Condividiamo tre contributi rispetto alla situazione processuale per la morte di Moussa Balde, avvenuta nel cpr di Torino nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021, in cui l’ex direttrice e l’ex medico del cpr risultano imputati per omicidio colposo.
Il primo contributo è un documento audio, andato in onda alcuni mesi fa su alcune radio indipendenti, in cui si riassume la storia di Moussa e delle ingiustizie che ha subito fino a restarne ucciso. Il secondo si tratta di una chiamata per raccogliere i fondi necessari per le spese di viaggio per permettere alla famiglia Balde di essere presente alla prima udienza del processo a Torino, il 12 febbraio 2025. Il terzo testo è una lettera della sorella di Moussa, Aissatou Balde.
Per un quadro più completo delle vicende che hanno portato il giovane guineano a togliersi la vita, prima picchiato a Ventimiglia e poi rinchiuso nel cpr torinese, rimandiamo ai precedenti articoli pubblicati su questo sito:
Testo pubblicato sulla piattaforma Papayoux_solidaritè per una campagna di crowdfunding a sostegno della famiglia Balde:
AIUTIAMO LA FAMIGLIA BALDE A PARTECIPARE AL PROCESSO DEL 12.02 E AD UNIRSI ALLA LOTTA CONTRO I CPR
Stiamo raccogliendo fondi per permettere alla sorella, al fratello e alla madre di Moussa Balde di essere presenti alla prima udienza del processo per omicidio colposo contro due dipendenti del centro per rimpatri di Torino in cui Moussa ha trovato la morte. L’udienza si terrà a Torino il 12 febbraio. I familiari sono rappresentati dai legali Gianluca Vitale e Laura Martinelli. I fondi servono per pagare le spese di viaggio dalla Guinea e i costosissimi visti per l’Italia, oltre alle spese di soggiorno. Durante il loro periodo in Italia i familiari vorrebbero intervenire attivamente in diversi eventi di contestazione ai CPR presenti in Pemonte e in Liguria.
CHI ERA MOUSSA BALDE?
Lui è stato un amico e un compagno, morto nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021 dopo di 10 giorni passati in una cella dell’area d’isolamento, denominata Ospedaletto, del CPR di Torino. Il 9 maggio era stato picchiato a Ventimiglia da tre italiani e dopo un breve ricovero in ospedale è stato subito richiuso nel centro di detenzione, ignorando le sue gravi condizioni fisiche e psicologiche in conseguenza del pestaggio. Moussa, originario della Guinea, è stato detenuto in quanto persona non-europea e irregolare sul territorio, e per questo è morto rinchiuso in una cella. La morte di Moussa non è stata nè “fatalità” nè il frutto di una catena di inadempienze, ma la conseguenza del razzismo strutturale del sistema in cui viviamo.
Per leggere di piu sui processi e la sua storia, si puo visitare questo blog (in Italiano) alla categoria “Moussa Balde” https://parolesulconfine.com/ > Moussa Balde
ORA
Il 12 Febbraio a Torino, si terrà l’udienza preliminare del procedimento per omicidio colposo a carico della ex direttrice del CPR e del medico direttore sanitario della struttura all’epoca della morte di Moussa Balde. Nel febbraio 2023, la CPR in corso Brunelleschi è andato a fuoco ed è rimasto chiuso fino ad ora. Eppure sta per riaprire.
Tra giugno 2019 e dicembre 2022, dieci persone hanno perso la vita mentre erano tenute in detenzione amministrativa. All’inizio di febbraio 2024, il giovane Ousmane Sylla, che si rivela essere un vicino e amico della famiglia Balde, si è suicidato nel CPR di Roma.
La presenza della famiglia è essenziale non solo per questa procedura legale contro questa particolare struttura, è anche importante per dare forza a un movimento largo contro l’apertura di una di queste prigioni in Liguria (come a Diano Marina) e in ogni regione italiana.
CONTRO LA RIAPERTURA DEL CPR DI TORINO, DOVE MOUSSA BALDE E’ MORTO
CONTRO I CPR
PER LA LIBERTA DI MOVIMENTO
GIUSTIZIA PER MOUSSA
Lettera della sorella di Moussa:
Ciao a tutti. Mi chiamo Balde Aissatou, sorella maggiore di Moussa Balde. Oggi sono qui per parlarvi di mio fratello minore Moussa Balde.
Quando era molto giovane, Moussa aveva una sola ambizione: lavorare sodo per mantenere la sua famiglia fuori dalla povertà, soprattutto nostra madre. Quando era un giovane studente, ogni volta che sua madre si alzava alle 5 del mattino per andare al mercato, lui si alzava per accompagnarla al mercato e aiutarla nel lavoro al ristorante. Da lì partiva per andare a scuola. Così un giorno, mentre discutevamo in famiglia, ci ha detto: “dopo le elezioni del 2015 ho intenzione di lasciare questo paese e andare in Europa, anche se dovrò attraversare il mare. Forse lì riuscirò a guadagnarmi da vivere meglio che qui”. Ma data la sua giovane età, gli abbiamo detto di non rischiare la vita per l’Europa.
Ma lui non ci ha ascoltato e nel 2016 ha deciso di lasciare il paese, senza mai dire a nessuno del suo viaggio. Eravamo molto preoccupati e ci chiedevamo dove potesse essere. Quando abbiamo contattato i suoi amici, ci hanno detto che Moussa si trovava a Bamako, in Mali, e da lì aveva attraversato il deserto per raggiungere l’Algeria. Da aprile 2016 a settembre 2016 è riuscito a cavarsela lavorando come manovale in aziende edili, gtrazie al sostegno del fratello maggiore, Thierno Hamidou, che studiava lì.
Durante questo periodo la sua famiglia ha fatto di tutto per convincerlo a tornare in Guinea, perchè noi, la sua famiglia, non avevamo mai appoggiato il suo progetto di attraversare la Libia per raggiungere l’Italia, ma lui era determinato a farlo. Quando ho cercato di convincerlo a tornare, mi ha detto: “Diadia (sorella maggiore), prega per me. So cosa sto facendo, è l’unico modo per aiutare la mia famiglia, soprattutto mia madre. Non faccio nulla senza rifletterci, quando arriverò a destinazione, visto che ho memorizzato il tuo numero, ti contatterò. Auguratemi buona fortuna e soprattutto non parlarne con mia madre, in modo che non si preoccupi, perchè il suo stato di salute non permette troppo stress”.
Quando è arrivato in Italia mi ha contattato. All’inizio tutto andava bene, comunicava bene con noi nonostante avesse qualche difficoltà in quanto immigrato senza documenti. Infine, con l’avvicinarsi della sua aggressione a Ventimiglia, abbiamo avuto difficoltà a tenerci in contatto con lui e quindi abbiamo cercato di aumentare i contatti con i suoi amici in Italia e in Francia per avere sue notizie. Il 23 maggio 2021 uno dei suoi amici ci ha contattato per informarci che nostro fratello Moussa Balde era morto in un centro di detenzione a Torino nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021.
Grazie a voi per aver dedicato tempo ad ascoltare una parte della sotria di Moussa.
Riceviamo e pubblichiamo il seguente contributo, un aggiornamento circa l’inizio dei processi penali per reati commessi nella gestione del CPR di Torino. Le indagini furono avviate nel 2021 in seguito alla morte per suicidio del giovane Mamadou Moussa Balde. Nel marzo 2023 il centro per rimpatri di Torino è stato chiuso per inagibilità delle strutture in seguito alle rivolte dei reclusi. Da mesi se ne annuncia l’imminente riapertura. (per info sui passaggi precedenti qui e qui)
Esprimiamo totale solidarietà alle persone colpite dall’orrore dei CPR e a tutte le persone che ne hanno permesso la chiusura, così come a tutte coloro che lotteranno per impedire che questo ed altri CPR vengano aperti.
Nessun perdono, perché sanno quello che fanno_ per Moussa Balde, contro i CPR
Ci siamo: a quasi tre anni dagli eventi stanno per iniziare al tribunale di Torino i processi nati dalle indagini per la morte di Moussa Balde, il ventiduenne originario della Guinea che si era impiccato nella sezione di isolamento “ospedaletto” nel CPR di Torino nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021, dove era stato rinchiuso dopo aver subito un brutale pestaggio nelle strade di Ventimiglia pochi giorni prima. Per quella violenta aggressione a Gennaio 2023 sono stati condannati a due anni per lesioni aggravate i tre ventimigliesi che avevano preso a sprangate Moussa davanti a un supermercato in centro città.
Il secondo capitolo di questa storia di insopportabile razzismo italiano si era scritto con la peggiore delle conclusioni nel cpr di Torino, dove Moussa era stato trascinato a poche ore dal pestaggio, le ferite ancora fresche sul volto, negato il diritto di farsi testimone della sua stessa aggressione, inabissato in una sezione di isolamento abusiva persino per un posto già extra legale quale è il CPR, la sua presenza nel centro negata ripetutamente dal personale di servizio agli avvocati che lo stavano cercando. Poi il suicidio nella notte, in quelle celle definite “gabbie dello zoo” anche dalle autorità che dovrebbero esserne responsabili.
A seguito di questi eventi si è ritenuto opportuno dimostrare che qualcosa veniva pur fatto per porre rimedio. Così si sono aperte le indagini su due livelli: il primo strettamente legato al suicidio, che si profila essere, con una più corretta descrizione degli eventi, un omicidio colposo; il secondo rappresenta invece un’indagine più allargata sull’uso illecito della sezione di isolamento “ospedaletto” nel CPR di Torino, che ha portato a formulare l’accusa di sequestro di persona nei confronti di più attori legati alla gestione del centro, a danno di 14 persone recluse nella struttura tra gennaio 2020 e luglio 2021 e tenute in isolamento per giorni, settimane e in alcuni casi mesi.
Nel dettaglio: Venerdì 1 marzo 2024 alle 9:15, al tribunale di Torino, verrà discussa la richiesta di archiviazione presentata dalla procura per le accuse di sequestro di persona – con corollario variamente distribuito di abuso di potere, falso in atto pubblico, lesioni personali colpose, violazione dei doveri medici, abbandono di incapaci, falso ideologico- a carico della ex direttrice del CPR di Torino, di due medici del centro e di 4 operatori di polizia, tra i quali il dirigente dell’ufficio immigrazione di Torino e l’ispettore superiore di PS in servizio presso il CPR di corso Brunelleschi.
Mercoledì 13 marzo 2024 alle 9:30, sempre a Torino, si terrà l’udienza preliminare del procedimento per omicidio colposo a carico della ex direttrice del CPR e del medico direttore sanitario della struttura all’epoca della morte di Moussa Balde. Nello stesso procedimento è accusato anche l’ispettore capo di polizia assegnato al servizio di vigilanza presso il CPR, che deve rispondere di falso in atto pubblico per aver manomesso le relazioni di servizio richieste come prove nell’indagine per omicidio colposo.
Questi i fatti. Le conclusioni che si possono trarre fanno, se possibile, ancora più rabbia dei fatti stessi. È evidente come lo stato, tramite la procura di Torino, voglia far pagare il conto di una montagna di abusi e violenze esclusivamente ai dipendenti della Gepsa, l’ente privato che aveva in gestione il CPR, mandando loro a giudizio per omicidio colposo e tentando invece di salvare operatori, dirigenti e ispettori di polizia dall’accusa di sequestro di persona. Il procedimento penale sul caso singolo di Moussa troverà effettivamente un seguito nelle aule del tribunale di Torino, ma si cerca di insabbiare con una richiesta di archiviazione il procedimento generale sulla mala gestione del CPR, che renderebbe pubblicamente conto della portata di iniquità che rappresentano i centri per il rimpatrio.
Nel procedimento per sequestro di persona, infatti, emergono una lunga serie di abusi e illeciti operati anche dall’ente gestore ma soprattutto delle forze dell’ordine, sia sottoposti che alti dirigenti. Il ricorso illegale e continuativo all’uso dell’isolamento, in un luogo dove non è prevista per legge la possibilità di ulteriore restrizione della libertà personale -e a seguire la sfilza di falsificazioni, giustificazioni e tentativi dei vari soggetti coinvolti di salvarsi a vicenda dalle accuse- finirà con probabilità in una bolla di niente.
La richiesta di archiviazione viene motivata con una spregiudicata logica d’azzeccagarbugli: non viene affatto negato dalla procura che le persone imputate abbiano commesso il sequestro di persona e tutte le altre sotto accuse. Ma si afferma che tutto questo non può costituire reato perché, semplicemente, così han sempre fatto anche poliziotti, dirigenti, prefetture, questure e agenzie private che hanno avuto in gestione questo come gli altri CPR d’Italia. E se così fan tutti, queste specifiche soggettività finite sotto accusa per i reati commessi tra il 2020 e il 2021 non possono essere davvero colpevoli, perché non sapevano che quello che stavano facendo era illegale.
Sia chiaro: non è nostra convinzione che la giustizia possa passare dai tribunali, né è nostro interesse che un numero maggiore di persone venga portato alla sbarra o condannato per questo o quell’altro reato. Le galere sono luoghi che vanno distrutti e definitivamente aboliti, tutti, che siano le carceri penali o le gabbie della detenzione amministrativa. Allo stesso modo non è nostra intenzione affermare che operatori e operatrici della Gepsa, multinazionale della detenzione per migranti, siano sfortunate persone che meritano solidarietà in quanto destinate a diventare il capro espiatorio di un sistema profondamente marcio quale è il mondo dei centri di espulsione, avendo queste scelto di aderirvi per lucrare sulla pelle di chi è senza i giusti documenti.
Ma le leggi le scrivono loro ed è illuminante vedere l’uso creativo che ne fanno, perfettamente allineato all’ipocrisia di tutto il sistema, cercando di lavarsi dal sangue quelle mani che continuano a causare morti. Non tanto per gridare di indignazione per le capriole logiche che compiono le istituzioni e chi le rappresenta nelle aule di tribunale, atterrando comunque sempre illese e in piedi. Ma perché quegli stessi spergiuri sulla gravità di aver arrecato danno e dolore a così tante persone e sulla necessità di correggere questi soprusi dilaganti, raccontano alla fine l’unica vera storia che a questo stato interessa scrivere:
i CPR sono sbagliati ma ne costruiranno ancora di più.
I CPR sono luoghi di tortura, ma se fin qui si è sempre torturato non è poi tanto un reato continuare a farlo.
I CPR hanno violato l’integrità, la dignità e i diritti di quelle 14 persone (ma sono molte di più) tenute in isolamento per punizione, per discriminazione di credo o orientamento sessuale, per problematiche sanitarie fisiche e mentali, talvolta gravi e reali, tal’altra pure presunte. Come la psoriasi diagnosticata a Moussa, malattia non contagiosa per la quale si è comunque stabilito che dovesse finire all’ospedaletto.
Ma lo stato decide di alzare i tempi di reclusione nei CPR da 3 a 18 mesi.
I CPR hanno ucciso Moussa Balde, prima di lui troppi altri e ancora altri dopo di lui, ma lo stato non se ne ritiene responsabile.
Ultimo di una lista che non vi è alcuna intenzione di fermare è Ousmane Sylla, morto suicida nel CPR di Ponte Galeria nella notte tra il 3 e il 4 febbraio, un altro ventiduenne della Guinea, anche lui distrutto da un sistema che, senza alcuna vergogna, nei tribunali riconosce le proprie colpe e nei tribunali decide anche la propria auto assoluzione. Ousmane Sylla voleva tornare a casa ed era rinchiuso in un centro di espulsione da cui non sarebbe mai tornato a casa, proprio come Moussa, perché l’Italia non ha accordi di rimpatrio con la Guinea: un altro paradosso che racconta la vera identità criminale dello stato e del governo italiano, al di là delle sentenze e dei giochi togati nei tribunali.
