Tre settimane fa è iniziata a girare voce, nelle vie informali e formali di Ventimiglia, della chiusura definitiva del Campo Roja.
Neanche il tempo di capire se fosse una “soffiata” o una “trovata politica” che nel giro di pochissimo tempo e nel silenzio più assordante, sono stati gestiti gli ultimi “trasferimenti” – non si sa dove – delle ultime presenze al Campo Roja. Presenze già dimezzate durante l’emergenza Covid che ad oggi fanno pensare a un pretesto più che a una linea di contenimento per evitare che altre persone potessero infettarsi. Ormai è chiaro che le emergenze servono agli Stati per garantire questi apparati: a quella degli sbarchi si è sovrapposta quella del terrorismo e ora è sopraggiunta quella del Covid. È stata questa “nuova emergenza” a finanziare società private come GNV e Moby per il contenimento, nei traghetti di queste due compagnie, dei migranti potenziali minacce per la salute della popolazione europea.
Del Campo rimane lo scheletro di tre anni di vite che lo hanno attraversato: container, grate, gabbiotti, tornelli, qualche tenda da campo, un calcetto e la staffetta tra polizia e finanza a presidiare il nulla.
È utile ricordare che il Campo Roja venne aperto a seguito della chiusura della Chiesa delle Gianchette che ospitava donne, minori non accompagnati e famiglie e dello sgombero del campo autogestito di Via Tenda. Due realtà tra loro differenti che segnavano il dentro e il fuori: il discrimine tra chiesa e sottoponte era l’essere una donna, un minore non accompagnato, o una famiglia: in questi casi era possibile accedere all’ospitalità in chiesa. Con queste “categorie” lavoravano le Ong che avevano le Gianchette come spazio di riferimento. Ad un certo punto i mariti non furono più ammessi, se non dopo un periodo di “osservazione” per capire se fossero effettivamente tali o trafficanti, profittatori o altro… Tra le persone migranti e i solidali era condivisa la sensazione di disagio per il paradosso che spesso nasceva: persone che avrebbero voluto essere seguite da una Ong e chiedere asilo politico ma nessun finanziamento o progetto che fosse rivolto a uomini adulti. In un certo senso e, per alcune “categorie”, il dentro era uno spazio “safe” che non obbligava ad entrare nel circuito dell’asilo. Una delle ragioni per cui la Prefettura non si è accontentata dello sgombero e della pulizia del sottocavalcavia e ha spinto, fino a imporre, la chiusura dell’ospitalità delle Ghianchette. Una realtà, che per quanto legata all’ente Chiesa, era autogestita dai volontari, motivo per cui la polizia non poteva controllare chi era, letteralmente, sotto il pavimento della chiesa, protetto dalla Caritas. Ne hanno quindi ordinato la chiusura e l’ultimo giorno Polizia e Croce Rossa Italiana (CRI) si son presentati coi pullman sul sagrato a prelevare e contare chi sfuggiva all’appello, portando al campo le ultime persone che ancora erano accolte grazie alla solidarietà informale.
Nel fuori di Via Tenda non c’era nessuna condizione dettata da altri, nessuno volontario preparava i pasti, nessun investimento di significati umanitari, nessuno si occupava dell’altro se non per le reti di solidarietà spontanee tra le persone che rompevano completamente la dicotomia migrante/volontario portando a rafforzare i legami di reciprocità e la lotta al diritto di movimento.
Sgomberare il campo autogestito del sottoponte, chiudere la Chiesa delle Gianchette e aprire il Campo Roja, delegandone la gestione alla CRI, è stato il miglior compromesso utilizzato dalle autorità per affidare la presenza dei migranti a dei professionisti in una logica umanitaria – in antitesi apparente con la logica militare ma di fatto suoi collaboratori – e delegittimare, per poi reprimere, le azioni di solidarietà e lotta che negli ultimi due anni si erano espresse tanto in forma spontanea quanto autorganizzata a Ventimiglia.
Continuiamo a chiamarlo “Campo Roja” perché da quando è stato costruito – era agosto del 2017 – non ha mai avuto una “definizione giuridica”. Inizialmente venne chiamato “Centro temporaneo” poi, diventando permanente, fu definito “Centro per richiedenti asilo” ma come i Cie, i Cara, i Cpt, i Cpr e gli Hotspot rimaneva anch’esso un luogo detentivo e allo stesso tempo volutamente ambiguo: un centro di contenimento e concentramento per stranieri.
