Nessun perdono, perché sanno quello che fanno_ per Moussa Balde, contro i CPR

Riceviamo e pubblichiamo il seguente contributo, un aggiornamento circa l’inizio dei processi penali per reati commessi nella gestione del CPR di Torino. Le indagini furono avviate nel 2021 in seguito alla morte per suicidio del giovane Mamadou Moussa Balde. Nel marzo 2023 il centro per rimpatri di Torino è stato chiuso per inagibilità delle strutture in seguito alle rivolte dei reclusi. Da mesi se ne annuncia l’imminente riapertura. (per info sui passaggi precedenti qui e qui)

Esprimiamo totale solidarietà alle persone colpite dall’orrore dei CPR e a tutte le persone che ne hanno permesso la chiusura, così come a tutte coloro che lotteranno per impedire che questo ed altri CPR vengano aperti.

Nessun perdono, perché sanno quello che fanno_ per Moussa Balde, contro i CPR

Ci siamo: a quasi tre anni dagli eventi stanno per iniziare al tribunale di Torino i processi nati dalle indagini per la morte di Moussa Balde, il ventiduenne originario della Guinea che si era impiccato nella sezione di isolamento “ospedaletto” nel CPR di Torino nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021, dove era stato rinchiuso dopo aver subito un brutale pestaggio nelle strade di Ventimiglia pochi giorni prima. Per quella violenta aggressione a Gennaio 2023 sono stati condannati a due anni per lesioni aggravate i tre ventimigliesi che avevano preso a sprangate Moussa davanti a un supermercato in centro città.

Il secondo capitolo di questa storia di insopportabile razzismo italiano si era scritto con la peggiore delle conclusioni nel cpr di Torino, dove Moussa era stato trascinato a poche ore dal pestaggio, le ferite ancora fresche sul volto, negato il diritto di farsi testimone della sua stessa aggressione, inabissato in una sezione di isolamento abusiva persino per un posto già extra legale quale è il CPR, la sua presenza nel centro negata ripetutamente dal personale di servizio agli avvocati che lo stavano cercando. Poi il suicidio nella notte, in quelle celle definite “gabbie dello zoo” anche dalle autorità che dovrebbero esserne responsabili.

A seguito di questi eventi si è ritenuto opportuno dimostrare che qualcosa veniva pur fatto per porre rimedio. Così si sono aperte le indagini su due livelli: il primo strettamente legato al suicidio, che si profila essere, con una più corretta descrizione degli eventi, un omicidio colposo; il secondo rappresenta invece un’indagine più allargata sull’uso illecito della sezione di isolamento “ospedaletto” nel CPR di Torino, che ha portato a formulare l’accusa di sequestro di persona nei confronti di più attori legati alla gestione del centro, a danno di 14 persone recluse nella struttura tra gennaio 2020 e luglio 2021 e tenute in isolamento per giorni, settimane e in alcuni casi mesi.

Nel dettaglio: Venerdì 1 marzo 2024 alle 9:15, al tribunale di Torino, verrà discussa la richiesta di archiviazione presentata dalla procura per le accuse di sequestro di persona – con corollario variamente distribuito di abuso di potere, falso in atto pubblico, lesioni personali colpose, violazione dei doveri medici, abbandono di incapaci, falso ideologico- a carico della ex direttrice del CPR di Torino, di due medici del centro e di 4 operatori di polizia, tra i quali il dirigente dell’ufficio immigrazione di Torino e l’ispettore superiore di PS in servizio presso il CPR di corso Brunelleschi.

Mercoledì 13 marzo 2024 alle 9:30, sempre a Torino, si terrà l’udienza preliminare del procedimento per omicidio colposo a carico della ex direttrice del CPR e del medico direttore sanitario della struttura all’epoca della morte di Moussa Balde. Nello stesso procedimento è accusato anche l’ispettore capo di polizia assegnato al servizio di vigilanza presso il CPR, che deve rispondere di falso in atto pubblico per aver manomesso le relazioni di servizio richieste come prove nell’indagine per omicidio colposo.

Questi i fatti. Le conclusioni che si possono trarre fanno, se possibile, ancora più rabbia dei fatti stessi. È evidente come lo stato, tramite la procura di Torino, voglia far pagare il conto di una montagna di abusi e violenze esclusivamente ai dipendenti della Gepsa, l’ente privato che aveva in gestione il CPR, mandando loro a giudizio per omicidio colposo e tentando invece di salvare operatori, dirigenti e ispettori di polizia dall’accusa di sequestro di persona. Il procedimento penale sul caso singolo di Moussa troverà effettivamente un seguito nelle aule del tribunale di Torino, ma si cerca di insabbiare con una richiesta di archiviazione il procedimento generale sulla mala gestione del CPR, che renderebbe pubblicamente conto della portata di iniquità che rappresentano i centri per il rimpatrio.

Nel procedimento per sequestro di persona, infatti, emergono una lunga serie di abusi e illeciti operati anche dall’ente gestore ma soprattutto delle forze dell’ordine, sia sottoposti che alti dirigenti. Il ricorso illegale e continuativo all’uso dell’isolamento, in un luogo dove non è prevista per legge la possibilità di ulteriore restrizione della libertà personale -e a seguire la sfilza di falsificazioni, giustificazioni e tentativi dei vari soggetti coinvolti di salvarsi a vicenda dalle accuse- finirà con probabilità in una bolla di niente.

La richiesta di archiviazione viene motivata con una spregiudicata logica d’azzeccagarbugli: non viene affatto negato dalla procura che le persone imputate abbiano commesso il sequestro di persona e tutte le altre sotto accuse. Ma si afferma che tutto questo non può costituire reato perché, semplicemente, così han sempre fatto anche poliziotti, dirigenti, prefetture, questure e agenzie private che hanno avuto in gestione questo come gli altri CPR d’Italia. E se così fan tutti, queste specifiche soggettività finite sotto accusa per i reati commessi tra il 2020 e il 2021 non possono essere davvero colpevoli, perché non sapevano che quello che stavano facendo era illegale.

Sia chiaro: non è nostra convinzione che la giustizia possa passare dai tribunali, né è nostro interesse che un numero maggiore di persone venga portato alla sbarra o condannato per questo o quell’altro reato. Le galere sono luoghi che vanno distrutti e definitivamente aboliti, tutti, che siano le carceri penali o le gabbie della detenzione amministrativa. Allo stesso modo non è nostra intenzione affermare che operatori e operatrici della Gepsa, multinazionale della detenzione per migranti, siano sfortunate persone che meritano solidarietà in quanto destinate a diventare il capro espiatorio di un sistema profondamente marcio quale è il mondo dei centri di espulsione, avendo queste scelto di aderirvi per lucrare sulla pelle di chi è senza i giusti documenti.

Ma le leggi le scrivono loro ed è illuminante vedere l’uso creativo che ne fanno, perfettamente allineato all’ipocrisia di tutto il sistema, cercando di lavarsi dal sangue quelle mani che continuano a causare morti. Non tanto per gridare di indignazione per le capriole logiche che compiono le istituzioni e chi le rappresenta nelle aule di tribunale, atterrando comunque sempre illese e in piedi. Ma perché quegli stessi spergiuri sulla gravità di aver arrecato danno e dolore a così tante persone e sulla necessità di correggere questi soprusi dilaganti, raccontano alla fine l’unica vera storia che a questo stato interessa scrivere:

i CPR sono sbagliati ma ne costruiranno ancora di più.

I CPR sono luoghi di tortura, ma se fin qui si è sempre torturato non è poi tanto un reato continuare a farlo.

I CPR hanno violato l’integrità, la dignità e i diritti di quelle 14 persone (ma sono molte di più) tenute in isolamento per punizione, per discriminazione di credo o orientamento sessuale, per problematiche sanitarie fisiche e mentali, talvolta gravi e reali, tal’altra pure presunte. Come la psoriasi diagnosticata a Moussa, malattia non contagiosa per la quale si è comunque stabilito che dovesse finire all’ospedaletto.

