo di 6 ragazzi ed una ragazza di apparente provenienza mediorientale parlano con un giovane della croce rossa monegasca.

Passo oltre e raggiungo il bar di Delia. Come sempre è gentile ed accogliente. Una mente critica con un cuore d’oro. C’è un ragazzo proveniente da Milano, della Costa d’Avorio, che ci ascolta un pò sorridendo e poi esce con le ciabatte ai piedi. Delia mi dice che purtroppo ha finito le scarpe. Molte persone, anche famiglie assai numerose, sono passate da lei per indumenti e coperte essendo anche chiuso l’infopoint di via Tenda. Infatti Eufemia ha subìto un danno alla saracinesca, speriamo non doloso, che costringe il gruppo 20K a tener chiuso questo spazio per almeno una settimana. Arriva un giovane ragazzo sudanese che ha richiesto il permesso di soggiorno e fa volontariato. Delia dice di essere preoccupata per una ragazza nigeriana con una bimba di età inferiore a 1 anno che si era allontanata dal bar il giorno prima con alcune persone, apparentemente appena conosciute. Il ragazzo racconta che, incontrata per strada, l’ha accompagnata alla croce rossa per avere un pò di riparo, in tutti i sensi. D’altra parte non esiste alcuna alternativa su questo territorio per una donna.

 Intanto continuano le deportazioni: l’ultima giovedì con il classico pullman che arriva in città all’alba, ora delle attività indicibili.   Esco dal bar e mi dirigo verso via Tenda. Ci sono un discreto numero di ragazzi per strada. Molti, oltre ai ragazzi africani, provengono dal Medio Oriente o Oriente. Altre persone già più volte incontrate, diciamo stanziali, sono sedute nei bar della via, prima del passaggio a livello. Intravedo persone che escono da recessi dall’altra parte del fiume e percorrono il ponte. Sono indeciso, penso che il mio eventuale arrivo e la domanda: “Have you any health problem? I am a medical doctor”, sia più un’intrusione che un aiuto, in una situazione come questa. Ci penserò domani con la luce.

Scritte di alcune persone migranti lungo la strada per il campo della Croce Rossa

 

Il blindato dei carabinieri staziona nel parcheggio antistante alla chiesa. La chiesa offre uno spettacolo pietoso, una iconografia dell’intervento attuale della chiesa in questo territorio: un cartello di divieto di sosta davanti ad una transenna che impedisce la sosta e l’entrata nella chiesa. Forse il motivo è un altro, ma è una chiara immagine dell’avversione nota da parte del parroco attuale nei confronti delle persone in transito.

L’esperienza di don Rito, nonostante i limiti, era punto di riferimento per donne bambini e famiglie. La conseguenza è stata che don Rito è stato ringraziato dal vescovo per il suo impegno spedendolo a prestar servizio a San Biagio, Soldano e Perinaldo, posti spersi tra i monti. Le donne, i bambini e le famiglie hanno ora la sola possibilità di stare nel campo Roja in condizioni di promiscuità illogiche oltre che illegali. D’altra parte mi viene detto come il vescovo Suetta non nasconda le sue franche simpatie leghiste. Un’amica solidale evidenzia, inoltre, come in questa istituzione per sua stessa natura gerarchica, le parole del capo, papa Francesco, vengano completamente disattese nel territorio di Ventimiglia.

Chiesa di Sant Antonio alle Gianchette, Ventimiglia

 

Raggiungo il cimitero con una pioggia battente. Insieme a me una decina di persone aspetta la distribuzione del cibo nel parcheggio antistante. Verso le 19.00, dopo che si era verificato anche l’allagamento della strada e del parcheggio, vado ad incontrare un’amica solidale. Dopo quasi un’ora torno, non c’è nessuno, solo alcuni poliziotti. Spero che siano almeno riusciti a dare il cibo. Ritornando in via Tenda vedo molti ragazzi lungo la via con bagagli e zaini.

La mattina dopo incomincio il percorso dalla spiaggia. Incontro un gruppo di ragazzi nigeriani, circa una decina, con una giovane ragazza rumena. Hanno dermatiti e malattie da raffreddamento. Li visito e consegno loro alcuni farmaci, poi mi chiedono qualche antidolorifico per vaghi dolori, penso che la richiesta faccia riferimento ad una situazione di dipendenza. Continuo la mia strada. Vicino al ponte della ferrovia incontro alcuni ragazzi provenienti dall’altra riva, chiedo loro se hanno o se conoscono qualcuno che ha problemi di salute. La risposta è negativa. Scendo lungo il fiume, noto almeno 4 giacigli protetti dal ponte e due persone che riposano, nonostante la presenza del blindato della guardia di finanza. Tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine che incontro nei presidi hanno il viso illuminato costantemente dai cellulari.

Scorcio sui container dalla recinzione del campo CRI

Raggiungo la riva del fiume in piena, vedo coperte tra gli alberi, ma non persone. Proseguo verso il Campo Roja.

Ogni volta che faccio questa strada, sento la fatica e mi rendo conto della violenza insita nella scelta di questo luogo. Il campo si è ulteriormente ampliato. Sento le voci dei bambini, spero che vada tutto bene. Ho notizie di famiglie numerose che dopo 2 notti si sono allontanate per rimanere alla stazione fino alla partenza. Incontro e visito 2 ragazzi curdo/iracheni che vivono in prossimità del campo Roja. Ritorno verso la stazione. Mi fermo a pranzo lungo via Tenda. È stato aperto un nuovo locale da parte di un ragazzo che avevamo incontrato già varie volte. Ci aveva preannunciato il desiderio di aprire un locale, avendo i documenti ma non un lavoro. Ci riconosciamo e ci salutiamo, mangio bene, in una stanza dove sono l’unico occidentale. Prendo alla fine il treno di ritorno.

Quello che si nota a mio avviso è, nella estrema variabilità degli eventi, la progressiva polverizzazione delle persone. Mi chiedo quanto sia profonda la consapevolezza di far parte di una lotta di un gruppo di persone che aspirano ad una libertà comune, quella di potersi muovere. Questa lotta sembra progressivamente sgretolarsi sotto i colpi della repressione locale, nazionale e internazionale.

Coerentemente con l’affievolirsi della partecipazione politica, anche negli incontri accademici e nei testi recentemente pubblicati viene spesso rimossa tutta la prima esperienza dell’occupazione dei Balzi Rossi e dei campi informali del 2016, dove la coscienza di gruppo era espressa dai protagonisti e le loro decisioni raggiunte attraverso procedure assembleari. Nulla a che vedere con l’ultimo campo informale del 2018 , area di prevaricazione, violenza e tratta, che ho sentito enfatizzare recentemente.

La memoria ad oggi è quello che ci rimane, è auspicabile che non sia forzata da chi la racconta.

Antonio Curotto

Che scusa abbiamo come antirazzisti per non fare nulla?

Riceviamo e pubblichiamo un report scritto da un solidale che ha partecipato al corteo “Ventimiglia città aperta” svoltosi il 14 luglio scorso a Ventimiglia. Un testo lucido che, raccontando i fatti, gli avvenimenti vissuti, i fenomeni osservati, fa emergere le enormi contraddizioni soggettive (cioè politiche) e oggettive che ci riguardano come antirazzisti e cittadini europei. La storia non è ancora scritta: la coscienza del mondo in cui viviamo è il primo passo per poter essere “pulling factors” di un mondo radicalmente altro.


Partito alle 9.30 da Marsiglia, arrivo a Ventimiglia intorno all’ora di pranzo. Per prima cosa mi dirigo verso l’info-point Eufemia: là alcuni volontari offrono informazioni e supporto logistico. Un ragazzo, dopo avermi fornito gli ultimi aggiornamenti organizzativi sulla manifestazione, mi consiglia di andare a mangiare al bar bar Hobbit.

Nel clima surreale che la propaganda mediatica e le scelte politiche hanno creato in città, anche scegliere dove mangiare diventa una scelta di campo, una presa di posizione politica: non mi stupisco, allora, di ritrovare lì molti attivisti, alcuni dei quali – si capisce dai calorosi saluti che rivolgono alla proprietaria – dei veri habitués del luogo. Del resto, chi frequenta la città conosce bene la signora Delia e il suo bar vicino alla stazione: non solo è un luogo di ritrovo storico delle lotte “no borders” qui a Ventimiglia, ma anche un punto di riferimento indispensabile per chi si ritrova bloccato qui dalla militarizzazione delle frontiere. Qui questi ultimi possono ricaricare il cellulare, mangiare un panino anche se non hanno soldi o anche solo di riposarsi un attimo bevendo un bicchiere d’acqua pulita… Quindi questo stabilimento farebbe parte di quei “pulling factors” che, secondo la dottrina del sindaco Ioculano, non solo favoriscono l’installazione dei migranti sul territorio, ma addirittura li attirano.