“Abbiamo saputo della morte di Ousmane Sylla. È davvero triste e deplorevole, possiamo vedere che le stesse cause producono gli stessi effetti. Le autorità italiane devono esaminare a fondo ciò che sta accadendo all’interno di questa prigione, alle condizioni di detenzione e tutto ciò che ne consegue, non sono buone. Altrimenti non ti alzeresti così un mattino decidendo di mettere fine a tutto questo, è difficile da credere, le ragioni devono essere cercate altrove” Thierno Balde, fratello di Moussa.
Per la memoria di Moussa Balde, di Ousmane Sylla e delle altre decine di persone che hanno subito morte e violenza nei centri per i rimpatri
Per portare solidarietà alle loro famiglie, colpite dal dolore causato dall’ingiustizia delle leggi italiane ed europee
Per la libertà di circolazione di tutte e di ciascuno
Per impedire la riapertura del CPR di Torino
Per la distruzione degli altri CPR ancora operativi in Italia
Per l’apertura di tutte le frontiere europee e l’abolizione delle politiche migratore neo-colonialiste
Gli orari degli appuntamenti al tribunale di Torino l’1 e il 13 marzo 2024 sono scritti in questo testo, così come le posizioni e i ruoli dei vari soggetti: ciascuna persona reagisca dove e come ritiene più opportuno.
Il 10 gennaio saremo davanti al tribunale di Imperia per affermare ancora una volta che la morte di Moussa Balde non è stata accidentale: è l’esito diretto di una serie di azioni e di silenziose complicità da parte di soggetti diversi in un contesto dominato dall’ideologia e dalle politiche razziste che lo Stato promuove e legittima.
Le persone responsabili della discriminazione e della violenza che hanno portato Moussa Balde a morire nel centro torinese di detenzione per migranti (CPR) sono i membri della commissione che gli hanno rifiutato la protezione, i tre uomini che lo hanno preso a sprangate in pieno giorno nel centro di Ventimiglia, i numerosi testimoni che non sono intervenuti per fermare il linciaggio, la questura di Imperia che ha deciso per la sua reclusione anziché proteggerlo come testimone della violenza a lui inflitta, i rappresentanti delle istituzioni che hanno sostenuto che non si trattasse di aggressione razziale prima ancora di iniziare le indagini, i medici delle strutture sanitarie che a 24 ore dall’aggressione ne hanno firmato l’idoneità alla reclusione e successivamente all’isolamento, chi lo ha imprigionato negando per giorni la sua presenza nel CPR per impedire che Moussa potesse essere raggiunto dal suo avvocato.
Il 14 Ottobre a Imperia si è aperto il procedimento a carico dei tre uomini che hanno aggredito Moussa Balde nelle strade di Ventimiglia il 9 Maggio 2021.
Il 10 Gennaio, secondo la formula del rito abbreviato scelta dagli imputati, verrà emessa la sentenza.
È invece ancora aperta l’inchiesta per omicidio colposo avviata per accertare i fatti accaduti all’interno del CPR di Torino a seguito del presunto suicidio di Moussa Balde. L’indagine che vede indagati la direttrice del centro, il medico della struttura e nove poliziotti si allarga anche ad altri casi di procedure illegittime all’interno del CPR, dove già altre persone migranti avevano trovato la morte e dove continuamente si registrano tentativi di suicidio.
Indipendentemente dall’esito dei tribunali sappiamo che la fine di Moussa Balde è un crimine d’odio e che la responsabilità di questa morte è delle dinamiche di esclusione e razzializzazione che hanno prima schiacciato le speranze di Moussa di costruirsi una vita dignitosa in Europa per poi seppellire la verità sulla sua aggressione sotto una coltre di omertà.
! Per impedire che coloro che lo hanno ridotto al silenzio possano avere il monopolio della verità su questa storia di violenza e razzismo !
! Per l’abolizione dei CPR e di ogni forma di detenzione delle persone migranti !
! Per la libertà di circolazione e autodeterminazione di tutte le persone in viaggio, a prescindere da documenti e paese d’origine!
APPUNTAMENTO AL TRIBUNALE DI IMPERIA
10 GENNAIO ORE 9:00
IN SOLIDARIETA’ A MOUSSA BALDE E ALLA SUA FAMIGLIA
Il 14 ottobre al tribunale d’Imperia è iniziato il processo a tre italiani che il 9 maggio 2021 aggredirono brutalmente Moussa Balde a Ventimiglia. L’aggressione avvenne in pieno giorno in via Ruffini tra un supermercato e gli uffici della polizia di frontiera.
Gli imputati sono a processo per lesioni aggravate dal numero di persone e dall’uso dell’arma, una spranga in questo caso, e sono difesi dall’avvocato Marco Bosio, noto per essere stato il difensore degli imputati nei processi contro la criminalità organizzata nel Ponente Ligure, conosciuti come “SPI.GA” e “La Svolta”. Gli aggressori sono stati denunciati a piede libero in seguito a un video della violenza che ha fatto il giro del web, nel quale gli imputati sono riconoscibili.
Il giorno stesso dell’aggressione il questore d’Imperia si affretta a fare dichiarazioni escludendo la matrice razziale delle violenze, che gli imputati giustificano come reazione ad un fantomatico tentato furto con una nullità di prove.
Resta evidente il razzismo istituzionale che mette in attoun protocollo non per tutelare la vittima del linciaggio, ma piuttosto le persone italiane incriminate dal video filmato da un balcone.
Infatti in seguito all’aggressione Moussa Balde, originario della Guinea, viene portato all’ospedale per trauma facciale e lesioni, medicato e dimesso il giorno stesso, portato in commissariato viene consegnato all’ufficio immigrazione e, controllata la sua irregolarità sul territorio, viene recluso nel CPR (Centro di Permanenza per i Rimpatri) di Torino in attesa d’espulsione.
Allontanato da Ventimiglia Moussa è finito al CPR senza aver mai firmato nessuna testimonianza sulla sua aggressione e senza che gli sia stata posta alcuna domanda sullo svolgimento dei fatti. Non ha ricevuto nessuna visita psicologica ma è stato rinchiuso a Torino, doveper diversi giorni gli avvocati non sono riusciti a rintraccialo perchè Moussa era stato registrato al CPR con un nome diverso da quello segnato dalla questura di Imperia.
In una cella dell’area d’isolamento, denominata Ospedaletto, del CPR di Torino Moussa Balde muore la notte tra il 22 e il 23 maggio. I compagni di prigionia, che hanno iniziato una protesta quando hanno saputo la notizia della sua morte, hanno raccontato che la notte del 22 maggio l’avevano sentito urlare a lungo e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere risposta.
E’ in corso un’indagine per omicidio colposo sui fatti avvenuti all’interno del centro detentivo dov’era rinchiuso Moussa quando è deceduto.
Il 14 ottobre scorso durante la prima udienza gli imputati hanno richiesto ed ottenuto il rito abbreviato, quindi il processo andrà avanti a porte chiuse e senza l’ausilio di testimonianze.
Grazie alla presenza in aula del fratello Amadou Thierno Balde, la famiglia di Moussa si è costituita parte civile.
Neppure al processo è stata riconosciuta l’aggravante dell’odio razziale, infatti la stessa procura ha deciso di non contestarla, decisione sulla quale l’avvocato della famiglia si opporrà nel dibattimento.
La giudice ha inoltre respinto la richiesta di costituirsi parte civile presentata da tre associazioni operanti nel territorio di Ventimiglia.
Non potendo entrare in aula, un gruppo di solidali si è radunato davanti al tribunale di Imperia e, dopo la rapida udienza, si è spostato a Ventimiglia nel luogo dove avvenne l’aggressione razzista, insieme ad Amadou Thierno Balde.
Le persone solidali hanno camminato lungo le vie del centro per ricordare che la morte di Moussa Balde non è stata un tragico episodio ma il risultato di un brutale razzismo, anche istituzionale, che si palesa nel trattamento subito dal sopravvissuto al violento pestaggio, il quale è passato dall’ospedale, dal commissariato, dalla questura, dal CPR di Torino, davanti al medico che lo ha valutato idoneo alla detenzione, dall’isolamento disumano senza contatti con l’esterno e senza qualsiasi tipo di cura.
“Il trattamento che ha ricevuto prima di morire nessun individuo, nessun essere umano dev’essere trattato in questa maniera” dice Thierno Balde fuori dal tribunale d’Imperia, parlando del fratello “Perchè non ci siano più ingiustizie o razzismo, perché è duro ma bisogna essere chiari, si tratta di razzismo quello che ha subito. Perché non ci siano più casi così nel mondo intero, in particolare in Italia. Che il diritto in tutto il mondo sia rispettato, il diritto umano.”
La prossima udienza del processo ai tre aggressori sarà al tribunale d’Imperia il 9 dicembre alle ore 13:00.
Per impedire che questa storia finisca nel silenzio, per contrapporsi alla violenza razzista, per la libera autodeterminazione di tutte e tutti.
Per l’abolizione e la chiusura di tutti i CPR.
Ci ritroviamo il 9 dicembre
alle 12:00 di fronte al tribunale d’Imperia
alle 15:00 in Piazza De Amicis a Imperia Oneglia per un presidio e un volantinaggio antirazzista
Per contribuire alle spese legali, sia per il processo ad Imperia, che per quello che si aprirà a Torino dopo la chiusura delle indagini.
IBAN: IT58H3608105138280345080353
CAUSALE: solidarietà a Moussa Balde
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Moussa Balde died from racism
The trial of three Italians who brutally attacked Moussa Balde in Ventimiglia on May 9, 2021, began at the court of Imperia on October 14th. The attack took place in broad daylight on Ruffini Street between a supermarket and the border police offices.
The defendants are on trial for injuries aggravated by the number of people and the use of an iron bar. They are being defended by lawyer Marco Bosio, known for having been the defense counsel in the trials against organized crime in western Liguria known as “SPI.GA” and “La Svolta”.
The attackers were reported because a video of the violence was taken and then spread around the web, in which the defendants are recognizable.
On the very day of the attack, the Imperia police commissioner rushed to make statements ruling out the racial matrix of the violence, which the defendants justified as a reaction to a phantom ‘attempted robbery‘ without a shred of proof.
Institutional racism remains evident, putting in place a protocol not to protect the lynching victim, but rather the Italian people incriminated by the video filmed from a balcony.
In fact,following the attackMoussa Balde (from Guinea) was taken to the hospital for facial trauma and injuries, medicated and discharged the same day. Taken to the police station he was handed over to the immigration office and, checked for his irregularity in the territory, he was imprisoned in the CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio, or detention center) in Turin awaiting deportation.
Removed from Ventimiglia, Moussa ended up at the CPR without ever having signed any testimony about his assault and without being asked any questions about the course of events. He received no psychological examination but was locked up in Turin, where, for several days lawyers were unable to track him down because Moussa had been registered at the CPR under a name different from the one marked by the Imperia police headquarters.
In isolation in a zone of the CPR called Ospedaletto in Turin, Moussa Balde died on the night between May 22nd And 23rd. Fellow prisoners who started a protest when they knew about his deathsaid that on the night of May 22, they had heard him screaming for a long time and calling for a doctor without ever receiving a response.
A manslaughter investigation is under way into the events that took place inside the detention center where Moussa was confined when he died.
On October 14 during the first hearing, the defendants requested and obtained an abbreviated trial, so the trial will go on behind closed doors and without the aid of witnesses.
Thanks to the presence of Moussa’s brother Amadou Thierno Balde in the courtroom, Moussa’s family has filed civil .
Not even at the trial was the aggravating factor of ethnic hatred recognized; in fact, the prosecutor’s office itself decided not to challenge it, a decision on which the family’s lawyer will argue in the trial.
The judge also rejected the request for civil action filed by three associations operating in the Ventimiglia area.
Unable to enter the courtroom, a group of solidarians gathered in front of the Imperia courthouse and, after the quick hearing, moved to Ventimiglia to the site where the racist attack took place, along with Amadou Thierno Balde.
Those in solidarity walked along the streets of the city center to remember that Moussa Balde’s death was not a tragic episode but the result of brutal racism, including institutional racism. This is evident in the treatment suffered by the survivor of the violent beating, who went from the hospital to the police station, the police headquarters to the CPR in Turin, before arriving before the doctor who assessed him fit for detention, inhumane isolation without contact with the outside world and without any kind of care.
“The treatment he received before he died, no individual, no human being should be treated in this way.” says Thierno Balde outside the court in Imperia, speaking of his brother “So that there will be no more injustice or racism, because it’s harsh but you have to be clear, it’s racism what he suffered. So that there are no more cases like this in the whole world, particularly in Italy. Let the right throughout the world be respected, the human right.”
The next hearing in the trial of the three attackers will be at the Imperia court on December 9 at 1 p.m.
To prevent this story from ending in silence, to oppose racist violence, for the free self-determination of all and everyone.
For the abolition and closure of all CPRs.
We meet on December 9
at 12 noon in front of the Imperia courthouse.
at 3 p.m. in De Amicis Square a Imperia Oneglia for an anti-racist sit in and leafleting
To contribute to the legal costs, both for the trial in Imperia and for the one that will startin Turin after the investigation closes:
IBAN: IT58H3608105138280345080353
PAYMENT DESCRIPTION : solidarity with Moussa Balde
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Moussa Balde est mort de racisme
Le 9 mai 2021, Moussa Balde, originaire de Guinée, a été brutalement agressé à Vintimille. Le procès des trois Italiens auteurs de cette attaque qui a eu lieu en plein jour rue Ruffini, entre un supermarché et les bureaux de la police aux frontières, a débuté au tribunal d’Imperia le 14 octobre 2022.
Les accusés sont jugés pour des blessures aggravées par le nombre de personnes et l’usage d’une barre de métal. Ils sont défendus par Marco Bosio, connu pour avoir été l’avocat des accusés dans les procès “SPI.GA” et “La Svolta” contre le crime organisé en Ligurie. Des poursuites sans mesure de privation de liberté ont pu être engagées contre les agresseurs grâce à une vidéo des violences réalisée par une voisine depuis son balcon et qui a fait le tour du web.
Le jour même de l’agression, le chef de la police d’Imperia s’est empressé de faire des déclarations excluant la dimension raciste de ces violences. Les accusés ont justifié leurs actes comme étant une réaction à une prétendue tentative de vol, sans pouvoir en apporter aucune preuve.
Le racisme institutionnel reste évident, mettant en place un protocole non pas pour protéger la victime du lynchage mais plutôt les Italiens incriminés par la vidéo filmée depuis un balcon.
En effet, à la suite de son agression et après un court passage à l’hôpital pour des traumatismes et des blessures au visage, Moussa Balde a été conduit au commissariat de police, remis au bureau de l’immigration et, après qu’ait été vérifiée son irrégularité sur le territoire, il a été enfermé au CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio, équivalent des centres de rétention administrative) de Turin en attendant son expulsion.
Éloigné de Vintimille, Moussa s’est retrouvé en détention sans jamais avoir signé de témoignage sur son agression et sans que ne lui soit posée aucune question sur le déroulement des événements. Il n’a bénéficié d’aucun examen psychologique mais a été enfermé à Turin où, pendant plusieurs jours, les avocats n’ont pas pu le retrouver car il avait été enregistré au CPR sous un nom différent de celui retenu par la préfecture de police d’Imperia.
Dans une cellule de l’Ospedaletto, le quartier d’isolement du CPR de Turin, Moussa Balde est mort dans la nuit du 22 au 23 mai 2021. Ses codétenus, qui ont commencé à protester lorsqu’ils ont appris la nouvelle de son décès, ont déclaré que cette nuit-là, ils l’avaient entendu crier pendant longtemps et demander l’intervention d’un médecin sans jamais recevoir de réponse.