Ma lo stato decide di alzare i tempi di reclusione nei CPR da 3 a 18 mesi.

I CPR hanno ucciso Moussa Balde, prima di lui troppi altri e ancora altri dopo di lui, ma lo stato non se ne ritiene responsabile.

Ultimo di una lista che non vi è alcuna intenzione di fermare è Ousmane Sylla, morto suicida nel CPR di Ponte Galeria nella notte tra il 3 e il 4 febbraio, un altro ventiduenne della Guinea, anche lui distrutto da un sistema che, senza alcuna vergogna, nei tribunali riconosce le proprie colpe e nei tribunali decide anche la propria auto assoluzione. Ousmane Sylla voleva tornare a casa ed era rinchiuso in un centro di espulsione da cui non sarebbe mai tornato a casa, proprio come Moussa, perché l’Italia non ha accordi di rimpatrio con la Guinea: un altro paradosso che racconta la vera identità criminale dello stato e del governo italiano, al di là delle sentenze e dei giochi togati nei tribunali.

Abbiamo saputo della morte di Ousmane Sylla. È davvero triste e deplorevole, possiamo vedere che le stesse cause producono gli stessi effetti. Le autorità italiane devono esaminare a fondo ciò che sta accadendo all’interno di questa prigione, alle condizioni di detenzione e tutto ciò che ne consegue, non sono buone. Altrimenti non ti alzeresti così un mattino decidendo di mettere fine a tutto questo, è difficile da credere, le ragioni devono essere cercate altrove” Thierno Balde, fratello di Moussa.

Per la memoria di Moussa Balde, di Ousmane Sylla e delle altre decine di persone che hanno subito morte e violenza nei centri per i rimpatri

Per portare solidarietà alle loro famiglie, colpite dal dolore causato dall’ingiustizia delle leggi italiane ed europee

Per la libertà di circolazione di tutte e di ciascuno

Per impedire la riapertura del CPR di Torino

Per la distruzione degli altri CPR ancora operativi in Italia

Per l’apertura di tutte le frontiere europee e l’abolizione delle politiche migratore neo-colonialiste

Gli orari degli appuntamenti al tribunale di Torino l’1 e il 13 marzo 2024 sono scritti in questo testo, così come le posizioni e i ruoli dei vari soggetti: ciascuna persona reagisca dove e come ritiene più opportuno.

Solidali di Ventimiglia

Moussa Balde è morto di razzismo

Riceviamo e pubblichiamo (ita, eng, fra)

Per info sulla precedente udienza, vedi: Moussa Balde e la sua famiglia non sono soli

Moussa Balde è morto di razzismo

Il 14 ottobre al tribunale d’Imperia è iniziato il processo a tre italiani che il 9 maggio 2021 aggredirono brutalmente Moussa Balde a Ventimiglia. L’aggressione avvenne in pieno giorno in via Ruffini tra un supermercato e gli uffici della polizia di frontiera. 

Gli imputati sono a processo per lesioni aggravate dal numero di persone e dall’uso dell’arma, una spranga in questo caso, e sono difesi dall’avvocato Marco Bosio, noto per essere stato il difensore degli imputati nei processi contro la criminalità organizzata nel Ponente Ligure,  conosciuti come “SPI.GA” e “La Svolta”. Gli aggressori sono stati denunciati a piede libero in seguito a un video della violenza che ha fatto il giro del web, nel quale gli imputati sono riconoscibili. 

Il giorno stesso dell’aggressione il questore d’Imperia si affretta a fare dichiarazioni escludendo la matrice razziale delle violenze, che gli imputati giustificano come reazione ad un fantomatico tentato furto con una nullità di prove. 

Resta evidente il razzismo istituzionale che mette in atto un protocollo non per tutelare la vittima del linciaggio, ma piuttosto le persone italiane incriminate dal video filmato da un balcone.

Infatti in seguito all’aggressione Moussa Balde, originario della Guinea, viene portato all’ospedale per trauma facciale e lesioni, medicato e dimesso il giorno stesso, portato in commissariato viene consegnato all’ufficio immigrazione e, controllata la sua irregolarità sul territorio, viene recluso nel CPR (Centro di Permanenza per i Rimpatri) di Torino in attesa d’espulsione. 

Allontanato da Ventimiglia Moussa è finito al CPR senza aver mai firmato nessuna testimonianza sulla sua aggressione e senza che gli sia stata posta alcuna domanda sullo svolgimento dei fatti. Non ha ricevuto nessuna visita psicologica ma è stato rinchiuso a Torino, dove per diversi giorni gli avvocati non sono riusciti a rintraccialo perchè Moussa era stato registrato al CPR con un nome diverso da quello segnato dalla questura di Imperia. 

In una cella dell’area d’isolamento, denominata Ospedaletto, del CPR di Torino Moussa Balde muore la notte tra il 22 e il 23 maggio. I compagni di prigionia, che hanno iniziato una protesta quando hanno saputo la notizia della sua morte, hanno raccontato che la notte del 22 maggio l’avevano sentito urlare a lungo e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere risposta. 

E’ in corso un’indagine per omicidio colposo sui fatti avvenuti all’interno del centro detentivo dov’era rinchiuso Moussa quando è deceduto.

Il 14 ottobre scorso durante la prima udienza gli imputati hanno richiesto ed ottenuto il rito abbreviato, quindi il processo andrà avanti a porte chiuse e senza l’ausilio di testimonianze. 

Grazie alla presenza in aula del fratello Amadou Thierno Balde, la famiglia di Moussa si è costituita parte civile. 

Neppure al processo è stata riconosciuta l’aggravante dell’odio razziale, infatti la stessa procura ha deciso di non contestarla, decisione sulla quale l’avvocato della famiglia si opporrà nel dibattimento.

La giudice ha inoltre respinto la richiesta di costituirsi parte civile presentata da tre associazioni operanti nel territorio di Ventimiglia.

Non potendo entrare in aula, un gruppo di solidali si è radunato davanti al tribunale di Imperia e, dopo la rapida udienza, si è spostato a Ventimiglia nel luogo dove avvenne l’aggressione razzista, insieme ad Amadou Thierno Balde. 

Le persone solidali hanno camminato lungo le vie del centro per ricordare che la morte di Moussa Balde non è stata un tragico episodio ma il risultato di un brutale razzismo, anche istituzionale, che si palesa nel trattamento subito dal sopravvissuto al violento pestaggio, il quale è passato dall’ospedale, dal commissariato, dalla questura, dal CPR di Torino, davanti al medico che lo ha valutato idoneo alla detenzione, dall’isolamento disumano senza contatti con l’esterno e senza qualsiasi tipo di cura.

“Il trattamento che ha ricevuto prima di morire nessun individuo, nessun essere umano dev’essere trattato in questa maniera” dice Thierno Balde fuori dal tribunale d’Imperia, parlando del fratello “Perchè non ci siano più ingiustizie o razzismo, perché è duro ma bisogna essere chiari, si tratta di razzismo quello che ha subito. Perché non ci siano più casi così nel mondo intero, in particolare in Italia. Che il diritto in tutto il mondo sia rispettato, il diritto umano.”

La prossima udienza del processo ai tre aggressori sarà al tribunale d’Imperia il 9 dicembre alle ore 13:00.

Per impedire che questa storia finisca nel silenzio, per contrapporsi alla violenza razzista, per la libera autodeterminazione di tutte e tutti.

Per l’abolizione e la chiusura di tutti i CPR.

Ci ritroviamo il 9 dicembre 

alle 12:00 di fronte al tribunale d’Imperia  

alle 15:00 in Piazza De Amicis a Imperia Oneglia per un presidio e un volantinaggio antirazzista

Video della giornata del 14 ottobre con Thierno Amadou Balde –
https://youtu.be/keioX07CiEI

Per contribuire alle spese legali,  sia per il processo ad Imperia, che per quello che si aprirà a Torino dopo la chiusura delle indagini.

