Torniamo a Ventimiglia dopo il “confinamento Covid19” da subito anglicizzato nel suggestivo concetto di “lockdown” e quasi sempre trattato con un linguaggio militare evocativo come “emergenza” e “guerra”, addirittura c’è chi l’ha chiamato “la nuova Pearl Harbour”.

In ogni modo abbiano chiamato il periodo di confinamento domiciliare, qui, nel nostro occidente, ci ha fatto sentire e sperimentare, anche se in modo assai modesto e privilegiato, il senso della precarietà, la paura di morire, la separazione dai nostri affetti (non per forza “congiunti”), il disciplinamento sociale, la sorveglianza, la limitazione della libertà individuale e collettiva e la reclusione forzata. Condizioni usuali e assai più intense e definitive nelle persone in viaggio, a Ventimiglia ma non solo, a causa di emergenze appunto, guerre spesso, disastri ambientali sempre più sovente e, talvolta, l’indicibile desiderio di emigrare.

Tale situazione di “lockdown” ha peggiorato la vita delle persone in condizioni di fragilità mentre l’esposizione ai rischi si è mostrata, chiaramente, distribuita in base alla classe e alla razzializzazione di stato.

Sapevamo che il campo Roja della Croce Rossa, nel Parco Roja, era chiuso da oltre un mese, a partire dal 18 aprile, per “confinamento Covid”: circa 200 persone sono finite in quarantena, all’interno della struttura, in container della Croce Rossa, poiché un uomo all’interno del campo era risultato positivo al Covid19. Pur con tutti i limiti più volte sottolineati, per molti mesi questo luogo ha rappresentato l’unico dispositivo dov’è stato possibile per alcune persone avere un tetto, del cibo e dove potersi lavare in condizioni di relativa sicurezza. Sapevamo che il campo non avesse più riaperto e che al momento si parla piuttosto di chiusura definitiva della struttura.

Sapevamo che l’unico presidio che ha resistito a Ventimiglia fino a febbraio 2020, lo spazio dove Kesha Niya garantivano un sostegno alle persone respinte alla frontiera francese, come anche quelle fuoriuscite dal campo Roja (per forza o per scelta), fosse stato “sfrattato” da una recinzione. Lo slargo sterrato lungo l’Aurelia, tre metri per due di belvedere con una panchina in pietra, attraversato per un breve momento di ristoro dalle persone rilasciate dalla detenzione e dalle retate, è stato recintato durante l’ultimo mese di “lockdown”. Come tante volte è successo a Ventimiglia, per precludere uno spazio alle persone ritenute indesiderate, è stato tracciato l’ennesimo confine.

Sapevamo che, nuovamente, le persone per strada stavano diventando numerose, spesso in prossimità del campo CRI, nella speranza di potervi entrare.

Con queste testimonianze dei due mesi di impedimento a spostamenti entro i 200 metri da casa, per chi vive in Liguria è stato immediato, appena sospeso il confinamento, guardarsi negli occhi e decidere di partire.

Quello che non sapevamo è che al nostro arrivo a Ventimiglia, dopo una breve sosta nel bar  Hobbit di Delia (fisicamente condizionato dalle misure anti covid, igienizzanti ovunque e tavolini dimezzati), avremmo subito incontrato solidali, amiche e amici, viaggiatori ormai autoctoni che, come noi, aspettavano la possibilità di muoversi per raggiungere Ventimiglia.

Ci siamo diretti alla spiaggia, alla foce del fiume Roja. Qui si notano lungo il percorso i giacigli della notte. Pochi gruppi di persone in prossimità della foce e sulla spiaggia. Ci avviciniamo per chiedere se hanno bisogno di un aiuto sanitario. Visitiamo alcune persone provenienti dalla rotta balcanica: problemi modesti in condizioni di normalità e tutela (come ascessi dentali e problemi dermatologici, soprattuto ai piedi) ma che diventano importanti in una situazione che non prevede – come ormai accade a Ventimiglia dal 2015 – presidi sanitari costanti e soprattuto adeguati alla situazione.

Facciamo un giro lungo ambedue le rive del fiume. Incontriamo luoghi con segni evidenti del passaggio frettoloso delle persone. Rifiuti abbandonati all’improvviso: cartocci del latte, gusci di uova, abiti da donna, occhiali da vista, i resti di un piccolo falò notturno. Altri luoghi più protetti fanno invece pensare a una permanenza, volente o nolente, più “stabile”.

Rifugi, alcuni segnati da scritte in arabo, altri in francese, a seconda di chi li abita, in cui puoi entrare solo inginocchiandoti prestando attenzione a non tagliarti mani e ginocchia con i vetri rotti.

Incontriamo persone algerine, afghane.. Dublin ci dicono.. comprendiamo che sono state deportate, anche dopo anni, nel paese dove erano state registrate le impronte per la prima volta, in questo caso l’Italia limbo senza speranza…E poi? Please go back ci rispondono con quel sorriso che ogni volta ti lasciano increduli che possa ancora trovare forma nei loro visi, nei loro ricordi, nei loro vissuti..

