La ferocia della società: un aggiornamento da Ventimiglia

Riceviamo e pubblichiamo un contributo scritto a seguito dell’ultimo sgombero della zona ventimigliese di via Tenda, lungo il fiume Roya, dove da molti anni si rifugiano in accampamenti di fortuna le persone in attesa di passare il confine, o coloro che, pur avendo ormai ottenuto un documento in Italia, non riescono comunque a trovare una casa.

È il 10 ottobre. Il parcheggio di via Tenda, fradicio dalla notte di pioggia, rimane offuscato nella penombra dell’alba, nonostante il cielo sereno. Il sole non è ancora sorto quando una ruspa, targata Città di Ventimiglia, è già parcheggiata sul parcheggio. È ferma davanti all’unico cancello semiaperto nella recizione di ferro che separa il parcheggio dal fiume Roya, l’ennesimo confine di questa città a 10 chilometri dalla Francia.

È il giorno dopo la tempesta Kirk che ha tenuto l’intera regione in allerta gialla per diversi giorni. La notte precedente forti piogge e raffiche di vento fino a 120 km/h hanno colpito la città. Tutto ciò che rimane è un fiume in piena e un cielo terso, in attesa dei primi raggi del sole. All’alba due addetti dei servizi tecnici comunali arrivano nel parcheggio e confermano l’annunciato sgombero dell’area sotto il ponte, sulle rive del fiume Roya. Il prefetto, in carne ed ossa, arriva sul posto alle 8 del mattino per supervisionare l’operazione. Prima di lui erano già arrivati diversi camion con grossi cassoni a rimorchio: la capacità di stoccaggio è mostruosa.

Il prefetto e il suo cappellino bianco. Il balletto delle jeep dei carabinieri e delle Alfa Romeo della polizia. Alcuni abitanti del quartiere portano a spasso i cani per la cacca mattutina. L’arrivo spettacolare dei giornalisti che brandiscono macchine fotografiche e flash. Il sindaco di Ventimiglia in posa davanti ad una ruspa comunale: un incubo. Proprio per mettere in guardia da questo incubo, sotto al ponte si inizia a far circolare la voce che le persone devono svegliarsi e allontanarsi. Infatti, il ponte del cavalcavia che svetta su via Tenda e collega il centro di Ventimiglia con l’autostrada dei Fiori più a monte, funge da tetto per i molti che dormono qui nelle tende o direttamente per terra. È proprio questo tetto che le autorità sono venute a confiscare questa mattina.

I netturbini della ditta privata, seduti sul loro miniescavatore, guardano le tende sotto il ponte e si dicono: “Ok, faremo come l’altra volta: voi ammucchiate tutto verso il centro e poi noi lo buttiamo nel cassonetto”.

Non appena la voce si è sparsa tra le tende, due file di poliziotti in tenuta antisommossa accerchiano l’accampamento. Alcune persone erano già in piedi, altre si sono svegliate al suono degli stivali. Sotto minacce e ordini gridati brutalmente, tutti hanno dovuto alzarsi, raccogliere le poche cose che riuscivano portare con sé e spostarsi nell’angolo più buio sotto al ponte, verso il parcheggio della “distrib” – il parcheggio di fronte al cimitero comunale (che ora è diventato una fortezza sorvegliata da vigilantes armati) dove, la sera, le associazioni distribuiscono a turno un pasto gratuito, da consumare a terra. Questa mattina il sole inonda lo spiazzo di una luminosità sorprendente, dopo giorni di maltempo. Le persone trattenute sono relegate all’ombra del ponte, dietro la recinzione di ferro. Vengono rilasciate a poco a poco, dopo un controllo d’identità. La goccia che fa traboccare il vaso è quando un poliziotto ci dice: “Non vi preoccupate non ci saranno problemi, li conosciamo”. Il controllo dell’identità diventa un’iniqua procedura priva di senso, intrisa di violenza.

Per di più, per schedare fotograficamente la gente fermata, i poliziotti ordinano a ciascuna persona di posizionarsi esattamente nell’ unico spiraglio di luce che passa tra l’ombra del ponte e la recinzione. Foto del profilo, del viso e del corpo intero. Trasferimento della foto a Lampedusa. I giornalisti filmano sotto il ponte la distruzione delle tende, il discorso vomitevole del sindaco, mentre si cancella qualunque traccia delle persone che mezz’ora prima dormivano lì.

In un gioco di luci e ombre, si mescola lo spettacolo dell’invisibilizzazione delle persone escluse, respinte e rifiutate, con l’ipervisibilità delle truppe di Stato, la propaganda razzista e i sorrisi meschini di queste marionette politiche.

Il messaggio è quello di un bulldozer: la distruzione materiale delle tende, degli angoli di vita in cui le persone si sentono semi-autorizzate a stare. Ma è solo una parte del messaggio. La ruspa schiaccia anche le speranze, la rete di relazioni e di sostegno reciproco, la resilienza delle persone che vivono sotto al ponte e lavorano in questa città, la premurosa comunità di mutuo aiuto che rifiuta di accettare che il confine si intrometta violentemente nella vita quotidiana di tutt*.

Come fanno ad indossare al mattino i loro stivali, con quella sete selvaggia di svegliare le persone dal loro sonno per sottoporle a interrogatori umilianti, mentre vandalizzano quell’unico fazzoletto di terra che è stato loro concesso come casa?

Il capo della polizia attraversa il parcheggio con un piccione zoppo in mano, tenendolo con cautela e ostentazione davanti a sé. Presta deliberata attenzione ad attraversare il gruppo di persone solidali, le varie file di colleghi della polizia e dei carabinieri, prima di spostarsi verso il gruppo di persone ancora trattenute sotto il ponte e posare il piccione nel canneto sul greto del Roya. Il suo unico gesto di tenerezza della giornata.  I solidali sono impegnati a organizzare i sacchetti di cibo che hanno appena comprato al supermercato locale per distribuirli alle persone ancora trattenute sotto il ponte. È mezzogiorno. Il capo della polizia ha fatto irruzione nelle vite di queste persone più di 4 ore fa. A ciascuno il suo gesto di tenerezza.

Nel pomeriggio l’inferno continua. Per le strade di Ventimiglia è scoppiato un alterco tra due gruppi di persone che fino al momento prima riuscivano tranquillamente a ignorarsi per le strade di Ventimiglia: dopo aver visto calpestati i loro spazi abitativi e la propria dignità, la vita e gli equilibri di chi vive per strada vengono stravolti. C’è sempre un epilogo sanguinoso che segue ad uno sgombero. Il sole non ha fatto ancora in tempo a tramontare. Il ciclo di violenza accelera.

Il giorno dopo, il titolo di un giornale riporta a caratteri cubitali: “Dopo lo sgombero tornano le tende”. Alla recinzione di via Tenda sono stati appesi due teli con i messaggi: “STOP SGOMBERI, LIBERTA’ PER TUTTI” e “NESSUNO E’ ILLEGALE”.

Nonostante la violenza, l’invisibilizzazione, le grida mortifere dei politici, il confine sarà sempre attraversato, il cancello sarà forzato ed aperto, le persone racconteranno le loro storie da oltre il muro, gli striscioni nasconderanno gradualmente la barriera per mantenere viva la speranza di libertà per tutt*. 

Il Campo Roja di Ventimiglia ha definitivamente chiuso.

 

Tre settimane fa è iniziata a girare voce, nelle vie informali e formali di Ventimiglia, della chiusura definitiva del Campo Roja.

Neanche il tempo di capire se fosse una “soffiata” o una “trovata politica” che nel giro di pochissimo tempo e nel silenzio più assordante, sono stati gestiti gli ultimi “trasferimenti” – non si sa dove – delle ultime presenze al Campo Roja. Presenze già dimezzate durante l’emergenza Covid che ad oggi fanno pensare a un pretesto più che a una linea di contenimento per evitare che altre persone potessero infettarsi. Ormai è chiaro che le emergenze servono agli Stati per garantire questi apparati: a quella degli sbarchi si è sovrapposta quella del terrorismo e ora è sopraggiunta quella del Covid. È stata questa “nuova emergenza” a finanziare società private come GNV e Moby per il contenimento, nei traghetti di queste due compagnie, dei migranti potenziali minacce per la salute della popolazione europea.

