La notizia: Giovedì 18 e Venerdì 19 Gennaio, è stato eseguito un intervento straordinario di pulizia del lungofiume Roja e dei buchi sotto al ponte ferroviario (le feritoie che servono a far defluire le acque in caso di piena del fiume, così che non crollino i pilastri che reggono la ferrovia).
La storia è sempre la stessa, ormai, dall’inverno 2015/2016: le persone in viaggio si sono costruite nel tempo prima dei giacigli, poi delle piccole baracche isolate, ed attualmente una sorta di accampamento per la sopravvivenza. Con uno spazio per la lettura, uno per la preghiera, passeggini, giochi di società e un “punto barbiere”.
Lungo il fiume non ci sono soltanto le persone che tentano il primo giro di attraversamento della frontiera: molti uomini e molte donne sono al secondo, terzo, decimo tentativo. Altre ed altri, invece, avevano raggiunto da mesi il nord Europa, e adesso sono di nuovo qui perchè dublinati dagli altri paesi, sono stati rimandati al punto di partenza.1
Ci sono persone che hanno perso il posto in accoglienza, o che sono in attesa del ricorso per la richiesta d’asilo, o che hanno già ricevuto un diniego ma aspettano l’appello, o che non riescono a rinnovare il permesso. Ci sono anche quelle persone che hanno ricevuto il documento ma, non potendo trovare una casa e un lavoro in Italia, tentano fortuna altrove. Ci sono persone che, semplicemente, ormai stanno qui.2
A centinaia, nei mesi, si sono riparate tra i cartoni e i pilastri del cemento, riorganizzando le proprie vite lungo le sponde di un fiume inquinato, in una cittadina di frontiera divenuta ostile e pericolosa, a ridosso di un confine sempre più violento e blindato.
Ma passare, comunque, si passa. Si paga in molti modi diversi, con convinzioni e paure diverse, con vantaggi e privilegi diversi, con conseguenze diverse. A volte si muore. A volte si scappa.
Il più delle volte si torna indietro, e si ricomincia.3 4 5 6 7
Molte sono le vite che hanno abitato ed abitano tutt’ora l’alveo del fiume Roja, l’ultimo corso d’acqua del ponente ligure che scorre anche in Francia, che è divenuto così un protagonista mediatico delle vicende frontaliere legate all’”emergenza migranti”.
Vicende che però hanno origini precedenti rispetto alle “pulizie straordinarie” lungo al fiume.
All’inizio dell’inverno 2016, ritenutasi conclusa l’”emergenza” estiva, venne decisa la chiusura del centro di Croce Rossa Italiana che si trovava allora in Piazza Cesare Battisti, accanto alla stazione e quindi in pieno centro. L’allora ministro dell’Interno Alfano, in visita alla città di frontiera, il 7 maggio 2016, dichiarò che i migranti non sarebbero più arrivati e che il centro era ormai quasi vuoto.8 9 10 11 12 13 14 15
Solamente pochi mesi dopo si ordinava un’apertura d’urgenza del nuovo campo CRI, preparato in fretta e furia nella desolata periferia ventimigliese per dirottare fuori città l’arrivo ininterrotto di gente che cercava ristoro alla chiesa di Sant’Antonio delle Gianchette. Questa, dal giugno 2016, era divenuto infatti l’unico punto d’accoglienza disponibile.
Nel passaggio che intercorre tra la chiusura del piccolo centro CRI in stazione e il nuovo campo CRI in periferia, quindi nell’arco dell’inverno/primavera 2016, le persone in viaggio hanno subìto una progressiva messa al bando dagli spazi del centro cittadino.
Alfano aveva promesso che non ci sarebbero più stati migranti, e quindi si iniziarono a mandare le prime ruspe per fare repulisti dei ripari di fortuna che stavano sorgendo in stazione e alla foce del Roja, nelle fasce di sabbia dove il fiume raggiunge il mare.
Nella mattinata dell’11 maggio 2016, quando le ruspe arrivarono assieme ai vigili urbani, la maggior parte delle persone, preavvisate dall’affissione delle ordinanze e dal passaparola dei solidali, decisero di spostarsi più a monte lungo l’argine sinistro del fiume, andando ad occupare con coperte e bagagli lo spazio che risulta protetto dalle piogge sotto al ponte del cavalcavia.16 17
Per quasi tre mesi la gente in viaggio, supportata dalla solidarietà di attivisti, volontari, commercianti della via adiacente al fiume (Via Tenda), era riuscita qui a trovare un posto relativamente sicuro in cui prendersi il tempo per capire il passo successivo nel proprio percorso.
