Il Campo Roja di Ventimiglia ha definitivamente chiuso.

 

Tre settimane fa è iniziata a girare voce, nelle vie informali e formali di Ventimiglia, della chiusura definitiva del Campo Roja.

Neanche il tempo di capire se fosse una “soffiata” o una “trovata politica” che nel giro di pochissimo tempo e nel silenzio più assordante, sono stati gestiti gli ultimi “trasferimenti” – non si sa dove – delle ultime presenze al Campo Roja. Presenze già dimezzate durante l’emergenza Covid che ad oggi fanno pensare a un pretesto più che a una linea di contenimento per evitare che altre persone potessero infettarsi. Ormai è chiaro che le emergenze servono agli Stati per garantire questi apparati: a quella degli sbarchi si è sovrapposta quella del terrorismo e ora è sopraggiunta quella del Covid. È stata questa “nuova emergenza” a finanziare società private come GNV e Moby per il contenimento, nei traghetti di queste due compagnie, dei migranti potenziali minacce per la salute della popolazione europea.

Del Campo rimane lo scheletro di tre anni di vite che lo hanno attraversato: container, grate, gabbiotti, tornelli, qualche tenda da campo, un calcetto e la staffetta tra polizia e finanza a presidiare il nulla.

È utile ricordare che il Campo Roja venne aperto a seguito della chiusura della Chiesa delle Gianchette che ospitava donne, minori non accompagnati e famiglie e dello sgombero del campo autogestito di Via Tenda. Due realtà tra loro differenti che segnavano il dentro e il fuori: il discrimine tra chiesa e sottoponte era l’essere una donna, un minore non accompagnato, o una famiglia: in questi casi era possibile accedere all’ospitalità in chiesa. Con queste “categorie” lavoravano le Ong che avevano le Gianchette come spazio di riferimento. Ad un certo punto i mariti non furono più ammessi, se non dopo un periodo di “osservazione” per capire se fossero effettivamente tali o trafficanti, profittatori o altro… Tra le persone migranti e i solidali era condivisa la sensazione di disagio per il paradosso che spesso nasceva: persone che avrebbero voluto essere seguite da una Ong e chiedere asilo politico ma nessun finanziamento o progetto che fosse rivolto a uomini adulti. In un certo senso e, per alcune “categorie”, il dentro era uno spazio “safe” che non obbligava ad entrare nel circuito dell’asilo. Una delle ragioni per cui la Prefettura non si è accontentata dello sgombero e della pulizia del sottocavalcavia e ha spinto, fino a imporre, la chiusura dell’ospitalità delle Ghianchette. Una realtà, che per quanto legata all’ente Chiesa, era autogestita dai volontari, motivo per cui la polizia non poteva controllare chi era, letteralmente, sotto il pavimento della chiesa, protetto dalla Caritas. Ne hanno quindi ordinato la chiusura e l’ultimo giorno Polizia e Croce Rossa Italiana (CRI) si son presentati coi pullman sul sagrato a prelevare e contare chi sfuggiva all’appello, portando al campo le ultime persone che ancora erano accolte grazie alla solidarietà informale.

Nel fuori di Via Tenda non c’era nessuna condizione dettata da altri, nessuno volontario preparava i pasti, nessun investimento di significati umanitari, nessuno si occupava dell’altro se non per le reti di solidarietà spontanee tra le persone che rompevano completamente la dicotomia migrante/volontario portando a rafforzare i legami di reciprocità e la lotta al diritto di movimento.

Sgomberare il campo autogestito del sottoponte, chiudere la Chiesa delle Gianchette e aprire il Campo Roja, delegandone la gestione alla CRI, è stato il miglior compromesso utilizzato dalle autorità per affidare la presenza dei migranti a dei professionisti in una logica umanitaria – in antitesi apparente con la logica militare ma di fatto suoi collaboratori – e delegittimare, per poi reprimere, le azioni di solidarietà e lotta che negli ultimi due anni si erano espresse tanto in forma spontanea quanto autorganizzata a Ventimiglia.