Del Campo rimane lo scheletro di tre anni di vite che lo hanno attraversato: container, grate, gabbiotti, tornelli, qualche tenda da campo, un calcetto e la staffetta tra polizia e finanza a presidiare il nulla.

È utile ricordare che il Campo Roja venne aperto a seguito della chiusura della Chiesa delle Gianchette che ospitava donne, minori non accompagnati e famiglie e dello sgombero del campo autogestito di Via Tenda. Due realtà tra loro differenti che segnavano il dentro e il fuori: il discrimine tra chiesa e sottoponte era l’essere una donna, un minore non accompagnato, o una famiglia: in questi casi era possibile accedere all’ospitalità in chiesa. Con queste “categorie” lavoravano le Ong che avevano le Gianchette come spazio di riferimento. Ad un certo punto i mariti non furono più ammessi, se non dopo un periodo di “osservazione” per capire se fossero effettivamente tali o trafficanti, profittatori o altro… Tra le persone migranti e i solidali era condivisa la sensazione di disagio per il paradosso che spesso nasceva: persone che avrebbero voluto essere seguite da una Ong e chiedere asilo politico ma nessun finanziamento o progetto che fosse rivolto a uomini adulti. In un certo senso e, per alcune “categorie”, il dentro era uno spazio “safe” che non obbligava ad entrare nel circuito dell’asilo. Una delle ragioni per cui la Prefettura non si è accontentata dello sgombero e della pulizia del sottocavalcavia e ha spinto, fino a imporre, la chiusura dell’ospitalità delle Ghianchette. Una realtà, che per quanto legata all’ente Chiesa, era autogestita dai volontari, motivo per cui la polizia non poteva controllare chi era, letteralmente, sotto il pavimento della chiesa, protetto dalla Caritas. Ne hanno quindi ordinato la chiusura e l’ultimo giorno Polizia e Croce Rossa Italiana (CRI) si son presentati coi pullman sul sagrato a prelevare e contare chi sfuggiva all’appello, portando al campo le ultime persone che ancora erano accolte grazie alla solidarietà informale.

Nel fuori di Via Tenda non c’era nessuna condizione dettata da altri, nessuno volontario preparava i pasti, nessun investimento di significati umanitari, nessuno si occupava dell’altro se non per le reti di solidarietà spontanee tra le persone che rompevano completamente la dicotomia migrante/volontario portando a rafforzare i legami di reciprocità e la lotta al diritto di movimento.

Sgomberare il campo autogestito del sottoponte, chiudere la Chiesa delle Gianchette e aprire il Campo Roja, delegandone la gestione alla CRI, è stato il miglior compromesso utilizzato dalle autorità per affidare la presenza dei migranti a dei professionisti in una logica umanitaria – in antitesi apparente con la logica militare ma di fatto suoi collaboratori – e delegittimare, per poi reprimere, le azioni di solidarietà e lotta che negli ultimi due anni si erano espresse tanto in forma spontanea quanto autorganizzata a Ventimiglia.

Continuiamo a chiamarlo “Campo Roja” perché da quando è stato costruito – era agosto del 2017 – non ha mai avuto una “definizione giuridica”. Inizialmente venne chiamato “Centro temporaneo” poi, diventando permanente, fu definito “Centro per richiedenti asilo” ma come i Cie, i Cara, i Cpt, i Cpr e gli Hotspot rimaneva anch’esso un luogo detentivo e allo stesso tempo volutamente ambiguo: un centro di contenimento e concentramento per stranieri.

Qualsiasi nome gli abbiano dato è stato un luogo ove la temporaneità ha fatto paio con la ricattabilità. Dove la selettività si è basata su di un approccio economico, militare e aziendale intento a coniugare la sicurezza con il profitto. Lo dimostra la fisarmonicità del confine, la sua porosità come l’hanno chiamata vari tra ricercatori e sociologi che l’hanno attraversato. I burocrati europei invece gli hanno dato un nome più trendy: “Smart Border Package” una specie di confine selettivo e intelligente in grado di selezionare rapidamente soggetti e merci economicamente rilevanti rispetto a quelli che ritiene non esserlo.

La temporaneità, la ricattabilità e la selettività sono garantite dalla presenza dei diversi attori che con ruoli, profitti e servizi differenti, governano e gestiscono questi luoghi di contenimento. Per questo troviamo in qualsiasi paese e confine ove essi sono posizionati – dalla fortezza Europa fino alla Libia, al Sudan, nel Nord Africa e nel Medio Oriente – associazioni umanitarie e grandi o piccole Ong a fianco delle Polizie di Frontiera e di Stato, delle istituzioni pubbliche o degli enti del privato sociale insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e all’Onu.
Così è stato al Campo Roja ove la gestione affidata alla Croce Rossa Italiana “ospitava”, in accordo con la Polizia di Stato, le varie Ong che nell’arco di tre anni si sono alternate nella loro presenza al campo. Tra spinte umanitarie e logiche sicuritarie esse hanno partecipato al contenimento e alla repressione delle persone che lì arrivavano a prescindere dalla volontarietà che le induceva a recarsi al Campo. Così come, a prescindere dalle singole umanità che lavorano come militi o professionisti, la logica strutturale su cui questi spazi furono organizzati portava chi li attraversava come migrante ad assoggettarsi, pena l’esclusione. La stessa logica che poi troveranno una volta usciti dai centri dove, addestrati alla temporaneità e ricattabilità, diventeranno soggetti utili ai modelli di valorizzazione e di sfruttamento della “civiltà europea”. Più si insinua la precarietà più sarà agevole la loro amministrazione.

Come dicevamo all’inizio i trasferimenti delle persone dal Campo Roja sono avvenuti in un silenzio assordante: nessuna contestazione da parte della popolazione migrante, solo precarietà e silenzio. Queste sono due delle caratteristiche di assoggettamento più richieste ad oggi dal mercato del lavoro. Se spostiamo lo sguardo dai centri di contenimento dei richiedenti asilo e lo volgiamo nelle città dal Nord al Sud Italia, quante persone immigrate regolarmente vivono con il ricatto che perdendo il lavoro diventeranno espellibili? Quanti di queste si assoggettano alle condizioni di lavoratori precari e sfruttati per non perdere l’unica possibilità di non divenire irregolari? Tutto questo ha delle conseguenze drammatiche nella vita politica, sociale, economica, lavorativa e relazionale della persona straniera e della comunità intera.

Si può pensare quindi che il laboratorio Campo Roja abbia raggiunto i suoi obiettivi nel formare una futura popolazione assoggettabile? Si forse si. Potremmo pensare che le motivazioni per cui il Campo Roja è stato chiuso è perché è venuto a mancare il motivo per cui è stato aperto e cioè l’emergenza migranti al confine di Ventimiglia? Si forse si, gli accordi con il governo libico hanno sicuramente ridotto l’afflusso degli arrivi così come colpire le Ong che soccorrono i migranti in mare ne ha fatto morire molti di più di quelli che sono partiti. Ma non è così, Ventimiglia ci mostra visi di donne, uomini, bambine e bambini appena giunte dalla rotta balcanica o da quella mediterranea cosi come diniegati che hanno visto negata la loro richiesta d’asilo nei paesi europei.