L’impegno della signora Delia, il suo “buonismo”, si dice ora come se fosse un insulto, le è costato un boicottaggio silenzioso da parte degli abitanti e “un’attenzione” particolare da parte delle forze dell’ordine.

Stamattina per esempio – mi racconta Lia – la polizia aveva bloccato la via d’accesso al bar Hobbit: i potenziali avventori venivano fermati da zelanti uomini in divisa che si giustificavano con la necessità di garantire la sicurezza del console francese, installato nella piazzetta adiacente. A parte il fatto che nessuno si era preoccupato di avvertire la signora Delia, che il mattino stesso aveva scoperto di trovarsi all’interno di questa ampia “zona rossa”, viene da interrogarsi sulla pertinenza di un dispositivo di sicurezza di tale ampiezza, dal momento che il tragitto della manifestazione non si sarebbe nemmeno avvicinato all’area… tant’è che, qualche ora dopo, grazie alle proteste, finalmente la linea viene arretrata all’ingresso della piazza, liberando l’entrata del bar: una fila di celerini in tenuta antisommossa resta comunque a sorvegliare gli avventori che, dal canto loro, chiacchierano, mangiano un panino e, in generale, ingannano il tempo davanti al bar.

È qui che incontro Lia e Antonio, appena prima che partano in bicicletta verso in via Tenda, luogo del concentramento della manifestazione: ci sono già stati stamattina appena arrivati, ma vogliono fare un altro “giro visite” prima che la manifestazione parta. Vado con loro.

Arrivati nel piazzale antistante al cimitero ci dirigiamo subito sotto al basso ponte dell’autostrada, dove vari gruppi di persone si riparano dal sole che oggi picchia duro. Ci sistemiamo intorno a una delle biciclette, quella nelle cui sacche laterali sono stoccati i medicinali e il resto degli strumenti del mestiere. Subito facciamo un giro per avvisare i presenti della possibilità di farsi visitare in modo gratuito da medici: Lia ogni volta ha cura di precisare che non sono legati al sistema ufficiale di accoglienza, verso cui ormai si è sviluppata tra i ragazzi una certa diffidenza.

Antonio racconta che stamattina, quando hanno fatto il primo giro, c’erano solo i pochi africani che avevano dormito qui e un tavolino con un bidone di thè caldo e qualche tanica d’acqua potabile: “Ora c’è più gente, sarà più difficile lavorare”… È vero ma l’atmosfera è così festosa che non ce ne si può veramente lamentare: migranti e europei si mischiano, discutono, ogni tanto qualcuno fa partire un coro o una canzone al ritmo dei tamburi o della fanfara, ed è subito ripreso dai vicini…

I pazienti non si fanno attendere. Il primo gruppo è composto da 6 persone: solo uno ha bisogno di vedere il medico, un altro traduce in inglese e gli altri, semplicemente, gli stanno intorno, discutono tra loro e sembrano dare opinioni: a noi viene tradotto solo il necessario, l’esito di questi scambi. I segni della scabbia sono evidenti, così gli viene spiegato che il problema è dovuto a un parassita che prolifera dove le condizioni igieniche sono precarie. Il ragazzo, quasi sulla difensiva, replica che si lava tutti i giorni, allora Lia spiega che l’acqua non basta, nemmeno se usata con il sapone: bisogna cospargersi di una crema speciale, dal collo in giù e poi cambiare tutti i vestiti. Certo – precisa – basterebbe lavarli ad alte temperature, ma qui non è possibile perciò meglio buttare tutto! Il ragazzo, tramite il traduttore, fa presente che questi che ha indosso sono gli unici vestiti che ha. Gli viene spiegato che all’info-point può trovarne di nuovi. È estremamente grato.

Il gruppo si allontana ma il traduttore torna poco dopo con un’altra persona che lamenta la stessa sintomatologia. Dopo un breve esame delle cicatrici la diagnosi è scabbia, pertanto il paziente riceve gli stessi consigli e lo stesso bicchierino di plastica pieno di crema che il precedente.

Anche il seguente, sempre di origine ovest-africana, non parla alcuna lingua europea perciò, ancora una volta, comunichiamo solo grazie al nostro amico traduttore. Quest’ultimo spiega che il ragazzo ha molto male all’interno del ginocchio destro. Lia, esaminandolo, nota una vecchia cicatrice sullo stinco, ricordo di quella che deve essere stata una brutta ferita, pertanto chiede chiarimenti. Il ragazzo sembra non volerne parlare: dice che è vecchia e che ora il problema è altrove (indica il legamento interno del ginocchio). Non insistiamo. Gli viene allora spiegato che la causa del dolore di cui parla non può essere compresa a occhio nudo: serve una radiografia. Il consiglio è di cercare un ospedale non appena arrivato a destinazione, qualunque essa sia; tutto quello che si può fare, per ora, è fornirgli degli antidolorifici da prendere quando il dolore diventa forte. Mentre sembra che il lavoro sia finito, il ragazzo aggiunge di soffrire di mal di pancia (indica il basso-ventre) e di vomitare spesso. Il primo sospetto, visti i precedenti nel campo informale sul Roja (vd ad esreport 1, 2, 3), è che beva l’acqua del fiume ma, a domanda diretta, nega: ci si lava e basta… Dice che, secondo lui, il problema è quello che mangia. Non c’è modo di andare a fondo alla faccenda: oltre agli antidolorifici, che andranno bene tanto per il ginocchio che per la pancia, lo si lascia con il consiglio di fare delle analisi appena possibile e, nel frattempo, di bere molta acqua pulita.

Con il passare del tempo gli europei diventano sempre di più: ci sono italiani da ogni parte del paese, francesi e un nutrito gruppo di spagnoli (qualcuno dice 250, altri addirittura 400… Io credo che il numero esatti conti poco!) che, partiti da Barcellona intendono raggiungere in carovana la Sicilia. Sorrisi, emozione: siamo tanti. Alcuni sono affaccendati intorno al camion che aprirà il corteo, i più cercano un po’ di riparo dal sole sotto al ponte.

Intanto la gente aumenta, la zona d’ombra sotto il ponte non riesce più a contenere la massa che deborda nel piazzale, riempiendolo poco a poco. Il ragazzo nigeriano, quello che ci ha fatto da traduttore fin’ora, guarda incredulo: “I’ve never experienced something like this, I arrived here just one week ago: when they told me about this demonstration, I thought that we would be not more than 20 or maybe 30 persons…. There are a lot of people here, all a country!”. Il suo entusiasmo scalda il cuore: ci spiega che in Nigeria ha ottenuto una laurea in chimica ma che questa da sola non basta. È partito per l’Europa per raggiungere l’Inghilterra e lì iscriversi a una scuola di business, così da poter aprire un’attività: mi spiega che qui in Europa le università sono migliori. In mano ha uno strano oggetto: una Bibbia elettronica multilingue con cui può ascoltare il brano che desidera o farlo ascoltare ad altri, anche se parlano un’altra lingua. Mi chiede se sono cristiano, rispondo di no: sorride, mi guarda con un certo benevolo paternalismo “No problem, it’s OK: God doesn’t care how do you call him”. Non deve essere la prima volta che riceve tale risposta. Gli chiedo se anche il suo amico, con cui lo vedo girare e scherzare fin dal mio arrivo, è cristiano: sorride ancora “No, he’s muslim”.

Il successivo paziente, anglofono, lamenta dolore al collo: Antonio e Lia notano un rigonfiamento sulla nuca, forse un linfonodo infiammato. Anche in questo caso sarebbe necessario fare altri esami, cosa impossibile per il momento, perciò vengono dati anche a lui degli antidolorifici.

Il seguente dice di avere male alla schiena, precisamente alla base colonna vertebrale. Antonio lo fa piegare in avanti: il ragazzo arriva poco oltre le ginocchia. Rialzandosi fa presente che, per lavoro, sollevava carichi molto pesanti. Il sospetto è che si tratti di ernia: gli viene spiegato in modo intuitivo di cosa si tratta e si esorta anche lui ad andare a fare delle radiografie una volta arrivato a destinazione. Per ora, oltre a degli antidolorifici da prendere quando ha dolore, riceve il consiglio (mimato per assicurarsi che la comprensione sia chiara) di non piegarsi sforzando sulla schiena ma sulle ginocchia.

