Ceuta: in marcia per la dignità

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo, resoconto della Marcha por la Dignidad, risposta alla chiamata annuale di mobilitazioni e proteste per la commemorazione della strage avvenuta per mano della Guardia Civil il 6 febbraio 2014 sulla spiaggia del Tarajal, Marocco, al confine con Ceuta.

Ringraziamo lx compagnx che hanno condiviso questa importante testimonianza.

Ceuta: in marcia per la dignità

Come ogni anno dal 2014 a Ceuta si è svolta la Marcha por la Dignidad, in commemorazione delle vittime della strage del Tarajal. Il 6 febbraio di dieci anni fa la Guardia Civil attaccò violentemente un gruppo di circa quattrocento persone che tentavano di attraversare la frontiera a nuoto. Mentre le motovedette della polizia marocchina le inseguivano, la Guardia Civil dalle imbarcazioni aprì il fuoco con proiettili di gomma, colpi a salve, candelotti fumogeni e granate stordenti. Ne uccise almeno quindici e molte delle sopravvissute riportarono gravi ferite. Nonostante la causa civile aperta dalle associazioni per i diritti umani, che ha portato sedici agenti alla convocazione davanti al tribunale di Ceuta, il caso è stato archiviato tre volte dal giudice istruttore. I più alti organi dello Stato spagnolo e i vertici delle forze di polizia hanno respinto ogni responsabilità e mistificato la realtà, negando l’utilizzo di attrezzatura antisommossa e il coinvolgimento di feriti.

L’iniziativa commemorativa si è aperta la mattina con una conferenza che ha ospitato l’intervento della ricercatrice Viviane Ogou, l’attivista Mouctar Bah, l’artista Abubakar e l’avvocatessa Patuca Fernandez. Gli interventi hanno riguardato il tema del diritto alla migrazione, il razzismo strutturale dell’economia globale e l’esternalizzazione della frontiera. In particolare ci si è soffermatə sull’importanza politica della visibilizzazione e della memoria. Dopo la strage del Tarajal i corpi non sono stati recuperati, è stato il mare a restituirli nei giorni seguenti dopo averli resi irriconoscibili. Il processo di identificazione è durato anni e non si è mai del tutto concluso. La frontiera oltre ad aver ucciso fisicamente le vittime le ha private della loro individualità, cancellandone la dignità in morte oltre che in vita. Come ha affermato l’avvocatessa Fernandez l’atto più violento fu quello di non poter riscattare i corpi, negandone quindi la possibilità di identificazione, memoria e commemorazione. Venne rifiutato inoltre alle famiglie ogni permesso di raggiungere la Spagna per rendere omaggio alle salme e intervenire in tribunale.

Giungendo nell’enclave spagnola dal Marocco, attraverso le alture del Rif, salta agli occhi nella sua interezza il muro che racchiude questa minuscola parte della fortezza Europa. Da qui si arriva alla zona del Tarajal, frontiera sud, unico punto di accesso attualmente percorribile per entrare legalmente nel territorio. E’ su questa spiaggia che si è conclusa la marcia, con un momento di raccoglimento sugli scogli. La frontiera nord è invece blindata dal 2004, sia per quanto riguarda il transito di persone che di merci. L’attraversamento da parte di persone in movimento era frequente fino al 2018, quando un accordo bilaterale ha portato l’inasprimento dei controlli, rendendola inaccessibile. La valla, recinzione in spagnolo, che racchiude completamente Ceuta tagliandola da costa a costa, fu innalzata da tre a sei metri nel 2006. In seguito ad un finanziamento europeo fu portata all’altezza di dieci metri. I nove km del perimetro frontaliero sono costantemente sorvegliati su entrambi i lati. L’esercito marocchino è stanziato in diversi punti con piccole caserme, su terreni che furono espropriati ai precedenti abitanti. Oltre a torrette per l’avvistamento e telecamere, c’è il filo spinato concertina. In seguito a pressioni di associazioni per i diritti umani queste recinzioni provviste di lame furono tolte dal lato spagnolo nel 2018, spostandole però su lato marocchino, finanziate con soldi europei. Questo processo di esternalizzazione delle frontiere comporta anche una presenza capillare di polizia nell’area che precede la frontiera, con funzione di filtro e rastrellamento delle persone in movimento. Dall’altro lato la Guardia Civil pattuglia Ceuta dall’interno, attraverso strade riservate al solo utilizzo militare e tramite appostamenti con sensori termici notturni.

Alcune associazioni attive in loco supportano le persone in transito, la lotta per il diritto a migrare e per l’abbattimento delle profonde disuguaglianze sociali della città. Tra le altre Elin si occupa principalmente dei corsi di spagnolo per le persone presenti al CETI (Centros de Estancia Temporal de Inmigrantes); No Name Kitchen presta sostegno alle persone in strada, per la maggior parte marocchine; Luna Blanca distribuisce gratuitamente i pasti quotidianamente. Sta inoltre nascendo un nuovo centro: ASCS (Agenzia Scalabriniana Cooperazione e Sviluppo) ha avviato un progetto sulle frontiere e investito su Ceuta. Nel centro dove già è attivo uno spazio diurno ricreativo, in cui si svolgono lezioni di spagnolo, sarà aperta una zona abitativa in cui poter offrire ospitalità.

A Ceuta vige un regime normativo speciale, la città ha uno statuto autonomo che prevede la sospensione di Schengen, maggiori restrizioni nell’accesso a servizi pubblici, difficoltà ad ottenere un domicilio e contratto di lavoro. Sono visibili enormi disuguaglianze tra i diversi quartieri, nei quali vige una netta separazione su base razziale, religiosa e disponibilità di risorse economiche. Percorrendone le vie è forte la sensazione di essere chiusə dentro una recinzione. Oltre lo Stretto è intravisibile il continente, apparentemente vicino, ma ancora fuori portata. Attualmente la maggior parte delle persone prova a superare la frontiera a nuoto attraverso la zona costiera del Tarajal. Per quanto il tratto marittimo possa sembrare breve, è estremamente pericoloso a causa delle forti correnti dello Stretto, oltre ad essere costantemente presidiato. L’1 febbraio più di venti minori e una decina di maggiorenni sono riusciti a raggiungere la spiaggia su territorio spagnolo approfittando del maltempo, quando pare esserci meno sorveglianza. I giornali locali affermano che il Governo di Ceuta ha domandato un ulteriore piano di contingenza per poter trasferire i minori, che per ora sono accolti dal centro La Esperanza. Mentre i maggiorenni sono stati rimpatriati in Marocco.

In quanto territorio europeo, su suolo africano, Ceuta rappresenta una rotta migratoria di interesse. Una volta raggiunta è possibile presentare domanda per regolarizzare la propria posizione e avviare la procedura per ottenere documenti europei.  Queste procedure vengono avviate in seguito all’inserimento al CETI. Per coloro che provengono da paesi considerati a rischio è prevista la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, si tratta principalmente di persone originarie dell’area subsahariana, che vengono prese in carico dal CETI. Sono invece escluse da questo servizio le persone del Maghreb, che rimangono quindi tagliate fuori dalla possibilità di presentare domanda e relegate ad un’ulteriore marginalizzazione, in virtù di criteri arbitrari poichè non dettati da alcuna legge. Per queste persone è stato istituito un apposito sportello informatizzato dove poter presentare domanda. Per ragioni tecniche legate alle modalità di prenotazione digitale la maggior parte delle persone non riesce ad accedervi, e si è sviluppato un sistema di compra-vendita delle prenotazioni, a partire da mille euro. Questa esclusione costringe alla vita di strada, e le lunghe attese ne aggravano le condizioni. A Melilla dove la situazione era simile, in seguito ad azioni legali si è riuscito a far accedere al CETI anche persone provenienti dall’area del Maghreb.

Le minorenni e i minorenni secondo la legge europea hanno diritto all’accoglienza a prescindere dalla provenienza. In città sono situati due centri, distinti per genere, nei quali sono costrettə a rimanere fino al raggiungimento della maggiore età. Solo dopo aver compiuto diciotto anni, infatti, potranno spostarsi nel continente con un permesso temporaneo della durata di sei mesi. Durante questo periodo devono regolarizzarsi sul territorio, attraverso contratti lavorativi e abitativi, per poter rinnovare i documenti. A causa di queste rigide condizioni la maggior parte preferisce quindi tentare la traversata. Le persone minorenni hanno come zona di riferimento la scogliera accanto al porto, qui trovano riparo tra gli spazi concavi delle rocce. Di notte chi prova la partenza cerca un nascondiglio per imbarcarsi, questo in gergo viene chiamato risky, data la nota pericolosità del tentativo. Il livello di violenza e mortalità della frontiera è altissimo: il monitoraggio di Caminando fronteras riporta 6.618 vittime nella rotta di accesso alla Spagna nel 2023. Sono 147 le persone uccise nell’ultimo anno nella zona dello stretto, la maggior parte nel tentativo di raggiungere Ceuta a nuoto.

Anche a Melilla nel 2022 si è verificato un terribile massacro. Oltre quaranta persone morirono nel tentativo di superare l’enorme recinzione. L’associazione marocchina per i diritti umani AMDH dichiara che il bilancio delle vittime è destinato a salire poiché sessantaquattro persone risultano disperse da quel giorno. Ong marocchine e spagnole denunciano un accanimento giudiziario contro le persone in movimento arrestate, che hanno ricevuto condanne detentive e sanzioni pecuniarie. A giugno, in occasione dell’anniversario, si terrà la prima manifestazione per chiedere giustizia, verità e riparazione.

Chiara e Timo

Che fine hanno fatto i minori sbarcati a Genova il 2 giugno?

Pubblichiamo un contributo, ricevuto ieri mattina, circa il “destino” dei 29 minori arrivati a Genova con la nave militare Fulgosi, il 2 giugno.