Une enquête pour homicide involontaire est en cours sur les événements qui se sont déroulés à l’intérieur du centre de rétention où était enfermé Moussa lorsqu’il est décédé.
Ce 14 octobre, lors de la première audience concernant l’agression de Moussa, les accusés ont demandé et obtenu une procédure simplifiée. Le procès se déroulera donc plus rapidement, à huis clos et sans audition de témoins. Grâce à la présence d’Amadou Thierno Balde, le frère de Moussa, la famille a pu se porter civile.
Déjà écartée dans les déclarations publiques officielles au moment de l’agression, la circonstance aggravante de haine raciale n’a pas été retenue lors du procès. Le procureur a décidé de ne pas la relever, une décision à laquelle l’avocat de la famille s’opposera dans les suites du procès. Le juge a également rejeté la demande de trois associations de Vintimille de se porter partie civile.
Ne pouvant entrer dans le tribunal d’Imperia, un groupe de personnes solidaires s’est rassemblé à ses portes et après la rapide audience, s’est rendu sur les lieux de l’agression raciste à Vintimille avec Amadou Thierno Balde. Ils et elles ont marché dans les rues du centre ville pour rappeler que la mort de Moussa Balde n’est pas seulement un événement tragique mais le résultat d’un racisme brutal, y compris institutionnel, qui apparaît clairement dans le traitement qu’a subi le survivant du lynchage, emmené de l’hôpital au commissariat, de la préfecture de police au centre de rétention, d’un médecin qui l’a jugé apte à la détention jusqu’à un isolement inhumain, sans contact avec le monde extérieur et sans aucun type de soins.
« Le traitement qu’il a reçu avant de mourir, aucun individu, aucun être humain ne devrait être traité de cette façon. Pour qu’il n’y ait plus d’injustice ou de racisme, parce que c’est dur mais il faut être clair, c’est du racisme qu’il a subi. Pour qu’il n’y ait plus de cas comme celui-ci dans le monde entier, et en particulier en Italie. Que l’on respecte le droit dans le monde entier, le droit humain. » a déclaré Amadou Thierno Balde à la sortie du tribunal d’Imperia, en parlant de son frère Moussa.
La prochaine audience dans le cadre du procès des trois agresseurs de Moussa Balde aura lieu au tribunal d’Imperia le 9 décembre à 13h.
Pour éviter que cette histoire ne termine dans le silence, pour s’opposer à la violence raciste, pour la libre autodétermination de toustes.
Pour l’abolition et la fermeture de tous les CPR.
Nous nous réunissons retrouvons nous le 9 décembre :
– à 12h00 devant le tribunal d’Imperia
– à 15h00 sur la Piazza De Amicis à Imperia Oneglia pour un rassemblement antiraciste et une distribution de tracts
Il 14 ottobre saremo davanti al tribunale per dire che Moussa e la sua famiglia non sono soli, che a Ventimiglia c’è stato un pestaggio razzista e che il suicidio di Moussa è un omicidio di Stato.
Il 14 ottobre alle ore 9.00 si terrà presso il tribunale di Imperia la prima udienza che vede come imputati i tre italiani che il 9 Maggio 2021 a Ventimiglia aggredirono Moussa Balde con calci, pugni, tubi di plastica e una spranga. L’accusa è lesioni aggravate dall’uso di corpi contundenti. La questura di Imperia ha voluto escludere l’aggravante dell’odio razziale.
Trasferito al pronto soccorso di Bordighera per le medicazioni urgenti, Moussa era stato dimesso con 10 giorni di prognosi. Quindi, poichè era emersa la sua irregolarità sul territorio nazionale, a sole 24 ore dall’aggressione era stato portato direttamente al centro di detenzione Cpr di Torino, nonostante le sue immaginabili condizioni di salute e psicologiche.
Da subito era stato rinchiuso nell’area Rossa insieme ad altri detenuti, e poco dopo era stato spostato in isolamento all’interno della sezione denominata “Ospedaletto”, dove già nel 2019 un’altra persona, H.F., si era tolta la vita dopo esservi rimasta rinchiusa per 5 mesi. Ad ora non sono chiare le ragioni che hanno determinato la scelta arbitraria di spostare in isolamento una persona in già critiche condizioni psicofisiche.
Moussa è finito al CPR senza aver mai firmato nessuna testimonianza sulla sua aggressione e senza che gli sia stata posta alcuna domanda sullo svolgimento dei fatti. Non ha ricevuto nessuna visita psicologica ma è stato rinchiuso a Torino con ancora i punti in faccia, e mentre il suo avvocato l’aveva cercato per diversi giorni, nessuno era riuscito a rintracciarlo perchè Moussa era stato registrato al CPR con un nome diverso da quello segnato dalla questura di Imperia.
I suoi aggressori giravano a piede libero e lui finiva recluso. Non poteva sapere che una parte di Italia solidale si stava attivando per rintracciarlo e sostenerlo, e nemmeno che il video della sua aggressione era diventato virale su media e social network: all’interno del CPR non si possono tenere i telefoni, così da essere completamente tagliati fuori da ciò che succede all’esterno e non poter raccontare quello che accade lì dentro.
I compagni di prigionia che hanno iniziato una protesta quando hanno saputo la notizia della sua morte, hanno raccontato che la notte del 22 maggio l’avevano sentito urlare a lungo e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere risposta. La mattina di domenica 23 maggio 2021 è stato trovato impiccato nella sua cella. Ad oggi la causa ufficiale della morte di Moussa Balde è di suicidio, nonostante sia anche in corso un’inchiesta per omicidio colposo.
La morte di Moussa non è stata nè “fatalità” nè il frutto di una catena di inadempienze, ma la conseguenza del razzismo strutturale del sistema in cui viviamo. Gli odiosi fatti della vicenda ci dimostrano quanti siano i livelli di discriminazione che hanno contribuito a coprire la bara di Moussa: prima le infinite attese per il permesso di soggiorno, tempistiche che lo avevano spinto a sopravvivere ai margini di questa società da cui, con ogni sforzo, aveva tentato di farsi accettare seguendo tutto quello che il sistema dell’accoglienza gli chiedeva di fare, prendendo la licenza media, imparando l’italiano, facendo volontariato. Dopo cinque anni di peregrinazioni burocratiche e un tentativo fallito di ritentare maggior fortuna in Francia, era finito in strada senza più chance né progetti, come succede a tantissime persone. Quindi l’aggressione di gruppo da parte di tre uomini bianchi in pieno giorno, in centro città e sotto gli occhi di numerosi passanti. Dopo il danno la beffa, e anzichè ricevere le tutele che avrebbe dovuto come sopravvissuto a un linciaggio, è stato immediatamente portato al CPR non per ciò che aveva fatto, ma per ciò che era: un clandestino senza quei documenti che gli erano stati negati nonostante i suoi sforzi. E poi l’ultima botta di un razzismo che gli è stato infine fatale: poichè Moussa era solo un immigrato sulla strada di tre onorevoli cittadini italiani che l’hanno massacrato, è stato spinto a pagare col silenzio quello che ha visto e subito quel pomeriggio del 9 maggio.
Perchè tanta fretta nell’allontanare Moussa da Ventimiglia dato che era il primo testimone dell’aggressione ai suoi danni? Perchè continuare a negare per giorni la sua presenza all’interno del centro, quando si domandava ripetutamente al CPR se Moussa si trovasse lì? Perchè costringerlo all’isolamento nel momento di maggiore vulnerabilità?
Sono queste e molte altre le domande alle quali non ci illudiamo verrà mai data una risposta. I suoi aggressori sono vivi e liberi, il CPR continua a macinare vite e Mamadou Moussa Balde è morto a ventidue anni.
CONTRO TUTTI I RAZZISMI e per la libera migrazione di tutte e tutti.
Per l’abolizione e la chiusura di tutti i Cpr.
CI VEDIAMO IL 14 OTTOBRE AD IMPERIA
Solidali di Ventimiglia
MOUSSA BALDE AND HIS FAMILY ARE NOT ALONE
On October 14th, we will stand in front of the courthouse to say that Moussa and his family are not alone, that there was a racist attack in Ventimiglia, and that Moussa’s suicide is none other than a murder by the state.
On October 14th at 9 a.m., the first hearing will be held at the Imperia courthouse involving the three Italians who, on May 9th, 2021 in Ventimiglia attacked Moussa Balde with kicks, punches, plastic pipes and an iron rod. The charge is injury aggravated by the use of blunt instruments. The Imperia police headquarters want to rule out racial hatred as an aggravating factor.
Transferred to Bordighera’s hospital for urgent medical attention, Moussa was released with a 10-day prognosis. Then, due to his illegal status on Italian national territory, only 24 hours after the attack he had been taken directly to the Cpr detention center in Turin, despite his concevable physical and psychological condition.
Immediately he was locked up in the Red area along with other detainees, shorlty thereafter moved to solitary confinement within the section called “Ospedaletto,” where already in 2019 another person, H.F., killed himself after being locked up there for five months. Even now, the reasons behind the arbitrary decision to move a person in an already critical mental and physical condition to solitary confinement are unclear.
Moussa ended up in the CPR without ever having signed any testimony about his assault and without being asked any questions about the course of events. He received no psychological examination but instead was locked up in Turin with stitches still on his face, and while his lawyer had been looking for him for several days, no one had been able to find him because Moussa was registered at the CPR under a different name from the one marked by the Imperia police.
His attackers were walking around free and he ended up in confinement. He could not have known that a part of Italy was taking action in solidarity to find and support him, nor that the video of his attack had gone viral on media and social networks. Inside the CPR no one is permitted to keep phones, so that one is completely cut off from what happens outside, and cannot speak out about what happens inside.
Fellow detainees who began a protest as soon as they learned the news of his death reported that on the night of May 22nd, they heard him screaming for a long time and asking for a doctor’s intervention without ever receiving a response. On the morning of Sunday, May 23rd, 2021, he was found hung in his cell. To date, the official cause of Moussa Balde’s death is suicide, although a manslaughter investigation is also underway.
Moussa’s death was neither a random ‘fatality’ nor the result of a chain of neglect, but the consequence of the structural racism of the system in which we live. The hateful facts of this case show us how many levels of discrimination contributed to covering Moussa’s coffin:
firstly, the endless waits for a residence permit, timelines that had pushed him to survive on the margins of this society by which, with every effort, he tried to be accepted by following everything the reception system asked him to do, taking his middle school diploma, learning Italian, volunteering. After five years of bureaucratic wanderings and a failed attempt to try his luck again in France, he had ended up on the street with no more chances or plans, as it has happened to so many others. Second, the group attack by three white men in broad daylight, in the city center and in front of the eyes of many passersby. After the harm came the mockery: instead of receiving the protections he should have had as a survivor of a lynching, he was immediately taken to the CPR not for what he had done, but for what he was: an illegal immigrant without the documents he had been denied despite his best efforts. And lastly, the final blow of a racism that was ultimately fatal to him: because Moussa was just an immigrant in the face of three honorable Italian citizens who slaughtered him, he was driven to pay with his silence for that which he saw and suffered that afternoon of May 9th.
Why such a rush to remove Moussa from Ventimiglia when he was the first eye witness to the attack on himself? Why continue to deny for days his presence inside the center when it was repeatedly asked at the CPR if Moussa was there? Why force him into solitary confinement at his most vulnerable moment?
It’s these and many other questions that we are under no delusions that will ever be answered.
His attackers are alive and free, the CPR continues to grind lives, and Mamadou Moussa Balde is dead at the age of twenty-two.
AGAINST ALL RACISMS and for the free migration of everyone everywhere.
For the abolition and closure of all CPRs/retention centers/lagers.
Giovani uomini, ma anche famiglie, donne e minori non accompagnati provenienti da Siria, Kurdistan, Pakistan, Afghanistan, Iran, Bangladesh percorrono, da circa tre anni, la rotta balcanica attraversando la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia fino all’Italia. La maggior parte di essi non ha intenzione di fermarsi e fare richiesta di asilo in nessuno di questi stati. Bloccate dalla frontiera croata con un uso massiccio della forza e della tortura da parte della polizia, le persone in viaggio hanno formato enormi accampamenti informali prima in Serbia e, poi, in Bosnia. Successivamente, un mix di gruppi intergovernativi (International Organization for Migration – IOM e United Nations High Commissioner for Refugees – UNHCR) e non governativi hanno iniziato a gestire o collaborare alla gestione di campi formali altrettanto enormi, in Bosnia.
Noi siamo medici. Negli anni scorsi abbiamo preso attivamente parte alla lotta no border in Italia e, questa volta, abbiamo partecipato a una spedizione organizzata a seguito del crescendo di notizie sulle violenze e situazioni inumane alle quali è sottoposto chi tenta questo attraversamento.
Abbiamo raggiunto Bihać, nel cantone Una-Sana, al nordovest della Bosnia, al confine con la Croazia – circondata da monti e attraversata dal fiume Una. Durante la guerra (tra il 1991 e il 1995) gli abitanti di questa zona hanno vissuto nei rifugi antiaerei, senza acqua ed elettricità, con il cibo razionato. Secondo il Centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, a Bihać sono state uccise 4.856 persone [i].
In questo luogo senza pace, abbiamo potuto conoscere la violenza e la privazione di libertà a cui è sottoposto chi ha un passaporto che non vale nulla, in Europa e nelle sue vicinanze. Abbiamo potuto visitare: siti “di accoglienza” considerati più “dignitosi” per nuclei familiari, donne e minori non accompagnati; enormi campi informali; scheletri di edifici incompiuti o cadenti occupati nel tentativo di salvarsi dal freddo; abbiamo incontrato persone malmenate e torturate dalle diverse polizie, marchiate nei corpi da segni permanenti che molti altri, prima di noi, hanno descritto e raccontato. Esperienza nuova per noi e non comune per chi, in generale, si oppone a tale sistema, abbiamo potuto rivolgere domande dirette a chi fa parte dei grandi gruppi intergovernativi che “normalizzano”, gestiscono e legiferano il destino di chi viaggia.
Il 16 marzo 2016, dopo la chiusura della rotta Balcanica occidentale, Europa e Turchia siglarono un accordo con lo scopo di fermare la migrazione irregolare attraverso la Turchia. In base a esso, tutti i migranti irregolari e richiedenti asilo giunti alle isole greche, le cui richieste di asilo fossero state rigettate, andavano ricondotti in Turchia. Rimandiamo al sito del Parlamento Europeo per la lettura del testo dell’accordo che appare come un’improbabile e allucinatoria previsione del futuro, parzialmente smentita dai fatti. Tra le voci del trattato era previsto che la Turchia si impegnasse a migliorare le condizioni della crisi umanitaria in Siria[ii]
Tutto ciò ha portato alla deviazione dei flussi migratori attraversi la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia e infine l’Italia.
A partire dal 2017 e poi nel 2018 sorgono enormi accampamenti informali in Serbia e in Bosnia. Successivamente nascono in Serbia numerosi centri governativi per migranti, mentre in Bosnia i campi formalmente riconosciuti sono gestiti da International Organization for Migration (IOM, Organizzazione inter-governativa che include 173 paesi, il cui obiettivo sarebbe quello di promuovere condizioni migratorie “umane e ordinate”) e United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), fondato dopo la seconda guerra mondiale.
Da ormai molti anni, sul territorio europeo, diversi gruppi si sono organizzati per dare supporto al transito di coloro che abbiamo deciso di chiamare semplicemente “persone in viaggio”, per non sottostare al meccanismo di divisione in categorie che facilita la distanza e la de-responsabilizzazione.