C’è un momento di calma e per qualche minuto nessuno si avvicina alla “bicicletta-ambulanza”, questo ci lascia il tempo di chiacchierare un po’. Lia mi spiega che il territorio a Ventimiglia è sotto lo stretto controllo della criminalità organizzata, della ‘Ndrangheta per la precisione. La città, grazie alla sua posizione strategica sul confine, è uno snodo fondamentale del contrabbando e di altri traffici: nei suoi dintorni, davanti al cimitero per esempio, si svolgono continuamente e durante tutto il giorno scambi di merci tra un camion e l’altro … Questo per dire – continua – che se i migranti sono qui nel campo informale, è perché ce li lasciano: se la loro presenza disturbasse veramente questi traffici, per esempio attirando troppa attenzione mediatica, di sicuro vi verrebbero cacciati. Se non accade è perché non danno fastidio e, anzi, sono forse una fonte di guadagno: del resto lei è certa che i trafficanti di donne e i “passeurs”, per poter agire, debbano chiedere il permesso. E il permesso, in questi ambienti, si paga.

Mentre chiacchieriamo passeggiamo sotto il ponte: cerchiamo di raggiungere gruppi di migranti che non abbiamo ancora incontrato, per offrire la possibilità di parlare con un medico. Incontriamo così un altro ragazzo proveniente dall’Africa dell’Ovest, questa volta è francofono. Dice di avere male alla testa e al collo, come se quest’ultimo fosse sempre contratto… E poi si lamenta della tosse: non ce l’ha sempre ma ogni tanto ha degli attacchi che durano anche una settimana. Lia lo ausculta e nota un’infiammazione a livello polmonare: sospetta un caso di asma. Descrivo i sintomi al ragazzo e gli chiedo se ha già avuto delle diagnosi a riguardo: lui si riconosce nella descrizione e dice che, in effetti, ha già visto dei medici perché stava già male quando stava “au campo” [della croce rossa. NdA], solo che nessuno ha mai fatto altro che dargli del paracetamolo: non gli hanno mai fatto alcun esame. Lia gli mette nelle mani degli antidolorifici e il necessario per completare un ciclo di antibiotici: questi ultimi serviranno per contrastare l’infiammazione polmonare ma il consiglio è, ancora una volta, di andare a fare dei controlli approfonditi non appena arrivato a destinazione: dice che vuole andare Padova. Prima di andarcene Lia tiene a spiegare per bene la posologia degli antibiotici e ad assicurarsi che il ragazzo abbia capito.

Subito dopo, quello che ormai possiamo considerare il “nostro” traduttore, accompagna un altro gruppo di ragazzi: anche questa volta il paziente è uno solo. Questo, invece di presentare un problema, chiede direttamente una medicina contro i capogiri: Lia spiega che nel loro stock non hanno niente che faccia al caso suo. Il problema, in effetti, è che lo spazio limitato disponibile costringe a fare una selezione tra i farmaci da portare: così quelli per i disturbi meno comuni, come quello in questione, restano fuori. Il consiglio è di andare a domandare alla Caritas, ma la risposta del ragazzo è che ci va ogni giorno, senza ottenere altro che paracetamolo: gli altri annuiscono. Lia spiega che è necessario fare delle analisi per capire la natura del problema che potrebbe avere molte cause diverse: consiglia pertanto di andare a Bordighera, dove c’è un piccolo ospedale, o anche da un medico qualunque generalista. Gli sguardi dei ragazzi sono dubbiosi, Lia ricorda loro che in Italia hanno diritto a tutte le cure mediche necessarie indipendentemente dal loro status amministrativo: nessuno li arresterà, non bisogna aver paura.

Verso le ore 16 la manifestazione, finalmente, parte. Da via Tenda attraverserà il ponte sul Roja per fare il giro della città vecchia e chiudersi verso le 18h30 nel parco vicino al Municipio, dove sono previsti vari interventi. Sul carro che apre il corteo sventola, come una bandiera, una coperta termica e molti tra i partecipanti indossano uno scampolo dello stesso materiale, quasi come un segno di riconoscimento. Pochi sono gli abitanti di Ventimiglia che partecipano, molti quelli che guardano dal balcone: alcuni sorridono, lo sguardo di altri è meno solidale. Anche alcune delle associazioni attive in città hanno deciso di non integrare la manifestazione, in polemica con alcuni dei gruppi presenti che considerano troppi estremisti. Nonostante questo la partecipazione è imponente e varia. Accanto ad associazioni e collettivi sfila uno spezzone composto solo da africani: reggono uno striscione e danzano, mentre uno di loro con un megafono lancia slogan che vengono ripresi dai compagni. Riconosco alcuni dei ragazzi curati da Lia e Antonio. Ci sorridiamo: i loro occhi brillano.

Arrivati al parco ritrovo Lia e Antonio, che avevo perso di vista all’inizio del corteo. Stanno discutendo con un ragazzo che non sembra completamente lucido e che richiede una medicina specifica per lo stomaco. Dice che gli fa spesso male. Alla domanda se beve o fuma risponde di sì: viene dall’Asia e afferma, con una punta di spacconaggine quasi adolescenziale, che gli asiatici bevono molto… Lui, per esempio, non beve birra ma solo vodka fin da colazione. La diagnosi è evidente e l’efficacia della terapia farmacologica è legata, ovviamente, al controllo del consumo di alcool. Il ragazzo ride e prende la scatola di medicine che gli viene data da Antonio ma, guardandola, si accorge che il dosaggio sia inferiore a quello a cui è abituato: dice che queste non gli faranno nulla, non servono. Credo il ragazzo cercasse semplicemente un po’ di attenzione.

Intanto, mentre al microfono si susseguono gli interventi, il parco viene decorato con lunghi striscioni fatti di bandane fuxia annodate l’una all’altra: è un’iniziativa di “Non una di meno”, si vuole lasciare un segno tangibile del passaggio della manifestazione. Antonio, guardando le persone radunate intorno al carro, si augura che lo spirito di questa mobilitazione non si spenga alla fine di questa giornata, ma venga reinvestito nel quotidiano dei molti partecipanti: questo farà davvero la differenza! Non posso che essere d’accordo con lui.

Dopo gli interventi e i concerti, piano piano, i manifestanti abbandonano il parco. Saluto Lia e Antonio, loro resteranno ancora una notte per fare un altro giro visite domani. Io invece torno a Marsiglia.

Riparto da Ventimiglia verso le ore 23, sulla strada veloce che porta all’autostrada supero vari ragazzi che tornano verso il campo della croce rossa. La strada non è illuminata, né dispone di marciapiedi dato che è a scorrimento veloce, inoltre le banchine sono strette: il pericolo è reale ed è inaccettabile costringere le persone a una tale “roulette russa”; io stesso, nonostante la guida prudente per la coscienza del pericolo, rischio di investire una persona.

Sul tragitto di ritorno penso a quanto poco basterebbe per migliorare le condizioni igieniche e sanitarie delle persone bloccate a Ventimiglia: non abbiamo incontrato casi complicati o malattie esotiche… La maggior parte degli eventi patologici era legato alle condizioni di vita e per essere risolto non richiedeva che qualche accorgimento di buon senso, delle condizioni minime di igiene, medicine comunissime e poco costose e, al massimo, qualche esame di accertamento… Che scusa abbiamo dunque per non fare nulla? Per impedire l’accesso alle condizioni minime d’igiene e alle cure sanitarie di base?

Secondo la distorta dottrina umanitaria dell’amministrazione comunale l’accesso all’acqua potabile, al nutrimento, ai servizi igienici e alle cure mediche, … sarebbero dei “pulling factors” da sopprimere per scoraggiare i migranti a installarsi in città. Io credo che l’unico vero “pulling factor” che costringe queste persone a installarsi a Ventimiglia sia la chiusura della frontiera.

Quelli di cui parla il Sindaco Ioculano, invece, sono le condizioni minime per garantire la sopravvivenza delle persone in transito e scongiurare il rischio di epidemie. E le epidemie riguardano tutti, indipendentemente dallo status amministrativo.