Davanti a chi si domanda se la chiusura del Campo Roja sia peggio del suo mantenimento si potrebbe rispondere se i campi di detenzione libici siano meglio delle morti in mare o se disertare i decreti sicurezza per la gestione dei Cas sia stato peggio che continuare a gestirli nelle condizioni imposte. Forse sarebbe meglio non porsi questo tipo di domande, il rischio è che tra qualche tempo non distingueremo più ciò che ci lascia morire da quello che ci fa vivere. Il confine è poroso come dicono i sociologi ed è intelligentemente selettivo come esprimono i burocratici. Entrambi hanno ragione: lo scopo non è quello di chiudere o aprire le frontiere; non è quello di respingere o accogliere le persone migranti ma di governarle. Va da sé che la chiusura del Campo Roja o la sua (ri)apertura sono scelte che si equivalgono essendo partorite dallo stesso dispositivo che gestisce la frontiera e tenta di governarne l’umanità. Opporsi alla politica del meno peggio è l’unica risposta che ci viene da dare a chi si domanda se fosse meglio mantenere il Campo Roja piuttosto che vederlo chiudere.

 

La redazione

“Senza autorizzazione” – dalla frontiera di Ventimiglia

Traduciamo il comunicato con cui il collettivo Kesha Niya – che da quasi due anni opera sulla frontiera di Ventimiglia fornendo quotidianamente pasti e sostegno alle persone migranti che tentano di attraversarla – racconta i fatti dell’ultima settimana.

Le autorità, in particolare con l’interessamento del nuovo sindaco Scullino, hanno deciso di spostare ancora l’asticella della criminalizzazione della solidarietà alle persone in viaggio. Del tutto in linea, va detto, con le decisioni del governo centrale e con le azioni della precedente amministrazione comunale (tristemente nota per le ordinanze del sindacolo Ioculano di divieto di distribuzione del cibo in città alle persone migranti). Il presidio di accoglienza delle persone rilasciate dopo le detenzioni in frontiera è evidentemente diventato scomodo, probabilmente anche a seguito delle denunce della violenza della polizia di frontiera fatte sulla pagina dei Kesha e tradotte su questo blog. In maniera, a dire il vero abbastanza goffa e assai poco avveduta, le forze dell’ordine intervengono per sgomeberare un telone per proteggersi dal sole (posto sul ciglio della strada, su di un pezzo di terra di proprietà del demanio) e poche vettovaglie utili a fornire qualche genere di conforto a chi ha passato ore e ore recluso nei container della frontiera, molto spesso subendo abusi e violenze da parte della polizia di frontiera.

Il collettivo Kesha Niya, con le e i solidali rimasti sul territorio di Ventimiglia, come in questi due anni passati, intende resistere e continuare a fare quello che non solo è giusto ma non può essere vietato da nessuna legge e seppure lo fosse, continuerebbe ad essere giusto fare.

La resistenza è vita. Grazie Kesha Niya, grazie Carola Rackete, grazie a tutte e tutti, le e i resistenti che continuano a dimostrarlo con i fatti.

Martedì 25 giugno: municipale, polizia di stato e digos, con tre volanti e operatore della scientifica per le riprese, salgono al punto ristoro a poche centinaia di metri dalla frontiera, intimando alle persone solidali di allontanarsi

 

Segue traduzione del comunicato dei Kesha Niya.

 

Negli ultimi tre giorni, la polizia è venuta ogni giorno alla colazione a ridosso del confine per sgomberarci.
La prima mattina abbiamo ricevuto la visita di un uomo vestito di blu. Prima ci ha chiesto cosa stessimo facendo, per poi dirci che non possiamo distribuire cibo senza autorizzazione. Abbiamo provato a spiegare che la polizia era già venuta diverse volte e che non era mai stato un problema, a patto che avessimo portato via ogni cosa finita la distribuzione. Ma l’uomo in blu ha chiamato qualcuno e se n’è andato. Qualche minuto più tardi, è arrivata la polizia dicendo che non eravamo autorizzati ad essere lì, accusandoci di occupare lo spazio in maniera abusiva. Ci hanno detto di andarcene, altrimenti ci avrebbero portato in commissariato. Mentre, lentamente, impacchettavamo tutto, sono arrivati i carabinieri. Ci siamo seduti vicino alla macchina per fare qualche telefonata e avvisare di diffondere la notizia. Ma la polizia ci ha raggiunti, dicendoci che non potevamo stare neanche lì, perché era un’area adibita a parcheggio.

Lo stesso giorno è apparso un articolo sui giornali locali, nel quale si diceva che il sindaco era molto contento del lavoro della polizia e che avevamo installato una vera e propria cucina da campo. Ha aggiunto che con l’estate il problema degli attivisti che cercano di aiutare i migranti sarebbe riapparso.

Il giorno seguente, la polizia locale è venuta nel pomeriggio e ci ha detto si togliere tutto. Quando abbiamo chiesto perché, hanno detto “perché siamo la legge e vi diciamo di fare così”. Quindi, abbiamo chiamato un avvocato per un consiglio e abbiamo discusso sul da farsi. Dopo qualche tempo, la polizia ci ha detto che avevamo due minuti per portare via tutto, altrimenti ci avrebbero portati al posto di polizia. Abbiamo lentamente iniziato a impacchetare tutto, tranne il telo che ci protegge dal sole. Qualche minuto ancora e la polizia ci chiede di levare il telo. Quando abbiamo chiesto spiegazioni e se valesse lo stesso per gli ombrelloni dei turisti sulla spiaggia, ci hanno risposto che il telo non è autorizzato, mentre gli ombrelloni lo sono. Mentre spostavamo le cose della colazione, un poliziotto ha aggiunto che se non ci muovevamo ci denunciava. Abbiamo cercato di capire con quale motivo ci stavano “sgomberando” e se c’è una legge che motivi le loro azioni, ma di nuovo hanno risposto: “Non ti deve interessare la legge, lo fai perché ti dico di farlo” . Poi ci hanno chiesto di mostrare i nostri documenti. Uno dei poliziotti ha aggiunto che se non ci davamo una mossa ci denunciava. Abbiamo chiesto per quale motivo e lui ha risposto “Non sono affari tuoi, intanto ti io ti denuncio e poi lo scoprirai il perché”. Quando hanno chiamato il commissariato, abbiamo lentamente rimosso il telo e poi mostrato i nostri documenti di cui hanno fatto delle foto.
Nello stesso giorno, sul giornale locale appariva una dichiarazione del sindaco che annunciava che sarebbero venuti a controllare ogni giorno e che nessuno può fare certe cose senza autorizzazioni. Aggiungendo: “questi attivisti non saranno autorizzati a stare lì”.

Il giorno seguente, una donna facente parte di Amnesty International è venuta da noi. Ci ha spiegato che aveva chiamato la polizia di frontiera a Ventimiglia e che questi avevano detto che quel che stavamo facendo non era vietato. Più tardi, 10 poliziotti sono venuti a dirci che quel che stavamo facendo non era permesso, dandoci spiegazioni differenti (presidio illegale, campeggio, occupazione abusiva…), ma dicendo anche che il giorno dopo saremmo potuti tornare: non sapevano cosa sarebbe successo il giorno dopo, non dipende da loro.

Non smetteremo di andare alla frontiera a preparare la colazione. Restiamo e resistiamo.

NO NATION. NO BORDER. FIGHT LAW AND ORDER!

(contro le nazioni e le frontiere, combatti la legge e l’ordine costituito)

Ventimiglia, Trenta giugno 2018: costretti a nascondersi

Trenta Giugno, zona di confine. Alle 10.00 di sabato 30 Giugno 2018, di nuovo, dopo l’ultimo sgombero, troviamo aumentate le persone che dormono sotto il ponte in via Tenda.

Vediamo circa una quarantina di giacigli. Alcuni uomini in piedi, altri ancora sotto le coperte. Chiediamo loro se hanno qualche problema di salute e ne visitiamo un paio. 