Pensiamo sia fondamentale farlo ora, nel mentre che la Sea Watch3 – dopo aver disegnato per 15 gg traiettorie impazzite di fronte a Lampedusa – nella giornata di mercoledì 26, ha deciso di forzare il blocco ed è entrata nel porto di Lampedusa. Ad ora mentre pubblichiamo l’imbarcazione è controllata da un dispositivo di “sicurezza” che ne impedisce lo sbarco di persone ridotte allo stremo delle forze e la capitana Carola Rackete viene accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rifiuto di obbedienza a nave da guerra. Nel mentre che la Corte Europea per i diritti dell’uomo (CEDU) ha negato il ricorso. Nel mentre che una parte di società attiva ha passato parte della notte davanti alle Prefetture di tutta Italia. Nel mentre che alcuni lavoratori del porto di Genova scrivono un comunicato alla Sea Watch3 per rendersi disponibili ad aiutarla, nel caso in cui volesse puntare dritta verso il porto della nostra città.

Quale strategia si nasconde dietro la scelta del Ministro dell’Interno di far arrivare la Fulgosi a Genova il 2 giugno e negare l’approdo alla Sea Watch 3? Complimentandosi con la CEDU per la decisione di non accettare la richiesta di approdo?

Nei giorni precedenti alla festa della Repubblica, Genova ha mostrato di non avere più paura e la piazza del 23 maggio, contro l’autorizzazione al presidio di Casa Pound, l’ha dimostrato[1]. Il blocco della Bahri Yanbu, che trasportava armi destinate all’Arabia Saudita da usare contro il popolo yemenita, l’ha dimostrato[2]– “CHIUDIAMO I PORTI ALLE ARMI”. Il corteo del 6 aprile in risposta all’arrivo di Salvini – “CHIUDIAMO I PORTI AI RAZZISTI” – l’ha dimostrato.

Risulta così abbastanza chiaro come mai Salvini decide che Genova sarà la citta destinata ad accogliere i naufraghi della Fulgosi, salvati 4 giorni prima davanti alle coste libiche. Genova? Che dista non sappiamo quante miglia dalla Libia – 4 giorni di navigazione -, mentre la Sea Watch3, da 15 gg in mare di fronte all’isola di Lampedusa, ha ricevuto il divieto ad attraccare. Chi decide di lasciar vivere e far morire è abbastanza chiaro ormai. 

Ma torniamo ai 29 minorenni arrivati a Genova – Salvini dichiarerà:

«Sulla nave “la situazione” è positiva. Ci abbiamo lavorato giorno e notte in silenzio e a carico degli italiani non rimarrà neanche un immigrato, perché verranno ripartiti tra Paesi europei. Ringrazio i vescovi italiani per la disponibilità, non a parole ma nei fatti».

Il 28 giugno, cioè domani, il Ministro degli Interni arriverà a Genova per l’esplosione dell’ultimo pilone del Ponte Morandi, e due giorni fa tutti i minorenni sono stati “ridistribuiti” sul territorio nazionale. A noi nulla importa che Salvini non abbia prestato “onore” alla sua parola di ripartirli tra i paesi Europei.

Per noi è fondamentale lasciare il racconto nelle mani di chi ne ha vissuto la deportazione, con il suo coraggio e la sua rabbia che dev’essere il coraggio e la rabbia di tutti e tutte.

 

Che fine hanno fatto i minori sbarcati il 2 giugno?

Politiche nazionali e locali sulla non tutela dei minorenni

 

Il giorno 02.06.2019 sono sbarcati 29 minori stranieri non accompagnati dalla nave della marina militare Cigala Fulgosi e sono stati inseriti presso diverse strutture accreditate nel Comune di Genova, alcune delle quali aderenti al progetto sprar/siproimi, cioè a quel progetto espressamente dedicato all’accoglienza e integrazione dei minori.

Ad un primo esame i minori sbarcati (degli adulti non saprei dire, tanto velocemente sono stati trasferiti in Lazio) erano piuttosto lontani dall’immagine dei migranti ben tenuti e telefonomuniti della propaganda usuale. Molti di loro non avevano idea di dove fossero e, una volta giunti alle strutture di destinazione, chiedevano l’ora, avendo evidentemente perso la cognizione del tempo. Alcuni di loro, almeno quelli che ricordavano un numero di telefono, hanno potuto contattare la famiglia dagli uffici delle comunità: Maman! C’est moi, je suis en vie. Je suis en Italie!

Le immediate prese di posizione da parte dell’amministrazione comunale sono state quantomeno ambigue: dapprima il consigliere Gambino e la speranza da lui espressa che dei migranti sbarcati non ne rimanesse in città nemmeno uno; le proteste dei rappresentati del Partito Democratico cittadino; le dichiarazioni del sindaco Bucci a Telenord che almeno i minori sarebbero rimasti nelle strutture genovesi[3]. Sopra tutte le parole e le opinioni sempre presente la promessa del ministro dell’Interno: nessuno dei migranti (quindi nemmeno i minori?) avrebbe gravato sui contribuenti genovesi (e in che modo, del resto, visto che le rette per i minori stranieri non accompagnati inseriti presso una struttura sprar provengono per l’85,71% dai fondi messi a disposizione dal Servizio Centrale di Roma?).

Gli operatori delle strutture che hanno accolto i minori sbarcati dalla nave Cigala Fulgosi si sono accorti ben presto che qualcosa non andava nel meccanismo, per altro già da anni collaudato, dell’accoglienza. Le strutture sprar non hanno potuto segnalare al Servizio Centrale la presenza dei minori al loro interno; il servizio sociale del Comune non ha potuto operare alcuna presa in carico; le tutele decretate dal Tribunale dei Minorenni di Genova erano in carico alla Direzione Politiche Sociali e all’Assessora Francesca Fassio; le deleghe necessarie ai responsabili delle strutture per avviare le necessarie pratiche amministrative in favore dei minorenni non sono state concesse.

Proprio i decreti di tutela emessi dal tribunale a una settimana dallo sbarco dei minori recano traccia di una esplicita “comunicazione del Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, dalla quale risulta che a breve il minore verrà trasferito in struttura sita in diverso distretto del territorio nazionale”. Di questa comunicazione, tuttavia, non è dato prenderne visione diretta.

Il giorno 24 giugno le strutture coinvolte hanno ricevuto comunicazione dell’imminente trasferimento di tutti i minori sbarcati il 2 giugno, previsto per il giorno 25. Solo due minori molto piccoli e due ragazze in stato interessante non sono stati coinvolti dal trasferimento.

E così il 25 giugno i minori della nave Cigala Fulgosi, dopo essere stati raccolti al largo di Lampedusa, aver visto l’Italia via mare da sud a nord nella sua interezza, aver iniziato un timido approccio al territorio, aver condiviso un mese di vita in compagnia di altri ragazzi, sono stati fatti salire con minimo preavviso (ma tanto che cambia loro?) su pulmini e trasferiti in altre città italiane, potendo godere dell’indubbio privilegio di conoscere l’Italia anche lungo le sue autostrade.Diversamente da quanto dichiarato a caldo dal Sindaco Bucci, cioè che i minorenni sarebbero stati accolti nelle strutture genovesi preposte, il loro mese di permanenza nella nostra città è stato più simile ad un parcheggio che ad un’accoglienza strutturata.

Ma a questo punto, che la storia è finita, qualche domanda resta: perché se il Comune di Genova aveva 14 posti sprar (e quindi non direttamente a carico del contribuente genovese) liberi almeno 14 dei minori sbarcati il 2 giugno non sono rimasti in città? C’è qualcosa che non va nel modo di lavorare di professionisti che da anni si dedicano all’integrazione dei minori stranieri a Genova? Oppure la posta in gioco era soltanto politica, appesa alle parole del ministro dell’Interno che, per qualche motivo sicuramente slegato dal principio del maggior benessere del minore, prometteva di dare alla città soltanto il disturbo delle operazioni in calata Bettolo e niente più? Nel qual caso vorrei dichiarare che mi disturba assai più essere un professionista dell’educazione e dell’integrazione e rispondere supinamente alla richiesta di spostare minorenni come fossero cose. Ancora un volta abbiamo perso in Italia l’occasione di trattare gli esseri umani come fini e non come mezzi.

Buon viaggio, allora, ragazzi. Una nave vi ha fatto vedere in lungo in largo le coste di questo Bel Paese abitato da gente discutibile. Ora rifarete più o meno a ritroso lo stesso viaggio lungo le autostrade dell’estate.

[1]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/23/genova-antifascisti-contro-il-presidio-di-casapound-tre-feriti-e-due-fermati-negli-scontri-con-la-polizia/5202761/

[2]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/20/genova-lo-sciopero-dei-portuali-blocca-la-nave-saudita-carica-di-armi-da-qui-non-ripartono-fumogeni-contro-il-cargo/5192421/

[3]https://telenord.it/nave-migranti-a-genova-accolti-32-minori-non-accompagnati-bucci-polemiche-strumentali/

 

 

 

Con i pescatori di Zarzis, contro la criminalizzazione del soccorso in mare

Diffondiamo una petizione transnazionale, pubblicata in cinque lingue, a sostegno dei sei pescatori di Zarzis arrestati a fine agosto nelle acque antistanti Lampedusa, per aver soccorso in mare dei migranti in avaria:

https://ftdes.net/pecheurstunisiens/

Dalla pagina della petizione transnazionale

Il reato imputato è quello di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, ma i fatti, ricostruiti anche grazie ai filmati di un drone dell’agenzia Frontex, raccontano di una realtà ben diversa : un barchino in avaria, con a bordo quattordici persone (tra cui tre minori), l’equipaggio di una barca da pesca che interrompe il proprio lavoro e un’operazione di soccorso in mare [1]. Dalle testimonianze si evince che dei tentativi di mettersi in contatto con le autorità italiane ci fossero stati, che non fossero andati a buon fine e che le condizioni metereologiche stessero peggiorando. Davanti al rifiuto di essere riportati in Tunisia, a Zarzis, l’equipaggio di Chamseddine Bourassine ha deciso di trainare il barchino verso una zona dove il mare fosse più calmo e i soccorsi più facili da attuare.

I pm di Agrigento, che hanno validato i fermi, parlano invece della possibilità che non si tratti di altro che di una messa in scena, per coprire un’operazione pianificata fin dalle coste tunisine. Poco importa che un drone governativo avesse filmato il barchino in avaria, aprendo alla possibilità di contestare un reato di mancato soccorso : non sarebbe che l’ennesimo. Pare conti ancora meno il fatto che, da anni oramai, incontrare imbarcazioni o natanti fatiscenti in difficoltà sia la quotidianità dei pescatori del Mediterraneo meridionale : banale la conta dei morti a mezzo stampa, banale salpare delle reti nelle quali si incagliano i corpi di chi non ce l’ha fatta.