Matteo Fano

“Malati di confine”. Analisi di un anno di report medicali alla frontiera di Ventimiglia

Proponiamo un’analisi dei report redatti dai medici volontari che, da qualche anno, svolgono un’attività di cura e monitoraggio indipendente alla frontiera di Ventimiglia. Lo scopo è quello di individuare e mettere in prospettiva le problematiche sanitarie che si materializzano lungo il confine, cercando di risalire, quando possibile, alle cause politiche e istituzionali, più o meno dirette, che le determinano. La scelta di analizzare un “campione” di report che copra all’incirca un anno è motivata dalla volontà di avere uno sguardo il più possibile complessivo, tenendo conto dei mutamenti della situazione socio-politica e delle variazioni stagionali. Matteo Fano e Cecilia Paradiso sono dottorandi in antropologia all’ EHESS di Marsiglia.

Per prima cosa, vorremmo precisare che i nostri ambiti di ricerca non riguardano direttamente Ventimiglia, tuttavia si tratta di una situazione che conosciamo perché ne seguiamo gli sviluppi da qualche anno. Attraverso questo articolo, in particolare, vogliamo presentare le conseguenze sanitarie della chiusura della vicina frontiera con la Francia, al fine di mostrare l’insensatezza di tale misura che, non solo non risolve il problema della presenza di popolazioni migranti numerose e in condizioni di vita precarie, ma lo aggrava mettendo a rischio l’intera popolazione.
Svolgeremo tale compito attraverso lo sguardo di due medici italiani: Lia, ricercatrice in immunologia (che felicitiamo per il suo recente PhD), e Antonio, medico ospedaliero con 40 anni di esperienza. Entrambi erano impegnati in percorsi politici sull’accesso alle cure per le persone senza documenti già prima che, circa due anni orsono, cominciassero a recarsi a Ventimiglia regolarmente, una o più volte al mese, per curare i-le migranti in transito.

Quest’attività è resa ancora più importante e preziosa dal loro impegno politico: infatti l’esperienza diretta sul campo li ha portati a andare al di là delle semplici pratiche di cura, per portare uno sguardo critico della relazione tra le condizioni sanitarie riscontrate di volta in volta, le scelte politiche che le determinano e il loro ruolo di medici volontari. Tali analisi prendono la forma di report dettagliati che vengono redatti al termine di ognuna delle loro visite e poi diffusi su dei blog d’informazione e riflessione politica, come Parole sul Confine e Effimera.

In particolare, abbiamo deciso di concentrarci sui testi scritti tra novembre 2016 e dicembre 2017, per poter presentare qualche elemento di riflessione, rispetto all’evoluzione della situazione dall’estate 2015: a seguito, quindi, dell’implementazione dei regolamenti di Dublino. L’evento è significativo perché tale misura ha determinato la reintroduzione di controlli militarizzati alle frontiere interne dell’Unione Europea e il respingimento verso l’Italia di un numero sempre più elevato di migranti. Già solo nell’arco della prima settimana, a metà giugno 2015, centinaia di persone si sono ammassate a Ventimiglia: era l’inizio di una successione di eventi, dei quali stiamo ancora osservando gli sviluppi.

Ci sembra opportuno, in incipit, fornire un minimo quadro spaziale, rispetto ai vari campi e luoghi d’accoglienza approntati in città a partire dall’estate 2015:

Il campo della Croce Rossa: inizialmente situato in prossimità della stazione ferroviaria e poi spostato in una zona industriale a 3 chilometri dal centro. Circolano poche informazioni ufficiali su di esso, ma, grazie alle testimonianze dei-delle migranti, sappiamo che i posti disponibili nei container sono all’incirca 300, mentre il numero delle persone può variare tra 200 e 900: nei momenti di massima affluenza, indipendentemente dalla stagione, si ricorre a delle tende.

Tre campi informali, autogestiti da assemblee di migranti e solidali, succedutisi temporalmente, tra la fine dell’estate 2015 e la primavera 2016, e quindi sgomberati, uno dopo l’altro, dalla polizia italiana.

– Dei luoghi d’accoglienza gestiti dalla comunità cattolica, locale e non. In particolare, la chiesa di Sant’Antonio, lungo il fiume Roya, nella quale sono stati accolti famiglie, donne e minori, fino al luglio 2017, quando le autorità ne hanno imposto la chiusura, nell’intento di concentrare la totalità della popolazione migrante nel campo della Croce Rossa.

– Infine il campo informale e spontaneo, installato lungo il letto del Roya e a tutt’oggi abitato[1]. Questo si sviluppa principalmente nelle zone riparate dai ponti ferroviari e autostradali, ma si estende anche oltre, in quelle zone del letto del fiume, dove più fitta è la vegetazione. Si calcola che ci vivano in media 200 persone, anche se il calcolo non può che essere approssimativo.

Attorno ai vari campi, e in città, si concentra l’azione di vari attori:

– Gli operatori della Croce Rossa.

– I volontari delle associazioni cattoliche e della CARITAS.

– Il personale delle grandi ONG (Come MSF, INTERSOS, AMNESTY INTERNATIONAL e ANAFE) che, dal canto loro, non hanno investito fondi considerevoli in loco e hanno, fino ad ora, condotto principalmente un lavoro di documentazione e redazione di rapporti.

– Infine, attivisti e militanti solidali, locali e non, presenti in città fin dall’estate 2015. Questi, sebbene organizzati in più gruppi a seconda degli orientamenti politici, sono legati da una dinamica di collaborazione finalizzata al sostegno ai migranti. Tale sostegno, come in ogni contesto di lotta “no border”, si esprime sia attraverso rivendicazioni politiche, che attraverso pratiche di solidarietà diretta. Tale rete è stata duramente colpita dalla repressione poliziesca e giudiziaria che si è materializzata in obblighi a lasciare il territorio (fogli di via), in altri provvedimenti giudiziari, ma anche in pressioni e divieti di altro tipo (un esempio su tutti: l’ultimo punto d’informazione e distribuzione di beni di prima necessità dedicato ai-alle migranti è a rischio di sfratto, nonostante in possesso di un regolare contratto di locazione).

E’ proprio tra questi solidali che ritroviamo Lia e Antonio, i due medici che, come abbiamo accennato, da due anni intervengono a Ventimiglia, in quelle zone in cui le istituzioni latitano: inizialmente nei campi autogestiti poi, in seguito agli sgomberi, nella chiesa di Sant’Antonio e infine, quando anche questa è stata chiusa, lungo il letto del fiume.

Vogliamo ancora una volta ringraziarli per il loro lavoro instancabile di cura e di documentazione che ci ha permesso di individuare alcuni nodi attorno ai quali si strutturano delle questioni sanitarie specifiche, in cui fattori di natura differente (amministrativa, politica, sanitaria, personale) si rafforzano vicendevolmente, minando la salute (e la dignità umana) di quei migranti che restano restano bloccati, sospesi in uno spazio tra “due paesi”.

La prima constatazione ha a che vedere con le condizioni materiali di vita alla frontiera: dai report di Lia e Antonio emerge un contesto del quotidiano che si dimostra fonte di problematiche sanitarie, in sé e a causa dello stile di vita a cui conduce, con conseguenze sul piano fisico e psicologico.

Nel frattempo varie persone dall’aspetto quanto meno losco si avvicinano ai ragazzi per parlargli, uno si allontana con due di loro che stanno portando l’acqua. Ci accorgiamo che il tipo losco ha comprato una bottiglia di whiskey e sono già mezzi ubriachi quando arrivano al campo.

Proviamo a parlare con loro del fatto che molti soggetti pericolosi tenteranno di approfittarsi della loro situazione e che bere molto non li aiuterà di certo, il nostro quasi collega ci risponde: “Is this place, my brain is lost”.

«Is this place, my brain is lost 14 maggio 2016»

http://effimera.org/6344-2/

Si può citare, per prima cosa, l’insalubrità di tutti i luoghi di vita, compreso il campo della croce rossa. Questo, da quando la chiesa ha chiuso le sue porte, rimane l’unica struttura ufficiale ancora in funzione ma le condizioni di vita al suo interno non sembrano essere qualitativamente migliori rispetto a quelle lungo il fiume: vi si incontra la stessa promiscuità e, come afferma questo giovane, vi si sente lo stesso freddo:

Un ragazzo eritreo “ospite” del campo della Croce Rossa, con una ferita al piede, ci dice che, anche lì dorme in una tenda e quindi ha ugualmente molto freddo.

«Dicembre a Ventimiglia. Ovvero, il gelo 3 dicembre 2016»

http://effimera.org/dicembre-ventimiglia-ovvero-gelo-amelia-chiara-trombetta-antonio-g-curotto/

Inoltre, il campo è distante dalla città e raggiungibile solo attraverso una strada a scorrimento veloce, lungo la quale si sono già verificati incidenti mortali.