IBAN: IT58H3608105138280345080353

CAUSALE: solidarietà a Moussa Balde

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Moussa Balde died from racism

The trial of three Italians who brutally attacked Moussa Balde in Ventimiglia on May 9, 2021, began at the court of Imperia on October 14th. The attack took place in broad daylight on Ruffini Street between a supermarket and the border police offices. 

The defendants are on trial for injuries aggravated by the number of people and the use of an iron bar. They are being defended by lawyer Marco Bosio, known for having been the defense counsel in the trials against organized crime in western Liguria known as “SPI.GA” and “La Svolta”. 

The attackers were reported because a video of the violence was taken and then spread around the web, in which the defendants are recognizable. 

On the very day of the attack, the Imperia police commissioner rushed to make statements ruling out the racial matrix of the violence, which the defendants justified as a reaction to a phantom attempted robbery without a shred of proof

Institutional racism remains evident, putting in place a protocol not to protect the lynching victim, but rather the Italian people incriminated by the video filmed from a balcony.

In fact, following the attack Moussa Balde (from Guinea) was taken to the hospital for facial trauma and injuries, medicated and discharged the same day. Taken to the police station he was handed over to the immigration office and, checked for his irregularity in the territory, he was imprisoned in the CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio, or detention center) in Turin awaiting deportation. 

Removed from VentimigliaMoussa ended up at the CPR without ever having signed any testimony about his assault and without being asked any questions about the course of events. He received no psychological examination but was locked up in Turin, where, for several days lawyers were unable to track him down because Moussa had been registered at the CPR under a name different from the one marked by the Imperia police headquarters. 

In isolation in a zone of the CPR called Ospedaletto in TurinMoussa Balde died on the night between May 22nd And 23rd. Fellow prisoners who started a protest when they knew about his death said that on the night of May 22, they had heard him screaming for a long time and calling for a doctor without ever receiving a response. 

A manslaughter investigation is under way into the events that took place inside the detention center where Moussa was confined when he died.

On October 14 during the first hearing, the defendants requested and obtained an abbreviated trial, so the trial will go on behind closed doors and without the aid of witnesses. 

Thanks to the presence of Moussa’s brother Amadou Thierno Balde in the courtroom, Moussa’s family has filed civil 

Not even at the trial was the aggravating factor of ethnic hatred recognized; in fact, the prosecutor’s office itself decided not to challenge it, a decision on which the family’s lawyer will argue in the trial.

The judge also rejected the request for civil action filed by three associations operating in the Ventimiglia area.

Unable to enter the courtroom, a group of solidarians gathered in front of the Imperia courthouse and, after the quick hearing, moved to Ventimiglia to the site where the racist attack took place, along with Amadou Thierno Balde. 

Those in solidarity walked along the streets of the city center to remember that Moussa Balde’s death was not a tragic episode but the result of brutal racism, including institutional racism. This is evident in the treatment suffered by the survivor of the violent beating, who went from the hospital to the police station, the police headquarters to the CPR in Turin, before arriving before the doctor who assessed him fit for detention, inhumane isolation without contact with the outside world and without any kind of care.

“The treatment he received before he died, no individual, no human being should be treated in this way.” says Thierno Balde outside the court in Imperia, speaking of his brother “So that there will be no more injustice or racism, because it’s harsh but you have to be clear, it’s racism what he suffered. So that there are no more cases like this in the whole world, particularly in Italy. Let the right throughout the world be respected, the human right.”

The next hearing in the trial of the three attackers will be at the Imperia court on December 9 at 1 p.m.

To prevent this story from ending in silence, to oppose racist violence, for the free self-determination of all and everyone.

For the abolition and closure of all CPRs.

We meet on December 9 

at 12 noon in front of the Imperia courthouse.  

at 3 p.m. in De Amicis Square a Imperia Oneglia for an anti-racist sit in and leafleting 

Video of October 14th with Thierno Amadou Balde –
https://youtu.be/keioX07CiEI

To contribute to the legal costs, both for the trial in Imperia and for the one that will start in Turin after the investigation closes:

IBAN: IT58H3608105138280345080353

PAYMENT DESCRIPTION : solidarity with Moussa Balde

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Moussa Balde est mort de racisme

Le 9 mai 2021, Moussa Balde, originaire de Guinée, a été brutalement agressé à Vintimille. Le procès des trois Italiens auteurs de cette attaque qui a eu lieu en plein jour rue Ruffini, entre un supermarché et les bureaux de la police aux frontières, a débuté au tribunal d’Imperia le 14 octobre 2022. 

Les accusés sont jugés pour des blessures aggravées par le nombre de personnes et l’usage d’une barre de métal. Ils sont défendus par Marco Bosio, connu pour avoir été l’avocat des accusés dans les procès “SPI.GA” et “La Svolta” contre le crime organisé en Ligurie. Des poursuites sans mesure de privation de liberté ont pu être engagées contre les agresseurs grâce à une vidéo des violences réalisée par une voisine depuis son balcon et qui a fait le tour du web.

Le jour même de l’agression, le chef de la police d’Imperia s’est empressé de faire des déclarations excluant la dimension raciste de ces violences. Les accusés ont justifié leurs actes comme étant une réaction à une prétendue tentative de vol, sans pouvoir en apporter aucune preuve.

Le racisme institutionnel reste évident, mettant en place un protocole non pas pour protéger la victime du lynchage mais plutôt les Italiens incriminés par la vidéo filmée depuis un balcon.

En effet, à la suite de son agression et après un court passage à l’hôpital pour des traumatismes et des blessures au visage, Moussa Balde a été conduit au commissariat de police, remis au bureau de l’immigration et, après qu’ait été vérifiée son irrégularité sur le territoire, il a été enfermé au CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio, équivalent des centres de rétention administrative) de Turin en attendant son expulsion. 

Éloigné de Vintimille, Moussa s’est retrouvé en détention sans jamais avoir signé de témoignage sur son agression et sans que ne lui soit posée aucune question sur le déroulement des événements. Il n’a bénéficié d’aucun examen psychologique mais a été enfermé à Turin où, pendant plusieurs jours, les avocats n’ont pas pu le retrouver car il avait été enregistré au CPR sous un nom différent de celui retenu par la préfecture de police d’Imperia.

Dans une cellule de l’Ospedaletto, le quartier d’isolement du CPR de Turin, Moussa Balde est mort dans la nuit du 22 au 23 mai 2021. Ses codétenus, qui ont commencé à protester lorsqu’ils ont appris la nouvelle de son décès, ont déclaré que cette nuit-là, ils l’avaient entendu crier pendant longtemps et demander l’intervention d’un médecin sans jamais recevoir de réponse.

Une enquête pour homicide involontaire est en cours sur les événements qui se sont déroulés à l’intérieur du centre de rétention où était enfermé Moussa lorsqu’il est décédé.

 

Ce 14 octobre, lors de la première audience concernant l’agression de Moussa, les accusés ont demandé et obtenu une procédure simplifiée. Le procès se déroulera donc plus rapidement, à huis clos et sans audition de témoins. Grâce à la présence d’Amadou Thierno Balde, le frère de Moussa, la famille a pu se porter civile. 

Déjà écartée dans les déclarations publiques officielles au moment de l’agression, la circonstance aggravante de haine raciale n’a pas été retenue lors du procès. Le procureur a décidé de ne pas la relever, une décision à laquelle l’avocat de la famille s’opposera dans les suites du procès. Le juge a également rejeté la demande de trois associations de Vintimille de se porter partie civile.

Ne pouvant entrer dans le tribunal d’Imperia, un groupe de personnes solidaires s’est rassemblé à ses portes et après la rapide audience, s’est rendu sur les lieux de l’agression raciste à Vintimille avec Amadou Thierno Balde. Ils et elles ont marché dans les rues du centre ville pour rappeler que la mort de Moussa Balde n’est pas seulement un événement tragique mais le résultat d’un racisme brutal, y compris institutionnel, qui apparaît clairement dans le traitement qu’a subi le survivant du lynchage, emmené de l’hôpital au commissariat, de la préfecture de police au centre de rétention, d’un médecin qui l’a jugé apte à la détention jusqu’à un isolement inhumain, sans contact avec le monde extérieur et sans aucun type de soins.