Allora, chi non si arrende alla banalizzazione dell’ingiustizia diventa pericoloso. L’umanità di chi è incapace di gettare qualcosa da bere e da mangiare a chi si rifiuta di essere riportato in Maghreb, disposto a sfidare la concreta possibilità che quel viaggio si trasformi intragedia, per poi riportare la prua verso il porto come niente fosse stato, diventa un crimine e, come tale, va perseguito.

Ma, se per le autorità il fatto che, al netto della riduzione delle partenze dalla Libia, la percentuale di morti tra chi affronta quel tratto di mare sia passata da 1 su 38 nel 2017 a 1 su 7 nel mese di giugno di quest’anno [3] non è altro che una constatazione statistica, per fortuna c’è ancora chi non ha intenzione di entrare a far parte della larga schiera dei colpevoli e dei cinici.

Chamseddine Bourassine è uno di questi. E’ il présidente di un’associazione molto attiva e conosciuta, ‘‘Le pecheur’’ de Zarzis pour le développement et l’environnement, che da anni anima dibattiti e azioni su vari fronti, dalla sensibilizzazione dei giovani rispetto ai rischi della migrazione clandestina, alla necessità di difendere la piccola pesca artigianale. La loro è una voce politicamente schierata, fondata sul rigore e la forza di chi le proprie idee le forgia ogni giorno, nella durezza della realtà, nelle immagini che gli occhi vedono non filtrate da schermi e pixel. L’estate scorsa hanno impedito l’ingresso nel loro porto alla C-Star, la nave di Generazione Identitaria, impegnata in patetiche operazioni da cane da guardia in nome della difesa del suolo europeo [2], e questa primavera hanno organizzato una manifestazione per denunciare la criminalizzazione del soccorso in mare (a questo link è possibile visionare un estratto video della manifestazione, filmato dal colletivo marsigliese Primitivi: https://vimeo.com/265557170).

Sono stati arrestati, in sei, dalle autorità italiane, e la notizia ha fatto a malapena il giro delle redazioni locali. Nel frattempo, aspettando l’esito dell’udienza di oggi (21 settembre), a Tunisi, a Zarzis e anche ad Agrigento, centinaia di persone hanno manifestato per chiedere la scarcerazione dei pescatori.

Proviamo rabbia e vergogna per chi blatera di porti chiusi, respingimenti e Ong colluse con i trafficanti : se avessero il coraggio di passare una notte a bordo del peschereccio di Chamseddine, forse, i termini della discussione sarebbero diversi.

[1] https://www.lecourrierdelatlas.com/tunisie-mobilisation-pour-la-liberation-de-six-pecheurs-detenus-en-italie-20566

[2] http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/tunisia-la-protesta-dei-pescatori-blocca-la-nave-nera-anti-migranti_3087931-201702a.shtml

[3] Dal rapporto dell’UNHCR: l’evoluzione del trend di mortalità durante le traversate è da 1/38 nella prima metà del 2017 a 1/19 nello stesso periodo del 2018, con un picco di 1/9 nel mese di giugno 2019. https://www.unhcr.it/news/calo-degli-arrivi-aumento-dei-tassi-mortalita-nel-mar-mediterraneo-lunhcr-chiede-un-rafforzamento-delle-operazioni-ricerca-soccorso.html

Migranti: il riaffiorare del fiume carsico delle politiche eliminazioniste occidentali

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un testo denso , che mette a tema la politica eliminazionista dei migranti in atto nell’odierna Europa. Un testo che a nostro parere  merita di essere letto con calma e discusso. Contiene infatti una riflessione storica e politica complessiva sulle politiche e sui dispositivi che  governano il fenomeno delle migrazioni verso l’Europa di questi ultimi quindici anni.

L’autore del testo che segue, un uomo con una storia importante e particolare [1], oggi membro del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos [2], non esita a definire queste ultime come “politiche eliminazioniste”. Non è bello ma è reale: se vogliamo riferirci all’agghiacciante conta delle persone decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo le stime ci parlano di oltre 30000 morti, una media di 6  morti al giorno, dal 2003 a oggi. A questo numero vanno aggiunti coloro che sono morti nel tentativo di attraversare le frontiere interne dell’Europa: Ventimiglia, per esempio, ha visto tante donne e uomini fulminati sui treni, nascosti nelle cabine elettriche dei convogli, caduti dalle scarpate nel tentativo di passare la frontiera attraverso i sentieri montani, investiti dalle auto in corsa mentre camminavano sul ciglio della strada che congiunge l’Italia alla Francia. E poi i morti lungo la rotta balcanica, e poi tutti gli scomparsi nel nulla lungo le rotte migratorie africane, nei lager in Libia, in Niger… i cui corpi e le cui identità si sono perse nell’oblio di questa violenza inaudita. E’ un testo importante quello che segue, perché arendtianamente prova a “comprendere” senza giustificare, ossia ripercorre l’attualità sulla scorta della riflessione storica e dell’analisi politica, e propone una verità che molto pochi in Europa oggi sono disposti ad ammettere e cioè che ciò a cui stiamo assistendo non è diverso, per quanto riguarda i modi e le finalità delle politiche governamentali, dalla politica di sterminio nazista o da quella della desaparicion applicata in Argentina tra il ’76 e l’ ’83 sotto il regime della giunta militare di Videla.
E’ un testo  che ci chiama in causa tutti, chiama in causa la nostra responsabilità di fronte alla storia di cui siamo attori e non semplici spettatori; ci parla della necessità di ripoliticizzare quella parte di società cui apparteniamo e che oggi è preda dell’alienazione mediatica e politica che le classi dominanti impongono. Molte sono gli stimoli che un testo di questo tipo propone, molte anche le questioni discutibili. Non su tutto ovviamente ci troviamo d’accordo. Ma come lettrici e lettori ci sentiamo chiamat* non solo a riflettervi ma a trovare le vie per una risposta collettiva, la cui mancanza determina che i numeri di questo massacro, quotidiano e irreversibile, continuino ad aumentare. Numeri dietro ai quali ci sono le vite di esseri umani.

Situazione attuale dei flussi migratori sotto il profilo dei Diritti Umani

L’Assemblea del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos ci offre l’occasione per fare il punto sulla catastrofe umanitaria in corso sotto i nostri occhi, senza che l’opinione pubblica  – vittima di una sindrome da “Lettera rubata “ collettiva – riesca a vederla e tanto meno a tentare di porvi rimedio.

Si tratta di riflessioni dettate da un senso di estrema urgenza, nella speranza di incoraggiare un dibattito  sulle possibili vie da seguire per porre finalmente fine allo stillicidio quotidiano di morti che da troppo ormai ci accompagna e che non possono essere considerate casuali.

Nel tentativo di leggere il problema, occorre premettere che è possibile inquadrare quanto sta accadendo oggi intorno a noi come il riapparire del fiume carsico delle politiche eliminazioniste proprie del mondo occidentale, come la Soluzione finale o quanto accaduto in Argentina sotto la dittatura militare, avvenimenti che ben poco hanno a che vedere, nelle modalità di esecuzione, con quanto portato a termine in Cambogia dai Khmer Rossi, nel Cile di Pinochet, o negli anni ’90 in Ruanda, o con lo stesso genocidio degli armeni, emblematico della capacità di uccidere un gruppo etnico a partire dai primi del ‘900.

Per quanto riguarda la Soluzione finale, appare interessante richiamare l’interrogativo posto dall’indifferenza dell’opinione pubblica nei Paesi occupati dal nazifascismo,  nei confronti della sorte riservata agli ebrei. Possibili spiegazioni hanno a che vedere con il fatto che si trattava di una minoranza transnazionale che mai si era piegata al cristianesimo, vissuta come diversa dalla maggioranza delle popolazioni nell’affermarsi di un sempre più forte nazionalismo identitario, quindi bollabile come Altro in tutti gli Stati europei.

A ciò va aggiunto il segreto con cui era stato custodito tutto quanto riguardava la Soluzione finale, dalla sua ideazione alle decisioni adottate per implementarla, il silenzio stampa che ne conseguiva, l’enormità di quanto programmato che lo rendeva impensabile e quindi negabile, l’inesistenza di un reato che ne prevedesse la fattispecie.

Risultava da tutto ciò nell’opinione pubblica, consapevole di essere tagliata fuori dagli arcana imperii, una diffusa acquiescenza  e, nelle alte sfere, la convinzione dell’impunità che avrebbe accompagnato la vittoria dell’Asse nella II guerra mondiale, su cui tutto si giocava.

Ciò tuttavia non spiega come mai i nuclei rurali che convivevano con i campi di sterminio – e quindi con  i reticolati e il filo spinato, la sorveglianza da parte delle SS con cani inferociti, il fumo dal crematorio con il pungente odore che lo accompagnava –  potessero dirsi e dire di non sapere quello che in quei luoghi veniva portato a termine. Come se, al di fuori dalla logica aristotelica, l’uomo potesse allo stesso tempo sapere e non sapere, o per meglio dire sapere e negare a se stesso di sapere, specie in una situazione di diffuso terrore e nel silenzio dei media che plasmano l’opinione pubblica.