Ci aiuta per la traduzione un ragazzo sudanese dall’aria molto tesa. La maggior parte di coloro che si sono fermati per passare la notte sull’argine del fiume sono giovani sudanesi. Decidiamo di salire l’argine fin dove è possibile. L’ambiente è ancora cambiato. Molti territori sono diventati paludosi e dopo il ponte dell’autostrada è difficile proseguire. Ritorniamo indietro guadando le insenature del fiume.                                                                                                                                                                                                                    

Durante questo percorso riconosciamo e fotografiamo diversi segni di presenza di persone in viaggio: carte da gioco che insegnano i pericoli delle ferrovie, detersivi per lavare i piatti appoggiati vicino all’argine del fiume, lamette riposte ordinatamente in modo da poterle riutilizzare, saponi.

Ci rendiamo conto che esseri umani in viaggio sul nostro territorio sono sempre più costretti a nascondersi e ad adattarsi a condizioni di vita assurde.

Coloro che incontriamo ci dicono che il campo della croce rossa è affollato, con circa 500 persone e che continuano le deportazioni al sud nei giorni feriali, con autobus della Riviera Trasporti. Molte persone, nell’impossibilità di fermarsi sull’argine del fiume durante il giorno, sono costretti a percorrere a piedi varie zone della città, senza una meta.

Andiamo in riva al mare. Anche lungo questo percorso riconosciamo luoghi di pernottamento.

Sulla spiaggia vediamo famiglie e giovani. Il dispiegamento di forze dell’ordine è ingente, anche perché in serata ci sarà una festa patronale che comporterà la chiusura al traffico. Dopo aver pranzato e parlato con Delia, ritorniamo verso via Tenda. Nel pomeriggio tardi passiamo all’infopoint Eufemia. Ci sono persone che conosciamo e tanti ragazzi che sono in attesa di vedere insieme i mondiali di calcio in streaming.

In effetti il calcio è anche il gioco più diffuso tra i giovani maschi in viaggio – ricordiamo ormai centinaia di partite (anche in ciabatte) sotto il sole a picco o al freddo pungente, sull’asfalto di un parcheggio.

All’infopoint visitiamo alcune persone e medichiamo ferite. Sulla porta ci si avvicina un ragazzo. Richiede farmaci antidolorifici come ossicodone e paracetamolo. Il ragazzo è magro, ha il viso tirato e occhi tristi. Chiediamo per quale motivo assuma questi farmaci. Si alza il pantalone e vediamo che c’è un evidente disallineamento delle ossa della gamba destra.

                                                                                                               

In Libia gli hanno fratturato la tibia ed il perone a scopo di tortura e l’hanno lasciato senza alcuna assistenza. La saldatura tra i capi delle ossa fratturate si è compiuta in modo incongruo, dando luogo ad un danno permanente e solo la chirurgia potrebbe migliorare la situazione. Ci dice che ovviamente camminare in questa condizione provoca dolori importanti su tutto l’arto inferiore dall’anca al piede. E’ già arrivato in Francia e per due volte è stato rimandato indietro alla frontiera.

Gli forniamo degli antidolorifici e cerchiamo di spiegargli che l’assistenza sanitaria in Italia è ancora universale e gratuita per chi non ha mezzi per pagare, che necessita di un intervento chirurgico e che a seguito di questo potrebbe camminare molto meglio.

Rifiuta questa idea, continuando a dirci che prima dovrà raggiungere la sua destinazione.

Ci rimane l’immagine della frattura, pensiamo a come sia possibile che continui a camminare con quel dolore, a tutte le persone torturate e danneggiate permanentemente che sono in viaggio, vittime di violenza dei nuovi campi di concentramento che il nostro Governo finanzia, in accordo con le strutture di potere europee.

Facciamo un giro con l’auto prestataci da una solidale. Arriviamo ai balzi rossi, passiamo la frontiera, sempre molto controllata.

Poi torniamo al parcheggio davanti al cimitero, dove volontari portano la cena. C’è un gruppo di cittadini della Val Roja che fornisce tavoli, fogli e colori per disegnare. Alcuni ragazzi sono impegnati, diversi disegni sono appesi alle grate che circondano il parcheggio. Un ragazzo sudanese disegna la bandiera della Palestina.

Arriva la cena. Ci saranno un’ottantina di persone. Pochi chiedono il nostro aiuto.
Si percepisce negli atteggiamenti e dagli sguardi dei giovani uomini che incontriamo, un malessere sempre maggiore. Immaginiamo che la durezza del viaggio, l’impossibilità anche di fermarsi un attimo per riposare, il fatto di essere costantemente in fuga, li esasperi.

La domenica mattina ritorniamo al parcheggio davanti al cimitero.

Assistiamo alla sveglia da parte della polizia delle persone che si trovano sotto il ponte. Ci avviciniamo loro e cerchiamo di parlare, ma la stanchezza e la tensione che si percepiscono rendono ormai la comunicazione molto difficile.

Alcuni ragazzi mangiano qualcosa su un pezzo di carta, per terra. Ci continuano ad offrire la colazione che si divino in sei o sette.

Dopo aver fatto diversi giri, semplicemente ci sediamo per terra nel parcheggio con loro. Ancora l’immagine irreale di un gruppo di ragazzi che gioca a pallone in un parcheggio. Sulla sinistra, un campo di calcetto sempre chiuso e vuoto, davanti il cimitero, a destra, l’inizio di un quartiere popolare abitato da immigrati calabresi il cui viaggio è ormai troppo distante perché possano venire a confrontarsi con i giovani che ci troviamo davanti.

Arriva un’auto rossa, un uomo molto grasso scende, arriva nei pressi dei ragazzi e offre a tutti sigarette. Rimane a parlare con diversi di loro per un po’, poi torna in macchina e resta a guardarli

Lia Trombetta, Antonio Curotto

Verso lo sgombero dell’accampamento dei migranti: la quiete prima della tempesta

 

Verso lo sgombero dell’accampamento dei migranti. Ventimiglia, lungo il fiume Roya. 17/04/2018.

Presenza costante di 150 -200 persone in media in viaggio verso l’Europa. Dalla primavera del 2016, un poco alla volta, sono sorti accampamenti spontanei sotto al ponte del cavalcavia che costeggia il fiume. Qualche coperta buttata su pezzi di cartone sono stati i primi segnali di un insediamento precario, eppure necessario, per trascorrere le notti di attesa tra un tentativo e l’altro di attraversare la frontiera italo-francese. Poi sono spuntati, tra i migranti più organizzati, i primi sacchi a pelo, materassi e stuoini. Piano piano, un po’ donate da volontari e un po’ costruite con mezzi di fortuna (pezzi di ferro, bastoni e teli di plastica), negli ultimi mesi sono state approntate tende, tendoni e teepee. A un certo punto qualcuno ha ritenuto necessario sistemare una zona del campo, tra sterpaglie e ghiaia polverosa, per adibirla a moschea: tappeti, grosse pietre a delimitare l’area, uno scaffale arrugginito per ordinare due o tre scritture sacre. Ultimamente erano sorte strutture sempre più simili a delle vere e proprie casette in legno, teloni e coperte. Sono stati recuperati un paio di generatori e fornelletti da campo. Qualcuno particolarmente ottimista e intraprendente aveva aperto in una di queste baracchette un chiosco take away con tazze di latte caldo, samosa fritti, piatti di  verdure calde.

Tra cumuli di immondizia, risse tra trafficanti, distribuzioni di cibo e coperte, identificazioni quotidiane, fughe rocambolesche verso la Francia, deportazioni al sud Italia, famiglie che si spezzano e amici che si ritrovano, affari leciti, illeciti, fantasiosi o fallimentari, si sopravive come si può. Ma la situazione diventa sempre più tesa, scoppiano liti violentissime tra le differenti nazionalità: per il controllo del traffico, per aggiudicarsi una tenda vuota, per furti reciproci dei pochi beni con cui viaggiano le persone migranti, per la stanchezza, la paura, la frustrazione.