« Le traitement qu’il a reçu avant de mourir, aucun individu, aucun être humain ne devrait être traité de cette façon. Pour qu’il n’y ait plus d’injustice ou de racisme, parce que c’est dur mais il faut être clair, c’est du racisme qu’il a subi. Pour qu’il n’y ait plus de cas comme celui-ci dans le monde entier, et en particulier en Italie. Que l’on respecte le droit dans le monde entier, le droit humain. » a déclaré Amadou Thierno Balde à la sortie du tribunal d’Imperia, en parlant de son frère Moussa.

 

La prochaine audience dans le cadre du procès des trois agresseurs de Moussa Balde aura lieu au tribunal d’Imperia le 9 décembre à 13h.

Pour éviter que cette histoire ne termine dans le silence, pour s’opposer à la violence raciste, pour la libre autodétermination de toustes.

Pour l’abolition et la fermeture de tous les CPR.

Nous nous réunissons retrouvons nous le 9 décembre :

– à 12h00 devant le tribunal d’Imperia  

– à 15h00 sur la Piazza De Amicis à Imperia Oneglia pour un rassemblement antiraciste et une distribution de tracts

Vidéo de la journée du 14 octobre avec Thierno Amadou Balde –
https://youtu.be/keioX07CiEI

Pour contribuer aux frais de justice, tant pour le procès d’Imperia que pour celui qui s’ouvrira à Turin après la clôture de l’enquête :

IBAN : IT58H3608105138280345080353

OBJET : solidarité avec Moussa Balde

(immagine di copertina da Meltingpot.org: Pestaggio a Moussa Balde: al via il processo contro gli aggressori)

Moussa Balde e la sua famiglia non sono soli

Riceviamo e pubblichiamo (Ita, English below).


MOUSSA BALDE E LA SUA FAMIGLIA NON SONO SOLI

 

Il 14 ottobre saremo davanti al tribunale per dire che Moussa e la sua famiglia non sono soli, che a Ventimiglia c’è stato un pestaggio razzista e che il suicidio di Moussa è un omicidio di Stato.

Il 14 ottobre alle ore 9.00 si terrà presso il tribunale di Imperia la prima udienza che vede come imputati i tre italiani che il 9 Maggio 2021 a Ventimiglia aggredirono Moussa Balde con calci, pugni, tubi di plastica e una spranga. L’accusa è lesioni aggravate dall’uso di corpi contundenti.  La questura di Imperia ha voluto escludere l’aggravante dell’odio razziale.

Trasferito al pronto soccorso di Bordighera per le medicazioni urgenti, Moussa era stato dimesso con 10 giorni di prognosi. Quindi, poichè era emersa la sua irregolarità sul territorio nazionale, a sole 24 ore dall’aggressione era stato portato direttamente al centro di detenzione Cpr di Torino, nonostante le sue immaginabili condizioni di salute e
psicologiche.

Da subito era stato rinchiuso nell’area Rossa insieme ad altri detenuti, e poco dopo era stato spostato in isolamento all’interno della sezione denominata “Ospedaletto”, dove già nel 2019 un’altra persona, H.F., si era tolta la vita dopo esservi rimasta rinchiusa per 5 mesi. Ad ora non sono chiare le ragioni che hanno determinato la scelta arbitraria di spostare in isolamento una persona in già critiche condizioni psicofisiche.

Moussa è finito al CPR senza aver mai firmato nessuna testimonianza sulla sua aggressione e senza che gli sia stata posta alcuna domanda sullo svolgimento dei fatti. Non ha ricevuto nessuna visita psicologica ma è stato rinchiuso a Torino con ancora i punti in faccia, e mentre il suo avvocato l’aveva cercato per diversi giorni, nessuno era riuscito a rintracciarlo perchè Moussa era stato registrato al CPR con un nome diverso da quello segnato dalla questura di Imperia.

I suoi aggressori giravano a piede libero e lui finiva recluso. Non poteva sapere che una parte di Italia solidale si stava attivando per rintracciarlo e sostenerlo, e nemmeno che il video della sua aggressione era diventato virale su media e social network: all’interno del CPR non si possono tenere i telefoni, così da essere completamente tagliati fuori da ciò che succede all’esterno e non poter raccontare quello che accade lì dentro.

I compagni di prigionia che hanno iniziato una protesta quando hanno saputo la notizia della sua morte, hanno raccontato che la notte del 22 maggio l’avevano sentito urlare a lungo e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere risposta.  La mattina di domenica 23 maggio 2021 è stato trovato impiccato nella sua cella.
Ad oggi la causa ufficiale della morte di Moussa Balde è di suicidio, nonostante sia anche in corso un’inchiesta per omicidio colposo.

La morte di Moussa non è stata nè “fatalità” nè il frutto di una catena di inadempienze, ma la conseguenza del razzismo strutturale del sistema in cui viviamo.
Gli odiosi fatti della vicenda ci dimostrano quanti siano i livelli di discriminazione che hanno contribuito a coprire la bara di Moussa:
prima le infinite attese per il permesso di soggiorno, tempistiche che lo avevano spinto a sopravvivere ai margini di questa società da cui, con ogni sforzo, aveva tentato di farsi accettare seguendo tutto quello che il sistema dell’accoglienza gli chiedeva di fare, prendendo la licenza media, imparando l’italiano, facendo volontariato. Dopo cinque anni di peregrinazioni burocratiche e un tentativo fallito di ritentare maggior fortuna in Francia, era finito in strada senza più chance né progetti, come succede a tantissime persone.
Quindi l’aggressione di gruppo da parte di tre uomini bianchi in pieno giorno, in centro città e sotto gli occhi di numerosi passanti.
Dopo il danno la beffa, e anzichè ricevere le tutele che avrebbe dovuto come sopravvissuto a un linciaggio, è stato immediatamente portato al CPR non per ciò che aveva fatto, ma per ciò che era: un clandestino senza quei documenti che gli erano stati negati nonostante i suoi sforzi.
E poi l’ultima botta di un razzismo che gli è stato infine fatale: poichè Moussa era solo un immigrato sulla strada di tre onorevoli cittadini italiani che l’hanno massacrato, è stato spinto a pagare col silenzio quello che ha visto e subito quel pomeriggio del 9 maggio.

Perchè tanta fretta nell’allontanare Moussa da Ventimiglia dato che era il primo testimone dell’aggressione ai suoi danni? Perchè continuare a negare per giorni la sua presenza all’interno del centro, quando si domandava ripetutamente al CPR se Moussa si trovasse lì? Perchè costringerlo all’isolamento nel momento di maggiore vulnerabilità?

Sono queste e molte altre le domande alle quali non ci illudiamo verrà mai data una risposta.
I suoi aggressori sono vivi e liberi, il CPR continua a macinare vite e Mamadou Moussa Balde è morto a ventidue anni.

CONTRO TUTTI I RAZZISMI e per la  libera migrazione di tutte e tutti.

Per l’abolizione e la chiusura di tutti i Cpr.

CI VEDIAMO IL 14 OTTOBRE AD IMPERIA

Solidali di Ventimiglia

 

 

MOUSSA BALDE AND HIS FAMILY ARE NOT ALONE

On October 14th, we will stand in front of the courthouse to say that Moussa and his family are not alone, that there was a racist attack in Ventimiglia, and that Moussa’s suicide is none other than a murder by the state.

On October 14th at 9 a.m., the first hearing will be held at the Imperia courthouse involving the three Italians who, on May 9th, 2021 in Ventimiglia attacked Moussa Balde with kicks, punches, plastic pipes and an iron rod.
The charge is injury aggravated by the use of blunt instruments. The Imperia police headquarters want to rule out racial hatred as an aggravating factor.

Transferred to Bordighera’s hospital for urgent medical attention, Moussa was released with a 10-day prognosis. Then, due to his illegal status on Italian national territory, only 24 hours after the attack he had been taken directly to the Cpr detention center in Turin, despite his concevable physical and psychological condition.