Continuiamo a chiamarlo “Campo Roja” perché da quando è stato costruito – era agosto del 2017 – non ha mai avuto una “definizione giuridica”. Inizialmente venne chiamato “Centro temporaneo” poi, diventando permanente, fu definito “Centro per richiedenti asilo” ma come i Cie, i Cara, i Cpt, i Cpr e gli Hotspot rimaneva anch’esso un luogo detentivo e allo stesso tempo volutamente ambiguo: un centro di contenimento e concentramento per stranieri.

Qualsiasi nome gli abbiano dato è stato un luogo ove la temporaneità ha fatto paio con la ricattabilità. Dove la selettività si è basata su di un approccio economico, militare e aziendale intento a coniugare la sicurezza con il profitto. Lo dimostra la fisarmonicità del confine, la sua porosità come l’hanno chiamata vari tra ricercatori e sociologi che l’hanno attraversato. I burocrati europei invece gli hanno dato un nome più trendy: “Smart Border Package” una specie di confine selettivo e intelligente in grado di selezionare rapidamente soggetti e merci economicamente rilevanti rispetto a quelli che ritiene non esserlo.

La temporaneità, la ricattabilità e la selettività sono garantite dalla presenza dei diversi attori che con ruoli, profitti e servizi differenti, governano e gestiscono questi luoghi di contenimento. Per questo troviamo in qualsiasi paese e confine ove essi sono posizionati – dalla fortezza Europa fino alla Libia, al Sudan, nel Nord Africa e nel Medio Oriente – associazioni umanitarie e grandi o piccole Ong a fianco delle Polizie di Frontiera e di Stato, delle istituzioni pubbliche o degli enti del privato sociale insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e all’Onu.
Così è stato al Campo Roja ove la gestione affidata alla Croce Rossa Italiana “ospitava”, in accordo con la Polizia di Stato, le varie Ong che nell’arco di tre anni si sono alternate nella loro presenza al campo. Tra spinte umanitarie e logiche sicuritarie esse hanno partecipato al contenimento e alla repressione delle persone che lì arrivavano a prescindere dalla volontarietà che le induceva a recarsi al Campo. Così come, a prescindere dalle singole umanità che lavorano come militi o professionisti, la logica strutturale su cui questi spazi furono organizzati portava chi li attraversava come migrante ad assoggettarsi, pena l’esclusione. La stessa logica che poi troveranno una volta usciti dai centri dove, addestrati alla temporaneità e ricattabilità, diventeranno soggetti utili ai modelli di valorizzazione e di sfruttamento della “civiltà europea”. Più si insinua la precarietà più sarà agevole la loro amministrazione.

Come dicevamo all’inizio i trasferimenti delle persone dal Campo Roja sono avvenuti in un silenzio assordante: nessuna contestazione da parte della popolazione migrante, solo precarietà e silenzio. Queste sono due delle caratteristiche di assoggettamento più richieste ad oggi dal mercato del lavoro. Se spostiamo lo sguardo dai centri di contenimento dei richiedenti asilo e lo volgiamo nelle città dal Nord al Sud Italia, quante persone immigrate regolarmente vivono con il ricatto che perdendo il lavoro diventeranno espellibili? Quanti di queste si assoggettano alle condizioni di lavoratori precari e sfruttati per non perdere l’unica possibilità di non divenire irregolari? Tutto questo ha delle conseguenze drammatiche nella vita politica, sociale, economica, lavorativa e relazionale della persona straniera e della comunità intera.

Si può pensare quindi che il laboratorio Campo Roja abbia raggiunto i suoi obiettivi nel formare una futura popolazione assoggettabile? Si forse si. Potremmo pensare che le motivazioni per cui il Campo Roja è stato chiuso è perché è venuto a mancare il motivo per cui è stato aperto e cioè l’emergenza migranti al confine di Ventimiglia? Si forse si, gli accordi con il governo libico hanno sicuramente ridotto l’afflusso degli arrivi così come colpire le Ong che soccorrono i migranti in mare ne ha fatto morire molti di più di quelli che sono partiti. Ma non è così, Ventimiglia ci mostra visi di donne, uomini, bambine e bambini appena giunte dalla rotta balcanica o da quella mediterranea cosi come diniegati che hanno visto negata la loro richiesta d’asilo nei paesi europei.