Ma ciò non basta a spiegare perché moltissime persone (anche con figli piccoli) si rifiutino di recarvisi, almeno altri due ordini di ragioni influiscono su questa scelta:

– innanzitutto la diffidenza nei confronti della Croce Rossa: una diffidenza che per alcuni rimonta ad esperienze, dirette o in dirette, vissute nei paesi di origine o in quelli di transito, principalmente in Africa;

– quindi, l’assoluta priorità del progetto migratorio, a cui è subordinata la valutazione dell’opportunità di ogni possibilità. In questo caso, ad esempio, l’obbligo di lasciare le proprie impronte per accedere al campo è vissuto come inaccettabile, poiché potenziale ostacolo alla possibilità di stabilirsi nella destinazione prescelta; ma anche la paura di essere arrestati e deportati verso il sud Italia ha il suo peso: il campo lungo il fiume serve, quindi, anche come una sorta di zona franca, dove è più difficile l’ingresso della polizia e più facile un’eventuale fuga):

Discutiamo con vari giovani sudanesi sulle condizioni del campo della croce rossa […] Ci dicono che molti operatori hanno con loro atteggiamenti offensivi e autoritari, li spingono, non gli consentono di stare all’aperto. Devono stare immobili in luoghi per loro adibiti. Il cibo sembra essere pessimo e spesso insufficiente per tutti gli ospiti. Un ragazzo sudanese che parla molto bene in italiano ci spiega che la situazione del campo non è buona, ma anche che i sudanesi hanno sfiducia nella croce rossa. Dice che nel suo paese ci sono stati campi della croce rossa e che, mentre fuori c’è la guerra e vengono usate armi chimiche, la Croce Rossa nega tutto questo.

«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»

http://effimera.org/malasanita-internazionale/

D’altro canto, anche nel campo informale sul fiume le condizioni di salute dei migranti si degradano velocemente: a parte il rischio rappresentato da eventuali piene del fiume (un rischio molto concreto dal momento che ha già lasciato un morto sul terreno), Lia e Antonio testimoniano di condizioni di vita tali da aver ormai reso certe patologie “tipiche” di tale contesto. Ad esempio: l’insalubrità dei luoghi favorisce lo sviluppo e la diffusione d’infezioni dermatologiche e di parassiti.

I ragazzi che sono con lui hanno tutti delle forme di scabbia molto vecchie, dicono da mesi, alcuni con evidenti infezioni batteriche. Uno di loro ci dice in italiano che ha avuto un morso di topo all’orecchio mentre dormiva. […]. È gonfio e c’è del pus. Ha altre lesioni con pus sul corpo.

«Ventimiglia, dopo la piena del fiume 16/12/17»

https://parolesulconfine.com/ventimiglia-dopo-la-piena-del-fiume/report-ventimiglia-immigrazione-1/

Altri passaggi, invece, testimoniano dell’impossibilità di mantenere pulita una piaga o della sovraesposizione alle malattie dell’apparato respiratorio, dovuta al modo di vita all’aria aperta, senza ripari adeguati.

Un’analisi della situazione su una temporalità lunga permette di mettere in evidenza fino a che punto le scelte politiche e istituzionali abbiano contribuito al peggioramento delle condizioni di vita e della salute delle persone. Tali scelte, infatti, mirano ad ostacolare la permanenza delle persone, impedendogli di soddisfare quelli che si definisco bisogni primari, giustificandosi attraverso l’argomento “umanitario” dello scoraggiare potenziali nuovi arrivi.

Si tratta di una vera e propria strategia politica, teorizzata da alcuni attori istituzionali, come dimostrano le dichiarazioni del sindaco di Ventimiglia Ioculano (PD) in occasione di un incontro con gli operatori delle ONG, durante il quale l’acqua potabile, il cibo e le cure mediche sono stati definiti pulling factors, ovvero dei servizi la cui accessibilità incondizionata favorirebbe l’arrivo e la permanenza dei migranti su un territorio.

Facciamo qualche esempio concreto per illustrare le conseguenze materiali di una tale strategia:

– In primis, l’accesso all’acqua potabile, che è stato al centro di una vera e propria battaglia silenziosa. Tutto è cominciato quando Lia e Antonio hanno iniziato a spingersi nel campo sul greto del fiume e subito hanno constatato la diffusione di patologie gastro-intestinali. La chiave di lettura del fenomeno viene fornita da un giovane africano che, prima della partenza verso l’Europa, studiava medicina: in mancanza di una fonte di acqua potabile, i migranti lì accampati bevevano l’acqua del fiume. I due medici, allora, riescono a mobilitare una piccola rete di solidali e ad individuare, proprio a pochi metri dall’area più densamente popolata, un rubinetto collegato alla rete idrica comunale: tuttavia questo era stato manomesso, sottraendone la maniglia. I solidali reagiscono prontamente per sostituirla, ma dovranno ripetere l’operazione a più riprese perché tale maniglia sarà ogni volta asportata dagli abitanti o dagli agenti del comune.

– Un altro esempio è quello del cibo: insufficiente e di bassa qualità, tanto nell’accampamento informale, che in quello della croce rossa, e di cui il Comune, tramite ordinanze, ha interdetto la distribuzione nello spazio pubblico. È evidente che tale situazione non può che contribuire all’indebolimento ulteriore delle persone, già provate dal viaggio e dalle condizioni di vita.

– E infine, come dimostrato dal seguente estratto, persino le visite mediche finiscono per essere considerate dei “servizi” che incoraggiano la presenza dei migranti.

In questo caso, per alcuni giorni un ambulatorio esterno di fortuna è fornito da un gruppo di infermieri scozzesi che hanno costruito un’unità di strada per l’assistenza di base e che dopo Calais, Parigi e Ventimiglia, si recheranno a Como. Da segnalare in questo caso che ci riferiscono che la polizia ha perquisito la suddetta unità e li ha informati dell’esistenza di una fantomatica ordinanza del sindaco che vieterebbe qualsiasi contatto con i migranti, inoltre li avrebbero informati del fatto che in Italia non è possibile esercitare professioni sanitarie in strada.

«Malati di confine 11 e 12 Marzo 2017»

http://effimera.org/malati-confine-amelia-chiara-trombetta-antonio-curotto

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Ventimiglia è solo una delle tappe di un viaggio che può durare qualche mese come vari anni e che possiamo considerare, nel suo insieme, come patogeno.

Vogliamo dire che, spesso, le patologie incontrate dai due medici hanno origine altrove, anche se è innegabile che qui si aggravino a causa della permanenza forzata in una situazione che ostacola anche le più semplici procedure di prevenzione, gestione e cura delle malattie.

Rimuoviamo un’agocannula in una persona con un edema evidente agli arti inferiori allontanatasi spontaneamente dall’ospedale. Gli chiariamo che quella scelta a nostro avviso è stata un errore, ma rimuoviamo comunque l’accesso venoso, poiché avrebbe costituito una pericolosa via d’infezione in una situazione come quella.

«Le torture affiorate 9 luglio 2017»

http://effimera.org/le-torture-affiorate-report-ventimiglia-del-9-luglio-lia-trombetta-cecilia-paradiso-antonio-curotto/

Allo stesso modo, i numerosi traumi riscontrati da Lia e Antonio sono per la maggior parte legati ad “incidenti” di viaggio avvenuti altrove. A questo proposito possiamo individuare tre diverse eziologie:v

Le violenze inflitte direttamente da qualcuno (ad esempio quelle legate ad episodi di tortura, subiti in Africa, come nell’esempio seguente, ma anche in Italia):

Vogliamo auscultargli il torace per capire se c’è qualche problema polmonare percepibile. Vediamo che la schiena è piena di cicatrici. Per capire di che si tratta ci facciamo fare la traduzione della sua storia al telefono da sua sorella maggiore, emigrata molti anni fa negli USA. È una storia molto istruttiva di mala-sanità internazionale. Inizia l’anno prima in Darfur (vedi introduzione del documento Who per lo stato del sistema sanitario in quell’area), quando A. arriva, per esasperazione, ad urlare contro il medico che seguiva sua madre per una malattia cronica. Dice che la sua famiglia non riusciva a pagare l’assistenza sanitaria ed erano disperati. Durante questa lite, il medico chiama la polizia, questa arriva e porta A. in carcere. Lì viene tenuto per due mesi, dove viene quotidianamente frustato e, a detta della sorella, “gli succede tutto ciò che c’è di male”. Non approfondiamo troppo anche perché la comunicazione è difficile. A. è preoccuato che rivelarci queste cose porterà a qualche problema per lui o per la sua famiglia. Viaggia con due bambini piccoli (che sono tra quelli che hanno raffreddore e febbre) e la moglie.