Da diversi anni incontriamo, nelle nostre strade, donne e uomini sopravvissuti a violenze di ogni genere subite nel corso di questa e altre rotte[iii]
Questo testo deriva da una breve ma traumatica esperienza lungo una frontiera per noi nuova, a confine tra Bosnia e Croazia, sempre più nota per le condizioni di transito inumane, le violenze e le torture efferate perpetrate quotidianamente nei confronti di chi tenta di attraversarla.
Primo Giorno 28/10/19
Il parco dei giovani zoppi
Arriviamo a Bihać, nel cantone Una-Sana, territorio bosniaco confinante con la Croazia, intorno alle 13. Abbiamo alcune informazioni da persone che sono già state in questa zona.
Il passaggio del confine è molto difficile, tanto che il traffico, in questa zona, utilizza una figura definita “runner” che fa da apri-pista per valutare la possibilità del passaggio. I campi formali in Bosnia sono tutti gestiti da IOM che assume personale di sicurezza privata e operatori senza alcuna esperienza, (anche per lavorare con minori), pare assunti tramite campagne su facebook. La procedura per la richiesta di asilo in Bosnia sembra sia molto complessa, ma praticamente nessuno chiede asilo qui.
Partiamo per andare al campo Borici, aperto dal gennaio di questo anno, un edificio dove sono ospitati donne, famiglie e minori e persone definite “con fragilità”. Il “campo modello” del governo. È un edificio, in un parco, la cui destinazione precedente era una casa per studenti.
Quando arriviamo ci sono molti ragazzi giovani e bambini che escono dal palazzo. Fuori c’è un operatore della sicurezza. Tre di noi hanno il permesso per entrare. Da una salita sterrata arriviamo in un piazzale. L’aspetto esterno è abbastanza diroccato. Nel piazzale ci sono 4-5 container. Ci sono bambini che giocano, molte donne e pochi uomini. Ci viene incontro la responsabile e ci dice che potrà dedicarci poco tempo a causa di problemi di sicurezza all’interno della struttura. All’interno ci sono 350 persone, soprattutto famiglie. La maggioranza delle persone viene da Pakistan, Siria, Irak, Kurdistan, Afghanistan. Attualmente non sembrano esserci minori non accompagnati. Il tempo medio di permanenza è di circa 3 mesi. Inoltre c’è un’associazione locale che lavora con le donne. Ci dicono che un medico del servizio sanitario nazionale è al campo 6 volte a settimana e c’è la possibilità di accesso all’ospedale di Bihać per i casi più urgenti. Inoltre affermano che un autobus porta i bambini tutti i giorni a scuola.
Mentre la responsabile ci spiega le caratteristiche del campo, all’improvviso un uomo nel piazzale si accascia a terra circondato da diverse donne. Sembra una crisi epilettica (vera o simulata) e, a un certo punto, arriva un giovane medico. Diverse persone aiutano l’uomo ad alzarsi, poi lui corre e inizia a dare dei pugni sulla parete di un container. La responsabile dice che non può più seguirci, parliamo con una giovane operatrice di IOM. Lei racconta che ha visto gente permanere nel campo anche per un anno. Subito ci dicono di allontanarci per la nostra incolumità e, successivamente, un presunto rappresentante di una ONG arriva trafelato per annunciare che la situazione è molto pericolosa. Vediamo arrivare una macchina della polizia e un’ambulanza.
Nel frattempo il gruppo di noi rimasto all’esterno incontra delle persone di origine afghana nel parco. Tra loro F., una ragazza afghana che viveva in Iran da 21 anni, ha deciso di scappare di casa perché i genitori volevano che sposasse un cugino. Fugge con il suo compagno verso l’Europa e, a Borici, si incontrano anche con un altro parente. Tutti insieme ci dicono che il campo di Borici è molto affollato, ci sono più famiglie (8-10 persone) in una stessa stanza, il cibo non è buono. Vogliono andare in Francia o in Belgio poiché consigliati da amici che gli hanno detto che il sistema eurodac, per l’identificazione delle impronte digitali, non funziona in questi paesi, e quindi non sarebbero rispediti nel primo paese europeo di arrivo. Esprimiamo i nostri dubbi su questo fatto, ma forse con scarso successo.
Sia a F. che al suo compagno è stato rotto il telefono dalla polizia croata, ma non sono stati picchiati, come hanno visto invece accadere ad altre famiglie anche con bambini e donne anziane a cui erano stati anche bruciati i vestiti. Altri due uomini adulti sono conoscenti o familiari della coppia di ragazzi, uno più anziano ci dice che il più giovane, di 18 anni, è stato brutalmente picchiato dalla polizia croata a seguito di uno dei sei tentativi di attraversare la frontiera. Il più giovane mostra la gamba sinistra evidentemente deformata da una precedente frattura e ha visibilmente problemi a camminare.
Insieme a questi ultimi andiamo poi verso la sede di IOM e lungo questo tratto di strada l’uomo più anziano ci dice che uno dei problemi più gravi è che, oltre alla polizia croata, ora nei boschi intorno alla frontiera ci sono persone armate di coltelli che rapinano e feriscono chi passa. Alle nostre domande sulla possibile identità di questi uomini, ci dicono che alcuni di essi sono dei trafficanti.
Tornando verso il campo, passiamo nel parco, in cui camminano molte persone che vivono dentro o intorno a Borici, qualcuno porta con sé buste della spesa.
Molti tra questi giovani zoppicano.
Passiamo di fronte a un grande edificio che pare contenga facoltà islamiche di diritto e pedagogia.
Incontriamo l’altra parte del nostro gruppo, che ci racconta di come la visita al campo di Borici si sia interrotta bruscamente.
Andiamo a vedere se c’è qualcuno in un moderno edificio diroccato, in centro, occupato, praticamente senza mura, dove pare che molti giovani tentino di rifugiarsi almeno durante la notte. Sul corso del fiume incontriamo diversi ragazzini, molti di loro minorenni. Iniziamo a parlarci, molti sono afghani e siriani, hanno quasi tutti la scabbia. Alcuni tra i siriani sono stati fermati in Croazia e in Italia nel tentativo di passare le frontiere e riportati indietro. I documenti rilasciati durante questi respingimenti illegali operati dalla polizia italiana sono stati sequestrati dalla polizia croata. Dicono che la polizia croata è Mafia.
Uno di loro, un ragazzo di 20 anni siriano, dice che anche in città la polizia bosniaca non li lascia stare seduti sugli argini del fiume. Un altro giovane siriano ha la metà destra del corpo ampiamente ustionata e un occhio gravemente lesionato. I suoi amici ci dicono che deve essere operato e ci chiedono come questo possa essere fatto, se in Bosnia o in “Europa”. Parliamo brevemente con lui, ci spiega che un anno prima, in Siria, durante un bombardamento aereo, ha riportato ampie ustioni su tutto il corpo.
Tutti dicono che l’unica acqua che bevono è quella del fiume Una.
Usiamo quasi tutta la crema anti-scabbia che abbiamo, molti antibiotici e alcuni farmaci per il dolore.
Secondo Giorno 29/10/19
La mafia è un elefante bianco
In mattinata incontriamo i rappresentanti di UNHCR. Ci parlano inizialmente dei dati sul transito di persone in Bosnia. Dicono che attualmente ci sarebbero circa 8000 persone nel paese e stimano che almeno il 20-30% in più non siano intercettati dal sistema. Intorno a 3900 si troverebbero nei centri e almeno lo stesso numero al di fuori di essi. Molte famiglie e minori non accompagnati. L’UNHCR ha gruppi definiti “out-reach” per la ricerca di soggetti sul territorio che definiscono “più vulnerabili”. In totale 672 persone, a loro dire, hanno iniziato la procedura d’asilo in Bosnia ma dicono che il sistema per la richiesta non funziona. Sottolineano il proprio impegno nel migliorare questo sistema. In totale pare siano state concesse solo 16 protezioni sussidiarie nel 2018, mentre 604 persone attendono la risoluzione della richiesta.
Imputano al contrasto tra il governo centrale e quello cantonale le colpe per il malfunzionamento del sistema d’asilo. Si insiste molto su questo tema.
Chiediamo se una eventuale richiesta di asilo in Bosnia potrebbe poi impedire il successo di una successiva procedura iniziata in un altro paese d’Europa. Una di loro dice chiaramente: “we are against onward movement, you don’t choose the place where you ask for asylum, we explain to the people that Bosnia has a system in place…”; dunque esprimendo apertamente la propria opposizione a qualsiasi prosecuzione del viaggio successivo a una eventuale richiesta di asilo in Bosnia, imputando tali movimenti all’azione di mafie e trafficanti. Proviamo a esprimere la nostra opinione sul fatto che sia possibile chiedere asilo politico in Bosnia e poi restarci davvero, e le nostre perplessità circa la posizione degli Stati di bloccare delle persone per dei tempi lunghissimi in spazi non idonei.
Continuando a soffermarsi su ciò che ritengono problematico, dicono che frequentemente i loro operatori legali si trovano in difficoltà nel sospetto di una “bogus family composition”, in quanto le persone, a loro dire, non dichiarano lo stesso numero di componenti della famiglia per tutta la durata del viaggio e quando vengono riconosciuti. Per questo si ritiene che non siano “veri” parenti, e che, anche in questo caso, si tratti di situazioni di traffico e sfruttamento, soprattutto per i minori. A nostra domanda su come intendessero gestire questo fenomeno, se volessero avvisare la polizia per iniziare un procedimento legale contro le persone sulla cui composizione familiare ci fossero stati dei dubbi, rispondono in maniera affermativa. Un segno chiaro di ciò sarebbe il fatto che una persona si dichiari zio/zia di qualcuno/qualcuna e poi si separi da esso/essa magari continuando il viaggio indipendentemente. Ci figurano la possibilità di una sorta di controllo e comunicazione delle composizioni dei nuclei familiari in diversi paesi per reprimere queste “pratiche”. Non viene assolutamente presa in considerazione la nostra obiezione che evoca un diverso concetto di famiglia che potrebbe influenzare tali dinamiche.
Una dei rappresentanti UNHCR continua a formulare metafore su degli elefanti: “C’è un’enorme elefante bianco in mezzo alla stanza di cui non ci stiamo occupando” … “se si vuole mangiare un elefante bisogna farlo a pezzi”.
Poiché continuiamo a fare discorsi sulla libertà di movimento, su come anche gli europei non restino bloccati nel primo paese nel quale migrano, eccetera, a un certo punto, iniziano a dire che forse il termine “mafia” era inappropriato. Probabilmente pensando che, in quanto italiani, il termine ci avesse offeso.
All’improvviso finisce il nostro tempo, perché gli operatori UNHCR hanno altri meeting.
Andiamo poi al campo di Sedra. Un altro campo per famiglie e minori non accompagnati, allestito in un vecchio hotel. È un vecchio edificio abbastanza cadente, al secondo piano piove all’interno. C’è poco da dire, ci sembra che i campi abbiano implementato di molto la condizione occupazionale della gioventù locale. I lavoratori che incontriamo sembrano ben disposti verso i rifugiati che vi abitano. Ci raccontano dei turni di 14 ore al giorno delle cuoche della croce rossa.
Dopo la visita, raggiungiamo l’altro gruppo che si trova di fronte al campo di Bira, un altro campo da 1200 posti gestito da IOM dove opera anche Save the children, al quale non ci è permesso l’accesso.
Fa molto freddo. Visitiamo molte persone nel parcheggio, molti ragazzi giovani (anche minorenni), tutti senza vestiti adatti per quel clima, molti con sandali. Aspettano lì fuori, al gelo, di entrare nel campo; quasi tutti hanno ferite infette e scabbia.
Dei ragazzi afghani iniziano a parlarci, è da molto tempo che aspettano di entrare, ma sembra che il campo sia pieno. Molti di loro trovano riparo in un edificio abbandonato non lontano, chiedono se vogliamo andare a vederlo. Ci accompagnano verso una grande costruzione diroccata, senza finestre e in alcuni punti anche senza pareti, sotto una pioggia che si infittisce. Salendo le scale si arriva a un secondo piano invaso dal fumo. In ogni stanza è stato acceso un fuoco, il pavimento è completamente ricoperto di carta e plastica. Ci saranno una cinquantina di persone, ma ci dicono che dormono li in 300 circa. I ragazzi hanno pochi materassi per terra e qualche coperta. Facciamo varie medicazioni e ad alcuni diamo degli antibiotici per malattie dell’apparato respiratorio. Quasi tutti hanno la scabbia, quindi avendo finito il farmaco diciamo che torneremo nel pomeriggio del giorno dopo.
Torniamo al campo di Bira, vediamo molta polizia arrivare. Raccolgono tutte le persone che stazionano nel parcheggio al di fuori del campo e le portano via.
Dopo un’ora da questa retata nuove persone al freddo e sotto la pioggia si avvicinano nuovamente al cancello del campo nella speranza di poter entrare. Tra di loro un ragazzo di provenienza afghana nato nel 2005, ha con sé un documento di identificazione. È appena arrivato da Sarajevo. Cerchiamo di mediare all’entrata del campo con un responsabile dell’IOM per capire se è possibile farlo entrare. Dopo una mezz’ora esce dal campo un funzionario di Save the children che controlla i documenti del ragazzo e gli dice di avvicinarsi alla rete di separazione. Improvvisamente, almeno una ventina di bambini compaiono dal nulla attorniando il funzionario e cercando di attirare la sua attenzione, mostrandogli i documenti sui quali è scritta la loro età.
La sera incontriamo brevemente una operatrice di una nota ONG della zona, che ci spiega l’attività dell’organizzazione. Sembra vi siano importanti limitazioni poste dal governo del cantone Una-Sana.
Ci dice di una circolare che è stata emanata dal governo locale, la quale impedisce ai cittadini di affittare casa alle persone migranti, di ospitarle o di fare qualsiasi atto che determini un assembramento in strada.
La sera apprendiamo che un cameraman solitamente filma e pubblica sui social network le operazioni di polizia.
Terzo Giorno 30/10/19
Leggende di frontiera
La mattina partiamo in auto alla volta di Velika Kladuša, a circa una 40 di km da Bihać.
Lungo il percorso, che in buona parte corre parallelo al confine con la Croazia, incontriamo diverse persone che camminano sulla carreggiata, nonostante il freddo e la pioggia. Ci fermiamo due volte nel tentativo infruttuoso di approvvigionarci presso farmacie locali di antibiotici, ormai agli sgoccioli. Alla seconda sosta avviciniamo un gruppo di persone presso un edificio in disuso, molto sporco, dove avevano riposato. Erano all’ennesimo tentativo di superare la frontiera, vittime di furti e delle consuete umiliazioni, percosse, vessazioni operate dalla polizia croata, non rare anche da parte della polizia slovena.
Li medichiamo e forniamo loro alcuni antidolorifici per i traumi. Raggiungiamo il parcheggio dell’ospedale di Velika Kladuša. Ci viene incontro una giovane attivista francese dell’associazione No name kitchen, un’organizzazione internazionale di volontari per il supporto al transito, che ci rende partecipi delle difficoltà e delle limitazioni nel poter fornire aiuto alle persone in viaggio. Per loro infatti, è necessario rinnovare mensilmente un documento con i dati anagrafici e il domicilio, cosa mai richiesta ad altre persone che sono in Bosnia con un visto turistico.