Il ruolo dei media è centrale. Negli anni ’70 del secolo scorso, l’affermarsi della televisione nel mondo occidentale appare mettere in crisi la possibilità stessa del ricorso all’uso della forza da parte dei governi. Due esempi sono emblematici: primo, l’esito finale della guerra in Vietnam, che vede la superpotenza occidentale piegarsi di fronte alla capacità di resistenza di un piccolo stato asiatico, data l’indignata mobilitazione con cui l’opinione pubblica occidentale rispondeva alle atrocità commesse da parte americana, che immagini televisive da giornalisti non embedded rendevano indimenticabili, allora come oggi. Secondo, quanto accade l’11 settembre 1973  a Santiago del Cile, dove i militari decidono di utilizzare la televisione per confrontare la popolazione con la percezione immediata della violenza di cui sono capaci, in modo da soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione armata. In effetti, il bombardamento del palazzo presidenziale con la tragica morte del Presidente Allende, i carri armati nelle strade della capitale, i combattimenti contro le poche sacche di resistenza ben presto travolte, lo stadio pieno di detenuti torturati e passati per le armi, le ambasciate stesse invase da disperati alla ricerca di una qualunque via di fuga,  spazzano via, a livello interno, qualunque tentativo di lotta armata. Ma, a livello internazionale, provocano un’unanime ondata di indignazione e condanna da parte dell’opinione pubblica occidentale che non accetta né la violenza né la violazione delle più elementari prassi democratiche. In tal modo, Pinochet s’impadronisce del potere, ma a livello internazionale resta condannato all’ostracismo come un vescovo lebbroso.

Si sarebbe detto insomma in quegli anni che la televisione con la sua pervasività e la capacità di scatenare reazioni improntate al senso di etica politica prevalente nelle masse occidentali, avrebbe d’allora in poi vanificato i tentativi degli Stati di fare ricorso alla violenza.

Tre anni dopo, i militari argentini dimostrano che tutto il contrario è analogamente possibile,  purché si riesca a formulare strategie eliminazioniste che, da una parte, tengano buona la popolazione, dall’altra non attirino l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale.

Il ricorso alla desaparición soddisfa entrambe queste esigenze e permette la decimazione , nei suoi elementi migliori, di   una generazione di giovani impegnati e generosi, destinati a diventare la classe dirigente del futuro e decisi a portare avanti un progetto di giustizia sociale e democratica inconciliabile con il neoliberismo  che, dopo il Cile, si voleva a quel punto imporre all’Argentina. La politica ufficiale li bollava come sovversivi che avevano spinto il Paese sull’orlo del caos,  la gerarchia ecclesiastica cattolica non esitava a definirli come cancro da estirpare dal corpo sociale, la maggioranza silenziosa appariva timorosa dell’esito che avrebbe potuto avere una fuga in avanti.

In estrema sintesi, è possibile affermare che in un sistema di informazione ormai prevalentemente televisivo o iconografico, si dà per scontato che tutto quanto accade viene rappresentato e che quanto non è rappresentato non accade. Anche in questo caso, poi, l’enormità della desaparición di massa la rendeva impensabile, come lo era stata la Soluzione finale, non soltanto in quanto ancora non prevista come crimine e quindi non riconosciuta dal sistema giuridico,  ma soprattutto in quanto non rientrante nelle categorie storicamente stratificate nella mente umana o nel cosiddetto inconscio collettivo.

Dalla mancata rappresentazione dei cadaveri conseguiva che non c’erano morti e la speranza di ritrovare in vita il giovane improvvisamente scomparso  smorzava qualunque tentativo di rivolta da parte dei familiari, che d’altronde venivano emarginati dalla maggioranza dei non direttamente colpiti. Qualcosa di analogo appariva a livello internazionale, dove la mancanza di immagini di violenza e di morte impediva all’opinione pubblica, ancora focalizzata sul caso cileno, di intuire e mobilizzarsi contro la ben più vasta caccia all’uomo in corso in Argentina.

I militari argentini avevano capito che nel sistema di informazione mediatica  prevalente, esisteva un cono d’ombra in cui poter agire con le mani libere dai lacci e laccioli dei sistemi democratici, sempre che si potesse fare affidamento sul silenzio dei media e su complicità o almeno acquiescenza a livello internazionale.

Gli Stati non potevano non sapere, ovviamente, attraverso le loro ambasciate a Buenos Aires. Ma, più che la tanto sbandierata tutela dei diritti umani,  a contare era la convinzione che l’opinione pubblica occidentale non si sarebbe potuta mobilitare per qualcosa che ignorava.

Soprattutto, erano i parametri della Realpolitik – vale a dire la politica estera tesa a perseguire gli interessi nazionali in materia economica, geostrategica e di stabilità interna, come interpretati dalla classe dirigente di ogni Paese – a guidare il procedere degli Stati, anche democratici, al di fuori di qualunque considerazione etica.

Prima di arrivare alla contemporaneità, tentiamo di evidenziare adesso i punti in comune tra Shoah e desaparición.

Malgrado la prima sia emblematica del genocidio e la seconda rientri, piuttosto, nella fattispecie del politicidio, entrambe sono manifestazioni delle politiche eliminazioniste, che anche i Governi occidentali ritengono di poter attuare, quando ne ravvisano la convenienza e si sentono ragionevolmente sicuri dell’impunità.

Sia pure maturate  nell’ambito di sistemi totalitari, entrambe le tecniche di eliminazione di massa appaiono far affidamento sull’inerzia dell’opinione pubblica a partire dai seguenti fattori:  il segreto e il silenzio stampa o comunque l’inadeguatezza di quest’ultima a dar conto di quanto sta accadendo;  il carattere di minoranza e/o differenziabilità del gruppo preso di mira che non sembra mettere in pericolo il quieto vivere della maggioranza silenziosa;  quella che abbiamo definito l’impensabilità di entrambi i progetti, che non sono all’epoca neanche previsti come crimine, e l’indimostrabilità della loro attuazione mentre la stessa è in corso; la progressiva diffusione del pregiudizio contro gli integranti del gruppo fino alla loro etichettatura come subumani;  l’adozione di leggi discriminatorie e/o razziali;   la criminalizzazione di coloro che cercano di proteggere il gruppo preso di mira;   la responsabilizzazione del gruppo stesso per una congiuntura particolarmente difficile.

Le atrocità attuate dai militari argentini diventano di pubblico dominio alla caduta della dittatura, nel 1983. La relazione finale della commissione nazionale argentina per le persone scomparse (CONADEP) , istituita al ritorno della democrazia, verrà intitolata “Nunca Màs” , a significare che mai più l’umanità dovrà permettere il ripetersi di simili pratiche . Il governo argentino, insieme a quello francese, darà vita in ambito Nazioni Unite alla Convenzione Internazionale Contro la Sparizione Forzata delle Persone, ma la desaparición non sparirà.

Nel dopo guerra fredda, quello che Bush Senior definisce Nuovo Ordine Mondiale sarà caratterizzato dall’asimmetria scientifico/tecnologica, in primo luogo, ma quindi anche militare, economica e culturale, tra un Occidente che si ricompatta e allarga intorno all’iperpotenza sopravvissuta e il resto del mondo. La guerra torna a essere uno strumento praticabile e praticato, anche da parte di Stati la cui costituzione la ripudia. L’ ideologia della non ideologia neoliberista antepone l’economia alla politica e all’etica, valuta le masse come materiale per la produzione, l’individuo in quanto consumatore – che è l’altra faccia della sua attività lavorativa –  e non in quanto titolare di diritti umani. Più che di globalizzazione sarebbe il caso di parlare di neocolonialismo globale.

L’Occidente continua a vivere confortabilmente la sua età del petrolio, peraltro non suo. L’accaparramento delle risorse, specie energetiche, dei paesi che non si dimostrano in grado di difendere la propria sovranità, permette il mantenimento di livelli di vita e di spreco cui si accompagnano nel resto del mondo sfruttamento della mano d’opera e miseria endemica, disastri ecologici, guerre che sono il mercato necessario per le  nostre industrie e tentativi di proliferazione nucleare,  dittature e Stati falliti, Stati canaglia e vaganti transnazionalità  criminal/terroristiche di origine incerto, capaci di conquistarsi milioni di followers  mostrando nel web cruenti rituali da Medio Evo prossimo venturo.  Ma l’arrivo di nuovi giocatori non deve ingannarci: è il ritorno del Great Game su scala globale, in cui l’Occidente tutto insieme prende il posto dell’Impero Britannico e ancora una volta cerca di ridisegnare Medio Oriente ed Africa a proprio vantaggio, prima che la Russia post sovietica ritrovi il ruolo di superpotenza, che a sua volta la Cina si appresta a svolgere.  Ed è un mondo di cui le masse di migranti e richiedenti asilo sono il portato strutturale, ma non per questo ben visti, anzi spesso non visti per niente,  nella valanga d’informazione dal sistema mediatico, che diventa martellante intrattenimento e baluginante cacofonia autoreferenziale, tutto equiparando in un messaggio subliminale di irresponsabilità, apatia e acquiescenza.

E’ un fatto che dai primi anni 2000 Unione europea e NATO hanno incluso tra i pericoli da affrontare gli effetti destabilizzanti che possono derivare da un arrivo in  massa di migranti e richiedenti asilo, anche se provenienti da  scenari di guerra,  alla pari con il terrorismo e l’interruzione dei flussi energetici, la proliferazione nucleare e la cyber war, ecc. Si tratta, sia detto tra parentesi,  di  contraccolpi  destabilizzanti che  possono aver luogo soltanto in un contesto neoliberista di drastica e costante riduzione della spesa pubblica, quale quello che stiamo vivendo. Basterebbe cambiare le politiche di bilancio per smorzare IL contraccolpo e contrastare  sul nascere le guerre tra poveri.

Resta che, quando l’area economica più ricca  e l’alleanza militare più forte al mondo definiscono come destabilizzante un gruppo umano, quest’ultimo non potrà che diventare bersaglio di politiche di deterrenza.

Sia chiaro, gli Stati hanno  il diritto/dovere di difendere frontiere, coste e acque territoriali, specie in congiunture come quella attuale, caratterizzata da venti di guerra in Medio Oriente e ai confini dell’ex Unione Sovietica,  così come hanno  il diritto di dotarsi di  leggi finalizzate al controllo dell’immigrazione e quello di stabilire accordi bilaterali con paesi di dubbia democraticità.