Davanti a chi si domanda se la chiusura del Campo Roja sia peggio del suo mantenimento si potrebbe rispondere se i campi di detenzione libici siano meglio delle morti in mare o se disertare i decreti sicurezza per la gestione dei Cas sia stato peggio che continuare a gestirli nelle condizioni imposte. Forse sarebbe meglio non porsi questo tipo di domande, il rischio è che tra qualche tempo non distingueremo più ciò che ci lascia morire da quello che ci fa vivere. Il confine è poroso come dicono i sociologi ed è intelligentemente selettivo come esprimono i burocratici. Entrambi hanno ragione: lo scopo non è quello di chiudere o aprire le frontiere; non è quello di respingere o accogliere le persone migranti ma di governarle. Va da sé che la chiusura del Campo Roja o la sua (ri)apertura sono scelte che si equivalgono essendo partorite dallo stesso dispositivo che gestisce la frontiera e tenta di governarne l’umanità. Opporsi alla politica del meno peggio è l’unica risposta che ci viene da dare a chi si domanda se fosse meglio mantenere il Campo Roja piuttosto che vederlo chiudere.

 

La redazione

Estate 2020 al confine: il campo e le persone. Parte2

Il campo e le persone (Parte 2)

Le persone nella città di frontiera oscillano quindi intorno alle due/trecento teste, considerando chi poi riesce nella notte a varcare il confine e chi arriva il giorno dopo a rimpiazzare il numero di presenze. Ad aprile, il campo gestito dalla Croce Rossa, finanziato e diretto dalla prefettura di Imperia, è stato messo in quarantena a causa della positività di un ospite al Covid. In quel momento, vi erano ospitate circa 120 persone. L’uomo è stato ricoverato all’ospedale di Sanremo, è guarito e non si sono registrati altri casi. Coloro che erano già dentro al campo, per un mese non han potuto uscire, mentre sono stati sospesi i nuovi accessi. Quando la quarantena è terminata e il lockdown è stato revocato, chi era già dentro al campo ha potuto ricominciare ad entrare e uscire dalla struttura, ma il campo ha continuato a non accettare nuove registrazioni. Le persone ancora nei container della CRI sono state riassegnate altrove in Italia, e nel giro di poche settimane ne sono rimaste appena una trentina, in attesa, anche loro, di essere trasferite a breve.

Il campo della Croce Rossa, nell’ex scalo ferroviario ventimigliese del parco Roja, a 4 km dal centro cittadino, era stato approntato d’urgenza nell’estate del 2016. Nel giro di poche settimane, arrivarono al confine oltre seicento persone: il campo venne aperto in fretta e furia, per contrastare gli accampamenti informali che spuntavano ovunque, disturbando il business del turismo dalla Costa Azzurra. Il campo ha una capacità di accoglienza fino a 500/600 persone, e non ha mai avuto uno status giuridico definito, non essendo una struttura d’accoglienza ufficiale, né un cara, né un hotspot, né uno sprar. È stato sempre chiamato “campo di transito”. Vi si fermavano per periodi più lunghi le persone che facevano richiesta d’asilo, da un paio di notti a qualche settimana le persone che volevano proseguire il viaggio, a seconda del tempo necessario per organizzarsi.

Campo Roya

Sebbene fosse (e sia ancora: la chiusura ufficiale della struttura dovrebbe essere ridiscussa in settembre) un luogo isolato tra i raccordi autostradali, attrezzato con una sessantina di container e tensostrutture, fantasmi metallici nel deserto della periferia suburbana, presidiato da forze dell’ordine di ogni tipo, poco accogliente e molto umiliante per chi vi transitava, ha rappresentato per tre anni l’unica forma di “accoglienza” tollerata dalle istituzioni.