Il quartiere delle Gianchette si lamenta, le sassaiole degli ultimi mesi e i continui focolai di crisi nutrono un’intolleranza popolare che si fa via via più sorda verso qualsiasi ragionevole soluzione. Le istituzioni si rifiutano anche solo di prendere in considerazione una struttura di transito dignitosa e protetta per le donne e i minorenni. Resta a disposizione il famigerato campo della Croce Rossa, troppo distante e troppo pericoloso per chi non può o non vuole rischiare di finire tra le mani della polizia che circonda il campo e controlla chiunque vi entri tramite impronte digitali.

La primavera ormai è inoltrata, gli arrivi aumenteranno mano a mano che il bel tempo e il mare calmo spingeranno le persone a tentare l’attraversata del Mediterraneo: bisogna “ripulire” Ventimiglia, dare un bel colpo di spugna a tutti e tutto quello che prolifera sotto al ponte. Si indugia; aumentano le ronde delle pattuglie; si invocano presidi militari; si susseguono riunioni tra amministrazione comunale, prefettura, questura, comitati di cittadini. Le elezioni politiche consacrano le destre anti-immigrazione; la gente del quartiere minaccia rivolte e sparge insulti un po’ ai migranti e un po’ a chiunque, volontari o associazioni, provi a dargli una mano. La bottiglia è colma e il tappo, per la millesima volta, sta per saltare ancora.

Eccola di nuovo: l’ordinanza di sgombero primavera-estate dell’accampamento dei migranti a Ventimiglia! Questa volta siamo nel 2018 ma le cause, le dinamiche e purtroppo le conseguenze, sono quelle di sempre. Questa volta non basteranno delle semplici pulizie, come era avvenuto quest’inverno: si deve smantellare tutto. Questa volta non ci sono borsoni e sacchi a pelo, ma una vera e propria cittadella che, in espansione come un’ennesima jungle europea, arriva a lambire le coscienze, il quieto vivere e il decoro di una città che non vuole accettare di essere, e quindi di organizzarsi, per quello che è: una città di frontiera. Davanti ad una frontiera sprangata.

Settimana scorsa si rompono gli imbarazzi: associazioni e ong, convocate dalle istituzioni, apprendono la decisione di sgombero fissato per mercoledì 18 aprile, e vengono invitate a diffondere l’informazione tra le persone migranti, ed a convincere le stesse a spostarsi piuttosto al campo della Croce Rossa. La rassicurazione: per tutta la settimana non verrano organizzati pullman per i trasferimenti forzati al sud Italia, ma la gente deve spostarsi di sua spontanea volontà e lasciare libero lo spazio per i mezzi che entreranno in azione per attuare lo sgombero. Anzi, veramente sui giornali e tra le istituzioni si afferma con convinzione che non si tratti di uno sgombero: l’obiettivo non è portare via le persone (almeno per questa settimana, dalla prossima si ricomincia con le deportazioni e non ne dubita nessuno), ma demolire tutte le loro cose, così da convincerle a sloggiare. Pare che in virtù di questa sfumatura non lo si voglia definire sgombero. Chiamiamolo demolizione, accanimento, miope provvedimento. È lo stesso: domani mattina all’alba arriveranno ruspe, blindati, e il solito armamentario per le occasioni spiacevoli.

Nella giornata di oggi il numero delle forze dell’ordine presenti sul territorio è iniziato ad aumentare: nella serata, una dozzina almeno di pattuglie parcheggiate attorno al commissariato, invece delle solite due o tre, segnalavano un’evidente riunione di coordinamento in corso.

Nel frattempo sotto al ponte ha iniziato a diffondersi un clima strano: l’aria malinconica di qualcosa che sta per finire, ma anche reazioni di orgoglio da parte di molti: non tutti sono disposti ad andarsene, anzi. Una ventina di tende sono state smontate, ma la stra maggioranza delle strutture, verso l’orario di cena, erano ancora tutte lì. Alcune vuote ma moltissime ancora con dentro i ragazzi e le loro cose. Dei gruppetti di migranti particolarmente determinati hanno detto che non se ne vogliono andare, diverse altre persone che si stavano facendo gli affari loro hanno risposto a spallucce agli avvisi di sgombero diffusi dagli operatori delle associazioni.

Volontari di diverse sigle e associazioni hanno distribuito volantini multilingue x spiegare la situazione e delle borse in tela x chi volesse mettersi al riparo le cose da portarsi via. Hanno inoltre suggerito alle persone di smontarsi le tende e metterle in salvo, ma non tutti appunto erano interessati alla faccenda. Nella serata di ieri, lunedì 16 aprile, un gruppone di ragazzi ha fatto un fatalistico festone di addio al campo; ma alle sette e mezza di stasera c’erano ancora almeno un centinaio di persone alla regolare distribuzione di cibo nel parcheggio dinnanzi al cimitero.
Per tutto il giorno nel piazzale delle Gianchette c’è stato un blindato, due o tre pattuglie di polizia e carabineri, mentre i top graduati delle forze dell’ordine si facevano avanti e indietro la via. Molte comunque anche le persone che si stavano organizzando per partire stanotte, sebbene non fossero la maggioranza.

Voci di corridoio dicono che i mezzi della Docks Lanterna -netturbini, ruspe e ruspette, container e disinfettanti- arriveranno intorno alle otto di domani mercoledì mattina, ma che l’antisommossa, mobilitata per ogni evenienza anche se, come detto, non vuole assolutamente essere uno sgombero, arriverà invece anche prima. E i capoccia del commissariato hanno tenuto a sottolineare che il tempo per fare i bagagli scade stasera: domattina vogliono trovare vuoto. Cosa succederà a chi non se ne è ancora andato, non è dato sapere. Ma hanno specificato che non verrà lasciato il tempo alla gente, domattina, di prendersi nulla: quello che domani è ancora lì, sarà distrutto.

Un pò di ragazzi, con l’arrivo della sera, si stavano spostando a dormire in stazione. La zona della stazione, le postazioni di polizia in frontiera, e in generale le strade della città, con il finire del pomeriggio, erano stranamente vuote rispetto all’ordinario sguinzagliamento di pattuglie e militari: la quiete (e i meeting operativi) prima della tempesta.
Per tutta la notte, domani e anche nei giorni a venire, gruppi di solidali si sono organizzati in turni per monitorare l’evolversi della situazione.

Al momento è difficile prevedere se le persone, evacuate dal ponte, cercheranno riparo in uno dei pochi posti solidali ancora aperti, se preferiranno nascondersi da qualche parte, andare spedite verso i valichi di confine, o cercare riparo momentaneo nelle sale della stazione. Quello che invece si percepisce è confusione, fatalismo, goliardia, rabbia: ragazzi che si affannano a chiudere zainetti, altri che si fanno friggere i samosa al chioschetto-ristorante, altri che brindano, altri che provano a capire cosa accidenti stia succedendo, altri che cercano di saltare sugli ultimi treni della serata verso la Francia, altri che continuano imperterriti a dormire sepolti dalle coperte in mezzo alla spazzatura e quasi sembrano morti, altri ancora che vanno semplicemente avanti coi loro traffici: un ragazzo eritreo è stato imbrogliato da un altro che si era offerto di ritirargli i soldi mandati dalla famiglia.

Quando il ragazzo eritreo ha preso una banconota da cinquanta per andare a comprare al supermercato pannolini e omogeneizzati per due bimbi di pochi mesi che viaggiavano con lui, questa si è rivelata essere falsa. Alla cassa del supermercato hanno deciso di chiamare la polizia: alla fine, dopo un paio d’ore, il ragazzo è stato rilasciato e tutto si è risolto, ma nel delirio del Titanic che affonda è scoppiata per un pò anche questa piccola crisi, con la ragazza sua compagna terrorizzata e in lacrime, mentre intorno la gente impacchettava tende, litigava per assicurarsi un passaggio notturno verso l’Europa, giocava a carte, mangiava polpette fritte, solcava il selciato lurido del sottoponte avanti e indietro, avanti e indietro, senza sapere bene che fare.