Tutt’intorno infuriavano le operazioni di rastrellamento delle forze dell’ordine, che pattugliavano la città dragando le strade e organizzando retate e inseguimenti nell’area della stazione, per catturare i clandestini. 18 19 20 21 22 23
Il governo del PD, il sindaco Ioculano, il ministo Alfano ed il capo della polizia Gabrielli, avevano promesso che i migranti sarebbero spariti dalle strade della città. Perciò per non perdere voti e faccia, nello stesso periodo delle ruspe lungo il mare e dello smantellamento del campo CRI in stazione, scattò quindi la pratica cittadina della caccia all’uomo nero.
L’obiettivo di questi interventi, che nei mesi hanno implicato anche l’uso di violenza e tortura (24 25 26 27), era catturare il numero giusto di migranti rispetto ai quotidiani posti disponibili per mandarli altrove, preferibilmente nel sud Italia, spostandoli con pullman della rete locale dei trasporti (e per tutto il 2016 anche con aerei e traghetti). Da allora non si è più smesso di farlo.28 29 30
La situazione di intolleranza rispetto alla presenza delle persone migranti in città portò al braccio di ferro tra sindaco e prefettura conclusosi, il 27 maggio 2016, dopo saltimbanchi politici e riti di convenienza, con la firma della prima ordinanza di pulizia e sgombero del lungo fiume Roja. 31 32 33 34 35
Le risposte che da allora si sono susseguite, dall’accoglienza momentanea in Caritas per un paio di giorni, ai mesi di ospitalità nelle sale parrocchiali della chiesa di Sant’Antonio, fino all’apertura del campo CRI nell’ex parco ferroviario di Trenitalia, non hanno mai convinto le persone a rinunciare alla propria volontà di decidere dove e come dormire, a che ora mangiare, a che ora andare a letto.36 37
La gente ha sempre preferito le sponde del fiume: un luogo difficile e malsano, in cui tuttavia è possibile costruirsi un microcosmo di autonomia, fatto di relazioni e di suggerimenti, di prassi da campo, condivisione e strategie della sopravvivenza, di servizi utili, anche se a pagamento. La gente ha preferito restare sul ciglio della strada perchè non è arrivata fino a qui per stare nei container recintati da inferriate e polizie.
Ma per organizzarsi e tentare, di notte e di giorno, di superare il confine.
Se la vita tra topi e scabbia non è confortevole, per moltissimi restano preferibili queste piaghe al farsi toccare da mani coperte con i guanti di lattice di operatori CRI e forze dell’ordine. E al farsi identificare ancora e ancora e ancora. I giornalisti, da anni e fino agli ultimi servizi circa la pulizia del fiume in questione, continuano a scrivere che la gente non vuole lasciare le impronte.38
Ma la verità è che la quasi totalità delle persone che transitano in Italia sono già state identificate. Una due, mille volte. E che si sono semplicemente stancate di essere spostate e trattate e comandate come massa di corpi da gestire.
Non solo il campo istituzionale della CRI è sempre stato inadatto e comunque insufficiente a garantire minimi standard di dignità. Senza bisogno di ricordare la promiscuità tra gli spazi per le donne, le bambine e i bambini e quelli per gli uomini. Senza bisogno di ripetere che per raggiungere il campo si devono fare chilometri dove sfrecciano automobili.39 40
Con uno sguardo diverso dall’ottusità della retorica emergenziale e assistenzialista, appare davvero bizzarra la reazione continua di stupore e fastidio delle istituzioni nei confronti delle persone che decidono di vivere nella plastica lungo un fiume: queste persone, scegliendo il ponte del cavalcavia, scelgono di auto determinare i propri percorsi e le proprie esistenze in maniera indipendente.
Perchè devono andare avanti. Perchè creano reti di informazioni e di comunità, reincontrando gli amici e i parenti che hanno provato prima di loro a passare il confine. Perchè lì incontrano i lavoranti che ti fanno arrivare in Francia. Perchè lì possono vivere senza coprifuoco e senza l’umiliazione di sfilare continuamente sotto agli occhi di blindati e scanner per impronte digitali, che gli ricordano quotidianamente come qui siano considerati: criminali.