Quest’estate qualcosa è cambiato nella volontà delle istituzioni: la quarantena è finita, ma il campo non verrà riaperto. Si attende che escano le ultime persone che ancora vi si appoggiano, per andare verso uno smantellamento definitivo della struttura.

Come ogni stagione estiva ventimigliese che si rispetti, dinnanzi alle trombe dell’emergenzialismo che squillano scoprendo l’uovo di pasqua – la gente migra!- non poteva mancare la passerella di politici “esperti”, a fare il giro di proclami elettorali dichiarando “soluzioni radicali”, e invocando “interventi definitivi” al terribile problema che affligge Ventimiglia da anni: il fatto che esseri umani transitino su questo territorio col desiderio di muoversi liberamente sul globo terrestre. La città “ostaggio dei migranti”, i treni transfrontalieri che accumulano ritardi a causa dei controlli della polizia d’oltralpe, tutti i cittadini arrabbiati, tutte le istituzioni indignate, tutti i politicanti sbalorditi dal fatto che, ancora, la gente si permette di arrivare e pure di dormire, mangiare e camminare in giro per la città, non potendo trovare alcun altro appoggio.

Sono poche le associazioni ancora operative a Ventimiglia: anche le varie ong, dopo il boom del passato, hanno progressivamente chiuso i progetti legati alla frontiera e si sono dileguate. Prima fiaccate e depauperate dalla continua criminalizzazione nei loro confronti, operata dallo scorso governo gialloverde, e infine riassorbite nel processo di normalizzazione che ha finito per spegnere ogni accento di sgomento dinnanzi all’abominio, fino a trasformare Ventimiglia in una macchina scientifica di classificazione e squalificazione umana. Della decina di ong che erano attive, ne sono rimaste appena un paio, oltre alla solidarietà informale, che si arrabatta per sopravvivere tra menefreghismo e crociate repressive.

Le associazioni hanno chiesto più volte che il campo fosse riaperto, pur con tutti i limiti che presentava, segnalando l’incremento di persone in città. Poi, il 2 luglio, lo show della visita di una delegazione del ministero dell’interno, assieme ai vertici della polizia e delle istituzioni provinciali e regionali, ha chiarito bene quali intenzioni si profilano sull’orizzonte frontaliero di Ventimiglia. Il prefetto Di Bari (capo dipartimento delle Libertà Civili e dell’Immigrazione) ha decretato quale sarà il nuovo modello gestionale da applicare a questa frontiera: “L’obiettivo è di individuare non tanto una struttura ma un modulo flessibile di transitorietà per evitare bivacchi a Ventimiglia” un “modulo transitorio, molto provvisorio”!

L’ultimo modello di protocollo repressivo, rimasto in vigore in tutti questi anni, fu la strategia della decompressione messa a punto dal ministro dell’interno Alfano, assieme al capo di polizia Gabrielli, nella primavera 2016: fare arrivare meno gente in città, serrando i controlli sui treni; aprire il campo nell’ex scalo ferroviario, costringendo le persone a spostarsi dal centro cittadino per renderle invisibili; aumentare i pattugliamenti nelle zone turistiche; porre termine all’accoglienza nella chiesa delle Gianchette, troppo vicina al centro città e agli occhi dell’elettorato ventimigliese. Il colpo da maestri fu l’istituzione delle deportazioni interne da Ventimiglia al sud Italia, con i pullman turistici della locale compagnia di trasporti, la Riviera Trasporti. Uno stratagemma dal costo di decine di migliaia di euro,elaborato col solo scopo di sparpagliare le persone sul territorio nazionale, per contenere il numero di quelle che si accalcano a Ventimiglia. La strategia di “alleggerimento del confine” degli scorsi anni, non sembra perciò molto diversa dalle attuali proposte, che prevedono, in sintesi, di mantenere le persone in un costante moto perpetuo di angoscia e non riconoscimento. Alfano dichiarò: “queste persone devono capire che qui non ci possono stare, più vengono al nord, più noi le rimanderemo al sud, perchè non possono essere i migranti a scegliere dove vogliono vivere”. La pratica delle deportazioni interne a mezzo pullman ha continuato ad essere in vigore ancora nelle ultime settimane pre lockdown.