Immediately he was locked up in the Red area along with other detainees, shorlty thereafter moved to solitary confinement within the section called “Ospedaletto,” where already in 2019 another person, H.F., killed himself after being locked up there for five months.
Even now, the reasons behind the arbitrary decision to move a person in an already critical mental and physical condition to solitary confinement are unclear.

Moussa ended up in the CPR without ever having signed any testimony about his assault and without being asked any questions about the course of events. He received no psychological examination but instead was locked up in Turin with stitches still on his face, and while his lawyer had been looking for him for several days, no one had been able to find him because Moussa was registered at the CPR under a different name from the one marked by the Imperia police.

His attackers were walking around free and he ended up in confinement. He could not have known that a part of Italy was taking action in solidarity to find and support him, nor that the video of his attack had gone viral on media and social networks. Inside the CPR no one is permitted to keep phones, so that one is completely cut off from what happens outside, and cannot speak out about what happens inside.

Fellow detainees who began a protest as soon as they learned the news of his death reported that on the night of May 22nd, they heard him screaming for a long time and asking for a doctor’s intervention without ever receiving a response. On the morning of Sunday, May 23rd, 2021, he was found hung in his cell.
To date, the official cause of Moussa Balde’s death is suicide, although a manslaughter investigation is also underway.

Moussa’s death was neither a random ‘fatality’ nor the result of a chain of neglect, but the consequence of the structural racism of the system in which we live.
The hateful facts of this case show us how many levels of discrimination contributed to covering Moussa’s coffin:

firstly, the endless waits for a residence permit, timelines that had pushed him to survive on the margins of this society by which, with every effort, he tried to be accepted by following everything the reception system asked him to do, taking his middle school diploma, learning Italian, volunteering. After five years of bureaucratic wanderings and a failed attempt to try his luck again in France, he had ended up on the street with no more chances or plans, as it has happened to so many others.
Second, the group attack by three white men in broad daylight, in the city center and in front of the eyes of many passersby.
After the harm came the mockery: instead of receiving the protections he should have had as a survivor of a lynching, he was immediately taken to the CPR not for what he had done, but for what he was: an illegal immigrant without the documents he had been denied despite his best efforts.
And lastly, the final blow of a racism that was ultimately fatal to him: because Moussa was just an immigrant in the face of three honorable Italian citizens who slaughtered him, he was driven to pay with his silence for that which he saw and suffered that afternoon of May 9th.

Why such a rush to remove Moussa from Ventimiglia when he was the first eye witness to the attack on himself? Why continue to deny for days his presence inside the center when it was repeatedly asked at the CPR if Moussa was there? Why force him into solitary confinement at his most vulnerable moment?

It’s these and many other questions that we are under no delusions that will ever be answered.

His attackers are alive and free, the CPR continues to grind lives, and Mamadou Moussa Balde is dead at the age of twenty-two.

AGAINST ALL RACISMS and for the free migration of everyone everywhere.

For the abolition and closure of all CPRs/retention centers/lagers.

SEE YOU ON OCTOBER 14th IN IMPERIA

Those In Solidarity from Ventimiglia

(Foto copertina tratta da Fatto Quotidiano)

Mappe del confine di Ventimiglia: 1# Campo Roya

Con questo articolo inauguriamo un ciclo di brevi post nei quali cercheremo di dare sintetiche coordinate su alcuni luoghi e dispositivi che caratterizzano la geografia fisica, sociale e politica del territorio di confine di Ventimiglia.


1# Campo Roya, la struttura di accoglienza gestita da C.R.I.

Il campo per l’accoglienza dei migranti in transito a Ventimiglia è gestito da Croce Rossa Italiana.

 

La struttura sorge all’interno del Parco Roya, uno scalo ferroviario merci dismesso di proprietà di RFI FS Trenitalia.

Il campo dista 3 chilometri e mezzo dai servizi della città. L‘unico modo per raggiungerla è immettersi a piedi su una strada statale senza marciapiedi. Nel 2017 su questo percorso sono state travolte 3 persone e 2 hanno perso la vita.

La capienza iniziale di 100 posti, alla sua apertura nel luglio 2016, è stata progressivamente aumentata fino a raggiungere quella di 500. L’accesso al campo è costantemente presidiato dalle forze dell’ordine che procedono alla perquisizione delle persone al loro primo accesso e al controllo delle impronte digitali.

Nel luglio 2016 tutti i migranti ospitati alla Parrocchia di Sant’Antonio nel quartiere delle Gianchette, a eccezione di donne, minori e famiglie, sono stati trasferiti all’interno del campo. Nell’agosto 2017 la Prefettura ha avviato il trasferimento delle donne e i bambini rimasti presso la Chiesa.

I rastrellamenti che precedono la deportazione al Sud Italia vengono effettuati anche nella zona del campo.

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Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia (seconda parte)

Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo “Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia” contenente un insieme di interviste volte a indagare e restituire uno sguardo polifonico sulla situazione nella zona di confine di Ventimiglia durante i passati mesi estivi.

Rimandiamo all’introduzione pubblicata con la prima parte di questo articolo per chiarimenti relativi agli obiettivi, alla metodologia seguita e alla presentazione delle e degli intervistati.

Dopo aver posto domande ai nostri interlocutori circa il tipo di presenza avuto sul territorio di confine di Ventimiglia e sulle caratteristiche e le trasformazioni notate nel paesaggio sociale che caratterizza la zona di frontiera, in questa seconda parte abbiamo provato insieme ai nostri intervistati a delineare in che modo gli avvenimenti e le situazioni che hanno caratterizzato questa zona di frontiera interna all’Europa raccontino qualcosa circa le politiche e lo scenario internazionale.

Per concludere, abbiamo posto la domanda cruciale: cioè quella che riguarda le possibilità e le modalità con cui agire polticamente per contrastare i dispositivi di confinamento e le politiche razziste sperimentate in modo sempre più violento lungo le linee di confine interne ed esterne all’Europa.

Con la speranza che queste riflessioni, maturate a partire dall’esperienza  di attiviste/i e militant* impegnati sul campo, possano fornire strumenti critici utili per pensare forme di azione collettive capaci di incidere contro la violenza dei confini,

vi auguriamo un buona lettura.

La redazione


 

Lungo il confine, si materializzano, in maniera forse più evidente che altrove, anche le conseguenze di scelte prese altrove e di disposizioni di portata nazionale e internazionale. Ci chiediamo, quindi, che ricadute abbiano avuto, a Ventimiglia, i numerosi eventi e provvedimenti che, durante l’estate, hanno influito sulle dimensioni e la gestione dei flussi migratori.

Per Antonio, innanzitutto, è fondamentale tenere in considerazione le politiche di esternalizzazione dei confini: «Quello che si è cercato di fare, sia in Italia che in Europa, è stata l’extraterritorializzazione del confine, impedendo a tutti di vedere cosa succede. Anche se possiamo definire come un canto del cigno la manifestazione della scorsa estate, per diversi anni il confine è stato di fatto un presenza almeno nel pensiero sociale. Far si che il confine diventi invisibile, permette di non avere più in casa il problema. La favola continuamente ripetuta dal sistema è che si stia combattendo il traffico di esseri umani, in realtà lo si mantiene e questo è particolarmente evidente in una realtà molto piccola come Ventimiglia». Nel dettaglio, la questione libica viene riconosciuta da tutti come direttamente determinante la realtà vissuta al confine franco-italiano: «Il governo italiano continua a mantenere i contatti come se ci fossero degli accordi internazionali e come se potesse controllare qualcosa. Che non ci sia effettivamente un controllo è evidente dal fatto che, anche se in un numero minore, le persone continuano ad arrivare e continuano ad essere persone che sono state torturate, che hanno sul loro corpo i segni delle violenze che noi abbiamo visto e fotografato con il loro consenso. Hanno voluto raccontare le torture a scopo di estorsione che hanno subito in Libia. L’interesse nei loro confronti da parte dei carcerieri libici terminava quando ricevevano un certo quantitativo di denaro» (Lia).