Le parole e le visite ci raccontano di corpi offesi dalle violenze da cui fuggono e da quelle che incontrano lungo la fuga: ferite di arma da fuoco che si sovrappongono a ferite di coltello; i piedi segnati, una parte del corpo che mostrano quasi subito, spesso unico mezzo di trasporto; traumi da cadute per scappare, spesso dalla polizia europea, probabili fratture di costole, scabbia fin troppo fedele compagna di viaggio. Difatti, finiamo ben presto la scorta di creme antiscabbia, diamo indicazione per visite ulteriori al Centro Caritas, augurandoci che riapra il presidio sanitario, per ora sospeso, che faceva servizio alcune ore nella settimana e che permetteva, tra altre cose, di avere un cambio di abiti, che è fondamentale per debellarla.

Qualcuno ci racconta anche di viaggi verso il sud Italia per andare a lavorare nei campi per la raccolta di frutta e verdura, due euro all’ora dice uno di loro, altri dicono 5 euro a cassetta per le arance. Una storia che conosciamo da almeno 20 anni ma che sembra interessi solo alle mafie. Che poi siano quelle dei campi o quelle di Stato, fa poco la differenza. Questi racconti si intrecciano alle parole di chi dice di aver saputo che, durante il confinamento, alcune persone migranti bloccate a Ventimiglia, dai confini nazionali e dal Covid19, siano state “accompagnate” al Sud per raccogliere frutta e verdura con la promessa di far ritorno al punto di partenza, quindi Ventimiglia, terminato il “lockdown”.

Raggiungiamo il luogo, alla ”frontiera alta” di Ponte San Luigi, dove era presente il presidio Kesha Niya: è sigillato, con una sorta di sgombero preventivo, da una recinzione in metallo con cartelli di proprietà privata. Quel tratto di Aurelia rientra sotto la tutela dei beni paesaggistici e archeologici,  ma questo non ha impedito al presunto proprietario dello slargo sterrato di issare metrate di rete metallica verde; così come giù, a Ventimiglia, la sete delle persone non aveva impedito di stabilire la chiusura delle  fontanelle di acqua potabile in centro città. L’unica trovata ancora attiva è di fronte alla caserma della finanza.

Attraversiamo “Ponte San Luigi”:  nessun controllo, nessuna pistola misura temperatura puntata alle tempie. Ci dirigiamo alla stazione di Menton Garavan: due camionette della polizia stazionano in attesa del treno proveniente da Ventimiglia e diretto in Francia. Sono le 17.55, il prossimo treno è previsto alle 18.10. Il treno arriva alle 18.00, i gendarmi si preparano, sono in 6: due si dirigono dal capotreno, due salgono in fondo e due in centro – i vagoni sono tre. Il tempo dei controlli, nessuno viene fatto scendere, alle 18.10 il treno, in perfetto orario, parte. Da parecchio tempo ormai gli orari dei treni Sncf, la compagnia francese, sono stati riorganizzati, includendo le tempistiche imposte dalla polizia per poter effettuare i controlli: in media è di dieci minuti lo scarto di ripartenza di un treno dalle stazioni oggetto di retate. Riattraversiamo il confine di stato, direzione Balzi Rossi: mitra in mano all’esercito e polizia di confine, di nuovo, nessuno ci punta alle tempie la pistola misura temperatura, nessuno ci controlla i documenti.

La sera parliamo di Ventimiglia, della crisi pre e post Covid, dei piccoli locali non utilizzabili in periodo di distanziamento destinati al probabile affare per il riciclo del denaro sporco delle mafie in un luogo cosi notoriamente contaminato. Voci ci informano che presto ci sarà un cambio importante di vertice alla Caritas di Imperia, tra i nomi viene fuori che uno dei possibili responsabili sarà il parroco della Chiesa delle Ginachette..non Don Rito, che è stato mandato via in montagna dalla primavera del 2018, ma il suo sostituto, quello che appena istituito ha deciso di transennare l’ingresso della chiesa..

Domenica mattina sulla spiaggia incontriamo altre persone, provenienti anche dall’Africa sub sahariana, altra scabbia, altri traumi.

Ripartiamo e ritorneremo con la consapevolezza che dobbiamo continuare a lottare per abbattere non solo le frontiere – sicuramente a noi nemiche – ma l’intero sistema di meccanismi giuridici, politici e sociali che assicurano il perpetuarsi di dispositivi che confinano, sentenziano, gestiscono e stabiliscono chi e come far vivere e far morire.

“Perché gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Ci possono permettere di batterlo temporaneamente al suo stesso gioco, ma non ci metteranno mai in condizione di attuare un vero cambiamento.” (A.Lorde)

La Redazione