Giunge quindi una operatrice di MSF, accompagnando 2 giovani uomini, uno in sedia a rotelle e un altro che zoppica, provenienti da una casa occupata visitata da lei nel corso di un monitoraggio. Parlano di altre persone che vivono nell’occupazione e sono in condizioni pessime. I due ragazzi presentano un quadro di scabbia grave con sovra-infezione. Il giovane in sedia a rotelle appare molto debilitato e probabilmente febbrile, alza la testa solo quando la ragazza si rivolge a lui in arabo, per poi ritornare ad accasciarsi su sé stesso. Viene deciso di provare a portarlo presso il campo cittadino Miral. Seguiamo con la nostra auto il loro furgone, arrivati presso il campo ci fermiamo presso il parcheggio esterno. Veniamo dopo poco raggiunti dalle solite guardie private presenti in tutti i campi gestiti IOM che, dopo averci chiesto i documenti, ci intimano con atteggiamento irridente di allontanarci per la nostra incolumità.
Ritornati a Bihać, ci rechiamo all’edificio occupato che si trova nelle vicinanze del campo di Bira. L’aria è ancor più irrespirabile del giorno prima, piove e fa freddo e ci sono molti fuochi accesi nelle stanze. Ci fanno entrare nella stanza meno sporca e dove non c’è un fuoco, per poterli visitare. Il pavimento è ricoperto di scatole di cartone e in un angolo c’è un tappeto. È una moschea improvvisata.
Tutti si accalcano intorno chiamandoci per mostrarci le ferite infette procuratesi nel grattarsi a causa della scabbia, molti hanno la gola arrossata e le tonsille gonfie. Alcuni hanno i piedi rotti da manganellate della polizia croata con ferite aperte e vogliono disperatamente una medicazione per coprirli. Le piante dei piedi, in alcuni casi, hanno ferite poiché la polizia croata gli prende le scarpe, oltre a tutto il resto, costringendoli a camminare scalzi per chilometri. Finiamo praticamente tutti i farmaci che abbiamo e ci accompagnano fuori.
Torniamo davanti al campo di Bira, fa sempre più freddo e piove, ma lì di fronte c’è sempre una folla di giovani fantasmi con coperte in testa per ripararsi, come possibile, dal freddo. Aspettano la notte.
A qualcuno hanno detto che se riesci a resistere, ad aspettare fino a notte inoltrata, a volte, c’è un operatore anziano che ti fa entrare. Ad altri hanno detto, a Tuzla, che forse, quando arriverà la neve, ci saranno degli autobus italiani che verranno per portarli in Italia.
Un ragazzo non riesce più a sedersi per le ferite dovute alla scabbia. Gli diamo ciò che resta dei farmaci. A un altro che ha la febbre diamo un antinfiammatorio, sarebbe meglio assumerlo a stomaco pieno, ma lui non mangerà per oggi.
Giovani pakistani raccontano di essere stati picchiati selvaggiamente dalla polizia croata al confine, un loro amico diciassettenne è stato massacrato di botte da una poliziotta slovena, poiché rifiutava di firmare il foglio in cui era scritto che era maggiorenne.
Molte sono le torture di cui raccontano. Dicono che, in inverno, la polizia croata, dopo aver preso soldi, distrutto telefoni e bruciato vestiti, bagna le persone con acqua gelida e le lascia in un furgone con l’aria condizionata fredda accesa, al contrario dell’estate, quando li lasciano con l’aria condizionata calda.
Oppure, dopo avergli tolto le scarpe, usano i lacci per immobilizzarli ai polsi e poi li spingono giù per terreni scoscesi. Bastonano le persone coi manganelli per lunghissimi minuti, fino a fratturargli gli arti, poi li obbligano a tornare indietro verso la Bosnia.
Ci dicono di respingimenti operati informalmente e nottetempo dalle polizie croata, slovena e italiana, con un percorso a ritroso verso la Bosnia, e nessun documento scritto.
Quarto Giorno 31/10/19 – La città e l’incubo
Andiamo al campo di Vucjak, un enorme campo informale dove ci saranno almeno 800 persone..
Il campo si trova sulla linea di fuoco della guerra degli anni 90 e sono presenti numerosi campi minati nelle vicinanze..
All’ingresso c’è la polizia, ci chiedono i documenti e raccomandano di restare uniti. Piove, fa molto freddo, c’è fango e spazzatura ovunque, molte persone camminano tra grandi tende e tende più piccole. Molti non hanno che sandali. Le tende più ampie sono tutte fornite dalla mezzaluna rossa turca, sembra che siano state spostate qui dal campo di Bira.
Costantemente, con retate effettuate nelle città, le persone sono portate qui dalla polizia. Diversi ragazzi ci chiamano per mostrarci le tende in cui entra acqua, non hanno abbastanza vestiti e coperte, molti si sentono male. Capiamo che per loro è complicato anche solo raggiungere l’ambulatorio più vicino poiché la polizia non li fa uscire dal campo. Devono fare dei complicati percorsi per aggirare il blocco.
Il campo sembra la città di un futuro distopico o di un incubo. In mezzo al fango ci sono esercizi commerciali, una specie di bar e un mercato, e in alcune tende più grandi alcuni ragazzi impastano il pane in grandi bacinelle di plastica. In molte zone del campo ci sono fuochi, nei quali viene gettata anche la spazzatura. Ovunque c’è fumo nero e si sente odore di plastica bruciata.
Tra le tende e il fango si aggirano dei giornalisti, anche italiani, che riprendono le persone senza chiedere alcun consenso.
Ritorniamo nel parcheggio del campo Bira, dove come sempre, ci sono molti ragazzini che aspettano di poter entrare.
Alcuni pakistani ci parlano del fatto di non avere un posto dove stare e di non voler andare nella fabbrica abbandonata perché lì un ragazzo è morto di freddo. Dicono di aver visto il cadavere che veniva portato via da qualcuno venuto da fuori.
Un ragazzo di 16 anni ci mostra un’infezione diffusa a una mano e ci dice che ha bisogno di assistenza medica. Cerchiamo attraverso il cancello di parlare con persone che si occupino di minori, vediamo un ragazzo bosniaco che indossa la maglia di Save the children e gli urliamo attraverso le sbarre che fuori c’è un minore con un problema infettivo. Dice che non è sua responsabilità, ma dell’IOM e si allontana velocemente. Allora cerchiamo di chiamare una donna che invece indossa una maglia di IOM, costei ci dice che il ragazzo deve aspettare indicando un punto vicino alla recinzione. Intanto si rivolge in bosniaco a uno strano individuo di una certa età, vestito in borghese, che continua a guardarci con apparente sguardo di scherno.
Sembra che non parli inglese, dopo un po’ gli si affianca un’altra persona più giovane, alto, anch’essa in borghese che però sembra una specie di guardia del corpo. Ci chiede chi siamo e se facciamo parte di qualche associazione, diciamo di no, quindi ci dice lentamente ma decisamente che davanti al campo non si può stare, per problemi di sicurezza, e ci invita a lasciare l’area.
Più tardi scopriremo che l’individuo più anziano è il responsabile della polizia dell’ufficio stranieri.
Decidiamo di ripartire perché provati. Inoltre abbiamo finito tutti i farmaci ed evidentemente la nostra possibilità di agire è, per il momento, molto ridotta.
Tornando in macchina verso l’Italia incontriamo molte persone in cammino, nonostante il freddo e la pioggia.
Per noi il passaggio delle frontiere tra Bosnia e Croazia e tra Croazia e Slovenia è rapido. Il controllo è costituito da un rapido sguardo dentro la macchina e ai passaporti.
A un certo punto, a circa 20 km da Trieste, vediamo due ragazzi che camminano sulla carreggiata. Un centinaio di metri dopo, un cellulare della polizia fermo. Pensiamo di tornare indietro per fare qualcosa, avvertirli, prenderli con noi, ma già un’altra macchina della polizia era giunta ai ragazzi, dietro di noi, li aveva fatti sedere a terra e gli illuminava il volto con le torce. Un poliziotto che stava manovrando il cellulare per tornare indietro, si era fermato e aveva già aperto il portellone sul retro.
Era agosto, anno 2018, una nave carica di persone aspettava penosamente un’autorizzazione, per attraccare al porto di Catania.
Adesso l’anno è quello nuovo, ma ancora ci ritroviamo a seguire le vicende di imbarcazioni – la Sea Watch e la Sea Eye 3 – che effettuano il soccorso in mare ai migranti e che vengono, quindi, rifiutate dai porti di mezza Europa. Di nuovo, una meschina contesa di potere si gioca sulla vita e la sofferenza di persone in condizioni di assoluta difficoltà.
Pubblichiamo una breve lettera: semplici parole una in fila all’altra, scritte in occasione della “crisi” relativa alla nave Diciotti.
Tornando d’attualità, queste parole ci parlano di come l’Europa continui a morire – e noi, suoi cittadini privilegiati, insieme a lei – ad ogni minuto che una di queste navi, cariche di un’umanità viva e sofferente, resta in balìa delle onde.
Forse è vero che ci si abitua a tutto. Come è vero che dimenticare è più facile che ricordare.
Scriviamo dalla Liguria, una delle regioni che più intensamente ha conosciuto e vissuto la lunga e triste stagione delle oceaniche migrazioni italiane, ma in quanti conoscono la storia del naufragio del Sirio? In quanti si emozionano alle prime battute del canto che ce lo racconta: E da Genova il Sirio partivano per l’America varcare, varcare i confin…?
Avremmo forse più chiaro che, sulle migrazioni, c’è sempre stato qualcuno pronto ad arricchirsi, mentre altre ed altri pagano, anche con la vita. Sapremmo che questa storia è anche la nostra e sentiremmo quanto l’attualità ci riguarda.
Con l’augurio che il 2019 porti quel coraggio di ribellarsi e predere posizione che finora è mancato alle nostre latitudini.
Ho una sorella per la quale, come è quasi scontato, mi butterei nel fuoco, se servisse a salvarla.
Per lei mi preoccupo nei momenti difficili, per lei mi riempio di gioia quando supera un traguardo importante.
Abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, ci facciamo gli auguri ai compleanni e alle feste comandate, abbiamo fatto assieme delle vacanze e dei viaggi. Ora viviamo lontane e, quando ci telefoniamo, scarichiamo le batterie dei telefoni.
Ci adoriamo e litighiamo. Assieme ridiamo tantissimo e abbiamo pianto (soprattutto io). Parliamo di politica, d’amore, di lavoro, di epistemologia, di stronzate, di ideali, di altre persone, di rimedi naturali e cosmesi…parliamo di noi.
Fa il tiramisu più buono del mondo, con lei mangio il pesto e il berberé (non assieme!). Con lei ho preso sbronze colossali e ho ballato like I’ve never danced before. Cantiamo Battisti, ci batte il cuore con Gilberto Gil, abbiamo consumato un cd di musica del Mali e ultimamente impariamo vecchi canti di lotta e di lavoro.
Mia sorella è eritrea. La determinazione di qualcuno e il destino hanno fatto sì che nascesse in Italia. Se così non fosse stato, adesso, sarebbe potuta essere su una nave, al largo di Catania.
Mi fate pena, voi che non avete affetti che se ne freghino del colore della pelle, che non vi facciano sentire quello che il vostro cervello affaticato e la vostra angustia culturale e politica non vi fanno capire.
Voi che non avete il coraggio di guardare le fotografie dei migranti italiani di neanche un secolo fa. Voi che non vi ricordate del tragico naufragio del Sirio, partito da Genova…
Siete poveri d’animo ed è colpa vostra. Non vi perdonerò mai, perché la vostra meschinità, oggi, in Europa, è una scelta.
COL FRATELLO IDY DIANE NEL CUORE! Anche Genova grida “No al RAZZISMO”!
Storie di ordinario razzismo.. ordinario e sempre più quotidiano, sempre più per mano non solo dello stato, cioè di chi si riempie la panza con la vita di tutti noi, o per mano di poliziotti, burattini dei governi che svolgono il loro lavoro di servi pestando, ammazzando ed imprigionando, salvo poi l’improvviso destarsi del pubblico scandalo se qualcuno gli urla forte e chiaro in faccia: “DOVETE MORIRE”.
Le mani sporche di sangue aumentano ogni giorno e sono quelle di cittadini qualunque: i fascisti si sentono più forti, gli si è lasciato spazio e questi stanno sguazzando nella merda che abbiamo lasciato accumulare, e le tentate stragi e gli omicidi continuano, sempre più difese, sempre più “scusate o capite”.
Più di una settimana fa ormai, un altro morto “ordinario”, un altro omicidio per mano razzista, un altro negro morto ammazzato.
IDY DIANE, senegalese, ucciso a Firenze da un italiano di 65 anni, Roberto Pirrone.
Si chiamava IDY DIANE, immigrato, regolare e faceva l’ambulante. Serve altro o possiamo dire che era SEMPLICEMENTE un UOMO?
Casualità, era sposato con la vedova di MODOU SAMB un altro senegalese ucciso sempre a Firenze il 13 dicembre 2011 insieme ad un paesano, DIOR MOR. Uccisi da Gianluca Casseri, un’altra mano fascista!
I giornali hanno provato come sempre a rivedere la storia: a Macerata problemi mentali, a Firenze “mancanza di coraggio nel suicidarsi”… e quindi, scende in strada, salta qualche donna bianca e te eccolo lì: spara a un negro.
UN UOMO!
Dopo l’omicidio molti ragazzi immigrati sono scesi nelle strade, hanno espresso la loro rabbia, hanno urlato, hanno attraversato luoghi e volti, hanno parlato e, per tutta risposta, i giornali, sostenuti dal coro dei cittadini per bene, il giorno dopo, parlavano delle fioriere rotte dal passaggio di questi giovani neri, sostenuti da quegli scansafatiche dei centri sociali… povere fiorere, troppa rabbia! È solo morto Idy, un venditore ambulante!
In diverse città sono stati fatti presidi e cortei in solidarietà alla rabbia di tutte queste persone, attraversati da gente bianca e nera, a cui ancora batte un cuore, che ancora non si è lasciata annichilire dalle ordinarie schifezze quotidiane.
“Nessuno di noi accetterà mai questa ordinaria brutale realtà!”.
Così decidiamo di riportare uno di questi pezzi di umanità che resiste e irrompe sulla scena decisa a non lasciarsi soggiogare.
Raccontiamo una delle manifestazioni contro il razzismo che ha ucciso IDY DIANE, raccontiamo alcune voci di queste strade attraversate, fiamme di un fuoco che arde contro il gelo di un Paese sempre più cupo.
Questi gli slogan che hanno attraversato i vicoli del centro storico, da via Pre a via del Campo per poi andare verso Piazza De Ferrari al grido di “SO-SO-SOLIDARITE’ AVEC LE SAN PAPIERS”. Le voci che intonavano questo grido di lotta sono state voci di uomini e donne, bianche e nere, italiani e stranieri che hanno riempito le strade, trasformando spontaneamente il presidio indetto alla Commenda di Pré dalla comunità senegalese di Genova in un corteo. Il ricordo e la denucnia dell’assassinio di Idy a Firenze e della tentata strage di Macerata hanno aperto il presidio, unendo la piazza con determinazione, nonostante la pioggia.
Alcuni giovani migranti nel frattempo hanno fatto uno striscione dove le parole scritte in italiano arabo e inglese urlano la voglia di riscatto e di uscire dal silenzio:
“NO AL RAZZISMO” dietro a quelle morti c’è il ritorno dell’odio razziale, sostenuto e promosso da partiti di destra ed estrema destra, sovranisti e fascisti, dalla Lega a Forza Nuova, da Casa Pound a Lealtà e Azione. Proprio quest’ultima ha organizzato nello stesso pomeriggio la presentazione di un libro insieme all’organizzazione Memento nella propria sede, che doveva essere un magazzino di stockaggio di prodotti alimentari da distribuire alla popolazione bianca e che ora diventa “spazio politico”. Di questo dovranno rispondere i Padri Scolopi e tutta la comunità che si dichiara cattolica.