Scritta in prossimità del campo di accoglienza gestito da Croce Rossa Italiana

Senza dimenticare che «il caos in Libia è stato in un certo senso costruito e determinato da certi tipi di logiche e di azioni, partendo dall’azione francese per eliminare Ghedafi, passando per gli interessi delle compagnie petrolifere» (Gabriele). Da Ventimiglia si coglie, quindi, la complessità di un quadro nel quale risulta estremamente difficile prevedere tutte le conseguenze delle misure messe in campo: «Un peso poi lo ha la situazione al confine est dell’Europa, in Turchia dove l’Europa ha negoziato con Erdogan un accordo per il controllo dei flussi. La rotta balcanica riattivatasi con la chiusura voluta da Salvini della rotta libica, ha determinato l’arrivo nell’ultimo periodo di persone provenienti dall’Asia più che dall’Africa sub sahariana a Ventimiglia, nonché un’evidentissima diminuzione degli arrivi» (Gabriele).

Dalle riflessioni dei nostri interlocutori emerge poi il ruolo delle politiche europee, nello specifico delle conseguenze degli accordi di Dublino, nel produrre erranza e clandestinità: «Molti che si incontrano a Ventimiglia sono stati respinti dagli altri paesi, la Francia in primis. Hanno finito il loro viaggio in situazioni di estremo disagio, di abbandono, di disperazione, a Ventimiglia, e continuano a vagare intorno a questo territorio, magari deportati qualche volta al Sud. Per loro una soluzione non è stata trovata, né nel bene, né nel male. Ci sono alcuni, per esempio, che avevano iniziato una vita in un’altra parte d’Europa e a seguito del Regolamento di Dublino sono stati riportati in Italia e non hanno una via d’uscita se non quella di avere una vita estremamente disagiata come senza fissa dimora, aspettando il nulla. Di persone in questa situazione ne abbiamo incontrate tante, qualcuno si ferma, qualcuno vorrebbe tornare a casa, altri impazziscono, diventano alcolizzati, altri spariscono e alcuni muoiono» (Lia).

Il valico di Ponte S. Ludovico e la costa francese visti dal valico di Ponte S.Luigi

Le persone con cui abbiamo parlato concordano nel rifiutare una lettura che attribuisca all’attuale governo italiano, insediatosi in primavera, tutte le responsabilità della tragedia umana che è oggi la migrazione verso l’Italia, così come il transito e la permanenza nel Bel Paese: «Dal punto di vista nazionale la repressione verso le persone in viaggio è iniziata prima di quest’estate, non direi quindi che il problema sia dovuto dall’attuale governo. La situazione non è chiaramente migliorata, ma tutte le metodiche utilizzate, sono sempre state ideate e attuate precedentemente. Sappiamo che c’è stato interesse da parte dell’attuale governo nel ricevere fascicoli su Ventimiglia per poi prendere delle decisioni in merito, ma al di là della chiusura di qualsiasi campo informale, che era già stata messa in atto precedentemente, non vedo una modifica reale della politica nazionale nella situazione attuale. Gli accordi con la Libia sono proseguiti e hanno fatto sì che le persone arrivassero in quantità sempre inferiori perché bloccate prima, detenute, rinchiuse in veri e propri campi di concentramento, morti in mare, probabilmente detenuti anche in altre parti d’Italia» (Lia).

Quindi, come riporta Lucio, «il primo grande cambiamento è di un anno fa quando c’è stato il decreto Minniti, bloccando i flussi grazie agli accordi con i criminali libici. Durante l’inverno c’è stato un allentamento delle maglie, a causa della rottura di alcuni equilibri, se così si possono chiamare, in Libia e l’apertura di alcune delle prigioni denunciate anche dall’Onu e ci si è ritrovati con persone che partivano anche in una stagione nella quale il clima è peggiore e le condizioni più difficili. Quindi c’è stata l’emergenza freddo e dei momenti davvero difficilissimi quest’inverno. La rottura parziale di quel dispositivo ha fatto sì che si fosse come levato un tappo ad una diga, con la conseguente ondata. Quest’estate, con l’apparente stabilità durata fino a qualche settimana fa in Libia, la situazione è tornata quella del calo di presenze e di arrivi. Adesso si vedrà perché comunque in Libia gli scontri riprendono e la situazione non è per nulla stabile. Sul piano nazionale, a mio avviso, tutto è figlio di quelle politiche, e l’Italia intera deve essere considerata una frontiera, perché chi arriva per la maggior parte non vuole rimanere e subisce quindi le disposizioni dei patti di Dublino…insomma per quanto i vari ministri e governanti attuali vogliano fare campagna elettorale, prima e dopo il voto, la situazione è figlia del decreto Minniti. E’ chiaro che se continui a non offrire un’accoglienza degna, se continui a perseguitare il reato di clandestinità, fai in modo anche che la gente cerchi di perseguire i propri desideri il più velocemente possibile e di andare in un altro Stato, con delle presenze che si riversano a ridosso di ogni confine. Poi il caso della Diciotti è l’ultimo e più eclatante : sono arrivate 177 persone, dopo giorni le porti in provincia di Roma e dopo qualche altro giorno ne ritrovi molte a Ventimiglia. E’ abbastanza chiaro : sono arrivati, ma non per restare in Italia, e se in più non offri nessun’altra possibilità di arrivo se non il barcone, li trovi a ridosso della frontiera dopo poco … e se poi li metterai in un altro centro, la cosa si ripeterà».

Comprendere la continuità è una delle preoccupazioni di Gabriele, al fine di rendere visibili quei meccanismi che strutturano, ad esempio, il mercato del lavoro europeo e la persecuzione di imponenti interessi economici: dei meccanismi che si celano dietro all’approccio emergenziale alla questione migratoria: «c’è una continuità che arriva da Minniti e quindi dal Pd per la gestione di quella che loro definiscono “emergenza migranti”, che però ha le sue radici ancora più indietro: la legge Turco Napolitano. In termini temporali la costruzione di un confine dipende sia dalle forme normative che hanno contraddistinto il contesto nazionale e internazionale, sia dal raffinamento del dispositivo biopolitico come meccanismo per espellere dei corpi e includerne in maniera differenziale altri. I corpi che vengono usati nel bracciantato, trattati, prostituiti, quei corpi che costituiscono un’ampia parte del mercato italiano e europeo del lavoro. Non è una questione di legalità e illegalità ma di sfruttamento, questo è evidente sia nel mercato del lavoro legale che illegale. La lotta all’illegalità rispetto alla questione migrazione è un palliativo per legittimare in termini normativi lo sfruttamento. Il confine funziona come dispositivo in questo senso. Vi è dunque una continuità che arriva se vogliamo da come gli sbarchi sono stati controllati, dalle politiche in termini di esclusione di certi tipi di corpi, della mancata riforma della cittadinanza (sebbene io credo che la cittadinanza dovrebbe essere data a tutti coloro che passano e vivono per un certo tempo su un territorio), della gestione delle frontiere esterne dell’Europa. L’archivio della costruzione delle norme sulle migrazioni non riguarda solo la sedimentazione di leggi, ma è costituito anche da pratiche di segregazione, razzismo, xenofobia e sessismo. Questo archivio continuamente aggiornato e in cui c’è una continuità temporale non è importante solo per leggere la questione immigrazione e lavoro, ma per rendersi conto che esiste una continuità d’egemonia: soggetti che sono poteri forti in questo paese utilizzano i partiti sia per mantenere un controllo del consenso politico (non solo elettorale perché il potere non sta più solamente lì) ma soprattutto un controllo su certi tipi di business e di interessi economici. C’è chiaramente una continuità anche nei termini di classe dirigenziale tra il Pd e la Lega, e questo è evidente analizzando l’archivio di cui parlavamo».
In questo quadro, tra queste reti, trova spazio «la forza dei migranti che riescono ad organizzarsi per passare i confini» (Gabriele).