Da un punto di vista formale, senza entrare nel merito dei singoli contenuti, ciascuna di queste attività normative o pattizie è lecita. Il problema sta nelle ricadute che il combinato disposto di tali attività comporta sui non cittadini, che, sia in quanto richiedenti asilo che in quanto migranti, hanno pur sempre titolo al rispetto dei loro diritti fondamentali e, in primis, del diritto alla vita.  Stiamo parlando dell’operato – anche omissivo – degli Stati europei, della stessa Unione Europea e della stessa NATO, da una parte, degli Stati  africani di attraversamento, dall’altra. E più precisamente degli accordi di Malta (novembre 2015), del patto con la Turchia (marzo 2016), dell’accordo ricatto  con l’Afghanistan (ottobre 2016), del memorandum con la Libia (febbraio 2017),  dei Processi di Rabat e  di Khartoum, che altro non sono che alleanze finalizzate a garantire  sostegno finanziario e militare a regimi non democratici, corrotti e dittatoriali, IN cambio dell’intensificarsi da parte loro della persecuzione ai potenziali “clandestini”, che tentano di arrivare al Mediterraneo. Si sta mettendo a punto un sistema concentrazionario,  sparpagliato ma rispondente a un disegno unitario, in tutto l’enorme bacino africano e mediorientale che fa capo al Mediterraneo, nel quale le torture, i massacri, i trattamenti inumani e degradanti sono da tempo all’ordine del giorno e che se non bloccato  potrebbe diventare  il più complesso sistema eliminazionista della storia dell’umanità.

Lo sbarramento di ogni via d’uscita legale riduce  questi disperati a res nullius , non diversamente dagli ebrei nell’Europa occupata dai nazifascisti o dei desaparecidos nelle mani dei militari argentini, mettendoli  alla mercé dei Diavoli a  cavallo che, dopo essersi macchiati di genocidio in Sud Sudan, adesso sono stati arruolati dal governo sudanese per dar loro la caccia, o delle bande che in Libia li sottopongono a tortura, stupri, lavori forzati o esecuzioni extragiudiziali, vendita come schiavi  o  espianto di organi,  e  infine  in mano agli scafisti, se e quando riescono ad arrivare al Mediterraneo.  Anzi è tutto questo a produrre il lavoro sporco degli scafisti, che tra l’altro finisce per finanziare il terrorismo e altro non è che il sintomo di un’immensa tragedia umanitaria scientemente provocata a monte.

Ma non basta. Non possiamo non dirci che è estremamente improbabile che un barcone possa sfuggire ai controlli incrociati continuamente in atto da parte di aerei,  droni, satelliti, elicotteri, sofisticate apparecchiature radar , ecc. e che lo stesso accada per i gruppi che si avventurano nella traversata del deserto nella speranza di raggiungere  il Mediterraneo o vi sono costretti in direzione contraria, dopo il respingimento. Non mancano testimonianze ad avvalorare l’ipotesi  che i medesimi vengano inquadrati, seguiti fin dall’inizio e lasciati a percorrere fino in fondo il loro calvario,  nell’ambito di una strategia di deterrenza finalizzata a minimizzarne il numero, nell’impossibilità di sradicare del tutto il fenomeno. Non mancano testimonianze su gravissime omissioni di soccorso che di certo costituiscono un illecito internazionale.

Ma loro continuano a tentare di arrivare perché privi di alternative, in fuga come sono da crisi  troppo spesso da noi stessi provocate. E allora,  ecco che le frontiere vengono spinte sempre più in là, oltre la Libia stessa, in Niger adesso,  fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro respingimento,  invisibili perché dispersi nel nulla mediatico,  quindi impensabili e alla fine inesistenti perché quod non est in actis, non est in mundo. E si tenta di criminalizzare  le ONG che accorrono a soccorrere i barconi in pericolo di naufragio, affinché il massacro possa andare avanti senza ostacoli e senza testimoni scomodi.

Sistematicamente respinti nell’invisibilità, sono i desaparecidos nell’Europa di oggi, perché, dobbiamo ripeterlo,  la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel cono d’ombra reso possibile da  qualunque sistema mediatico, anche l’attuale, in cui l’iconografia televisiva si somma ai lati oscuramente manipolatori di Internet,  come lo scandalo Facebook da ultimo dimostra,  in maniera che  l’opinione pubblica non riesca a prenderne la dovuta consapevolezza, o possa almeno dire di non sapere,  come successo sia nella Germania nazista che nell’Argentina dei militari.  Permettete che lo dica: tutto questo ricorda la normalità apparente e in realtà spietata che vedevo intorno a me nel centro di Buenos Aires, in mezzo alla tragedia umanitaria scatenata dai militari argentini.

Come nel caso della Shoah e dei Desaparecidos, ci troviamo di nuovo confrontati a un crimine senza nome, che il Diritto Internazionale penale fatica a riconoscere e non può al momento perseguire. E’ la cifra stessa dei morti, 30mila circa dai primi anni 2000 ad oggi, a dimostrare, a mio avviso, che siamo ancora una volta di fronte a un crimine di lesa umanità.

Eppure, qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi tempi, la Corte europea dei Diritti Umani ha scritto al Ministro italiano dell’Interno a proposito dei respingimenti in Libia, che nell’ottobre 2017 una sentenza della Corte d’Assise di Milano ha dichiarato illegittimi, per via delle atrocità cui i migranti vi vengono sottoposti, il Tribunale Permanente dei Popoli nella sua sentenza del dicembre 2017 a Palermo ha ritenuto di poter affermare l’esistenza di un popolo migrante, cui sono applicabili le norme a tutela dei diritti umani previste dal diritto internazionale. E quanto più dà speranza forse sono i giovani che accorrono a frotte nelle isole greche, riscoprono i sentieri della resistenza contro il nazifascismo ai confini interni all’Ue, si sottopongono a persecuzioni giudiziarie in nome della dignità e della solidarietà, rischiano anche la vita nelle acque internazionali per salvare i disperati sui barconi che affondano. La stessa procura di Roma ha dovuto avviare pur con tutti i limiti possibili immaginabili, un procedimento penale contro i responsabili del ritardo di 5 ore con cui l’11 ottobre 2013 la nave della Marina Militare italiana Libra  è arrivata a soccorrere le vittime di un naufragio nelle acque internazionali delle stretto di Sicilia, causando l’annegamento di 140 persone circa, di cui 60 minori. E’ il cosiddetto naufragio dei bambini, che non sembra peraltro aver suscitato nell’ ondivaga opinione pubblica, oggi sostanzialmente apatica se non ostile,  la contagiosa commozione scatenata dalla foto di un bambino annegato sulla spiaggia turca, fatta rimbalzare, questa sì, per giorni e giorni, sulle televisioni di tutto il mondo.

Le analogie tra quanto sta accadendo oggi – o per meglio dire si sta facendo, perché di un fare si tratta – e quanto accaduto sia nell’Europa occupata dal nazifascismo che nell’Argentina dei militari sono evidenti:
dalle crescenti manifestazioni di intolleranza, xenofobia e razzismo, incoraggiate nell’elettorato e quindi nell’opinione pubblica, da partiti e politici a caccia di consenso, a leggi razziali, come quella che toglie un grado di giudizio nei procedimenti per ottenere lo status di rifugiato, dal segreto sul contenuto degli accordi con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo,  al ricorso alla logica economica a giustificazione dell’asserita impossibilità di salvare e accogliere tutti, da quel siete troppi, mantra continuamente ripetuto e addirittura pubblicamente sfuggito come un lapsus alla stessa Cancelliera Merkel, alla visibilità negata ai morti in mare, ridotti a cifre non dissimili da quelle stampate a fuoco sulle braccia degli internati nei campi di sterminio, in un astratto presente numerico che cancella le migliaia di storie umane travolte, alla già citata criminalizzazione delle ONG che tentano di salvare vite umane nel Mediterraneo, non dissimile da quanto accaduto in Argentina ai pochi avvocati che osarono difendere i diritti umani dei detenuti politici.

Ma più che continuare ad enumerare similitudini,  è il senso di urgenza di fronte alla catastrofe umanitaria oggi in corso intorno a noi a causa delle politiche dell’Unione Europea, della NATO e degli Stati membri che occorre evidenziare, nella speranza di sollecitare un dibattito che possa contribuire a cercare il modo di porre fine al massacro in corso,  portando a giudizio i responsabili individuali e politici di quanto sta accadendo.

Enrico Calamai

[1] http://www.famigliacristiana.it/articolo/enrico-calamai-lo-schindler-dell-argentina.aspx

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/enrico-calamai/774/default.aspx

[2] http://nuovidesaparecidos.net/

 

 

Functional training del perfetto migrante

Functional training del perfetto migrante“, un lavoro di Ale (Senza arti nè parti) per Parole sul confine

 

La retorica del nuovo come del vecchio razzismo si ammanta di stereotipi, pregiudizi e banalizzazioni. Desiderio e bisogno di migliorare le proprie condizioni di vita sia materiali che immateriali, sono considerati illegittimi per i migranti che cercano di raggiungere l’Europa.

Per riuscire a chiudere la porta in faccia proprio a tutti si è arrivati a mettere in dubbio i bisogni primari dell’essere umano come sfuggire da fame, guerre, dittature e povertà, figuriamoci il desiderio di studiare o migliorare la propria situazione economica. La persona migrante deve portare sul proprio corpo segni visibili della sua sofferenza che ce ne possano far provare compassione, ogni altro suo aspetto di individuo è irrilevante.

Il lavoro che Ale ha regalato a Parole sul confine si fa beffe del discorso razzista, che sminuisce, appiattisce, spersonalizza. Allo stesso tempo mette in luce i pregiudizi di chi prova a controbattervi negli stessi termini, producendo solo altri stereotipi.

 

Il materiale è distribuito con Licenza Creative Commons

Verso la militarizzazione del Mediterraneo

Dalla “securizzazione” delle città come Ventimiglia, allo spiegamento di forze militari in mare. Italia, UE e Nato affrontano con mezzi militari “la crisi dei rifugiati”, prendendo il controllo del Mediterraneo.

 

Fonte: Sito web Parlamento del Regno Unito, Rapporto su Operation Sophia del maggio 2016 https://publications.parliament.uk/pa/ld201516/ldselect/ldeucom/144/14407.html

Il 28 luglio 2017, con delibera del Consiglio dei ministri, il governo italiano ha dato il via ad una nuova missione militare nel sud del Mediterraneo, questa volta all’interno delle acque territoriali libiche.