Adesso le traiettorie dell’intolleranza stanno quindi tracciando nuove “soluzioni radicali”, che sanno già di vecchio e di campagna elettorale: “metteremo in campo soluzioni alternative che devono necessariamente passare attraverso un’attività multipla”, dichiara il prefetto Di Bari, lasciando una scia sinistra di interpretazioni possibili su cosa siano le attività multiple che colpiranno ulteriormente le persone in viaggio.

(qui la prima parte; qui la terza parte)

La forza delle gambe – Un aggiornamento sui minori sbarcati a Genova il 2 giugno

A seguito dell’articolo pubblicato la settimana scorsa sui minori sbarcati a Genova il 2 giugno, è arrivato alla redazione di Parolesulconfine un aggiornamento sul “trasferimento” degli stessi minori in altre città italiane, avvenuto proprio a ridosso dell’arrivo del Ministro degli Interni a Genova per l’esplosione dell’ultimo pilone del Ponte Morandi. 

Abbiamo deciso di pubblicare questo contributo al fine di mostrare quanto il diritto alla vita, in questo caso alla vita di minori, sia alla mercè di querelles politiche e mediatiche  orchestrate da coloro i quali violano essi stessi le leggi che vanno difendendo e istituendo. Botta e risposta, interviste, interrogazioni in Consiglio comunale: tanta confusione e nessuna presa di responsabilità, nessuna volontà di affrontare un problema che si è fatto vasto, al di là del breve spazio della durata delle attenzioni mediatiche e dell’eco delle dichiarazioni ad effetto. Far salire due minori su un Flixbus per Bologna senza accompagnamento è contro la legge – ma non lo è se nessuno li ha presi in carico come in questo caso. Non prendere in carico dei minori è contro la legge – ma non lo è se una presunta circolare del Viminale – di cui sembra si siano perse le tracce –  ne impedisce la presa in carico. Un servizio sociale che non prende in carico dei minori è contro la legge – ma non lo è se il Ministro degli Interni interviene personalmente e crea un’eccezione che poi presto diventerà una norma nel prossimo Decreto Immigrazione e Sicurezza.

A questo punto si possono fare alcune ipotesi su quello che accadrà: domani i minori verranno trasferiti a Bologna o in chissà quale altra città d’Italia, scortati dalla polizia per evitarne una nuova fuga. Verrà aperta un’indagine sulle strutture di accoglienza per i minori  così da spostare l’attenzione sul sistema di accoglienza a cui seguirà il solito balletto di chi attacca e chi difende. Verrà realizzato un nuovo regolamento per le strutture che accolgono minori stranieri non accompagnati contente ancora più restrizioni e ancora più dispositivi punitivi.

Queste sono previsioni non così lontane da quanto già abbiamo visto accadere negli anni passati. Nessun cambio di direzione quindi: il programma sicuritario sta solo erigendo altri piani ad un palazzo che ha visto porre le sue fondamenta nei decenni di neoliberismo e neocoloniasmo appena trascorsi e tutt’ora in corso. Decenni che in alcun modo possono cambiare segno, alla luce di un protagonismo – strumentale e viscido – di chi fino a ieri lavorava di gran lena a questo stesso cantiere.

Ma c’è chi continua a viaggiare in direzione ostinata e contraria, cercando di minare quel palazzo e svelare cosa si cela dietro a quelle pareti di vetro riflettente: a queste persone, pensiamo sia giusto e  sempre più necessario dare voce… a chi ha “la forza nelle gambe“.