Nello scorrere dei mesi e con il crescere di un’intolleranza razziale che mette radici sempre più profonde, sono arrivate altre ruspe, altre ordinanze d’urgenza, altri divieti di portare cibo alla gente. Le polizie hanno proceduto nell’identificazione dei solidali ma anche degli operatori delle associazioni, che, di volta in volta, portavano assistenza medica, compagnia, supporto legale, giacconi, sostegno, sacchi a pelo, un saluto.41 42 43 44 45 46
Dove all’inizio scattavano orrore e allarme, è subentrata l’assuefazione.
È diventato consueto vedere baracche ruspate e ascoltare ciclici proclami comunali a proposito di gran repulisti. Non molti mesi addietro le istituzioni avevano proposto persino di murare i buchi del ponte per far sloggiare la gente, ma la verità è che le feritoie non possono essere chiuse (anche se negli ultimi giorni si vocifera circa una possibile installazione di grate mobili, removibili in caso di piena ) o il ponte rischia di crollare se il fiume si ingrossa. Così come la verità è che la gente, per quanto la si colpisca e la si umili, non rinuncia facilmente a decidere da sola cosa sia meglio per sé.
Le persone sono tornate e ritornate sotto al ponte. In una situazione certamente sconfortante dal punto di vista sanitario, che però è inevitabile vista la precarietà in cui sono obbligati a vivere quelli che da lì passano, e visto che ogni soluzione differente è stata annientata nel tempo.
Ci sono stati ripetuti passaggi tra le istituzioni e le varie ONG (arrivate sul territorio della frontiera ventimigliese a partire dall’estate 2016).
Le associazioni hanno proposto molte strutture alternative al campo ipermilitarizzato della Croce Rossa: hanno chiesto centri per minorenni e donne, hanno avanzato suggerimenti che la prefettura ha fatto cadere nel vuoto. Volontari e operatori, dalla chiesa agli scout, da medici a psicologi, hanno chiesto che la chiesa di Sant’Antonio delle Gianchette, una risposta informale e organizzata dalla spontaneità dei volontari per la tutela delle cosiddette categorie vulnerabili, venisse risparmiata dalla chiusura. 47 48 49 50 51 52
L’avanzamento della falce repressiva, che mette la gente in viaggio in situazioni di volta in volta sempre più estreme, provanti, mortificanti, sta spingendo migliaia di donne e uomini, migliaia di storie e possibilità, nell’angolo della ghettizzazione.
Un processo concreto (lo spostamento di tutta l’”emergenza migranti” verso aree sempre più esterne della città) e simbolico (il linguaggio ed i toni con i quali si parla di uomini e donne che arrivano dall’Africa e dal Medio Oriente: clandestini, profughi, gli invisibili 53), che rende molto più facile dimenticarsi di avere a che fare con esseri umani.
E rende facile metabolizzare la sospensione dell’apertura a Ventimiglia di venti posti in accoglienza per bambini, a seguito di un corteo di pancia della parte intollerante della cittadinanza, quella convinta dalla campagna della paura e dall’odio razziale.
Gli umori della città si sono fatti via via sempre più ostili e sembra ormai lontano il tempo in cui Ioculano si faceva scrupoli nel dover mettere in atto provvedimenti di sgombero, perchè “viviamo difficoltà che non riguardano la mia pelle: tra uno o due giorni non mandano via me, mandiamo via questa gente”. 54 Nel maggio del 2016 il sindaco ci tenne a ricordare che l’ordinanza di sgombero era dovuta e che era una questione che riguardava la questura ma che era dispiaciuto per la grave situazione umanitaria in cui versavano le persone. Oggi, questo stesso sindaco, vorrebbe istituire dei presidi militari fissi lungo il fiume Roja, mentre si invoca un aumento delle risorse armate dell’operazione “strade sicure”.
Mentre i mesi passano e il confine si fa sempre più potente e opprimente, tutto diventa ordinario e ci si abitua a “soluzioni” mano a mano più odiose.
Che soluzioni non saranno mai, finché restano presidiati i valichi di frontiera e negata la libertà di circolazione delle persone. Finché si vuole decidere per loro, e non assieme.