Probabilmente la metafora non è felicissima, ma l’immagine che saltava alla mente oggi pomeriggio ( mentre stamattina il clima era ancora abbastanza calmo) è quella di un formicaio improvvisamente scoperchiato da una scarpata. Ognuno che si affanna a racimolare le proprie cose e i propri affetti, a capire dove può andare e che fare, a correre di qua e di là per le due strade che gli sono concesse di percorrere senza essere additati e insultati dalla “Ventimiglia bene” o portati via dalle polizie, a sgomitare per ricaricarsi i cellulari. Come un formicaio inaspettatamente scoperchiato da cui fuoriescono formiche impazzite che devono interrompere il proprio quotidiano lavorìo e riorganizzarsi per affrontare, ciascuna come crede, l’imminente pericolo che incombe.

I sentimenti dei tanti solidali, attivisti, volontari e operatori presenti a partire dall’inizio di questa settimana sono altrettanto schizofrenici: in bilico tra la rabbia per una situazione drammatica e inquietante, pieni di adrenalina e pronti a intervenire laddove si dovesse rendere necessario, un po’ allibiti, un po’ tristi, un po’ ironici davanti a questo formicaio esploso, molto amareggiati per il poco che si può fare, operosi nel cercare soluzioni dell’ultimo minuto ed elargire informazioni a chi cerca di raccapezzarsi nel proprio destino minato per l’ennesima volta, preoccupati per gli eventi in arrivo, un po’ esasperati e un pò ammirati da chi non vuole mollare il presidio rocambolesco che, nei mesi, si è evoluto da un cumulo disordinato di sacchi a pelo a una vera e propria cittadella.

Domani sarà una giornata di trenta ore su ventiquattro.
Sta per arrivare una mazzata come non se ne vedevano da un pò di tempo.
Tutti sappiamo che cambieranno (almeno per un pò) parecchie cose.
Tutti sappiamo che non cambierà nulla.

Owl

Tra sgomberi, pulizia e ruspe: l’abitudine è la notizia

La notizia: Giovedì 18 e Venerdì 19 Gennaio, è stato eseguito un intervento straordinario di pulizia del lungofiume Roja e dei buchi sotto al ponte ferroviario (le feritoie che servono a far defluire le acque in caso di piena del fiume, così che non crollino i pilastri che reggono la ferrovia).

La storia è sempre la stessa, ormai, dall’inverno 2015/2016: le persone in viaggio si sono costruite nel tempo prima dei giacigli, poi delle piccole baracche isolate, ed attualmente una sorta di accampamento per la sopravvivenza. Con uno spazio per la lettura, uno per la preghiera, passeggini, giochi di società e un “punto barbiere”.
Lungo il fiume non ci sono soltanto le persone che tentano il primo giro di attraversamento della frontiera: molti uomini e molte donne sono al secondo, terzo, decimo tentativo. Altre ed altri, invece, avevano raggiunto da mesi il nord Europa, e adesso sono di nuovo qui perchè dublinati dagli altri paesi, sono stati rimandati al punto di partenza.1

Ci sono persone che hanno perso il posto in accoglienza, o che sono in attesa del ricorso per la richiesta d’asilo, o che hanno già ricevuto un diniego ma aspettano l’appello, o che non riescono a rinnovare il permesso. Ci sono anche quelle persone che hanno ricevuto il documento ma, non potendo trovare una casa e un lavoro in Italia, tentano fortuna altrove. Ci sono persone che, semplicemente, ormai stanno qui.2

A centinaia, nei mesi, si sono riparate tra i cartoni e i pilastri del cemento, riorganizzando le proprie vite lungo le sponde di un fiume inquinato, in una cittadina di frontiera divenuta ostile e pericolosa, a ridosso di un confine sempre più violento e blindato.

Ma passare, comunque, si passa. Si paga in molti modi diversi, con convinzioni e paure diverse, con vantaggi e privilegi diversi, con conseguenze diverse. A volte si muore. A volte si scappa.
Il più delle volte si torna indietro, e si ricomincia.3 4 5  6 7

Molte sono le vite che hanno abitato ed abitano tutt’ora l’alveo del fiume Roja, l’ultimo corso d’acqua del ponente ligure che scorre anche in Francia, che è divenuto così un protagonista mediatico delle vicende frontaliere legate all’”emergenza migranti”.
Vicende che però hanno origini precedenti rispetto alle “pulizie straordinarie” lungo al fiume.

All’inizio dell’inverno 2016, ritenutasi conclusa l’”emergenza” estiva, venne decisa la chiusura del centro di Croce Rossa Italiana che si trovava allora in Piazza Cesare Battisti, accanto alla stazione e quindi in pieno centro. L’allora ministro dell’Interno Alfano, in visita alla città di frontiera, il 7 maggio 2016, dichiarò che i migranti non sarebbero più arrivati e che il centro era ormai quasi vuoto.9 10 11 12 13 14 15

Solamente pochi mesi dopo si ordinava un’apertura d’urgenza del nuovo campo CRI, preparato in fretta e furia nella desolata periferia ventimigliese per dirottare fuori città l’arrivo ininterrotto di gente che cercava ristoro alla chiesa di Sant’Antonio delle Gianchette. Questa, dal giugno 2016, era divenuto infatti l’unico punto d’accoglienza disponibile.
Nel passaggio che intercorre tra la chiusura del piccolo centro CRI in stazione e il nuovo campo CRI in periferia, quindi nell’arco dell’inverno/primavera 2016, le persone in viaggio hanno subìto una progressiva messa al bando dagli spazi del centro cittadino.
Alfano aveva promesso che non ci sarebbero più stati migranti, e quindi si iniziarono a mandare le prime ruspe per fare repulisti dei ripari di fortuna che stavano sorgendo in stazione e alla foce del Roja, nelle fasce di sabbia dove il fiume raggiunge il mare.

Nella mattinata dell’11 maggio 2016, quando le ruspe arrivarono assieme ai vigili urbani, la maggior parte delle persone, preavvisate dall’affissione delle ordinanze e dal passaparola dei solidali, decisero di spostarsi più a monte lungo l’argine sinistro del fiume, andando ad occupare con coperte e bagagli lo spazio che risulta protetto dalle piogge sotto al ponte del cavalcavia.16 17

Per quasi tre mesi la gente in viaggio, supportata dalla solidarietà di attivisti, volontari, commercianti della via adiacente al fiume (Via Tenda), era riuscita qui a trovare un posto relativamente sicuro in cui prendersi il tempo per capire il passo successivo nel proprio percorso.
Tutt’intorno infuriavano le operazioni di rastrellamento delle forze dell’ordine, che pattugliavano la città dragando le strade e organizzando retate e inseguimenti nell’area della stazione, per catturare i clandestini. 18 19 20 21 22 23
Il governo del PD, il sindaco Ioculano, il ministo Alfano ed il capo della polizia Gabrielli, avevano promesso che i migranti sarebbero spariti dalle strade della città. Perciò per non perdere voti e faccia, nello stesso periodo delle ruspe lungo il mare e dello smantellamento del campo CRI in stazione, scattò quindi la pratica cittadina della caccia all’uomo nero.
L’obiettivo di questi interventi, che nei mesi hanno implicato anche l’uso di violenza e tortura (24 25 26 27), era catturare il numero giusto di migranti rispetto ai quotidiani posti disponibili per mandarli altrove, preferibilmente nel sud Italia, spostandoli con pullman della rete locale dei trasporti (e per tutto il 2016 anche con aerei e traghetti). Da allora non si è più smesso di farlo.28 29 30

La situazione di intolleranza rispetto alla presenza delle persone migranti in città portò al braccio di ferro tra sindaco e prefettura conclusosi, il 27 maggio 2016, dopo saltimbanchi politici e riti di convenienza, con la firma della prima ordinanza di pulizia e sgombero del lungo fiume Roja. 31 32 33 34 35