“NO AL COLONIALISMO” dietro a quelle morti c’è un chiaro progetto coloniale che non essendo mai stato realmente né denunciato né riconosciuto continua indisturbato a mietere le sue vittime. Vittime che però oggi sono qua e che nella giornata di sabato hanno dato testimonianza di quello che i paesi neoliberalisti stanno facendo qui e nei loro paesi: sfruttamento, apartheid, disastri ecologici e ambientali, vendita di armi, consumo di risorse… LAGER IN LIBIA, UN GENOCIDIO NEL MEDITERRANEO.
Questi gli interventi passati di mano in mano, tra mani bianche e nere, attraverso megafono che è rimasto acceso per tutta la durata del presidio e durante il corteo. I ragazzi hanno dato voce al sentimento di rabbia e dolore che sentono sempre più forte, hanno dato voce alla sofferenza e all’odio che provoca il razzismo ogni giorno sulla loro pelle. Alcuni di loro parlavano di amore, fratellanza, sorellanza e bisogno di solidarietà, altri portavano più un desiderio di giustizia, non sentendo come parole proprie quelle sulla “violenza sbagliata, in cui non bisogna cadere”, sentendo invece la necessità di rispondere all’odio che si riversa sui “diversi” sempre più frequentemente, sentendo che, in ogni caso, la violenza non è la nostra. Semmai la nostra è autodifesa e voglia di vivere in maniera degna. In quelle tre ore sono stati denunciati anche il decreto Minniti, il sistema di accoglienza, le morti per mano fascista e i partiti riconosciuti dalla democrazia che inneggiano all’odio, con il coltello in mano lasciati liberi di aprire sedi nella nostra città.
Molti dei ragazzi che hanno portato insieme i loro corpi fra i vicoli di Genova, determinati, più forti di tutti quegli sguardi di chi, dai negozi, li guardava stupito ed impaurito, avevano sul volto rabbia e dolore, sì, ma anche gioia di essere lì, insieme, a testa alta.
Speriamo tutte e tutti che ci siano altre giornate come questa, altre voci forti, altri momenti di unione, altre strade piene di persone che non si faranno fermare da paura e repressione, dall’odio razzista e dall’indifferenza.
Quella di sabato è stata una giornata che ha dato speranza, che ha mostrato forza e determinazione nel reagire uniti, noi sfruttati, colonizzati, pronti a rivoltarci alla violenza fascista e razzista, a Genova, Firenze ed in altre città.
L’invito di fine corteo continua ad aleggiare per i vicoli della città vecchia:
“A presto nelle piazze! Per uscire dall’isolamento e contrastare i nostri nemici!”
A cura di Fight
[1] MeMento: E’ un’associazione che si occupa della continuazione della memoria della Repubblica Sociale Italiana attraverso la pulizia e la tutela delle tombe dei repubblichini fucilatori dei loro connazionali e alleati dei nazisti. Inoltre è la diretta erede spirituale ed immobiliare della Unione Nazionale Comnbattenti della Repubblica Sociale Italiana UNCRSI.
Dopo l’emergenza-piogge, è arrivata l’emergenza-freddo a Ventimiglia.
Si sa, sono anni ormai che paradossalmente si va avanti di emergenza in emergenza.
Eppure qualcuno potrebbe notare che un’ondata di gelo eccezionale, il Burian Siberiano in questo caso, è sì un evento insolito ma per chi ha una casa riscaldata, vestiti caldi e impermeabili è qualcosa di gestibile, qualcosa che può diventare finanche piacevole: improvvisamente la neve arriva fino al mare, il paesaggio si fa candido e i bambini, ma non solo, si divertono a tirare qualche palla di neve.
L’emergenza allora ancora una volta è stata un’emergenza selettiva: ha riguardato principalmente le centinaia di persone accampate all’aperto sotto il ponte di Via Tenda o nei tendoni del Campo della Croce Rossa a Ventimiglia… insieme alle altre migliaia di persone accampate all’aperto nel resto della Penisola.
La netta maggioranza di questi bambini, di queste donne e di questi uomini sono immigrati, non italiani.
Durante i giorni di gelo sono uscite alcune testimonianze, articoli e reportage sulla situazione di emergenza vissuta a Ventimiglia dalle persone migranti.
Ne riportiamo qualche passaggio significativo:
27/02/2018 Dalla pagina FB del Progetto 20k[1]
Da ormai quasi tre giorni la situazione a Ventimiglia è parecchio critica per i più di 150 migranti senzatetto che si trovano sotto il ponte stradale. Abbiamo chiesto ufficialmente al comune di attivarsi per sopperire alla mancanza di uno spazio dove queste persone possano ripararsi dal freddo e dal gelo, almeno finché non finirà l’emergenza maltempo. Fra queste persone sono presenti molti soggetti vulnerabili, soprattutto infanti, minori e persone con vari problemi di salute. Dopo aver diffuso la notizia su svariate testate giornalistiche abbiamo ricevuto sostegno da molti solidali di Imperia e dalla regione, ma anche dai vicini transfrontalieri: purtroppo non abbiamo avuto nessuna risposta dal Comune di Ventimiglia.
Con gli attori locali stiamo cercando di gestire questa situazione vergognosa: i solidali e gli attivisti, anche transfrontalieri, stanno cercando di sopperire autonomamente a queste carenze, distribuendo cibo, bevande calde, legna per i fuochi, vestiti e coperte. Le ONG locali si stanno muovendo per convincere le donne con o senza bambini e minori ad andare al campo CRI o per aiutarci ad assicurare la distribuzione di cibo serale che, a causa del maltempo, si è dovuta interrompere. Anche la Croce Rossa di Monaco si è attivata con alcune navette per trasportare i migranti al campo, che è distante e la strada per raggiungerlo pericolosa, ma queste funzionano solo per parte della giornata, in maniera poco costante.
La sospensione delle identificazioni al campo CRI è stata disposta solo per donne e minori, ma non per gli uomini. Questo fatto genera quindi diffidenza perché lasciare le impronte digitali significa essere esposti maggiormente al rischio di deportazioni, rimpatri o di un ennesimo trasferimento in un centro chissà dove in Italia, così in molti preferiscono rifugiarsi in altri posti e/o piuttosto restare al freddo. La chiesa delle Gianchette è rimasta aperta per qualche ore e il parroco ci ha concesso uno spazio da utilizzare come magazzino temporaneo per le coperte che tanti solidali ci stanno inviando. Abbiamo ancora bisogno di trovare altri spazi per la legna che raccogliamo, dato che è l’unica fonte di riscaldamento per le persone sotto il ponte. Ci auspichiamo che la solidarietà tra le varie realtà locali possa portare a gestire con più facilità questa situazione di assoluto disagio, perché purtroppo il peggio non è ancora arrivato: nei prossimi giorni è prevista neve, pioggia e un calo drastico delle temperature.
Ieri sera la sala d’attesa della stazione avrebbe dovuto essere aperta, ma in realtà è rimasta chiusa. In tanti durante il giorno si riparano lì dal gelo e dalla neve che continua a cadere fitta, ma stamattina ci è giunta notizia della presenza sia di camionette con agenti in borghese che caricavano i migranti sulle camionette sia di pullman che, come di prassi, li deportavano forzatamente verso il sud Italia.
Riteniamo vergognoso e inaccettabile l’accanimento di queste ore nei confronti dei soggetti più vulnerabili presenti sul territorio ventimigliese. L’alta probabilità di essere intercettati dalla polizia potrebbe avere, infatti, l’effetto di incentivare i migranti a restare per strada o sotto il ponte, a costo di rimetterci la pelle. È in situazioni come questa che le istituzioni dovrebbero attivarsi per proteggere la vita di queste persone, piuttosto che dileguarsi senza rispostee facilitare l’azione poliziesca di repressione nei confronti dei transitanti.
28/02/2018 Da Repubblica, reportage di Pietro Barabino e Giulia De Stefanis:[2]
Ventimiglia, anche un bimbo di 3 mesi fra i migranti bloccati nel gelo. Ma il centro di accoglienza non si fa
A Ventimiglia non nevicava dal 1985 e molte delle persone – in tutto alcune centinaia – che stazionano al confine con la Francia in attesa del “grande salto” oltre la frontiera, non avevano mai visto un fiocco di neve. Tra i migranti, che stanno trascorrendo queste notti all’aperto a -7 gradi, anche tantissimi ragazzini e giovani mamme con i loro bambini di pochi mesi. Attualmente il Campo della Croce Rossa ospita trecento persone, duecento quelli che preferiscono restare fuori. La legge sui minori non accompagnati obbligherebbe ad aprire un centro dedicato ai più piccoli e alle donne, ma l’apertura – pianificata mesi fa dalla Prefettura – è stata bloccata dalla protesta di alcuni cittadini capeggiati dal sindaco della città di frontiera, che dopo aver insistito per la chiusura del campo gestito dalla Caritas, ha ostacolato in ogni modo l’apertura del centro per i minori non accompagnati.
Donne e uomini solidali si sono subito mobilitati per fornire aiuti e generi di conforto, per cercare di alleviare pericolo e sofferenza delle persone lasciate al gelo.
Invece nessun ente istituzionale, né Comune, né Prefettura, né Protezione civile ha preso iniziative per affrontare la situazione.
Il messaggio da parte delle istituzioni è stato molto, fin troppo, chiaro: non c’è nessuna emergenza umanitaria in atto perché quegli esseri che vivono sotto al ponte o non sono umani, oppure smettono di esserlo in quanto clandestini.
Come ha reagito la popolazione di Ventimiglia? A parte il gruppo dei solidali che attraversano il territorio – italiani, francesi, europei – la popolazione autoctona si è mossa di fronte a questa situazione così evidentemente penosa per le persone costrette a subirla?
La cittadinanza del territorio ha mostrato sdegno, disaccordo, disapprovazione nei confronti dell’abbandono riservato alle persone migranti, lasciate all’aperto con il ghiaccio, la neve e temperature molto al di sotto dello zero, o ha taciuto, di fatto assentendo al comportamento delle istituzioni?
Lo chiediamo ad una solidale che è stata costantemente presente e attiva durante la settimana di gelo e ha vissuto in presa diretta la drammatica situazione sotto il ponte di Via Tenda, tra le persone accampate:
“Guarda, la situazione a Ventimiglia è molto complessa e il clima, giorno dopo giorno, si fa sempre più teso e pesante… Sarebbe troppo semplice rispondere che la stragrande maggioranza della cittadinanza di Ventimiglia vuole lo sgombero dei migranti da sotto il fiume, che non ha voluto l’apertura del centro per minori, che è favorevole alle deportazioni verso Taranto, insomma che è razzista e xenofoba, quindi d’accordo con il comportamento delle istituzioni. Questa gente esiste e non è certo una minoranza, anzi…
Però attenzione non ci sono solo loro. In realtà tantissima gente in questa settimana di gelo ha aiutato come ha potuto, soprattutto offrendo sostegno materiale. Sono arrivate tantissime donazioni di beni di prima necessità a Eufemia, tanto che è stato chiesto al parroco di mettere a disposizione il magazzino della chiesa delle Gianchette perché la roba non entrava più nello spazio di Eufemia. Per dirti, ancora, quando gli attivisti del collettivo Kesha Niya, che di solito forniscono i pasti sotto al ponte, sono rimasti bloccati nella neve, a quel punto a cucinare è stata sempre la Caritas… Ma lo sai chi ci sta in Caritas? Tantissimi volontari che prima, quando era aperta la chiesa delle Gianchette, stavano lì a organizzare l’accoglienza dal basso per i migranti. Questo per dirti che una parte di cittadinanza si è mossa, ma certamente lo ha fatto sotto traccia. In maniera assolutamente non pubblica.
Se vuoi sapere perché, io credo che il motivo sia principalmente il clima di repressione e intimidazione che si vive a Ventimiglia. La chiusura della Chiesa delle Gianchette, avvenuta per ordinanza del Comune, ha segnato un punto di non ritorno: ogni sostegno pubblico ai migranti, anche quello di tipo umanitario e non conflittuale, è stato sempre più ostacolato. Si dà appositamente massima rilevanza ad ogni rigurgito razzista e si ostacola in maniera palese o “silenziosa” qualsiasi iniziativa di solidarietà. La polizia ha intensificato i suoi atteggiamenti intimidatori, il Comune le misure repressive, i media i toni di scontro da civiltà e questo ha permesso alla cittadinanza razzista di alzare la testa e sentirsi legittimata a comportamenti orrendi. Capita spesso che i solidali girino per Ventimiglia sentendosi insultare, soprattutto le donne peraltro, con frasi tipo: “Ecco la puttana che va con i negri” “Ecco gli amici dei negri..” ecc. ecc. Lo riporto per farti capire come mai la cittadinanza solidale e antirazzista agisca sotto traccia, in maniera diciamo “invisibile” allo sguardo pubblico.
Questo ovviamente ha anche delle ripercussioni sul rapporto con le persone migranti. Vedendo questa situazione, che loro ovviamente vivendo sulla loro pelle percepiscono, hanno sempre meno fiducia nei solidali. Non si tratta della fiducia umana a mancare, ovviamente sentono la nostra amicizia e vicinanza, ma si rendono anche perfettamente conto della nostra debolezza e questo li porta ad affidarsi a chi riconoscono come dotato di strumenti più efficaci… Inoltre tutto questo clima sta accelerando il processo di ghettizzazione lungo il fiume: ti isolano, ti marchiano da reietto, ti lasciano senza nulla, nelle condizioni più disumane… beh gli effetti sociali che tutto questo può produrre, credo che non serva un professore di sociologia a spiegarli… Sembra veramente che qui in Via Tenda, tra il sotto ponte e il quartiere popolare, in atto ci sia una strategia della tensione. Ecco, direi che questa situazione fa capire quanta poca democrazia sia rimasta in questo posto ma forse non solo qui, se è vero che questo posto è uno dei laboratori dove si sperimentano pratiche che poi vediamo riprodursi velocemente in molti altri territori di questo Paese. Probabilmente tutto questo deve farci riflettere profondamente sui modi e sugli strumenti possibili per un agire politico e sulla posta in gioco in questo momento…”
Torniamo alla domanda iniziale: si è trattato dell’ennesima emergenza, oppure di un ulteriore passo nella costruzione di una politica nei confronti delle persone migranti, dei poveri, degli esclusi, che si può definire come tanatopolitica (politica di morte)?
Michel Foucault ha coniato la categoria di “biopolitica” per indicare le pratiche e i dispositivi con cui il potere opera sulla vita della popolazione ai fini di far vivere chi è produttivo, lasciar morire chi invece non lo è, né può diventarlo. L’espressione “tanatopolitica” indica l’emergere di dispositivi diretti al far morire una parte di popolazione. Precisamente la parte delle “masse senza volto” che risulta in eccedenza. Sempre seguendo la traccia del pensiero foucaultiano, occorre chiedersi a quale scopo e per produrre cosa, oggi, il potere statuale operi in questo modo.
Con lo sguardo al sotto ponte di via Tenda a Ventimiglia, osservando le dinamiche in atto è possibile affermare che l’intenzione istituzionale sia quella di produrre un’esclusione/ghettizzazione radicale di una parte di popolazione, della quale lo stato non si interessa in nessun modo e sulla quale mette in opera una sorta di selezione.
I più forti resisteranno, i più deboli saranno eliminati. Chi resisterà avrà sempre la chance di poter uscire dal ghetto / passare il confine – dall’esclusione ad un’inclusione selettiva – molto spesso (ma non sempre né necessariamente) trasformato, grazie anche ai dispositivi burocratici e alle procedure disumanizzanti per i permessi di soggiorno, in un corpo docile, totalmente disponibile allo sfruttamento.