Quali possono essere, allora, oggi, le strade da percorrere, in quanto solidali e militanti contro le frontiere? Quali possibilità e che senso dare all’impegnarsi in percorsi politici a Ventimiglia? A questi interrogativi, le risposte che abbiamo raccolto possono talvolta mostrare punti di vista differenti, alla luce di esperienze diverse, frequentazioni più o meno lunghe della frontiera, sensibilità individuali. Crediamo sia particolarmente interessante cercare di fare dialogare queste voci, nel tentativo di contribuire a una riflessione comune sulle prospettive di una presenza solidale e militante a Ventimiglia, sugli spazi politici e di lotta da alimentare o inventare.

Inizia Antonio, difendendo il dovere e il senso del testimoniare: «Nel primo agire dell’attivismo a mio avviso c’è anche il raccontare il territorio, mantenere una memoria di quello che avviene. Fai una cosa e la puoi rivendicare, quello che vedi lo puoi denunciare. Secondo me questa è una forma di attività politica che lì si può e si deve continuare a fare andare avanti». Nel proseguo del ragionamento, Lia e Antonio ci offrono delle osservazioni riflessive, rispetto alla loro attività di visite e diffusione di report degli ultimi anni: «La comunità coesa dei Balzi Rossi, o anche dei campi informali del 2016, rispondeva agli avvenimenti in modo chiaro: può aver risposto in modo sbagliato in alcune occasioni, ma rispondeva. Almeno una collettività esisteva. Questo non ha niente a che vedere con me che vado da sola ad esplorare un territorio per capire cosa si può fare e scrivo da sola in merito. Adesso faccio questo perché manca quello che auspicherei: un gruppo di persone che partecipa con il maggior tempo e impegno possibile, che prenda decisioni che mettano insieme chi viaggia e chi è stanziale, perché la differenza tra queste/i non è poi così grande. Attualmente i solidali sono troppo pochi per avere un vero e proprio successo politico e modificare qualcosa realmente. È più probabile che si diano delle risposte simboliche sperando poi che queste attivino qualcosa. E’ un grande insuccesso a mio parere quando, in una situazione di tale gravità, un singolo evento simbolico come una manifestazione, viene considerata una risposta congrua. O è una risposta simbolica o si attende almeno che vi consegua qualcos’altro» (Lia).

Un momento della manifestazione “Ventimiglia città aperta” del 14 luglio 2018

Una visione leggermente diversa, rispetto al lascito della manifestazione del 14 luglio, viene da Giulia. Una visione che, comunque, non manca di esprimere alcune considerazioni rispetto alle difficoltà di un contesto “ostile”: «Secondo me l’agibilità è un pochino mutata dopo il corteo, nel senso che migliaia di persone per strada hanno lasciato qualcosa…qualcosa che ancora potrebbe essere raccolto, nel senso che non tutto è stato raccolto e c’è la possibilità che ci sia ancora qualcosa che possa svilupparsi. L’agibilità politica comunque è quello che è, nel senso che rimane una cittadina che va a destra in una regione che va a destra in un paese che va a destra, quindi le possibilità restano risicate. Probabilmente, pur non essendo fan degli scout, mi ha stupito quanti ragazzi giovani siano passati di lì, volendosi rendere utili, poi sempre magari in un’ottica estemporanea e assistenzialista, però c’è ancora una parte degna di questo paese che vuole metterci le mani dentro. Quindi lo spazio secondo me è questo: continuare a provare a dedicarsi a ciò che c’è di buono, perché c’è e c’è anche in quel territorio e non stancarsi di parlare con la gente perché , magari un po’ timidi, ma ci sono delle persone, anche ragazzi e ragazze giovani della zona, che vivono lì, magari anche seconde generazioni, che vorrebbero partecipare e provare a dire qualcosa. Chiaro che si parla di cose molto piccole, considerando la violenza della situazione, con l’ennesima chiusura dell’acqua, le reti … la direzione è molto chiara, però credo che qualcosa si possa provare a raccoglierlo ancora. Secondo me a Ventimiglia, nei paesi limitrofi e nelle valli … io sono un’inguaribile ottimista, alle volte, ma non credo che si sia alla totale barbarie… che poi sono paesini, cioè banalmente ad Eufemia scade il contratto a dicembre e si deve trovare il modo di posticipare o trovare altro e il problema è che il proprietario non vuole che quello spazio sia aperto al pubblico e non è il fascismo è quella roba tipo “non voglio che vengano rotti i coglioni a me, che ci sia attenzione su quello spazio per colpa vostra”. E’ lì che sta quel margine per far capire il vecchio discorso che non è che se chiedo diritti, è perché ne siano negati a te, però viviamo andando contro il vento costantemente». In linea con quel che dice Giulia, Lucio continua indicando quali potrebbero essere, a suo parere, le potenzialità di un lavoro politico che parta da Ventimiglia come luogo di presa di coscienza e comprensione di fenomeni più ampi, che, sulla frontiera, assumono caratteri di violenza ed evidenza più marcati che altrove: «partendo dai vari gruppi scout mi viene in mente questo aneddoto : alcuni di loro ci hanno raccontato le ragioni che li hanno spinti a venire a Ventimiglia con tutto il loro gruppo: tra di loro, alcuni neo-elettori avevano votato per la Lega e si ponevano il problema del come far capire a quei ragazzi, che frequentano tutto l’anno, che il problema non sono i migranti che ci invadono, quanto piuttosto le politiche che dall’alto generano delle discriminazioni… ecco l’aneddoto degli scout può dare il quadro di quello che è possibile fare a Ventimiglia : intanto arrivare e capire cosa succede su un territorio piccolo in seguito a questi grandi fenomeni e decisioni politiche prese a livello internazionale e, d’altra parte, banalmente provare a trovare momenti di relazione con delle persone bloccate alla frontiera, prendere il tempo di conoscerle e mettere in piedi attività che a volte possono anche semplicemente permettergli di evadere dalla noia quotidiana, che poi è una condizione che accomuna diversi contesti, come quelli delle molte periferie italiane e d’Europa. Qualsiasi attività che possa portare ad una maggiore coscienza di sé o alla socializzazione può essere utile. L’esistente va mantenuto, in più andrebbe implementato qualsiasi tipo di proposta, dalle iniziative estemporanee culturali, come proiezioni di film e spettacoli, magari momenti per socializzare, ma che aiutino anche a conoscere la realtà del momento…Sarebbe forse il momento di fare un invito a chi fa queste queste cose, di andare a fare concerti, spettacoli ecc a Ventimiglia».

Giulia e Lucio propongono un ragionamento a scala territoriale, nel quale il fatto di nutrire spazi di condivisione e arricchimento culturale diventi l’occasione per far incontrare tutti i soggetti che vivono il territorio Giulia, nel lungo o nel breve termine: «Abbiamo anche provato a ragionare sul fatto che manchi una proposta culturale su quel territorio. Una proposta che sia anche il dar luogo a situazioni nelle quali ci si possa incontrare tra persone diverse, cose banali e che però non si danno» (Giulia). A questo proposito, viene evocato un momento, una serata del mese d’agosto, durante la quale un concerto ha offerto la possibilità di confondere tra il pubblico le persone alloggiate nel campo della Croce Rossa e i giovani della zona, permettendo anche una, seppur breve, presa di parola dal palco: «Per il concerto dei Modena City Ramblers, insistendo, essendo una settimana dopo il corteo e avendo un altro tipo di reputazione sul territorio, si è riusciti a spingere sul campo della Croce Rossa per far sì che i ragazzi dal campo potessero andare al concerto, che potessero rientrare più tardi: in quell’occasione hai portato i ragazzi che stanno alla Croce Rossa ad un evento che succede in città, assieme alla cittadinanza e assieme ai giovani locali. Il passo oltre dovrebbe essere riuscire ad organizzare cose tutti assieme» (Lucio).