Le risposte che da allora si sono susseguite, dall’accoglienza momentanea in Caritas per un paio di giorni, ai mesi di ospitalità nelle sale parrocchiali della chiesa di Sant’Antonio, fino all’apertura del campo CRI nell’ex parco ferroviario di Trenitalia, non hanno mai convinto le persone a rinunciare alla propria volontà di decidere dove e come dormire, a che ora mangiare, a che ora andare a letto.36 37

La gente ha sempre preferito le sponde del fiume: un luogo difficile e malsano, in cui tuttavia è possibile costruirsi un microcosmo di autonomia, fatto di relazioni e di suggerimenti, di prassi da campo, condivisione e strategie della sopravvivenza, di servizi utili, anche se a pagamento. La gente ha preferito restare sul ciglio della strada perchè non è arrivata fino a qui per stare nei container recintati da inferriate e polizie.
Ma per organizzarsi e tentare, di notte e di giorno, di superare il confine.
Se la vita tra topi e scabbia non è confortevole, per moltissimi restano preferibili queste piaghe al  farsi toccare da mani coperte con i guanti di lattice di operatori CRI e forze dell’ordine. E al farsi identificare ancora e ancora e ancora. I giornalisti, da anni e fino agli ultimi servizi circa la pulizia del fiume in questione, continuano a scrivere che la gente non vuole lasciare le impronte.38

Ma la verità è che la quasi totalità delle persone che transitano in Italia sono già state identificate. Una due, mille volte. E che si sono semplicemente stancate di essere spostate e trattate e comandate come massa di corpi da gestire.
Non solo il campo istituzionale della CRI è sempre stato inadatto e comunque insufficiente a garantire minimi standard di dignità. Senza bisogno di ricordare la promiscuità tra gli spazi per le donne, le bambine e i bambini e quelli per gli uomini. Senza bisogno di ripetere che per raggiungere il campo si devono fare chilometri dove sfrecciano automobili.39 40

Con uno sguardo diverso dall’ottusità della retorica emergenziale e assistenzialista, appare davvero bizzarra la reazione continua di stupore e fastidio delle istituzioni nei confronti delle persone che decidono di vivere nella plastica lungo un fiume: queste persone, scegliendo il ponte del cavalcavia, scelgono di auto determinare i propri percorsi e le proprie esistenze in maniera indipendente.
Perchè devono andare avanti. Perchè creano reti di informazioni e di comunità, reincontrando gli amici e i parenti che hanno provato prima di loro a passare il confine. Perchè lì incontrano i lavoranti che ti fanno arrivare in Francia. Perchè lì possono vivere senza coprifuoco e senza l’umiliazione di sfilare continuamente sotto agli occhi di blindati e scanner per impronte digitali, che gli ricordano quotidianamente come qui siano considerati: criminali.

Nello scorrere dei mesi e  con il crescere di un’intolleranza razziale che mette radici sempre più profonde, sono arrivate altre ruspe, altre ordinanze d’urgenza, altri divieti di portare cibo alla gente. Le polizie hanno proceduto nell’identificazione dei solidali ma anche degli operatori delle associazioni, che, di volta in volta, portavano assistenza medica, compagnia, supporto legale, giacconi, sostegno, sacchi a pelo, un saluto.41 42 43 44 45 46

Dove all’inizio scattavano orrore e allarme, è subentrata l’assuefazione.


È diventato consueto vedere baracche ruspate e ascoltare ciclici proclami comunali a proposito di gran repulisti. Non molti mesi addietro le istituzioni avevano proposto persino di murare i buchi del ponte  per far sloggiare la gente, ma la verità è che le feritoie non possono essere chiuse (anche se negli ultimi giorni si vocifera circa una possibile installazione di grate mobili, removibili in caso di piena ) o il ponte rischia di crollare se il fiume si ingrossa. Così come la verità è che la gente, per quanto la si colpisca e la si umili, non rinuncia facilmente a decidere da sola cosa sia meglio per sé.

Le persone sono tornate e ritornate sotto al ponte. In una situazione certamente sconfortante dal punto di vista sanitario, che però è inevitabile vista la precarietà in cui sono obbligati a vivere quelli che da lì passano, e visto che ogni soluzione differente è stata annientata nel tempo.
Ci sono stati ripetuti passaggi tra le istituzioni e le varie ONG (arrivate sul territorio della frontiera ventimigliese a partire dall’estate 2016).
Le associazioni hanno proposto molte strutture alternative al campo ipermilitarizzato della Croce Rossa: hanno chiesto centri per minorenni e donne, hanno avanzato suggerimenti che la prefettura ha fatto cadere nel vuoto. Volontari e operatori, dalla chiesa agli scout, da medici a psicologi, hanno chiesto che la chiesa di Sant’Antonio delle Gianchette, una risposta informale e organizzata dalla spontaneità dei volontari per la tutela delle cosiddette categorie vulnerabili, venisse risparmiata dalla chiusura. 47 48 49 50 51 52

L’avanzamento della falce repressiva, che mette la gente in viaggio in situazioni di volta in volta sempre più estreme, provanti, mortificanti, sta spingendo migliaia di donne e uomini, migliaia di storie e possibilità, nell’angolo della ghettizzazione.
Un processo concreto (lo spostamento di tutta l’”emergenza migranti” verso aree sempre più esterne della città) e simbolico (il linguaggio ed i toni con i quali si parla di uomini e donne che arrivano dall’Africa e dal Medio Oriente: clandestini, profughi, gli invisibili 53), che rende molto più facile dimenticarsi di avere a che fare con esseri umani.
E rende facile metabolizzare la sospensione dell’apertura a Ventimiglia di venti posti in accoglienza per bambini, a seguito di un corteo di pancia della parte intollerante della cittadinanza, quella convinta dalla campagna della paura e dall’odio razziale.

Gli umori della città si sono fatti via via sempre più ostili e sembra ormai lontano il tempo in cui Ioculano si faceva scrupoli nel dover mettere in atto provvedimenti di sgombero, perchè “viviamo difficoltà che non riguardano la mia pelle: tra uno o due giorni non mandano via me, mandiamo via questa gente”. 54 Nel maggio del 2016 il sindaco ci tenne a ricordare che l’ordinanza di sgombero era dovuta e che era una questione che riguardava la questura ma che era dispiaciuto per la grave situazione umanitaria in cui versavano le persone. Oggi, questo stesso sindaco, vorrebbe istituire dei presidi militari fissi lungo il fiume Roja, mentre si invoca un aumento delle risorse armate dell’operazione “strade sicure”.

Mentre i mesi passano e il confine si fa sempre più potente e opprimente, tutto diventa ordinario e ci si abitua a “soluzioni” mano a mano più odiose.
Che soluzioni non saranno mai, finché restano presidiati i valichi di frontiera e negata la libertà di circolazione delle persone. Finché si vuole decidere per loro, e non assieme.
Si ordina senza tregua a volontari e operatori delle associazioni di andare a dire alla gente di levarsi dalle sponde del Roja per mille motivi: perchè ci sono gli attivisti, perchè ci sono le piogge, perchè c’è troppo caldo, perchè ci sono le malattie, perchè fa troppo freddo…e così via a seconda delle stagioni. Un tentativo ininterrotto di escludere queste persone dalla visuale dell’elettorato, per spostarle nella periferia della città e delle coscienze.
Nessuno si preoccupa di domandare alle persone che scelgono quegli spazi perchè stiano lì, perchè preferiscano l’acqua gelata del Roja all’acqua gelata delle docce al campo.