La morsa di gelo che ha serrato l’Italia nell’ultima settimana del febbraio di quest’anno richiama cupamente alla mente la morsa che attanaglia la maggioranza delle coscienze dei cittadini “legittimi” di un Paese sempre più vicino alla barbarie.
Un gelo difficile da sopportare, soprattutto per chi viene e per chi ama i climi caldi e meridionali.
Sotto la neve e gli strati di ghiaccio, tuttavia, la vita trova il modo di serbare le sue energie per riespodere, senza bussare, in primavera.
Anche le energie di chi ama la vita e la libertà, se ritrovate e alimentate, sanno diventare molto più potenti di qualsiasi prigione di ghiaccio.
La foto qui sopra cattura uno dei quotidiani episodi di respingimento di ragazzi giovanissimi – i quali si dichiarano minori – alla stazione di Menton Garavan.
Pubblichiamo il racconto di un viaggio, il cui tragitto a molti risulterà noto per averlo compiuto tante volte senza problemi ma che in questo caso diventa un’epopea che mostra cosa stia accadendo nelle nuove zone di confine interne all’Europa.
Mi sveglio per andare in bagno. Il giorno prima eravamo andati a dormire presto perchè la mattina dopo ci attendeva una sveglia quasi all’alba per prendere un bus diretto in Francia. Guardo l’ora nell’orologio analogico: sono le 6:35, “Cazzo!”, mi dico, “è tardi, abbiamo perso il bus”. In realtà sono le 5:35, non avevo spostato le lancette indietro (quella notte era cambiata l’ora).
Corro in camera per svegliare S.: “Presto vestiamoci e corriamo, forse ce la facciamo a prendere il bus”. Arriviamo di corsa in una piazza vicino a casa, mancano due minuti esatti alla partenza del bus, ma per fortuna siamo molto vicini al luogo della partenza. Prendiamo un taxi; arriviamo alla stazione dei bus, chiedo ai pochi presenti se il pullman per la nostra destinazione è già partito, mi rispondono di no. Io ed S. siamo tutti contenti. Arriva il bus, gli autisti sono italiani, lombardi, frettolosi per il ritardo. Gli mostro i due biglietti, ci chiedono il documento: io gli do il passaporto, S. l’unico foglio che ha (da un anno ormai) che attesta la sua richiesta d’asilo in Francia, in attesa di ricevere documento vero e proprio. Il conducente afferma che quel documento non è valido per entrare in Francia. Io provo a spiegargli che quel pezzo di carta legittima S. ad entrare in Francia perchè lui ha chiesto l’asilo proprio li’. Niente da fare, continua a dire di no con aria scocciata e mi chiede: “che fa signorina? Lei sale con noi o no?” ed io ovviamente rispondo che non sarei salita.
Ce ne andiamo verso la stazione dei treni. S. silenzioso, io con le lacrime agli occhi per il nervoso. Sono allibita ed incazzata da quello che io considero il razzismo incistato nella mente della gente. Il conducente continuava a dire che non poteva accettare quel foglio per legge, e fin qui tutto ok, ma aggiungeva che « gli dispiaceva » non farci salire. E qui sta il problema, cosa vuol dire che « ti dispiace »? O per te la legge è la stessa cosa della giustizia, e allora non dovresti dispiacerti di applicarla, oppure se ti dispiace vuol dire che sai che c’è qualcosa che non va in quel comportamento.. Ma eviti di chiederti quanto e soprattutto cosa non va… Un meccanismo che Hannah Arendt ha posto alla base della mostruosa « banalità del male ». Molti diranno : « sì però, il lavoro è il lavoro », ma quando il lavoro consiste nel bloccare delle persone negandogli un diritto solo perché si trovano in una situazione di debolezza, allora in ballo c’è altro, si parla di accettare silenziosamente un sistema marcio e razzista. Questo’esempio puo’ sembrare esagerato ma spiega bene il mio pensiero: è come il ferroviere che ai tempi del nazismo si è trovato a guidare i treni che trasportavano le persone nei campi di sterminio e si è detto: “è il mio lavoro, non posso rifiutare”. Si capisce il problema? Se davvero si prova dispiacere per una determinata situazione o si fa qualcosa per cambiarla o è meglio lasciare perdere e non far trapelare il proprio disagio.
Arriviamo in stazione per prendere il treno, aspettiamo un’ora ed ovviamente paghiamo il biglietto: il mio umore peggiora, visto che dobbiamo pagare nuovamente dopo aver perso due biglietti del bus. Mentre attendiamo l’arrivo del treno sento di essere molto dispiaciuta per S.
Lui deve subire numerose ingiustizie per il semplice fatto di essere nero, sì perché non c’è altra spiegazione; lui non è un criminale, lui viene da un Paese nel quale c’è una dittatura da circa 40 anni o forse più, quale è la sua colpa? Più ci rifletto e più capisco che adesso ci sono in mezzo anche io. Amo un africano e lui ama me. Ma questo non importa; le istituzioni, le leggi, il sistema, il fascismo non guarda in faccia nessuno. Colpevolizzano S. per essere nero in Europa, colpevolizzano me perché amo un nero in Europa.
Sto provando sulla mia pelle, attraverso l’amore che mi lega ad S., le ingiustizie che subiscono i migranti.
Non riesco a stare in silenzio, sento che devo fare qualcosa.
Ma cosa posso fare? Non lo so. Ci ragiono. Ma qualcosa devo pur fare.
Non è facile fare i conti con questa constatazione : non posso liberamente vedere la persona che amo, non posso liberamente stare con lui e muovermi con lui, aspetto insieme a lui il responso di persone che quotidianamente decidono sulla sua vita e sulla vita dei tanti uomini e donne nella sua stessa situazione; già, proprio sulla vita, perchè se tu non hai un documento, dopo aver rischiato la vita in un viaggio tremendo spendendo tutto quello che avevi, rischi di venire deportato di nuovo nel tuo Paese da cui sei fuggito perché non avevi garantito il diritto alla sopravvivenza. Eh si’, l’Europa dei diritti e delle libertà!
Ed io , ragazza-bianca -con documenti (perchè è con questi termini che il potere ragiona), pur avendo da anni lottato contro queste ingiustizie, capisco solo ora pienamente cosa vuol dire. Non riesco a stare in silenzio, sento che devo fare qualcosa; se vedo, agisco; non riesco a girarmi dall’altra parte, non posso farlo, perché ho la consapevolezza che significa non dare adito al fascismo dilagante. Ma che posso fare? Non lo so, ci devo ragionare.
Nel frattempo arriva il treno per Ventimiglia. Ovviamente dobbiamo dribblare la polizia sul binario che chiede i documenti solo ai neri. Dico ad S. di stare vicino a me; spero sempre che il mio essere bianca possa aiutare chi ha la pelle nera.
Saliamo sul treno, destinazione Ventimiglia.
Arriviamo a Bordighera, so che scesi dal treno ci può essere il rischio che la polizia fermi S. con il rischio dell’espulsione dall’Italia per tre anni. Ci dividiamo per non dare nell’occhio. Io vado a fare i biglietti per Nizza. Saliamo sul treno francese ed è tutto tranquillo finchè arriviamo alla prima fermata, la prima stazione oltre confine : Menton Garavan. Io la chiamo la stazione dell’inferno per i migranti; qui la PAF (Polizia di frontiera francese) fa un vero lavoro di pulizia dei treni che si dirigono in Francia, chiede i documenti solo ai neri ed anche chi possiede una carta valida per stare in Francia deve scendere dal treno per “ulteriori controlli” (li chiamano cosi’ ma in realtà per loro è solo un gioco, mettere ansia e fare violenza psicologica). Ok, siamo a Menton Garavan, sul treno salgono una decina di poliziotti francesi con guanti di pelle e manganelli.
Non ero troppo preoccupata per S. perchè sapevo che lui possedeva un documento per stare in Francia. Mantenevamo le distanze per stare più tranquilli, non so bene perchè ma eravamo convinti di questo.
La polizia arriva da S., lui gli da i documenti ma loro decidono comunque di farlo scendere. S. scende dal treno scortato da tre poliziotti. Io scendo poco dopo. Vviene portato nell’ufficio della polizia senza dargli la possibilità di controbattere. Insieme a lui hanno fatto scendere anche una ragazzina forse di 15 anni, incinta, tirandola.
Io ovviamente rimango fuori e vado alla ricerca di un tabaccaio per comprare cartine ed accendino. la ricerca fallisce ma un passante mi offre quello che mi manca.
Mentre fumo una sigaretta aspetto e mi chiedo cosa sarebbe successo; mi sale l’ansia, l’angoscia e la paura per S. che in quel momento si trovava nell’ufficio della polizia di frontiera francese.
Dopo una mezz’oretta S. mi chiama dicendomi che era tutto ok, di non destare nell’occhio, di prendere il treno e che anche lui l’avrebbe preso e che ci saremmo rincontrati giunti a destinazione. Mentre attendo il treno vedo S. mettersi dall’altra parte del binario; nel frattempo la polizia francese effettua le espulsioni verso l’Italia con il treno. Tra gli espulsi ci sono tanti minori, tutti sanno che gli Stati non possono per legge espellere i minori. Ma qui, in Francia, lo fanno e nessuno apre bocca. Tante associazioni e gruppi di attivisti hanno denunciato questo, ma la polizia continua ad agire cosi’.
La ragazzina in stazione si dimena e il poliziotto la tira portandole lo zainetto che per ridarglielo glielo lancia addosso, mentre gli altri poliziotti deridono gli altri migranti. Tutto questo davanti agli occhi di decine di europei, curiosi di vedere che stava succedendo come se stessero al teatro o stessero guardando un film.
Ho provato schifo, vomito per quelle scene ma in quel momento, per S., non dovevo fare nulla, solo stare tranquilla.
Arriva il treno, salgo; dopo pochi secondi salgono anche i poliziotti francesi per fare la solita pulizia. Io ero tranquilla, perchè agitarmi? Uno dei poliziotti (quello che aveva preso S.) mi chiede il biglietto e mi ordina di scendere dal treno; mi parla solo in francese, provo a parlargli in inglese ed anche in italiano ma lui non so se non capiva, se non voleva capire o se proprio non mi ascoltava. Ho intuito che alcuni suoi colleghi con aria di pena nei miei confronti, gli dicevano di lasciare perdere, ma lui niente, vuole a tutti i costi che io scenda dal treno pur essendo regolare sullo stesso; mi prende lo zaino e me lo porta fuori, ovviamente a quel punto scendo.
Mi chiede il documento, gli do il passaporto e lui mi domanda se ho un altro documento. Non ne ho altri. Arriviamo davanti ad una panchina sul binario, con arroganza mi chiede di togliermi la giacca. So bene che la polizia non puo’ farmi una perquisizione in un luogo pubblico senza motivo, so che non puo’ essere un uomo a farmi una perquisizione del corpo, so che non possono prendermi il telefono senza autorizzazione; tutto questo avviene, invece, mi controllano tutto sperando di trovarmi chissà che cosa. Chiedo spiegazioni; i poliziotti mi guardano con aria strafottente ed incominciano a ridere come per prendermi in giro. Mi dicono che si tratta di un normale controllo e continuano a chiedermi perchè sono li’, perchè sono scesa per poi riprendere il treno dopo un’ora. Hanno capito che ero insieme ad S. evidentemente, e stare con lui significa inceppare un sistema che vuole gli immigrati ghettizzati, emarginati ed esclusi. Mi chiedono perché sono li’ : io rispondo con tranquillità dicendogli che ho aspettato un amico dall’Italia ma stufa di aspettare ho poi deciso di partire senza di lui; non mi credono e continuano a ridermi in faccia con un’arroganza tale da farmi salire una rabbia esagerata: che cazzo te ne frega perchè sono qui? Ho qualcosa di irregolare? Il tuo lavoro è controllare che non ci siano illegalità o controllare e umiliare le persone che per te sono da sopprimere? Nella mia testa c’è solo questo. Arriva un altro poliziotto con il mio documento e dice agli altri: ” è pulita”. Eh già, purtroppo non possono fermarmi per ore ed ore e sono obbligati a rilasciarmi. Mi ridanno il mio documento ma continuano a chiedermi perchè sono stata li’ un’ora, usando un tono della voce molto alto, di nuovo ripeto la storia; a quel punto mi lasciano andare, borbottando tra di loro.
Ovviamente il treno con S. dentro è ormai partito. Aspetto quello dopo e raggiungo S.
Arrivata a Nizza ci rincontriamo e ci abbracciamo. S. mi chiede come sto e cosa è successo. Io provo a raccontarglielo cercando di non farlo preoccupare. Subito dopo cerchiamo di capire come arrivare a Marsiglia, prendiamo il treno e pago un biglietto abbastanza salato per evitare altri problemi.
Durante il viaggio S. si addormenta, io comincio a pensare al viaggio appena fatto: penso a quello che è successo e cerco di ascoltare le mie emozioni; raramente ho provato una paura di quel tipo; di solito quando decido di fare delle cose tengo in considerazione che possono dare fastidio a qualcuno e che quindi posso subire delle conseguenze. Ma stavolta non è stato cosi’, stavolta volevo solo stare con la persona che amo. Stavolta ho avuto paura per S., che la polizia gli mettesse le mani addosso (a Menton Garavan è la routine) e dopo ho avuto paura per me, non potevo stare lì perchè mi avevano vista con un ragazzo nero che avevano fermato.
La cosa che più mi è rimasta impressa è l’indifferenza che le persone europee hanno nei confronti di quello che succede intorno a loro, per esempio sul treno a Menton Garavan. Tante persone guardavano i poliziotti chiedere i documenti solo ai neri ma nessuno si opponeva a questo, ognuno continuava il viaggio con estrema tranquillità, come se quello che succedeva fosse una cosa normale e giusta. E tanta gente ha guardato anche la mia perquisizioni con curiosità. Le persone vedono la violenza sui migranti ma non si oppongono, perché ? Hanno paura oppure pensano che sia giusto ? Ci hanno detto tante volte che un’indifferenza simile permise le atrocità compiute dal nazifascismo. Le persone vedono, ma per mantenere i propri privilegi non dicono nulla. L’indifferenza è il motore delle peggiori barbarie.
Il passo successivo è punire chi è amico dei neri, chi prova in qualche modo ad inceppare questo sistema.
Si tratta di un episodio di vita vissuta che ho deciso di raccontare e rendere pubblico perché oggi più che mai è necessario diventare consapevoli: per potersi prendere la responsabilità a cui tutti siamo chiamati di fronte a questa Storia.
Proponiamo la testimonianza di un episodio di razzismo recentemente avvenuto nella zona di confine tra il ponente ligure e la Francia del sud. Il fatto, non certo episodico ma purtroppo assai comune, descrive il dispositivo di filtraggio su base razziale messo in opera nella definizione di questa nuova zona di frontiera interna all’Europa [1]. Sempre più spesso veniamo a conoscenza di episodi simili che si consumano sui treni [2]. Non si tratta di coincidenze. Colpire la libertà e l’uguaglianza del diritto alla mobilità ha un significato ben preciso: stabilisce un confine netto tra chi ha diritto di viaggiare – cioè di conoscere, sperimentare, cambiare, sognare, incontrare, cercare il nuovo, scappare, tornare – e chi questo diritto non lo ha. Tra chi è libero e chi si vorrebbe ridurre a schiavo. Tra coloro ai quali sono garantite opportunità e coloro che vanno resi docili allo sfruttamento.
Qualche giorno fa ho lasciato la Provenza, dove sono stata una decina di giorni con amici che, a causa del loro colore della pelle e della loro situazione economica, non possono entrare in Italia. Mi spiego meglio: i miei amici sono africani, sono scappati da un regime violento, hanno fatto richiesta di asilo in Francia. Attendono da ormai un anno la risposta alla loro richiesta e i documenti. Senza di questi non possono viaggiare fuori dalla Francia.