L’Italia è infatti già militarmente presente nel Mediterraneo. E’ alla guida dell’operazione europea EUNAVFOR MED dal 2015, partecipa alla missione Nato Operation Sea Guardian dal 2011 (prima con il nome di Operation Active Endeavour) ed è attualmente impegnata nelle operazioni Frontex Triton, Poseidon (mar Egeo) e Indalo.

La nuova missione, che si basa su di un accordo tra il primo ministro italiano Gentiloni e Fayez al Sarraj, premier del Governo di Accordo Nazionale (GNA), voluto dalle Nazioni Unite, consente alle navi italiane di entrare nelle acque territoriali libiche. Il fatto che Al Serraj, dopo aver smentito che accordi prevedessero tanto (2) , sia stato contraddetto dal suo stesso ministro degli esteri (3) e infine superato dal generale Haftar che il 2 agosto ha ordinato alla guardia costiera di attaccare qualsiasi nave militare entrasse nelle acque nazionali senza l’autorizzazione dell’esercito (4) , è solo un indizio di quello che è già stato denominato “il pantano libico”.

Il governo di Al Serraj, con sede a Tripoli, controlla solo un terzo del territorio libico, l’altro governo, con sede a Tobruk sostiene il generale Khalifa Haftar, capo del Esercito Nazionale Libico (LNA) che controlla la Libia orientale. Oltre ai governi di Tripoli e Tobruk sul territorio libico operano Daesh, le milizie islamiche, Fajr, la Brigata Battar, gli Islamici di Ansar al Sharia, gli uomini del Consiglio rivoluzionario, Ali Qiem Al Garga’i, emissari di al-Baghdadi, i Fratelli musulmani di Al Sahib, gli ex membri del Gruppo combattente libico pro al Qaeda, Omar al Hassi, i mujaheddin del Wilayat Trabulus, le milizie di Zintan, 200 altre organizzazioni e oltre un centinaio tribù.(5)

Fonte: Al Jazeera English

Gli obbiettivi della missione navale e le similitudini con EUNAVFOR MED

“La missione ha l’obiettivo di fornire supporto per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani, con compiti che si aggiungono a quelli già svolti per la sorveglianza e la sicurezza nell’area del Mediterraneo centrale” (6), è quanto si legge nel Comunicato stampa relativo alla riunione del Consiglio dei ministri del 28 luglio.

L’obiettivo risulta molto simile al principale mandato di EUNAVFOR MED, alias Operation Sophia, la missione navale europea a guida italiana attiva nel Sud del Mediterraneo dal 22 giugno 2015. Questo consiste infatti nell’ “intraprendere sforzi sistematici per identificare, acquisire e disporre delle imbarcazioni e dei mezzi utilizzati, o sospettati di esserlo, dai contrabbandieri o trafficanti di migranti, al fine di contribuire ai più ampi sforzi dell’UE per interrompere il modello di business delle reti di contrabbando e tratta di esseri umani nell’area centro-meridionale del Mediterraneo e prevenire l’ulteriore perdita di vite umane in mare.” (7)

Secondo diverse analisi (8) tuttavia EUNAVFOR MED non si è neppure avvicinata al suo obiettivo e questo nonostante dal settembre 2016 sia impegnata anche in operazioni all’interno delle acque territoriali libiche per l’addestramento di Guardia costiera e marina militare.

Due diversi report del parlamento del Regno Unito, che partecipa alla missione. hanno messo in luce le criticità legate all’operazione militare. Nel resoconto del maggio 2016 si legge “gli arresti effettuati riguardano target di basso livello e la distruzione delle imbarcazioni ha semplicemente spinto i trafficanti a utilizzare canotti di gomma, che sono ancora più insicuri delle imbarcazioni di legno.” (9) A questo proposito vale la pena notare come l’adozione di imbarcazioni meno sicure da parte dei trafficanti sia stata addebitata in Italia al “pull factor” (fattore di attrazione) che avrebbero costituito le operazioni di ricerca e soccorso effettuate da diverse ONG nel Mediterraneo (10).

Il nuovo report del 12 luglio 2017 infine definisce Operation Sophia una missione fallita e individua tra le cause la mancanza di un governo unificato con cui contrastare il traffico di essere umani che avviene in territorio libico (11) . Secondo il resoconto la missione non dovrebbe essere rinnovata dal momento che “il traffico comincia sulla terra ferma, una missione navale rappresenta quindi lo strumento sbagliato per affrontare questo business pericoloso, inumano e senza scrupoli. Nel momento in cui le navi iniziano la navigazione è troppo tardi.” Sono infatti ormai anni che i trafficanti non si trovano più a bordo delle imbarcazioni che trasportano i migranti e nessuno dei punti di partenza delle stesse, Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzue, Tagiura e Tarabuli, si trova sotto il controllo del governo di Serraj (12).

Anche la marina militare libica ha mosso pesanti accuse alla missione europea. Nel maggio 2016 il suo portavoce Ayoub Qasim, ha dichiarato che essa non aveva ancora aiutato la guardia costiera libica nel controllo delle acque territoriali, denunciandone anche la passività nei casi di traffico di petrolio da parte di imbarcazioni che poi facevano rotta verso l’Europa (13). Nell’agosto dello stesso anno, Qasim ha poi accusato Operation Sophia di essere mera propaganda e di consentire il traffico di carburante e delle altre risorse libiche, oltre a non fermare i trafficanti (14).

Nonostante questo il 25 luglio 2017 il Consiglio Europeo ha esteso il mandato di EUNAVFOR MED al 31 dicembre 2018.

Sia la missione europea che quella italiana condividono l’obbiettivo del contrasto al traffico di esseri umani, così come le scarse possibilità di realizzarlo. Entrambe scaturiscono inoltre dall’approccio che sta andando per la maggiore tra i governi europei: la migrazione è una minaccia alla sicurezza e va affrontata con mezzi militari  (15).

A livello dei singoli stati, questa politica si è concretizzata in muri, blocchi delle frontiere, militarizzazione delle città e trasferimenti coatti, mentre a livello sovranazionale si è tradotta nel rafforzamento delle operazioni di Frontex, con l’aumento delle risorse finanziarie e l’estensione della loro area d’intervento (16), e nell’istituzione della missione navale europea EUNAVFOR MED.

Perfettamente coerente con questa logica risulta anche la criminalizzazione delle ONG impegnate in azioni di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo (17), che hanno svolto nel 2017, il 35% delle azioni di soccorso in mare. L’imposizione del codice di condotta, volto a limitarne l’operatività, è stato infatti imposto indiscriminatamente a tutte le organizzazioni, nonostante la maggioranza di esse non destasse sospetti riguardo a contatti con i trafficanti o all’ingresso nelle acque libiche.

Il contrasto dell’immigrazione illegale, che la missione navale italiana antepone al traffico di essere umani, ha come unico target realizzabile i migranti stessi. Per quanto cerchi di trovare legittimazione nel nobile scopo di salvare vite umane dalla morte in mare, appare sorda e cieca se quelle stesse vite si perdono in centri di detenzione in Libia, lontano dagli occhi di testimoni diretti e miopi giornalisti nostrani.

L’area coperta dalle missioni militari a cui si aggiunge quella italiana e l’interdizione de facto all’ingresso delle organizzazione non governative nelle zone limitrofe alle acque territoriali libiche, delinea uno scenario, o meglio un teatro delle operazioni, esclusivamente militare in cui, se si escludono i mercantili di passaggio, gli unici civili sono i migranti.

Ma nel Mar Mediterraneo, ufficialmente, non c’è nessuna guerra.

Grage

 

 

1 http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/07/28/cdm-vara-missione-italiana-in-libia-navi-aerei-700-militari-_82cfdb5f-f546-4cd0-91f1-315fcee5b703.html
2 http://www.corriere.it/politica/17_luglio_28/missione-libia-maggioranza-variabile-si-fi-dubbi-mdp-b6dbdb68-7304-11e7-be4a-3ab7f672a608.shtml
3 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-28/si-cdm-missione-libia-gentiloni-e-supporto-non-enorme-invio-flotte-e-aerei–131931.shtml?uuid=AEWZOK5B
4 http://www.bbc.com/news/world-africa-40812304
5 http://www.huffingtonpost.it/2017/07/28/tutti-i-rischi-delle-navi-italiane-nel-pantano-libico_a_23054388/
6 Comunicato stampa del Consiglio dei ministri n°40 del 28/07/2017 http://www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-40/7891
7 https://eeas.europa.eu/csdp-missions-operations/eunavfor-med/36/about-eunavfor-med-operation-sophia_en
8 Centre for European Political Studies: https://www.ceps.eu/system/files/Thrust%20to%20CSDP%20S%20Blockmans%20CEPS%20Special%20Report.pdf
State Watch: http://www.statewatch.org/analyses/no-302-operation-sophia-deterrent-effect.pdf
9 https://publications.parliament.uk/pa/ld201516/ldselect/ldeucom
/144/14402.htm
10 http://www.valigiablu.it/ong-migranti-trafficanti-inchieste/
11 https://www.parliament.uk/business/committees/committees-a-z/lords-select/eu-external-affairs-subcommittee/news-parliament-2017/operation-sophia-follow-up-publication/
12 http://www.huffingtonpost.it/2017/07/28/tutti-i-rischi-delle-navi-italiane-nel-pantano-libico_a_23054388/
13 http://www.libyanexpress.com/libyan-navy-force-eu-naval-mission-looks-away-from-oil-smuggling-ships/
14 http://www.libyaobserver.ly/news/navy-spokesman-operation-sophia-propaganda-italy-wants-have-more-time-continue-stealing-libya%E2%80%99s
15 https://www.iss.europa.eu/content/operation-sophia-tackling-refugee-crisis-military-means
16 http://europa.eu/rapid/press-release_IP-15-4813_en.htm
17 http://www.a-dif.org/2017/03/09/perche-danno-fastidio-le-ong-che-salvano-i-migranti-in-mare/

Poesie dal confine: coriandoli di mondo

 

Poesie dal confine: coriandoli di mondo

Riceviamo da un lettore e volentieri pubblichiamo.