 

La forza delle gambe. Resistenze

I minori stranieri non accompagnati trasferiti il 25 giugno in varie città italiane (Salerno, Bologna, Milano) si sono allontanati rapidamente dalle strutture di destinazione. In particolare due minori inseriti presso uno Sprar di Bologna hanno fatto ritorno a Genova il giorno 27 giugno. Sono stati indirizzati alla Questura, dove, a norma di legge e secondo la procedura, sono stati segnalati ai Servizi Sociali e inseriti presso la struttura di prima accoglienza Villa Canepa, perché è questo che succede quando un minore viene identificato sul territorio secondo l’art. 403 del Codice Civile: “Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato  o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. La Pubblica Autorità in questione è il Sindaco e l’Assessorato competente all’assistenza dell’infanzia, che, legalmente parlando, termina al compimento del diciottesimo anno di età.

Ma i minori stranieri non accompagnati a Genova di questi tempi sono evidentemente “stranieri” ancorché “minori”, perché all’interrogazione urgente promossa dalla Consigliera del PD Cristina Lodi in data 27 giugno il Sig. Sindaco ha esplicitamente declinato la responsabilità sui minori sbarcati il 2 giugno, demandandola al Ministero dell’Interno. Questa e altre inesattezze espresse dal primo cittadino sono consultabili ai links https://www.facebook.com/149684422423391/posts/404256226966208/e https://www.youtube.com/watch?time_continue=17&v=TFCVNqq2TvM. In quella sede la Consigliera Lodi chiedeva conto di due argomenti:

  1. Perché il Sig. Sindaco in una dichiarazione del 2 giugno ai microfoni di Telenord (https://telenord.it/nave-migranti-a-genova-accolti-32-minori-non-accompagnati-bucci-polemiche-strumentali/) avesse dichiarato che la città avrebbe garantito accoglienza ai minorenni sbarcati dalla nave Cigala Fulgosi, almeno fino al diciottesimo anno di età e, a distanza di un mese scarso, ne disponesse il trasferimento in altre città;
  2. Se nei trasferimenti fosse stato garantito il principio del maggior benessere dei minori.

 

Alle domande il Sig. Sindaco risponde:

  1. Che si dovrebbe avere l’accortezza di riportare fedelmente le sue dichiarazioni. Peccato che l’assicurazione che i minori in questione sarebbero rimasti a Genova è perfettamente udibile dalla bocca dello stesso Sindaco nella citata dichiarazione a Telenord;
  2. Che i trasferimenti sono stati preceduti da valutazioni caso per caso. Falso: l’unico intervento lontanamente somigliante ad una valutazione è stata una telefonata da parte del funzionario comunale in cui si chiedeva: “I minori come stanno?”. Stop.

 

A proposito del principio del maggiore benessere del minore, i due minorenni tornati a Genova recavano con sé alcune immagini scattate e video girati nella struttura sprar bolognese, che qui alleghiamo, in modo che – molto onestamente – ognuno si possa fare un’idea della cura con cui la nostra amministrazione si occupa delle necessità dei minori a lei affidati dalla legge:

 

Da questa struttura i minori trasferiti si sono allontanati e due di essi, ingenuamente, hanno pensato che Genova potesse riaccoglierli o, semplicemente, potesse tener fede alla parola data. Ma così non è stato. In data 8 luglio, infatti, su richiesta dell’Assessorato alle Politiche Sociali, la struttura ospitante Villa Canepa è stata informata che i due minorenni avrebbero dovuto essere rimandati a Bologna via bus. Il funzionario di detto Assessorato si è premurato di accompagnarli al bus e si è poi prodotto in un ridicolo inseguimento, quando i due minori si sono dati alla fuga, contando sull’unica forza a loro disposizione: la forza delle gambe. Perché questa Amministrazione non li ha difesi, né li ha assistiti, violando la legge, pur essendo perfettamente a conoscenza delle condizioni di decadenza della struttura bolognese.