Si ordina senza tregua a volontari e operatori delle associazioni di andare a dire alla gente di levarsi dalle sponde del Roja per mille motivi: perchè ci sono gli attivisti, perchè ci sono le piogge, perchè c’è troppo caldo, perchè ci sono le malattie, perchè fa troppo freddo…e così via a seconda delle stagioni. Un tentativo ininterrotto di escludere queste persone dalla visuale dell’elettorato, per spostarle nella periferia della città e delle coscienze.
Nessuno si preoccupa di domandare alle persone che scelgono quegli spazi perchè stiano lì, perchè preferiscano l’acqua gelata del Roja all’acqua gelata delle docce al campo.
All’ultimo consiglio dell’amministrazione comunale, il 21 novembre 2017, si è stabilito di far diventare regolamento di polizia urbana il divieto di dare il cibo in strada, che fin’ora era stato in vigore solo come ordinanza sindacale: una misura per sua natura emergenziale e quindi transitoria (letteralmente: “contingibile ed urgente”).
Come risposta al consesso comunale la macchina si mette in moto: Martedì 16 Gennaio viene firmata l’ennesima ordinanza di pulizia del fiume. ordinanza sgombero16-01-2018 Controversa nei contenuti perchè preannunciava le pulizie dei fornici del ponte (i tunnel nei pilastri ferroviari), ma parlava anche degli accampamenti lungo il fiume.55 56 57 58
Il clima è teso nelle ultime settimane: anche se il natale e la fine dell’anno appena passata hanno distratto i manifestanti più xenofobi dai proclami “alla Salvini” (59 60 61), Ioculano e il PD non si scordano che le elezioni del 4 marzo si stanno avvicinando.
Il sindaco passeggia lungo via Tenda, visita il centro della Croce Rossa, sentenzia contro attivisti e volontari, invoca presidi militari nel mezzo della città. E manda le ruspe.
Giovedì 18 mattina, la giornata prevista per l’inizio delle pulizie, un numero importante di giornalisti è arrivato sotto al ponte, aspettandosi uno sgombero mediaticamente succulento sul quale costruire uno scoop che “tirasse” l’audience. Tra reporter, associazioni, polizia, volontari, solidali e operatori ecologici, lo spettacolo ha avuto inizio circondato da ruspe, autovetture con lampeggianti, container per i rifiuti: alle otto del mattino, non mancava nessuno. Soprattutto, erano ben vigili tutte le donne e gli uomini che vivono nella tendopoli, tesi nell’ansia di capire se le fantomatiche “pulizie” sarebbero rimaste tali o se invece era in arrivo uno smantellamento di tutti i rifugi.
Nonostante la folta schiera dei media si aspettasse probabilmente di rimediare lo scoop di un altro tentativo di attraversamento di massa della frontiera (62 63 64 65), la verità che hanno potuto raccogliere è quella dello squallore e della violenza del confine, inferta ogni giorno a questo territorio e a chi lo attraversa senza il documento giusto.
Non è successo nulla, insomma. Nulla che non stia succedendo da mesi.
I giornalisti erano quasi delusi e dopo un paio d’ore di riprese di ruspate se ne sono andati. L’unica cosa effettivamente sgomberata sono stati i buchi in cui vivevano alcune persone che al mattino sono state fatte allontanare: hanno recuperato zaini e fagotti e se ne sono scese inveendo contro chi stava arrivando a demolire i ripari e a gettare via oggetti e materassi. Ruspare beni di conforto e ristoro insomma. Per favorire la sicurezza e il decoro.
Per il resto, lo schieramento di operatori e mezzi della Docks Lanterna ha recuperato spazzature e rimasugli di bagagli delle persone che son transitate lungo l’argine sinistro del fiume.
L’obiettivo nell’indurre un peggioramento del disagio e dell’incertezza è scoraggiare le persone dal continuare ad accamparsi lungo il cavalcavia.
Venerdì mattina, con i tunnel del ponte ormai evacuati, la pulizia è proseguita nell’indifferenza, ormai spento l’interesse mediatico e passato l’ennesimo al lupo al lupo della “questione migranti”.
Di tutto il calderone che si era sollevato nei giorni precedenti alle pulizie/sgombero, sono usciti un paio di servizi nemmeno del tutto precisi, giovedì dopo pranzo, e tutto è rientrato nella routine frontaliera.
Forse arriveranno operazioni più mirate e invasive di smantellamento della tendopoli. Sicuramente ci saranno altre ruspe, per queste persone, altri balletti di giornalisti e polizia, altre ordinanze urgenti… che stavolta si sono pure dimenticati di affiggere, nonostante sia obbligatorio: la faccenda della ruspa quadrimestrale è ormai diventata ordinaria amministrazione.