 

Coriandoli di mondo

Come pastore in transumanza
scollino su un ennesimo sentiero
nella mano destra un sacchetto di nostalgia
nella sinistra il coraggio
ben stretto dentro il pugno

Ho imparato a temere il mare
la sua bellezza la lascio allo sguardo dei pescatori
alle sfumature dell’acquamarina
all’ossido sui vostri passamano

Scivolando verso i lussureggianti giardini di Mentone
mi imbatto in scogli affioranti
scogli di plexiglas e manganelli

Rinchiuso e respinto.
Barca alla deriva
torturata dalla risacca
stuprata dal maestrale
soffocata d’olio di ricino

Rigettato a sud.
Rifiuto tossico
pronto ad essere interrato dal caporalato
più a Sud della terra dei fuochi
al riparo dagli occhi dell’italica brava gente

Ritornerò
ritorneremo
come il poeta aspetta la sua musa
noi aspetteremo la prossima fase lunare
saliremo con l’alta marea

Nuoterete nelle nostre anime
vi specchierete nelle nostre coscienze
ci asciugheremo lacrime a vicenda.

Quando la marea cesserà d’abbracciarci
resteremo soltanto noi
coriandoli di mondo
ballerini di carta innamorati del vento

 

Alessandro Fanari

Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti e il rispetto dei diritti umani dei migranti

Genova 8 settembre 2017. Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti è alla Festa dell’Unità per un incontro pubblico, che non prevede domande da parte dell’audience.

L’intervista, condotta da Carlo Rognoni è iniziata con il resoconto del ritratto che di lei ha fatto il Giornale, chiosato poi dalla compiaciuta constatazione che questo non sia certo un giornale di sinistra. Svariati poi i temi toccati dal Ministro, dal rilancio della città tramite accordi tra Ministero della Difesa, Facoltà di Ingegneria navale e Fincantieri per la costruzioni di navi (militari, ma non è bello dirlo), al nuovo modello di difesa europeo, passando velocemente anche per la Libia e la questione dei migranti. A questo proposito il Ministro ha sottolineato il buon risultato prodotto dall’esecutivo, l’86% in meno di sbarchi a luglio, ed ha tenuto a precisare che la difesa dei diritti umani dei migranti è una priorità per il governo.

Grage

Per approfondimenti: 

L’inchiesta dell’Associated Press,  alcune delle testate che l’hanno ripresa o ne hanno condotto di simili

www.apnews.com/9e808574a4d04eb38fa8c688d110a23d

www.nytimes.com/2017/09/17/world/europe/italy-libya-migrant-crisis.html

www.reuters.com/article/us-europe-migrants-libya-italy-exclusive/exclusive-armed-group-stopping-migrant-boats-leaving-libya-idUSKCN1B11XC

www.businessinsider.com/ap-the-latest-italy-makes-deals-in-libya-to-halt-trafficking-2017-9?IR=T

www.apnews.com/9e808574a4d04eb38fa8c688d110a23d

www.dailystar.com.lb/News/Middle-East/2017/Aug-30/417673-backed-by-italy-libya-enlists-militias-to-stop-migrants.ashx

Le dichiarazioni della Farnesina in merito alla denuncia dell’AP. 

www.ansa.it/english/news/2017/08/30/italy-does-not-deal-with-libya-traffickers-foreign-min-2_a610d5d2-adb7-4883-9c27-5fdc3dbe9d12.html

www.ansa.it/english/news/politics/2017/08/30/italy-does-not-deal-with-traffickers-2_ec96fd82-9361-4daa-8199-feda46df9040.html

Aumento delle missioni militari

www.difesa.it/OperazioniMilitari/Pagine/RiepilogoMissioni.aspx

Luglio 2016. L’Italia è impegnata in 25 missioni militari. 

Ottobre 2017. Le missioni italiane sono aumentate del 52% salendo a 38 mentre  i paesi in cui siamo presenti militarmente solo saliti a 23.

Le onde come il filo spinato

Mediterraneo : dieci giorni in mare a bordo della Aquarius

Le onde come il filo spinato

Apparso su CQFD n°156 (luglio-agosto 2017), rubrica Attualità, di Marie Nennès, illustrato da Suzanne Friedel / SOS Méditerranée; messo in linea il 10/07/2017. Tradotto dal francese su libera iniziativa da Federico de Salvo e Cecilia Paradiso.

Dal febbraio 2016, l’Aquarius solca le acque internazionali al largo della Libia per portare soccorso ai migranti che tentano la traversata verso l’Europa. Una delle rotte più mortali al mondo: più di duemila persone sono già annegate percorrendola nel 2017. Noleggiata da SOS-Meéditerranée, l’Aquarius è una delle navi di soccorso presenti nella zona – la sola a pattugliarla tutto l’anno. CQFD si è potuto imbarcare sull’Aquarius per una decina di giorni.

A est, i primi barlumi si fanno più precisi. Sono le h 5,30. Dalla plancia, Basile scruta l’orizzonte al binocolo già da un’ora buona. Invano. L’Aquarius è di ritorno nella SAR zonei dopo quindici giorni tirata a secco. Tutti sono nervosi. Per un po’, ci si è sentiti in colpa per essere stati assenti. Da qualche parte là davanti, un punto nero nella notte potrebbe attendere disperatamente di essere soccorso. Un canotto pneumatico grigio, senza luci, invisibile ai radar a meno di cinque miglia, con a bordo centinaia di persone, senza acqua, e sempre più spesso senza motore. Il mare è brutto, il vento soffia da nord. «Non succederà niente oggi, valuta Andreas, il secondo. I canotti non possono lasciare le coste con questo tempo, non riescono a superare le prime onde.»

«Non restare con le braccia conserte»

Volontario di SOS-Méditerranée, Basile continua comunque la sua guardia, presto sostituito da James, poi da Svenja. E così di seguito, ogni due ore, fino a notte. «Quello che era vero anche solo l’anno scorso lo è di meno in meno adesso, spiega Alain, robusto, proveniente dalla Martinica, con alle spalle già una decina di turni a bordo. Prima, i trafficanti aspettavano che il mare fosse in buone condizioni per mandare i canotti. E alcuni passeggeri erano dotati di giubbotti salvagente. Oggi, i gommoni comprati a 130 euro su Alibabaii hanno rimpiazzato le barche da pesca. E prendono il largo anche con il cattivo tempo. A quelli che non vogliono salire a bordo viene sparato nella macchia vicino alle spiagge. I passeurs dicono agli altri: “l’Italia è dritto davanti a voi, ci sarete in tre ore!” I motori marci spesso si bloccano nel giro di qualche ora, per mancanza di carburante. Oppure, altri malviventi arrivano per rubare il motore e lasciano i migranti alla deriva.»

Per la decina di volontari di SOS-Méditerranée, la giornata trascorre in esercitazioni di salvataggio: bisogna rodare i nuoviiii, fargli acquisire gli automatismi. Non si tratta di novizi, la maggior parte di loro ha già esperienza da marinaio, ma questo lavoro è particolare. Davanti a delle persone in preda al panico e alle proprie emozioni, devono saper reagire, calmare, rassicurare. «Mi ricorderò per sempre del mio primo salvataggio, racconta Stéphane Broc’h, ho preso uno schiaffone.» Questo bretone un filo taciturno coordina i soccorsi in acqua. E’ la prima mano che afferra il naufrago. Sono già diversi mesi che ha lasciato il suo lavoro di meccanico di marina nel Pacifico per imbarcarsi con SOS. «Non potevo restare con le braccia conserte, avevo bisogno di agire, per dormire in pace, potermi guardare allo specchio. Avevo le competenze e quindi sono venuto.» Più tardi nel pomeriggio, è l’equipe di Medici senza frontiere (MSF) che garantirà la formazione in primo soccorso, spiegando come prendersi carico dei rifugiati a bordo e a quali sintomi prestare attenzione.

Quello che li ossessiona

Mezzogiorno, il giorno seguente. Dalla plancia, Alexandre Moroz, il capitano bielorusso, avvisa: ha appena ricevuto una chiamata del MRCCiv. Un canotto è alla deriva a cinque ore di navigazione a est. L’Aquarius è l’imbarcazione di salvataggio più vicina, bisogna andare. La tensione sale – arriveremo in tempo? Poi si riabbassa leggermente: un cargo turco è vicino, raccoglierà i naufraghi che saranno in seguito trasferiti sulla nostra nave.

E’ notte quando il trasbordo inizia. Per due ore, il gommone di salvataggio moltiplica le andate e ritorno da una nave all’altra, trasportando quindici persone per volta. Stravolti, i primi superstiti posano un piede esitante sul ponte, sostenuti dalle braccia e i sorrisi di Charly e Christina: «Benvenuto, fratello, Welcome, Salam aleikoum.» Una sola donna, incinta, in mezzo a 117 uomini. Per la maggior parte maliani, ma anche ghanesi, gambiani, senegalesi: quasi tutta l’Africa dell’ovest è rappresentata. Tutti sono a piedi nudi, alcuni hanno anche il torso nudo. I loro abiti puzzano di gasolio, merda, sudore e paura. Li si fa spogliare, lavare e cambiare. Tutti ricevono il medesimo kit: vestiti puliti, una coperta, acqua e biscotti ipercalorici. I medici individuano i feriti, organizzano le prime cure. Alcuni crollano dalla fatica, altri tremano sulle loro gambe. Poco a poco, i visi si distendono. Dopo qualche ora iniziano a raccontare. La paura durante la traversata, quella di annegare su quella barchetta sovraccarica. Ma non è questa paura che tende i visi, infossa le orbite. No, quel che li ossessiona è la Libia.

«Venduto come una capra»

Bouba, un gambiano robusto di una trentina d’anni, berretto di lana calato sulla testa e sorriso inossidabile, si lancia: «Sono venuto in Libia per lavorare. Pensavo di poterci trovare un futuro, ma è stata una cattiva idea. Ci sono restato un anno. E’ poco, un anno, ma laggiù mi è sembrato lunghissimo: la vita era difficilissima.» Il sorriso sparisce. «Sono stato rapito non appena giunto a Sabhav. Il passeur libico incontrato ad Agadès mi aveva venduto ad una banda di Beni Walivi. Mi hanno rinchiuso con più di un centinaio di persone, uomini e donne, giovani e vecchi. Non so se si trattasse di una prigione ufficiale, c’erano dei prigionieri con i documenti in regola, permesso di lavoro e tutto. Non mi è stata data nessuna spiegazione.»