Un’ultima amara amenità. In Consiglio Comunale il Sig. Sindaco non ha mancato di lamentare le cosiddette “fughe” dei minori stranieri non accompagnati dalle strutture genovesi, alludendo ad una supposta incapacità delle stesse a svolgere correttamente il lavoro per cui sono pagate. Rendiamo conto al Sig. Sindaco che il lavoro per cui le strutture di accoglienza sono pagate è l’assistenza e l’integrazione e che quando un minore non fa ritorno in comunità, l’evento si definisce “allontanamento”, che poi le FF. OO. stabiliranno se di natura volontaria o meno. Se l’Amministrazione definisce “fuga” ciò che è allontanamento se ne possono trarre le seguenti deduzioni (alcune confortate da esplicite affermazioni dell’Assessora Fassio):

  1. Che le strutture di accoglienza per i minori sono limitanti della loro libertà: devono fare contenzione, non integrazione.
  2. Che l’Amministrazione non ha la benché minima considerazione della capacità di un minore (16/17 anni) migrante, proveniente da qualche migliaio di chilometri di distanza, reduce da un viaggio pluriennale, di autodeterminare il proprio progetto di vita, che non è scontato coincida con i nostri programmi di accoglienza.

Eppure l’Assessora Fassio sta lavorando affinché i minori stranieri non accompagnati non possano più circolare autonomamente in città e affinché le strutture di accoglienza li privino dei telefoni cellulari durante le ore notturne.

Qual è l’idea di accoglienza, tutela e integrazione che questa città sta sviluppando?

Quante limitazioni alle libertà personali siamo disposti ad accettare?

Ma per finire una nota di speranza, anzi no, di resistenza: perché questi non sono tempi di speranza, bensì di tenere duro, fare piccoli passi in avanti ed essere respinti dalla durezza dei cuori. Durante la vicenda legata allo sbarco dei minori del 2 giugno, alcuni di noi hanno fatto conoscenza con operatori di Save the Children operanti nel campo Roja di Ventimiglia. Da essi hanno appreso che molte volte e per molti mesi Save the Children aveva fatto richiesta di inserimento dei minori del campo presso le strutture sprar/siproimi di Genova, non ricevendo risposta. Finalmente il 5 luglio quattro minori sono stati inseriti in strutture adeguate in città. Piccoli passi, ma a noi bastano per continuare a difendere i diritti garantiti dalla legge e dal senso di umanità.

 

 

Mappe del confine di Ventimiglia: 1# Campo Roya

Con questo articolo inauguriamo un ciclo di brevi post nei quali cercheremo di dare sintetiche coordinate su alcuni luoghi e dispositivi che caratterizzano la geografia fisica, sociale e politica del territorio di confine di Ventimiglia.


1# Campo Roya, la struttura di accoglienza gestita da C.R.I.

Il campo per l’accoglienza dei migranti in transito a Ventimiglia è gestito da Croce Rossa Italiana.

 

La struttura sorge all’interno del Parco Roya, uno scalo ferroviario merci dismesso di proprietà di RFI FS Trenitalia.

Il campo dista 3 chilometri e mezzo dai servizi della città. L‘unico modo per raggiungerla è immettersi a piedi su una strada statale senza marciapiedi. Nel 2017 su questo percorso sono state travolte 3 persone e 2 hanno perso la vita.

La capienza iniziale di 100 posti, alla sua apertura nel luglio 2016, è stata progressivamente aumentata fino a raggiungere quella di 500. L’accesso al campo è costantemente presidiato dalle forze dell’ordine che procedono alla perquisizione delle persone al loro primo accesso e al controllo delle impronte digitali.

Nel luglio 2016 tutti i migranti ospitati alla Parrocchia di Sant’Antonio nel quartiere delle Gianchette, a eccezione di donne, minori e famiglie, sono stati trasferiti all’interno del campo. Nell’agosto 2017 la Prefettura ha avviato il trasferimento delle donne e i bambini rimasti presso la Chiesa.

I rastrellamenti che precedono la deportazione al Sud Italia vengono effettuati anche nella zona del campo.

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