Qualsiasi nome gli abbiano dato è stato un luogo ove la temporaneità ha fatto paio con la ricattabilità. Dove la selettività si è basata su di un approccio economico, militare e aziendale intento a coniugare la sicurezza con il profitto. Lo dimostra la fisarmonicità del confine, la sua porosità come l’hanno chiamata vari tra ricercatori e sociologi che l’hanno attraversato. I burocrati europei invece gli hanno dato un nome più trendy: “Smart Border Package” una specie di confine selettivo e intelligente in grado di selezionare rapidamente soggetti e merci economicamente rilevanti rispetto a quelli che ritiene non esserlo.
La temporaneità, la ricattabilità e la selettività sono garantite dalla presenza dei diversi attori che con ruoli, profitti e servizi differenti, governano e gestiscono questi luoghi di contenimento. Per questo troviamo in qualsiasi paese e confine ove essi sono posizionati – dalla fortezza Europa fino alla Libia, al Sudan, nel Nord Africa e nel Medio Oriente – associazioni umanitarie e grandi o piccole Ong a fianco delle Polizie di Frontiera e di Stato, delle istituzioni pubbliche o degli enti del privato sociale insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e all’Onu.
Così è stato al Campo Roja ove la gestione affidata alla Croce Rossa Italiana “ospitava”, in accordo con la Polizia di Stato, le varie Ong che nell’arco di tre anni si sono alternate nella loro presenza al campo. Tra spinte umanitarie e logiche sicuritarie esse hanno partecipato al contenimento e alla repressione delle persone che lì arrivavano a prescindere dalla volontarietà che le induceva a recarsi al Campo. Così come, a prescindere dalle singole umanità che lavorano come militi o professionisti, la logica strutturale su cui questi spazi furono organizzati portava chi li attraversava come migrante ad assoggettarsi, pena l’esclusione. La stessa logica che poi troveranno una volta usciti dai centri dove, addestrati alla temporaneità e ricattabilità, diventeranno soggetti utili ai modelli di valorizzazione e di sfruttamento della “civiltà europea”. Più si insinua la precarietà più sarà agevole la loro amministrazione.
Come dicevamo all’inizio i trasferimenti delle persone dal Campo Roja sono avvenuti in un silenzio assordante: nessuna contestazione da parte della popolazione migrante, solo precarietà e silenzio. Queste sono due delle caratteristiche di assoggettamento più richieste ad oggi dal mercato del lavoro. Se spostiamo lo sguardo dai centri di contenimento dei richiedenti asilo e lo volgiamo nelle città dal Nord al Sud Italia, quante persone immigrate regolarmente vivono con il ricatto che perdendo il lavoro diventeranno espellibili? Quanti di queste si assoggettano alle condizioni di lavoratori precari e sfruttati per non perdere l’unica possibilità di non divenire irregolari? Tutto questo ha delle conseguenze drammatiche nella vita politica, sociale, economica, lavorativa e relazionale della persona straniera e della comunità intera.
Si può pensare quindi che il laboratorio Campo Roja abbia raggiunto i suoi obiettivi nel formare una futura popolazione assoggettabile? Si forse si. Potremmo pensare che le motivazioni per cui il Campo Roja è stato chiuso è perché è venuto a mancare il motivo per cui è stato aperto e cioè l’emergenza migranti al confine di Ventimiglia? Si forse si, gli accordi con il governo libico hanno sicuramente ridotto l’afflusso degli arrivi così come colpire le Ong che soccorrono i migranti in mare ne ha fatto morire molti di più di quelli che sono partiti. Ma non è così, Ventimiglia ci mostra visi di donne, uomini, bambine e bambini appena giunte dalla rotta balcanica o da quella mediterranea cosi come diniegati che hanno visto negata la loro richiesta d’asilo nei paesi europei.
Davanti a chi si domanda se la chiusura del Campo Roja sia peggio del suo mantenimento si potrebbe rispondere se i campi di detenzione libici siano meglio delle morti in mare o se disertare i decreti sicurezza per la gestione dei Cas sia stato peggio che continuare a gestirli nelle condizioni imposte. Forse sarebbe meglio non porsi questo tipo di domande, il rischio è che tra qualche tempo non distingueremo più ciò che ci lascia morire da quello che ci fa vivere. Il confine è poroso come dicono i sociologi ed è intelligentemente selettivo come esprimono i burocratici. Entrambi hanno ragione: lo scopo non è quello di chiudere o aprire le frontiere; non è quello di respingere o accogliere le persone migranti ma di governarle. Va da sé che la chiusura del Campo Roja o la sua (ri)apertura sono scelte che si equivalgono essendo partorite dallo stesso dispositivo che gestisce la frontiera e tenta di governarne l’umanità. Opporsi alla politica del meno peggio è l’unica risposta che ci viene da dare a chi si domanda se fosse meglio mantenere il Campo Roja piuttosto che vederlo chiudere.
La redazione