«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»

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l’inadeguatezza delle condizioni di viaggio (Ad esempio, il fatto di camminare per lunghe distanze, indossando scarpe di una misura inferiore alla propria; o di intraprendere sentieri di montagna senza averne le competenze necessarie);

– E, infine, le risposte delle istituzioni (e pensiamo, in particolare, alla militarizzazione della frontiera che obbliga i migranti a cercare degli stratagemmi sempre nuovi e sempre più pericolosi per oltrepassarla, con il risultato che, dal 2015, una ventina di persone sono morte nel tentativo di raggiungere la Francia: alcuni investiti mentre camminavano sul bordo dell’autostrada; altri fulminati mentre erano nascosti nel locale tecnico dei treni; altri ancora caduti in montagna mentre percorrevano un sentiero).

Dalla lettura delle testimonianze dei due medici, una constatazione s’impone in modo evidente: Ventimiglia, proprio come Calais o Lampedusa, si configura come un “collo di bottiglia” dove qualsiasi fenomeno patologico, indipendentemente dalla sua natura, tende a aggravarsi. Inoltre, tutta questa situazione non ha conseguenze esclusivamente sul fisico delle persone, ma anche sul loro stato mentale: a tal proposito, alcune testimonianze mettono in evidenza la disperazione, l’apatia e il malessere in cui vivono i migranti a Ventimiglia. Una condizione che spinge alcuni ad annegare i pensieri nell’alcool.

Diversi, tra questi gruppi, hanno bottiglie di plastica tagliate a metà, che usano come bicchieri per bere del vino. Ne parlano con noi abbastanza tranquillamente, dicendo che è quel posto che li induce a bere.

«Ventimiglia libera 11 novembre 2017»

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Capiamo, allora, sempre meglio il sentimento di frustrazione che traspare da questi scritti: in un tale contesto, in cui gli interventi sanitari non sono né regolari, né coordinati tra gli attori, la messa in opera di vere e proprie strategie di cura è impossibile perché, come dichiarano i due medici, non c’è nessuno a cui affidare il lavoro svolto. Ne risulta una situazione caotica, in cui azioni diverse si giustappongono e sovrappongono una all’altra fino a diventare inutili, se non dannose e, a volte, persino caricaturali… Se solo non si avesse a che fare con la concreta sofferenza di altri esseri umani. A tal proposito, vogliamo citare la storia di un ragazzo sudanese di 30 anni:

Non parla inglese quindi con l’aiuto di un altro connazionale ci mostra l’avambraccio destro molto gonfio. Dice di essere stato sottoposto a una iniezione non meglio definita qualche giorno prima. È molto preoccupato. Gli chiediamo chi fosse stato e per quale motivo, ma non ci sono risposte. Si capisce dalla localizzazione e dal tipo di reazione che si tratta di una intradermoreazione alla tubercolina. Chiediamo quindi spiegazione ai volontari della caritas. Questi ci spiegano, in preda all’ansia, come qualche tempo prima presso un ospedale locale ad un uomo loro “ospite” fosse stata fatta diagnosi di tubercolosi. A seguito di ciò i volontari della caritas avevano chiesto l’intervento della ASL a scopo preventivo per ospiti e volontari presenti nella comunità. Dopo molte resistenze sembra che alcuni operatori della ASL si siano recati presso la parrocchia di S Antonio e abbiano fatto il test di intradermoreazione alla tubercolina solo a 12 uomini, senza ottenere il loro consenso informato, ovvero il tanto sbandierato atto obbligatorio per l’attuazione di qualsiasi procedura medica che coinvolga il corpo di noi “bianchi” e (almeno altrettanto grave), senza che la positività all’intradermoreazione fosse successivamente controllata. In altre parole, sono state sottoposte al test solo alcune delle persone esposte all’eventuale contagio, ma non è stata controllata successivamente la positività o negatività del test. Infatti questo è un test intradermico che evidenzia l’avvenuto contatto del sistema immunitario con il bacillo tubercolare (e non la presenza di malattia in atto) e la cui risposta va controllata da un clinico 48 e 72 h dopo l’intradermoreazione stessa. I controlli positivi devono essere sottoposti a RX torace (linee guida ministero della Salute). Tali controlli non sono mai stati effettuati. Diversi uomini il sabato mattina (48h dopo) presentavano positività all’intradermoreazione anche molto forte ed erano molto turbati da ciò che succedeva al loro avambraccio. Ugualmente turbati erano i volontari della Caritas a cui non è stato spiegato nulla.

«Malasanità internazionale 4-5-6 novembre 2016»

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Questo estratto dimostra come, proprio qui all’interno dell’Europa, il diritto alla salute perde, de facto, la sua universalità per diventare una conseguenza dello status amministrativo.

Le politiche trattate finora sono il risultato di un approccio estremamente miope al fenomeno migratorio contemporaneo, del quale si dà una lettura oltremodo semplificata.

Quest’ultimo è, infatti, considerato come un’urgenza contingente: un momento di crisi a cui bisogna portare risposte in grado di farci “resistere” fino al futuro ristabilimento della “situazione normale”, quella “di prima”, quando è chiaro ci troviamo di fronte ad un processo globale, destinato a cambiare il volto demografico di Ventimiglia e dell’Europa intera. Le conseguenze di tale fenomeno dipenderanno dalla nostra capacità di approntare strategie efficaci a livello strutturale. Tuttavia, l’attuazione di tali strategie diventa impossibile nel contesto attuale.

D’altra parte, è evidente che interventi come quelli miranti a scoraggiare l’arrivo e l’installazione dei migranti tramite la soppressione dei cosiddetti pulling factors siano destinati all’insuccesso: del resto, parliamo di persone che non hanno alternative per proseguire il loro viaggio. Un viaggio nel quale hanno investito troppo (denaro, sofferenza, aspettative, speranze) per tornare indietro… Il solo risultato di tali strategie è di rendere le condizioni di vita delle persone ancora più dolorose: nient’altro.

Ma c’è un ultimo aspetto che vorremmo sottolineare. A Ventimiglia, come altrove, la questione va ben al di là della preoccupazione umanitaria per la salute di questi “viaggiatori illegali”:

– Per prima cosa perché il rischio sanitario riguarda direttamente anche gli “europei”: infatti le condizioni di vita non igieniche e l’assenza di un’efficace sistema di cure non possono che favorire la diffusione di epidemie, i cui agenti patogeni, dal canto loro, non guardano né la nazionalità, né il visto sul passaporto.

– E, infine, perché in assenza di politiche sanitarie strutturali, gli episodi patologici finiscono per essere trattati tardivamente e/o, in mancanza di alternative, inviati al pronto soccorso. Questo non solo ha un costo più elevato per la comunità, ma determina anche la sovrasollecitazione del servizio, aumentando il tempo d’attesa degli altri pazienti.

Concludendo, vorremmo portare l’attenzione sui risultati delle ultime elezioni politiche a Ventimiglia. La Lega ha visto aumentare i propri consensi dal 6% del 2013 al 29%. E’ chiaro, e lo notiamo con estrema amarezza, che in questo clima di isteria generale, sapientemente fomentato per interessi elettorali, il populismo sta avendo la meglio sull’empatia umana e sul buon senso.

Ancora una volta ci chiediamo quale sia lo scopo di mantenere l’accoglienza ai-alle migranti in simili condizioni e invitiamo a riflettere sulle conseguenze politiche e sociali di tutto ciò.

Matteo Fano, Cecilia Paradiso

[1]Durante il lavoro di redazione del presente contributo, i media hanno riportato la notizia dello sgombero anche di questo campo, avvenuto il giorno 18 aprile. Ancora una volta, l’azione repressiva è stata ufficialmente giustificata come un obbligo umanitario, come un atto dovuto, a causa dell’insalubrità e della pericolosità del luogo. Il lavoro di ricerca che ha portato alla stesura del presente articolo, ci rende impossibile credere alla buona fede di tali dichiarazioni: ancora una volta si cerca di nascondere un’azione dettata da interessi politici di breve termine e dalle conseguenze potenzialmente disastrose, dietro un discorso che, alla luce dei fatti, è inconsistente e senza prospettiva alcuna.