Il racconto si fa difficile, Bouba deglutisce a fatica: «La loro unica motivazione sono i soldi. Ti prendono tutto quello che hai, addirittura ti spogliano per vedere se nascondi qualcosa. Poi ti chiedono di chiamare la tua famiglia perché mandino dei soldi. Se non ne hai, ti picchiano. Se ne hai, ti picchiano comunque, per far sì che i tuoi parenti sentano le grida al telefono. Io, sono solo, non ho nessuno, quindi ho dovuto lavorare in schiavitù. Volevano 3.500 dollari per la mia libertà! E poi, un giorno, mi hanno fatto partire senza che io sappia perché

Omar, giovane senegalese di 19 anni, racconta una storia simile: «Volevo andare in Europa, ma mi hanno venduto. Come una capra! Ho riacquistato la libertà in cambio di denaro, ma sono stato catturato di nuovo dopo qualche giorno. Mi picchiavano tutti i giorni, non mi davano da mangiare e mi hanno obbligato a chiamare la mia famiglia. E anche dopo il versamento di un riscatto, non mi hanno liberato. Una notte ho rotto la porta e sono scappato.»

Detenzione spaventosa

Le storie si seguono e si assomigliano, con più o meno violenza, più o meno fortuna. Molti esibiscono delle brutte cicatrici, provocate da manette troppo strette ai polsi e alle caviglie. Alcuni soffrono di piaghe infette e bruciature, altri di malattie della pelle contratte nella promiscuità dei centri di detenzione. All’incirca una metà di loro, in partenza, non aveva alcuna intenzione di passare in Europa, ma non hanno avuto altra possibilità che imbarcarsi per fuggire il caos libico e salvarsi la pelle.

Secondo MSF, esistono 42 centri di detenzione ufficiali in Libia, dove sono rinchiusi gli immigrati clandestini. L’ONG non ha accesso che a 8 di questi. «non ci sono registri, né di entrata, né di uscita, racconta un’incaricata di missione di MSF in Libiavii, in visita sulla nave. Non si possono fare dei veri monitoraggi. Un mattino arrivi e mancano 300 persone rispetto al giorno prima… impossibile sapere cosa ne è stato, se sono state uccise, liberate, trasferite in un altro centro o messe su delle imbarcazioni. I prigionieri non si lamentano, per non essere picchiati, ma le condizioni di detenzione sono spaventose.» Spiega anche che nessuno sa dire quante prigioni clandestine si sommino a quelle ufficiali.

Avvolti nelle loro coperte, i rifugiati dormono in sicurezza per la prima volta dopo lungo tempo. Tutta la notte, dei volontari vegliano, parlano con chi non riesce a dormire, posano una mano benevola su una spalla, offrono un sorriso. Domani mattina, i rifugiati saranno trasferiti sulla nave di un’altra ONG che rientra in Italia.

Ibrahim, 40 chili

L’Aquarius ha rimontato la guardia ad ovest di Tripoli, in acque internazionali. Il maggior numero di partenze avvengono da questa parte di costa, al largo di Sabratha. Questa volta la radio gracchia un appello, parlando di tre imbarcazioni. Un’altra nave è già sul posto, ma ha bisogno di rinforzi.

Quando arriviamo un’imbarcazione manca all’appello. I passeggeri delle altre barche dicono che il motore ha avuto un problema e che l’hanno persa di vista. Son tornati indietro, sono annegati, sono alla deriva? Come saperlo? Dobbiamo concentrarci su quelli che sono qui, ammucchiati in una barca di legno e in un canotto mezzo sgonfio. La ronda dei canotti di salvataggio ricomincia. Stavolta ci sono donne, bambini, un neonato di un mese. Pakistani, bengalesi, etiopi, sudanesi, marocchini… Molti minori non accompagnati. E Ibrahim.

Quando sale a bordo si fa il silenzio. È alto, circa due metri. E d’una magrezza irreale, appena 40 kg. Si direbbe uscito da un campo di concentramento. Ha la febbre, riesce appena a camminare, parla in un sussurro. Il medico Craig Spencer lo conduce alla clinica. Ci dirà più tardi che il giovane è del Gambia, ha sedici anni e una setticemia. Sta morendo di fame. Detenuto per sette mesi in una prigione clandestina di Sabratha s’è ammalato dopo aver dovuto stare per una settimana rinchiuso accanto al cadavere in decomposizione di un suo compagno di disavventure. Due volte ha pagato per salire su un canotto, due fallimenti. La terza volta è stato il trafficante stesso, vedendo che stava per morire, che l’ha gettato sulla barca che l’Aquarius ha soccorso.

«Ho vinto una donna»

A bordo le donne sono raggruppate nello Shelterviii. Possono uscire sul ponte, ma nessun uomo ha il diritto di entrare nel loro rifugio. È il regno di Alice, l’ostetrica. Come succede spesso, la maggior parte delle donne sono nigeriane, destinate alle reti della prostituzione europee. A volte la «madame»ix viaggia con loro. Certe sanno cosa le attende, altre sono convinte che saranno parrucchiere o stiliste. Nessuna ha più di 25 anni.

Ciò che succede alle donne africane in Libia è Koubra, una Togolese che viaggia col marito, a raccontarcelo: «basta che un Libico ti trovi per strada, ti prende e ti carica in macchina, poi ti porta da lui e ti rinchiude. Chiama gli amici e dice “ho vinto una donna!”. Che tu sia incinta o meno, che tu sia sola o abbia i bambini in braccio, se ne fregano. Vengono in 5 o 6, ti minacciano con un fucile e poi ti violentano uno alla volta. Quando hanno finito ti dicono di chiamare tuo marito perché paghi un riscatto. Se manca qualche dinaro o se il marito non è puntuale ti trattengono ancora.» Koubra descrive un inferno in terra. «Non puoi fidarti di nessuno. Certi tassisti ti obbligano a succhiarglielo e poi ti abbandonano in mezzo alla strada. E le donne in Libia non si comportano meglio. Ho lavorato per una madre di famiglia che dopo avermi pagato quanto mi doveva ha inviato suo figlio a tagliarmi la strada. Mi ha ripreso tutto.» Dopo tutto quello che ha vissuto, come chiedere a Koubra di fare attenzione alle sfumature? «Un Libico buono non esiste. Un Libico buono è quello che ti lascia vivere, che si accontenta di torturarti

Respirare, infine

L’Aquarius ha ricevuto l’ordine di sbarcare i suoi naufraghi a Pozzallo, in Sicilia. Due giorni di navigazione, con 267 persone a bordo, è aberrante in termini di costi, ma è la MRCC che decide. L’Italia vuole mantenere il controllo sulla gestione di questa marea ininterrotta di rifugiati.

Sul ponte posteriore Alice mette della musica. Un contest di danza si improvvisa tra un giovane Bengalese e un Marocchino per la gioia di essere salvi. Molti ridono, battono le mani, accennano qualche passo di danza. Ma molti altri hanno lo sguardo perso e tacciono, cupi in volto. Tra qualche ora saranno in Europa, come saranno accolti? «Li avvertiamo che non sarà facile, ma non spezziamo le loro speranze. I tre giorni che passano sulla nave devono essere una pausa. Possono respirare, riprendere le forze. Non possiamo dirgli brutalmente quello che li aspetta» dice Marcella Kraay, chef de mission per MSF.

Un traffico troppo redditizio

Tutti sulla nave, volontari di MSF e di SOS-Mediterranée sono coscienti di combattere i sintomi e non le cause. Che le soluzioni sono nelle mani dei politici che distolgono lo sguardo. Quanti annegati ci vorranno ancora? «Non capisco perché gli Stati europei non prendano in considerazione ciò che succede nel Mediterraneo e si ostinino a finanziare un sedicente Stato Libicox, s’innervosisce Stephane. Visto che questo Stato non esiste finanziano i passeurs, le milizie che organizzano il traffico di esseri umani. Perché il traffico dovrebbe arrestarsi? È troppo redditizio. La gente paga tra i 500 e i 2500 euro un passaggio sulle navi della morte.» il volontario non si calma «Noi ONGs siamo finanziati al 99% dalla società civile. Facciamo il lavoro che dovrebbero fare i governi e ci sputano in faccia accusandoci di essere in combutta coi passeurs. I paesi europei fingono di curarsi dei diritti umani, di sostenere valori di umanità, ma li calpestano allegramente».

Alla fine le coste siciliane. Quasi più nessuno parla. Le operazioni di sbarco prendono diverse ore, sotto un sole di piombo. Accolti sul molo da figure in tute bianche, mascherate, i rifugiati saranno selezionati, numerati, passati al metal detector, condotti in bus nei centri di detenzione. Sulla nave tutti gli stringeranno un’ultima volta la mano. Alice si nasconderà per piangere. Le nocche di James sbiancheranno stringendo il parapetto. Anton digrignerà i denti per l’impotenza. Poi si rimetteranno al lavoro, puliranno la nave, si prenderanno una sbronza e il giorno dopo partiranno. Con in testa questa frase di Albert Einstein: «il mondo non sarà distrutto da quelli che fanno del male, ma da chi li guarda senza fare nulla

Note

i La Search and Rescue Zone inizia a 12 miglia dalle coste libiche al limite delle acque internazionali.

ii Concorrente cinese di Amazon.

iii I volontari di SOS-Méditerrané si impegnano per tre turni da tre settimane ciascuno. Dopo di che, devono fare una pausa. Alcuni riprendono l’operatività, altri no.

iv Il Maritime Rescue Coordination Center è l’organismo italiano che coordina le azioni delle navi di soccorso presenti in zone. Niente si può fare senza il suo accordo.

v Oasi situata a 600 Km a sud di Tripoli, porta d’ingresso per quelli che arrivano dal deserto e centro nevralgico del traffico umano.

vi Tribù libica.

vii Per delle ragioni di sicurezza, non faremo menzione del suo nome.

viii Rifugio, spazio riservato alle donne.

ix La tenutaria, la madama.

x 3 governi si disputano il potere in Libia, più diverse milizie indipendenti.