Arrivata a casa esausta dopo il lungo viaggio, decido di chiamare i miei amici per sapere se anche loro sono riusciti a rientrare a casa (abitano in una città francese distante qualche ora dalla Provenza). Quando riesco a mettermi in contatto con loro, scopro che “No”, non sono riusciti a tornare, perché fatti scendere dal treno regionale Nizza – Marsiglia in quanto privi di biglietto. Non faccio fatica a immaginare cosa potrebbero pensare alcuni lettori di questo racconto: “Beh se non paghi il biglietto te lo meriti!”. Seguendo un’ottica strettamente legalitaria, le cose starebbero effettivamente così.
Eppure le motivazioni di certe scelte e comportamenti, spesso, hanno radici più complesse di quanto un giudizio superficiale possa evidenziare. Radici affondate in terreni di profonda ingiustizia: il problema è che i miei amici, come moltissime altre persone nella loro situazione, stanno aspettando da molti mesi il rilascio dei documenti, senza sapere né il motivo di questa attesa né la sua durata. Senza documento non si può lavorare e quindi non si può guadagnare qualche soldo per vivere, se non accettando, quando va bene, di essere sfruttati e sottopagati nel mercato del lavoro in nero. Lo Stato francese effettivamente eroga loro un sussidio, ma con questo ci pagano a malapena l’affitto di una casa e il vitto. Ecco che allora mi metto nei loro panni e mi chiedo: “perchè dovrei anche pagare il biglietto ad uno Stato che mi sta trattando come un oggetto, una cosa dalla quale frutta soldi, mentre mi fa aspettare, aspettare, aspettare fino a rendermi una persona depressa, abbrutita, sottomessa a tutto questo?” Non prendo nemmeno in considerazione l’obiezione di chi pensa: “queste persone sono qui a spese nostre e vogliono pure viaggiare!”. Un’obiezione irricevibile in quanto enormemente razzista e intrisa di un pensiero profondamente colonialista: tutti i benefici, le libertà, i comfort e le opportunità di cui una parte non esigua della popolazione occidentale gode, non sono frutto di una sua presunta superiorità intellettuale e culturale, ma delle rapine compiute per centinaia di anni ai danni delle altre popolazioni…. Non riconoscere questo dato storico significa cullarsi in una visione disonesta della Storia, ideologicamente utile a giustificare i propri privilegi e misconoscere le miserie degli altri esseri umani, su cui gli stessi privilegi sono fondati!
Ma torniamo all’episodio in questione: sul treno sul quale viaggiavano i miei amici i passeggeri senza biglietto erano molti. Bianchi e neri. Ma solo loro, i neri, sono stati fatti scendere dal treno. Perché? Perché erano neri. Altre spiegazioni plausibili non si riescono ad evincere. I bianchi sono stati lasciati comodamente seduti sul treno con in mano una multa; i neri fatti scendere e minacciati dal controllore di far intervenire la polizia se avessero provato a ribellarsi. Ecco: questo si chiama razzismo. Nessuno sul treno, hanno detto i miei amici, ha battuto ciglio. Questa è la cosa per me più sconvolgente: che la gente europea permetta tutto questo, permetta che un controllore razzista faccia scendere delle persone solo per il loro colore della pelle, permetta ad altre persone di comportarsi violentemente e senza alcun rispetto nei confronti degli immigrati, come nel caso del controllore di Brescia che ha sequestrato la carta di credito ad un uomo di colore e alla sua domanda “Perchè l’hai fatto?”, ha risposto urlando “Perchè sei un negro di merda!”. [3]
In mezzo all’indifferenza generale o proprio per questa indifferenza, a quei pochi che provano ad intervenire facendo notare come atti del genere siano atti razzisti e fascisti, spesso succede di essere presi di mira dalla polizia e di essere identificati, senza nessun motivo se non quello di rappresentare un elemento scomodo perché si denuncia il razzismo ormai dilagante in Europa. La gente europea permette tutto questo. Alcuni perché condividono, altri forse per paura o per ignoranza, molti perché “non sono affari miei”. Ma succede, quotidianamente. E la gente tace. Hannah Arendt la chiamerebbe “La banalità del male”. Questo silenzio è estremamente pericoloso. Quest’Europa non mi appartiene, mi fa paura e rabbia che la gente abbia dimenticato il passato, mi disgusta che ogni anno il 27 Gennaio le istituzioni (nelle quali per questo non ripongo nessuna fiducia) e buona parte della società civile europea ricordino l’Olocausto e le violenze naziste senza vedere, o facendo finta di non vedere, quanto quelle pratiche siano ancora attuali… come ad esempio pagare la Libia per rinchiudere i migranti in campi di detenzione nei quali vengono torturati, fatti lavorare, venduti come schiavi, stuprati ed uccisi donne, uomini, bambini perché migranti e quindi senza diritti; mi spaventa che solo pochi si accorgano di questa deriva fascista dell’Europa;mi preoccupa che le persone non reagiscano davanti ad un atto razzista, anche solo facendo notare che quello è proprio razzismo e portando così solidarietà a chi ogni giorno subisce aggressioni e ingiustizie da parte tanto delle istituzioni quanto della società.
Che cosa vogliamo fare? Reagire o continuare a fare finta che tutto questo non esista?
[1] Non è possibile indicare una linea che demarchi un confine ben definito. Infatti questo è piuttosto una zona territoriale in perenne espansione rispetto al mero tracciato geografico. Il confine oggi si presenta come un dispositivo mobile, elastico e dinamico, i cui contorni sono soggetti a continue ridefinizioni a seconda delle convenienze politiche ed economiche e delle sue applicazioni strategiche.
E un lager, cos’è un lager? Il fenomeno ci fu. E’ finito! Li commemoriamo, il resto è un mito! l’hanno confermato ieri giù al partito, chi lo afferma è un qualunquista cane! Cos’è un lager? E’ una cosa sporca, cosa dei padroni, cosa vergognosa di certe nazioni, noi ammazziamo solo per motivi buoni… quando sono buoni? Sta a noi giudicare! Cos’è un lager? E’ una fede certa e salverà la gente, l’ utopia che un giorno si farà presente millenaria idea, gran purga d’ occidente, chi si oppone è un giuda e lo dovrai schiacciare! Cos’è un lager? … E un lager… E’ una cosa stata, cosa che sarà, può essere in un ghetto, fabbrica, città, contro queste cose o chi non lo vorrà, contro chi va contro o le difenderà, prima per chi perde e poi chi vincerà, uno ne finisce ed uno sorgerà sempre per il bene dell’umanità, chi fra voi kapò, chi vittima sarà in un lager? da Lager – Francesco Guccini
Ventimiglia, la città dice “stop” a nuovi centri di accoglienza per migranti – da Riviera24
Il 9/8/2017, il 12/8/2017 e infine il 19/8/2017, a Ventimiglia, si sono svolte tre manifestazioni contro la presenza dei migranti.
Ecco una cronaca ragionata dei fatti.
9/8/2017 – Si è tenuta a Ventimiglia una manifestazione con circa 200 partecipanti contro l’apertura di un centro d’accoglienza per minori stranieri non accompagnati. I manifestanti marciavano per le vie della città di confine rivendicando il diritto di decidere in merito alla non apertura del centro perchè “esiste già il Parco Roja (centro gestito dalla Croce Rossa) come centro di accoglienza”.
Il Parco Roja è solo un nome per i molti cittadini che non l’hanno mai visto, essendo situato in un luogo isolato e lontano da ogni insediamento abitativo. Per chiarezza informativa, va detto che il centro della CRI è stato spostato più di un anno fa dal centro cittadino all’estrema periferia della città, seguendo un’ottica meramente securitaria e di controllo sociale. All’ingresso del campo del Parco Roja sono presenti camionette della Polizia; al suo interno, dentro container e tende forniti di brande, vengono alloggiati centinaia di migranti, uomini donne e bambini, che vi sostano con la speranza di riuscire ad oltrepassare il confine.
Riprendendo dalla manifestazione: in apertura vi era uno striscione con su scritto “L’accoglienza sia sostenibile! NO ad altri centri migranti in città”, con dietro un gruppetto di consapevoli manifestanti: otto bambini con un’età che andava dai 9 ai 13 anni. Una scena che mostra lo sdoganamento di un modello educativo razzista volto ad insegnare fin da bambini a non accogliere nemmeno i propri coetanei, giustificandosi dietro alla logora litania: “non sono razzista ma….”. La manifestazione è arrivata fin sotto al Comune dove i partecipanti al corteo hanno urlato slogan quali “Vergogna! Vergogna!” e “Fuori! Fuori”: cori indirizzati al Sindaco Ioculano.
Continuava così la rappresentazione di piazza: con gli adulti a dare il la, i bambini in prima fila che li seguivano, accennando un sorriso divertito ma anche perplesso, guardandosi tra loro e intorno per cercare di capire la situazione. Passati pochi minuti, usciva il Sindaco del PD, Enrico Ioculano, scortato dalla digos ed applaudito dalla folla, affrettandosi ad affermare di essere contro l’apertura di nuovi centri d’accoglienza, precisando più volte come la sua posizione fosse già stata espressa ai giornali. Concludeva il comizio consigliando ai partecipanti di recarsi tutti insieme a parlare con la prefetta di Imperia, Silvana Tizzano, per ribadire la posizione della “cittadinanza” intemelia. All’affermazione del sindaco di non aver nessun potere sulla decisione, la folla iniziava a scalpitare, rivendicando il fatto che il popolo debba decidere sull’accoglienza o sul rifiuto di persone che arrivano da altri continenti. Una posizione che esprime chiaramente come una certa accezione di popolo – e dunque di populismo – oggi, in un mondo dove le geografie politiche e sociali sono totalmente trasformate, non contengano più una carica di trasformazione sociale, bensì vengano usate in chiave reazionaria.
Il sindaco, con gesto che suggeriva autocommiserazione, concludeva allargando le braccia dichiarando che la gestione del problema dei migranti “è un casino”. La manifestazione finiva con esternazioni tipiche del razzismo di pancia, inquietanti per chi rifiuta la discriminazione, l’intolleranza, la guerra tra poveri e la violenza sui più deboli.
12/8/2017 – Nuova protesta a Ventimiglia contro i migranti; circa 100 persone hanno manifestato davanti al Comune per richiedere l’allontanamento dei migranti dal centro città ed anche dal Parco Roja dove sorge il Centro della CRI. All’interno della manifestazione c’erano anche esponenti della Lega Nord e di Forza Nuova. Lo striscione di inizio del corteo recitava: “ I candelotti sul Roja non sono esplosi ma i ventimigliesi sì”, riferendosi all’ordigno inesploso trovato lungo il fiume di Ventimiglia qualche giorno prima della manifestazione. In questo corteo i partecipanti hanno minacciato nuove azioni contro i migranti nel caso non venissero ascoltati dalle istituzioni.
19/8/2017 – Si svolge ancora un corteo a Ventimiglia, stavolta contro il degrado. Ma anche stavolta vengono chiamati in causa i migranti: il loro stazionare per medio e lungo tempo lungo le strade della città causerebbe una “pessima situazione igienico-sanitaria”. Il corteo arriva fin sotto al Comune chiedendo al Sindaco nuove ordinanze contro chi bivacca e consuma alcolici. Alcuni manifestanti urlano al Sindaco Ioculano di dimettersi ed inneggiano al ritorno del vecchio Sindaco appartenente a Forza Italia, Gaetano Scullino (curioso perchè durante il suo mandato il Ministro degli Interni aveva commissariato il comune di Ventimiglia per infiltrazioni mafiose, ma evidentemente questo elemento, per quei cittadini, non rientra nella categoria del “degrado”).
Dopo queste tre manifestazioni è stato girato un video dagli abitanti di Grimaldi Superiore, ultima frazione italiana prima del confine, per mostrare la spazzatura che i migranti lascerebbero quando passando dal paese per poter raggiungere la Francia.
“Tanto per chiarire subito questo video NON è contro gli immigrati” spiega un abitante di Grimaldi Superiore e continua dicendo che ci sono organizzazioni internazionali che contattano i migranti e, facendosi pagare, portano i migranti in Francia, la quale però spesso poi li rimanda in Italia; le persone che fanno parte di queste organizzazioni intimerebbero di lasciare tutti gli effetti personali e i vestiti per strada prima di raggiungere la frontiera. Per gli abitanti di Grimaldi la colpa non è quindi dei migranti in transito ma delle istituzioni che non ripuliscono l’aerea di transito. Colpisce però l’elaborazione di un discorso pubblico in cui manca qualsiasi riferimento alla dimensione politica della migrazione, introiettata e considerata come mero problema di ordine pubblico.
In questo panorama i presagi di linciaggi e il clima da caccia alle streghe si fanno sempre più palpabili: le vittime sacrificali sono i migranti e i solidali. I fatti di Ventimiglia confermano quanto si sta verificando sempre più spesso e sempre più diffusamente in giro per l’Italia. L’alleanza istituzionale tra le forze governative, trainate dal PD, e i movimenti di estrema destra, segnano l’affermazione e lo sdoganamento di pratiche, discorsi e ordini normativi di stampo fascista.
Stiamo assistendo al crescere del numero dei cittadini italiani che accettano, senza porsi domande né muovere dito, di far parte di un sistema sempre più razzista ed esclusivo. Una parte di cittadinanza scende in piazza reclamando l’esclusività dei propri diritti di cittadinanza contro chi migra nel tentativo di trovare e costruire spazi di libertà in questa Europa. I solidali e gli attivisti politici sono sempre più presi di mira da parte delle autorità con l’avallo dei cittadini catturati dalle retoriche xenofobe e fasciste: su questo Ventimiglia è emblematica. Una delle ultime uscite mediatiche del sindaco Ioculano è stata quella per cui nella città di frontiera “la vera sciagura non sono i migranti ma i No Borders”.
Ora che il movimento politico, identificato con il nome No borders, è stato disgregato, principalmente a causa delle misure repressive, e che in città restano gruppi di attivisti che praticano la solidarietà diretta ma non riescono ad organizzarsi politicamente insieme ai migranti, le istituzioni hanno buon gioco a mettere definitivamente all’indice l’idea del conflitto e della rivendicazione politica dell’uguaglianza, dei diritti di cittadinanza per tutti, della libertà di circolazione, della dignità di tutti e dei privilegi per nessuno. Il movimento No Borders, per oltre un anno, è stato capace di aprire, insieme alla frontiera, nuovi immaginari e creare nuovi linguaggi, riuscendo anche a mobilitare e coinvolgere quella parte di cittadinanza che oggi, impaurita, resta in silenzio. Si è trattato di una parte di cittadinanza non esigua, che ha dato il suo contributo nell’accoglienza ai migranti durante questi due anni, con tanti progetti e tentativi di accoglienza dal basso. Tra tutti, va ricordato per importanza l’accoglienza offerta dai volontari nella Chiesa delle Gianchette. Per più di un anno donne, bambini, uomini sono stati accolti, curati, sfamati in un campo informale, dove la cittadinanza locale ha dato vita ad una forma di accoglienza popolare e inclusiva. Le istituzioni hanno ritenuto che tale forma di accoglienza non fosse adeguata probabilmente, pensiamo, perché sfuggiva alle maglie del controllo poliziesco, che con le sue quotidiane violenze viene esercitato sui migranti. Così, dopo mesi di trattative, il centro di accoglienza della Chiesa è stato chiuso, e tutte le persone migranti sono state inviate nel campo della Croce Rossa, lontano e isolato dalle zone abitate.
Parallelamente a questi fatti, è cominciata a montare la marea razzista di una Ventimiglia chiusa, impaurita e intollerante…