Ventimiglia e il diritto alla salute: l’ambulatorio volante dei Medici volontari e dei Solidali del Ponente

Riceviamo e pubblichiamo il comunicato dei medici volontari del Ponente Ligure e del gruppo Solidali del Ponente. I medici fornivano precedentemente prestazioni sanitarie presso l’accoglienza sotto la chiesa delle Gianchette, dedicata alle famiglie, donne e bambini, soppressa dal mese di agosto e tuttora nell’ambulatorio della Caritas. Dal mese di febbraio di quest’anno, come raccontano, hanno allestito per alcune ore la settimana un “ambulatorio volante” nel campo informale sotto il ponte di via Tenda. Anche loro, come più volte descritto nei report medici pubblicati sul sito, evidenziano l’assenza completa del diritto alla salute per le persone che transitano per questi luoghi.

Ventimiglia sotto al ponte

Dalla scorsa estate la situazione dei migranti a Ventimiglia è peggiorata in maniera esponenziale: la chiusura del centro di accoglienza volontario delle Gianchette, contrariamente a quanto auspicato dalle autorità, non ha spinto le persone in viaggio a cercare ospitalità presso il campo della CRI “alleggerendo” la situazione nel quartiere; al contrario ha prodotto la creazione di un “campo informale” di considerevoli dimensioni sotto al ponte.

Migranti Ventimiglia - Solidali del Ponente - Diritto alla salute (1)

E’ difficile capire perché così tante persone “preferiscano” la precarietà di questo campo, il freddo, la scarsa igiene, i ratti, al ben più lindo e controllato Campo Roja, gestito dalla CRI e ancor più come questa scelta sia fatta anche da tante giovani donne, da madri con i loro figlioletti al seguito.

…potrebbero essere i blindati della polizia posti all’entrata, il recinto attorno, la distanza dal centro città, il timore di poter essere facilmente rispediti indietro, il timore di essere più controllati e avere maggiori difficoltà ad attraversare il confine….potrebbe essere tutto ciò oppure altro, non sta a noi dare risposte sociologiche o politiche per spiegarne genesi e dinamiche.

Noi siamo Medici e come tali ci basta l’evidenza del dato: esiste un campo informale che ospita centinaia di persone e tra essi tantissimi soggetti vulnerabili, donne, bambini piccoli, minori, e tutti, oltre a vivere in condizioni estreme, sono assolutamente invisibili, non hanno nessun tipo di tutela, men che meno quella sanitaria.

Per questo motivo, ci siamo organizzati, assieme ad altri volontari e con mediatori culturali e linguistici, per dare un minimo di assistenza medica alle persone migranti che rimangono fuori dal circuito dell’accoglienza ufficiale. Abbiamo così iniziato, nel mese di Febbraio, ad allestire un gazebo sotto al ponte, una sorta di “ambulatorio volante”, precario anch’esso come le loro tende, in cui visitiamo, facciamo medicazioni, diamo consigli, forniamo le prime cure. Dagli inizi di febbraio ad oggi, siamo riusciti a garantire una presenza costante di due turni ambulatoriali a settimana e abbiamo avuto modo di visitare centinaia di persone.

Niente di risolutivo purtroppo, una piccola goccia di solidarietà in un mare di indifferenza che vorremmo fosse però un segnale chiaro. Vorremmo che non servisse a coprire in qualche modo le manchevolezze di un sistema che di “accoglienza” ha solo il nome, ma fungesse da segnale politico chiaro per evidenziare che di altro c’è bisogno e che altro, molto altro bisogna fare per “rimanere umani”

Medici Volontari – Solidali del Ponente

Migranti Ventimiglia - Solidali del Ponente - Diritto alla salute (2)

Migranti Ventimiglia - Solidali del Ponente - Diritto alla salute (3)

Migranti Ventimiglia - Solidali del Ponente - Diritto alla salute (4)

Prima della neve

Sabato 27 febbraio è stata una giornata di lavoro intenso sotto al ponte di via Tenda.

Avremmo fatto almeno 40 visite.

Rispetto alla scorsa estate ci sono più persone che vivono sotto al ponte del cavalcavia lungo al fiume, con un numero senza precedenti di donne e bambini anche molto piccoli.

L’insediamento sembra sempre più stabile, con baracche costruite con pezzi di legno e teli di plastica. Le persone che vivono lì sono prevalentemente eritree e sudanesi. Al momento, tutte le donne sole e le madri sono eritree.

Le persone che abbiamo visitato erano giovanissime. Tantissime affette da scabbia. Spesso con sovra-infezioni molto importanti. Grazie alla nostra disponibilità di farmaci e grazie alle scorte di indumenti stivati presso l’infopoint Eufemia abbiamo potuto somministrare il trattamento antiscabbia a molte persone, dopo esserci assicurati che avessero compreso come eseguire correttamente tutta la procedura.

Molti ragazzi avevano l’influenza, alcuni di loro sembravano avere la polmonite. Per questi ultimi, avvalendoci dell’aiuto nella traduzione di compagni di viaggio o di persone solidali, abbiamo scritto delle lettere di invio al pronto soccorso, perché eseguissero una radiografia del torace.

Moltissime persone presentavano ferite infette, difficili da tenere pulite per le pessime condizioni igieniche della vita sotto al ponte e per l’impossibilità di lavarsi.

Le persone erano molte e la difficoltà di comunicazione, associata alla precarietà del luogo e alla mancanza di un minimo di riservatezza, creavano difficoltà per tutti.

Per il pomeriggio di sabato avevamo in programma un incontro con alcune donne solidali del territorio, per fare chiarezza in merito al diritto all’assistenza sanitaria per le persone senza documenti in Italia e per spiegare le patologie più comunemente da noi osservate nel corso di questi anni a Ventimiglia. L’incontro è andato molto bene, e durante questo molte solidali hanno espresso la preoccupazione per la condizione della gente sotto al ponte, visto l’arrivo del freddo intenso:  più volte si sono tentate telefonate alle autorità della zona per capire cosa fosse possibile fare in proposito.

In serata siamo rimasti a Ventimiglia per un aperitivo organizzato per sostenere il bar Hobbit di Delia. Delia è una delle pochissime persone (se non l’unica) che gestisce un’attività commerciale ad essere sempre stata accogliente con chi viaggia, diventando, nei mesi, un punto di riferimento per tutti coloro che si impegnano in attività di solidarietà diretta e concreta con le persone in viaggio. Prima dell’inizio dell’aperitivo, Delia ha parlato a lungo con un gruppo di boy-scout giunti per la prima volta a Ventimiglia, con l’obiettivo di comprendere meglio la situazione e maturare una consapevolezza rispetto alla chiusura delle frontiere e alle storie delle persone migranti che rimangono bloccate a Ventimiglia. Delia ha raccontato loro i fatti salienti di questi due anni e mezzo e ha espresso anche molte lungimiranti considerazioni su come la convivenza con persone giovani e con storie diverse potrebbe costituire un elemento di stimolo e un arricchimento per tutti nella città di Ventimiglia.

A riprova del suo, fondamentale, ruolo di riferimento per le persone in transito, siamo stati chiamati da lei per visitare una giovanissima mamma eritrea di circa 16 anni con una bimba di pochi mesi: ambedue con la scabbia. E’ stato estremamente difficile comunicare con la ragazza, nonostante ci fosse qualcuno che tentava di fare da traduttore. Appariva spaventata, voleva andare al più presto a prendere il treno. Non capivamo se avesse fatto o meno il trattamento per la scabbia. Infine si è defilata velocemente, seguita da alcuni solidali che in seguito ci hanno informato che, salita sul treno, pare avesse poi anche superato Mentone.

La mattina seguente, per favorire il dialogo con le persone che avessero problemi di salute, abbiamo deciso di montare sotto al ponte un gazebo che alcuni solidali, medici e non, hanno procurato appositamente per questo scopo e che viene conservato presso l’info-point Eufemia.

Le temperature, intanto, si stavano abbassando. Abbiamo visitato diverse persone, alcune con i segni mai completamente guariti delle torture subite in Libia, come dolori persistenti nelle sedi di diverse bruciature sul tronco. Un giovane sudanese aveva un danno corneale evidente, risultato di un colpo in faccia infertogli in Libia con il calcio di un fucile. Gli abbiamo detto che chiaramente non potevamo fare nulla in quelle condizioni e gli abbiamo consigliato di farsi visitare una volta raggiunto il paese di arrivo. Abbiamo poi visto ancora molte persone affette da scabbia. Una solidale ci raggiunge accompagnata dalla giovane madre eritrea visitata il giorno prima su segnalazione di Delia e da un suo connazionale. Veniamo così a sapere che la polizia francese l’aveva, nel frattempo, identificata a Cannes e nonostante si trattasse di una persona di minore età con una figlia di tre mesi, l’aveva rispedita in Italia. 