All’ultimo consiglio dell’amministrazione comunale, il 21 novembre 2017, si è stabilito di far diventare regolamento di polizia urbana il divieto di dare il cibo in strada, che fin’ora era stato in vigore solo come ordinanza sindacale: una misura per sua natura emergenziale e quindi transitoria (letteralmente: “contingibile ed urgente”).
Come risposta al consesso comunale la macchina si mette in moto: Martedì 16 Gennaio viene firmata l’ennesima ordinanza di pulizia del fiume. ordinanza sgombero16-01-2018 Controversa nei contenuti perchè preannunciava le pulizie dei fornici del ponte (i tunnel nei pilastri ferroviari), ma parlava anche degli accampamenti lungo il fiume.55 56 57 58

Il clima è teso nelle ultime settimane: anche se il natale e la fine dell’anno appena passata hanno distratto i manifestanti più xenofobi dai proclami “alla Salvini” (59 60 61), Ioculano e il PD non si scordano che le elezioni del 4 marzo si stanno avvicinando.
Il sindaco passeggia lungo via Tenda, visita il centro della Croce Rossa, sentenzia contro attivisti e volontari, invoca presidi militari nel mezzo della città. E manda le ruspe.

Giovedì 18 mattina, la giornata prevista per l’inizio delle pulizie, un numero importante di giornalisti è arrivato sotto al ponte, aspettandosi uno sgombero mediaticamente succulento sul quale costruire uno scoop che “tirasse” l’audience. Tra reporter, associazioni, polizia, volontari, solidali e operatori ecologici, lo spettacolo ha avuto inizio circondato da ruspe, autovetture con lampeggianti, container per i rifiuti: alle otto del mattino, non mancava nessuno. Soprattutto, erano ben vigili tutte le donne e gli uomini che vivono nella tendopoli, tesi nell’ansia di capire se le fantomatiche “pulizie” sarebbero rimaste tali o se invece era in arrivo uno smantellamento di tutti i rifugi.

Nonostante la folta schiera dei media si aspettasse probabilmente di rimediare lo scoop di un altro tentativo di attraversamento di massa della frontiera (62 63 64 65), la verità che hanno potuto raccogliere è quella dello squallore e della violenza del confine, inferta ogni giorno a questo territorio e a chi lo attraversa senza il documento giusto.
Non è successo nulla, insomma. Nulla che non stia succedendo da mesi.
I giornalisti erano quasi delusi e dopo un paio d’ore di riprese di ruspate se ne sono andati. L’unica cosa effettivamente sgomberata sono stati i buchi in cui vivevano alcune persone che al mattino sono state fatte allontanare: hanno recuperato zaini e fagotti e se ne sono scese inveendo contro chi stava arrivando a demolire i ripari e a gettare via oggetti e materassi. Ruspare beni di conforto e ristoro insomma. Per favorire la sicurezza e il decoro.

Per il resto, lo schieramento di operatori e mezzi della Docks Lanterna ha recuperato spazzature e rimasugli di bagagli delle persone che son transitate lungo l’argine sinistro del fiume.
L’obiettivo nell’indurre un peggioramento del disagio e dell’incertezza è scoraggiare le persone dal continuare ad accamparsi lungo il cavalcavia.
Venerdì mattina, con i tunnel del ponte ormai evacuati, la pulizia è proseguita nell’indifferenza, ormai spento l’interesse mediatico e passato l’ennesimo al lupo al lupo della “questione migranti”.
Di tutto il calderone che si era sollevato nei giorni precedenti alle pulizie/sgombero, sono usciti un paio di servizi nemmeno del tutto precisi, giovedì dopo pranzo, e tutto è rientrato nella routine frontaliera.

Forse arriveranno operazioni più mirate e invasive di smantellamento della tendopoli. Sicuramente ci saranno altre ruspe, per queste persone, altri balletti di giornalisti e polizia, altre ordinanze urgenti… che stavolta si sono pure dimenticati di affiggere, nonostante sia obbligatorio: la faccenda della ruspa quadrimestrale è ormai diventata ordinaria amministrazione.
Sono state spese un mucchio di parole e di pubblici gesti per quella che alla fine è una non notizia: la notizia che la città sta scivolando nell’assuefazione alle proprie inadempienze ad alla propria intolleranza. La notizia che la gente che vive per strada si arrangia tra scatoloni e lattine vuote.
Le coscienze si rilassano e l’indignazione si spegne.
Niente che valga la pena di essere scritto e raccontato insomma: un trafiletto sui locali circa le “pulizie”, e si volta la pagina.

I giornalisti si sono dimenticati di raccontare che, nel frattempo, mentre l’attenzione era chiamata dal protagonista ponte, in frontiera l’ennesimo pullman per le deportazioni verso Taranto veniva caricato con i soliti respingimenti di persone dalla Francia.
Un cinquantenne bengalese con richiesta d’asilo a Parigi era stato catturato il giorno prima sul treno nel nord della Francia e spedito agli uffici di frontiera italiani dopo una notte nelle celle francesi.
I militari in italiano intimavano ai ragazzi rimandati indietro dalla polizia francese di mostrare un documento: “documento…. documento!!!… IL DOCUEMENTOOOO!”.
Ma loro non lo capiscono l’italiano. Nemmeno se si urla o si parla facendo smorfie esplicative.
Il bengalese poteva tornare legalmente in Francia, ma non sapeva in che direzione doveva dirigersi e a chi e con che lingua domandarlo, perchè i carabinieri che lo stavano guardando non capivano l’inglese. Poco dopo, un ragazzo ha avuto una crisi epilettica ed è andato lungo disteso mentre lo caricavano sul pullman. La stanchezza…la paura… chissà…

Quindi: la troupe RAI stava sotto al ponte sperando nel pezzaccio sullo sgombero straziante; le deportazioni sono proseguite; la Caritas si è organizzata per far arrivare il cibo alle persone sotto al ponte troppo preoccupate per allontanarsi dalle loro cose e dai loro bagagli; i ventimigliesi del quartiere hanno regolarmente portato i propri cagnetti a defecare in mezzo alle tende delle persone, passeggiando come ogni giorno con indifferenza tra ruspe, volanti, telecamere, rifiuti.
Una realtà quotidiana che sta diventando banale.

La notizia, per una volta, potrebbe essere un campanaccio d’allarme per il fatto che tra allarmismi, emergenze umanitarie, appelli contro le violazioni dei diritti, richiami alla morale ed alla “legge”, conte e statistiche sul numero dei “migranti” (i passati, i morti, i respinti, i ritornati, i deportati), stia diventando banale persino il dover ricorrere continuamente al concetto di Banalità del Male per provare a spiegare la situazione (66).
La notizia potrebbe essere che non c’è niente che faccia più notizia.
Che materassi caricati sulle ruspe passino indenni sulla coscienza collettiva e che, meno di tre giorni prima dello sgombero sbandierato come notiziona, un’altra persona era stata trovata carbonizzata sul tetto di un treno, e la cosa, due giorni dopo, era già diventata stantia.
La notizia potrebbe essere che nessuno sa più nemmeno dire con precisione quanti siano gli uomini e le donne morte a causa del confine.
Non solo perchè si dimenticano le conte, le statistiche e i numeri, ma anche perchè non si sa con certezza quanta gente sia davvero caduta nei monti. Sono stati tutti trovati e soccorsi? Le autorità ci raccontano quanti corpi raccolgono nei dirupi? I giornali ci informano sulle sorti di coloro che cadendo e scappando dalla polizia e dai cani riportano gambe e braccia spezzate, che rimangono disabili o menomati? La notizia è quanto questo NON sia considerato interessante.

La notizia è che di giornalisti e associazioni, il giorno seguente, non ci fosse più nemmeno l’ombra: lo spazio terroso tra la strada e il fiume era deserto. Solo le tende e le ruspe, le persone in viaggio e le pattuglie. Non un volontario, non un giornalista.
Non un testimone della Storia che diventa routine di apartheid.
Forse nemmeno perchè in malafede, ma perchè, ancora più grave, gli strilloni dell’emergenza e della straordinarietà stanno diventando il ronzio dell’abitudine.

Owl