Sono state spese un mucchio di parole e di pubblici gesti per quella che alla fine è una non notizia: la notizia che la città sta scivolando nell’assuefazione alle proprie inadempienze ad alla propria intolleranza. La notizia che la gente che vive per strada si arrangia tra scatoloni e lattine vuote.
Le coscienze si rilassano e l’indignazione si spegne.
Niente che valga la pena di essere scritto e raccontato insomma: un trafiletto sui locali circa le “pulizie”, e si volta la pagina.
I giornalisti si sono dimenticati di raccontare che, nel frattempo, mentre l’attenzione era chiamata dal protagonista ponte, in frontiera l’ennesimo pullman per le deportazioni verso Taranto veniva caricato con i soliti respingimenti di persone dalla Francia.
Un cinquantenne bengalese con richiesta d’asilo a Parigi era stato catturato il giorno prima sul treno nel nord della Francia e spedito agli uffici di frontiera italiani dopo una notte nelle celle francesi.
I militari in italiano intimavano ai ragazzi rimandati indietro dalla polizia francese di mostrare un documento: “documento…. documento!!!… IL DOCUEMENTOOOO!”.
Ma loro non lo capiscono l’italiano. Nemmeno se si urla o si parla facendo smorfie esplicative.
Il bengalese poteva tornare legalmente in Francia, ma non sapeva in che direzione doveva dirigersi e a chi e con che lingua domandarlo, perchè i carabinieri che lo stavano guardando non capivano l’inglese. Poco dopo, un ragazzo ha avuto una crisi epilettica ed è andato lungo disteso mentre lo caricavano sul pullman. La stanchezza…la paura… chissà…
Quindi: la troupe RAI stava sotto al ponte sperando nel pezzaccio sullo sgombero straziante; le deportazioni sono proseguite; la Caritas si è organizzata per far arrivare il cibo alle persone sotto al ponte troppo preoccupate per allontanarsi dalle loro cose e dai loro bagagli; i ventimigliesi del quartiere hanno regolarmente portato i propri cagnetti a defecare in mezzo alle tende delle persone, passeggiando come ogni giorno con indifferenza tra ruspe, volanti, telecamere, rifiuti.
Una realtà quotidiana che sta diventando banale.
La notizia, per una volta, potrebbe essere un campanaccio d’allarme per il fatto che tra allarmismi, emergenze umanitarie, appelli contro le violazioni dei diritti, richiami alla morale ed alla “legge”, conte e statistiche sul numero dei “migranti” (i passati, i morti, i respinti, i ritornati, i deportati), stia diventando banale persino il dover ricorrere continuamente al concetto di Banalità del Male per provare a spiegare la situazione (66).
La notizia potrebbe essere che non c’è niente che faccia più notizia.
Che materassi caricati sulle ruspe passino indenni sulla coscienza collettiva e che, meno di tre giorni prima dello sgombero sbandierato come notiziona, un’altra persona era stata trovata carbonizzata sul tetto di un treno, e la cosa, due giorni dopo, era già diventata stantia.
La notizia potrebbe essere che nessuno sa più nemmeno dire con precisione quanti siano gli uomini e le donne morte a causa del confine.
Non solo perchè si dimenticano le conte, le statistiche e i numeri, ma anche perchè non si sa con certezza quanta gente sia davvero caduta nei monti. Sono stati tutti trovati e soccorsi? Le autorità ci raccontano quanti corpi raccolgono nei dirupi? I giornali ci informano sulle sorti di coloro che cadendo e scappando dalla polizia e dai cani riportano gambe e braccia spezzate, che rimangono disabili o menomati? La notizia è quanto questo NON sia considerato interessante.
La notizia è che di giornalisti e associazioni, il giorno seguente, non ci fosse più nemmeno l’ombra: lo spazio terroso tra la strada e il fiume era deserto. Solo le tende e le ruspe, le persone in viaggio e le pattuglie. Non un volontario, non un giornalista.
Non un testimone della Storia che diventa routine di apartheid.
Forse nemmeno perchè in malafede, ma perchè, ancora più grave, gli strilloni dell’emergenza e della straordinarietà stanno diventando il ronzio dell’abitudine.
Owl