Era di nuovo a Ventimiglia sotto il ponte, più confusa che mai. Siamo almeno riusciti a convincerla, questa volta, a sottoporre sé stessa e la piccola al trattamento per la scabbia.  È stata dunque accompagnata da una amica solidale all’infopoint e qui aiutata nella la procedura del trattamento antiscabbia per sé stessa e per sua figlia.

Nel pomeriggio siamo partiti per Genova mentre iniziava a nevicare forte e a fare molto freddo.

È difficile accettare che, in tutta Europa, anche nelle situazioni climatiche più estreme, la scelta sia stata di impedire il libero movimento di esseri umani in virtù della re-istituzione dei confini, anche se il rischio per la salute delle persone che rimangono intrappolate  è così grave.

Nel caso italiano, e nello specifico a Ventimiglia, era  noto da giorni che il gelo sarebbe giunto anche a basse quote dove in genere non arriva, ovvero anche lì sotto quel ponte dove bambine e bambini, donne e uomini vivono già in condizioni estreme.

Sotto quel ponte, dove già da anni ormai i diritti a condizioni igieniche decenti, al cibo, all’acqua, sono stati negati.

Falsamente di queste politiche inumane si è arrivati ad accusare proprio le vittime , facendosi scudo della presenza di un centro di accoglienza della croce rossa, molto difficile da raggiungere a piedi senza rischiare la vita, vista la strada molto percolosa, nonché illegale secondo le leggi dello Stato in quanto donne e uomini, bambine e bambini, anche non accompagnati, sono costretti a vivere promiscuamente in container.

Everything is lost

Ci rechiamo all’infopoint Eufemia perché dobbiamo incontrare un’amica avvocata dell’ASGI con cui abbiamo in passato collaborato e i solidali del collettivo 20 K, per aggiornamenti vari. La mattina di sabato 13/01/18 Eufemia è, come al solito, pieno di gente. Cerchiamo di contare i cellulari in carica e saranno almeno 80.

A. ci informa che il numero delle persone in viaggio si è ridotto dalla nostra ultima visita, ma è comunque alto rispetto al periodo invernale. Circa 150 nel campo della croce rossa, 150/200 al di fuori. Ci informano inoltre del gran numero di donne e bambini che dormono sulle rive del fiume e di come persista il loro rifiuto a recarsi presso il centro CRI, anche per una sola notte. Il passa parola tra i migranti informa infatti i nuovi arrivati della scarsa accessibilità del luogo. La strada per giungervi è lunga e pericolosa (https://parolesulconfine.com/parco-roja-minaccia-la-sicurezza/) e del fatto che nonostante il freddo le persone dormano in tende dove le temperature sono basse, e che ci sono poche docce e in questo periodo solo con acqua fredda.

I compagni del gruppo 20k cercano al contempo, in questo periodo, per la grande affluenza di donne, di tenere aperto l’infopoint solo per loro due giorni a settimana, così da riuscire ad avere dei contatti diretti e passare del tempo insieme, dando loro, in qualche modo, la possibilità anche solo di lavarsi.

Passeremo un giorno e mezzo sotto il ponte con alcune/i compagne/i.

Abbiamo già tentato di descrivere le condizioni di vita e di salute delle persone che abbiamo incontrato a Ventimiglia.

Questa volta vorremmo raccontare i cambiamenti che abbiamo osservato e che sono per noi più significativi.

Ci sono diversi insediamenti, che appaiono più stabili nella loro precarietà, mucchi di coperte hanno al di sopra dei teli blu come quelli che si mettono sotto le tende.

Giunti sul fiume dopo pochi passi quello che balza agli occhi è il gran numero di bambini, molto piccoli (1 o 2 anni) e giovani donne. Molti di loro si sono ammalati. Si tratta soprattutto di malattie dell’apparato respiratorio e gastroenterico.

Degli uomini sudanesi ed eritrei ci chiedono qualcosa che suona come: vedete questi bambini? Sono troppo piccoli. Qui fa troppo freddo per loro.

Ci sono alcune donne che hanno evidentemente delle patologie. Una di loro, magrissima e molto bassa, lamenta dolori addominali e stipsi. A nostro parere deve avere qualche problema di salute, ma da lungo tempo. La visitiamo in uno delle loro grandi “tende” di coperte e teli. Visitandola è chiaro che ci sia qualche disturbo addominale, da quando l’anno prima è stata sottoposta a un taglio cesareo. Le consigliamo di andare in ospedale per fare almeno delle analisi generali e magari un’ecografia. Più tardi prenderemo accordi con i compagni 20k che la accompagneranno al vicino pronto soccorso. All’uscita, il giorno dopo, ci diranno che le analisi erano negative, sembrava non esserci nulla di molto grave. La signora però all’ospedale si era molto agitata e voleva allontanarsi poiché pensava che gli uomini che viaggiavano con lei sarebbero potuti andare via per tentare di attraversare il confine, lasciandola indietro.

Ritornata al campo semplicemente affermava di non avere più nulla dei documenti rilasciati dall’ospedale. Le spieghiamo che, anche in assenza di alterazioni acute, ci sarebbero potuti essere d’aiuto per sapere se ci fossero delle problematiche pregresse. “Everything is lost”, ci dice, con aria scostante.

Tra gli uomini la scabbia è più diffusa del solito e il farmaco che abbiamo, grazie a chi ci sostiene a Genova, si esaurisce rapidamente, purtroppo quindi non possiamo trattare tutti, nonostante presso l’infopoint Eufemia ci siano ancora vestiti e coperte che potremmo usare per completare efficacemente la terapia.

È stato doloroso osservare come lo stato di abbandono abbia inoltre determinato diversi episodi di aspri contrasti tra le persone che vivono sul fiume.

Un ragazzo afgano ci racconta che mentre dormiva gli è stato rubato lo zaino con dentro tutto ciò che possedeva. Ci chiede se la polizia cercherebbe il colpevole se la chiamasse. Più tardi lo incontriamo che esplora tutta la riva del fiume. Poi una terza volta ci raggiunge molto agitato dicendoci di chiamare la polizia poiché aveva incontrato dei ragazzi sudanesi che stavano lavando i suoi asciugamani, probabilmente per riutilizzarli. Volevano da lui dei soldi in cambio di informazioni sul suo zaino. Dopo averli minacciati, era stato anche picchiato. Cerchiamo di parlare con tutti, nonostante la situazione sia molto tesa, ed evidentemente sappiamo che non otterremo neanche i documenti del ragazzo, contenuti nello zaino disperso.

Il secondo giorno visitiamo ancora molte persone. Sempre gli stessi problemi. C’è ancora qualcuno che, meno informato degli altri, non usa l’accesso di fortuna all’acqua potabile, beve l’acqua del fiume e ha di conseguenza infezioni intestinali. Ancora tanti casi di scabbia, bronchiti e febbri.

Molti bambini raffreddati per cui siamo costretti a dividere una compressa di tachipirina in otto parti, non essendo fin ora equipaggiati con farmaci pediatrici.
Veniamo ad un certo punto chiamati da un gruppo di ragazzi che ci indica: “doctor.. sudani… problem”..andiamo a vedere. Un ragazzo dalla provenienza incerta (gli eritrei e i sudanesi affermeranno poi che non è di nessuno dei due paesi) sembra abbia dato un forte colpo in testa a un giovane sudanese, che urla e ha copiose tracce di sangue sulla maglia. Anche lui grida: andrò dalla polizia. Cerchiamo di capire com’è la ferita, di medicarlo e pulirlo dal sangue come possiamo. Per fortuna la ferita non sembra molto profonda.

Alla fine riparliamo con i compagni del gruppo 20 k della necessità di rimettersi in contatto con la ASL per cercare di avere un contatto diretto e un sostegno terapeutico almeno per il problema della scabbia, poiché ovviamente, sarebbe assurdo e inutile affollare il pronto soccorso con decine di persone che hanno questa infezione.

Inoltre, ci troviamo d’accordo con i compagni con cui parliamo sul fatto che la presenza fisica e la condivisione negli spazi della città dove i migranti sono relegati sarebbe auspicabile se il numero delle persone solidali aumentasse e che ovviamente non basta l’arrivo a singhiozzo di sostegno ai pochi che si trovano già sul territorio.