Incidere almeno sulla dimensione sociale locale, per rendere meno duro il territorio di confine, quindi, come un primo obiettivo possibile: «Si parte anche dall’assunto basic che il razzismo è ignoranza. Poi è evidente che tutto il resto dipende dalla geopolitica, nel senso che non abbiamo parlato del dispositivo frontiera, che evidentemente è il dramma, ma è vero che se, nel tempo che passano a Ventimiglia, potessero camminare per strada senza essere additati o insultati, allora forse anche il dispositivo frontiera potrebbe avere una minore violenza intrinseca, senza riuscire ad annullare tutta la violenza del dispositivo, chiaramente» (Giulia). Quella sui territori di confine è una riflessione condivisa anche da Gabriele: «Mi mette molto in difficoltà dare una risposta in merito all’agibilità politica a Ventimiglia e alle prospettive. Inizialmente arrivato a Ventimiglia pensavo si potesse mettere insieme l’azione politica con quella culturale. Ho visto che è molto più difficile di quello che pensavo. Gli stimoli che potrei dare in questo senso sono essenzialmente due. Il primo parte dall’idea che sia possibile spostare il piano dell’azione politica su Ventimiglia oltre la questione dell’immigrazione. Il confine, visto non solo come frontiera, ma come, al tempo stesso, dispositivo e risultato di una società: reinterpretare il confine in quest’ottica duplice, senza togliere lo sguardo sugli attraversamenti, può forse permettere di ripartire dal territorio di Ventimiglia in termini di lotte con un raggio geografico e di soggettività coinvolte ben più ampio della sola frontiera. Sia in una direzione culturale: rispetto a cosa sia questo confine, a come funzioni, a quali siano le dinamiche di sfruttamento e di esclusione e di soggettivazione dei corpi; sia in un’ottica politica: comprendere e potenziare le capacità di resistenza e di sovversione di certi tipi di logiche. L’altro stimolo che mi sento di suggerire è quello di leggere questo confine in confronto ad altri confini, osservando se vi siano similitudini, differenze con altri dispositivi di confine e con altre società di confine. Riflettendo sulla particolarità dei territori di confine, dovute al fatto che in questi territori sono racchiuse tutte le contraddizioni delle società nazionali, si osserva che questi territori permettono di vedere più chiaramente e distintamente come queste contraddizioni possano essere affrontate in maniera conflittuale».

Un rapporto, quello tra ciò che succede a ridosso della frontiera e le dinamiche che permeano le nostre società, evocato anche da Lia. In questo senso, il rarefarsi della partecipazione politica su scala locale e il trasferimento di una gran parte del dibattito pubblico nella sfera mediatica, diventano i principali ostacoli alla nascita di movimenti trasversali e radicati, e, allo stesso tempo, determinano una minore capacità di risposta a livello di comunità : « Un’altra ripercussione importante che c’è stata sia a livello nazionale che internazionale è la mancanza di compattezza dei movimenti, di risposta e di partecipazione politica sul territorio. Ciò determina a livello locale che non si riescano ad inventare delle strategie, a metterci dell’energia, a partecipare a un reale conflitto nei confronti di questa situazione assurda e che viola la nostra idea di vita e di convivenza. Non possiamo pensare che questo sia solo un problema di Ventimiglia, avviene in maniera disorganizzata, non corale, avviene in una popolazione che non vive più un minimo di collettività al suo interno e di conseguenza con qualcuno che può passare per lo stesso territorio. Mi capita di parlare con compagne/i che si trovano in altre parti d’Europa, non ultimo oggi un’amica in Austria e i discorsi sono gli stessi, rispetto a tutti quei fatti che qualche tempo fa ci sarebbero sembrati assurdi e li avremmo paragonati alla Shoah: a fatti che abbiamo considerato come aberranti, ad oggi non rispondiamo. Non credo che sia un problema solo italiano, c’erano territori che aborrivano fenomeni che sapevano di razzismo, di neonazismo e fascismo e la risposta è veramente carente oggi rispetto ad una situazione del genere» (Lia). Il rischio che si corre è quindi quello di ritrovarsi a rispondere solo su un piano che non ha la possibilità di innescare processi reali di lotta e cambiamento: «Questo è un problema sociale dato anche dal fatto che la verifica di quello che avviene è sempre delegata ad altri. In grande lo possiamo vedere nell’informazione data dalla televisione per cui se non mostrano una cosa, questa non esiste. Anche tra le persone a noi più affini la definizione il più possibile oggettiva di una situazione viene spesso delegata e non viene assunta con il contatto diretto, questa è una considerazione legata anche alle valutazioni della situazione di Ventimiglia. I risultati ottenuti da grandi incontri sono importanti, ma il pericolo è che esauriscano questa voglia di fare ed intervenire attraverso un atto simbolico ed unico. Già da tempo ma ancora più evidentemente adesso, hanno perso grandemente il loro significato» (Antonio).

Il fatto che emergano punti di vista talvolta distanti tra loro è, per Gabriele, sintomatico della densità che caratterizza i territori di confine: «Sul confine, non è un caso, che appaiano diversi modi di fare politica e di leggere la situazione. Che appaiano diversi posizionamenti politici nei confronti di quelli che sono i soggetti delle misure di controllo, le persone migranti e rispetto ai dispositivi confinari. L’approccio intersezionale è molto importante in questo caso, permette di comprendere come il confine sia un oggetto di studio interessantissimo: è sia il prodotto di una società, la società cioè produce il confine, ma anche il confine segmenta gli spazi della società. Il confine è il dispositivo che produce i rapporti di forza e posizionamento nella società. Quindi è assolutamente normale ci siano molti percorsi e posizioni politiche differenti sul confine. Questi percorsi si incontrano, ma al momento paiono non riuscire a intrecciarsi e solidificarsi».

A distanza di qualche tempo dallo svolgersi delle conversazioni di cui abbiamo riportato gran parte dei contenuti, rileggiamo la trama che ne abbiamo tessuto, dicendoci che il confronto permette di consolidare e problematizzare le analisi, aggiungendo osservazioni, dando profondità e permettendo di riconsiderare alcuni assunti. Ben lontane dalla pretesa di indicare linee più sensate di altre, ci diciamo che stare a Ventimiglia, fare esperienza della realtà e della quotidianità del confine, oggi, ha un senso ben preciso, in un momento storico nel quale riprendono piede i nazionalismi e nello stesso tempo il neoliberismo conquista spazi: lo consideriamo un punto di partenza, forse scontato, ma che prende forza proprio nel momento in cui si articolano e si confrontano le analisi che lo sostengono. Rileggiamo il risultato dell’incrocio di voci diverse e abbiamo più chiaro perché Ventimiglia sia un luogo da cui guardare al mondo, perché da Ventimiglia si debba anche saper ripartire.

Con i pescatori di Zarzis, contro la criminalizzazione del soccorso in mare

Diffondiamo una petizione transnazionale, pubblicata in cinque lingue, a sostegno dei sei pescatori di Zarzis arrestati a fine agosto nelle acque antistanti Lampedusa, per aver soccorso in mare dei migranti in avaria:

https://ftdes.net/pecheurstunisiens/

Dalla pagina della petizione transnazionale

Il reato imputato è quello di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, ma i fatti, ricostruiti anche grazie ai filmati di un drone dell’agenzia Frontex, raccontano di una realtà ben diversa : un barchino in avaria, con a bordo quattordici persone (tra cui tre minori), l’equipaggio di una barca da pesca che interrompe il proprio lavoro e un’operazione di soccorso in mare [1]. Dalle testimonianze si evince che dei tentativi di mettersi in contatto con le autorità italiane ci fossero stati, che non fossero andati a buon fine e che le condizioni metereologiche stessero peggiorando. Davanti al rifiuto di essere riportati in Tunisia, a Zarzis, l’equipaggio di Chamseddine Bourassine ha deciso di trainare il barchino verso una zona dove il mare fosse più calmo e i soccorsi più facili da attuare.

I pm di Agrigento, che hanno validato i fermi, parlano invece della possibilità che non si tratti di altro che di una messa in scena, per coprire un’operazione pianificata fin dalle coste tunisine. Poco importa che un drone governativo avesse filmato il barchino in avaria, aprendo alla possibilità di contestare un reato di mancato soccorso : non sarebbe che l’ennesimo. Pare conti ancora meno il fatto che, da anni oramai, incontrare imbarcazioni o natanti fatiscenti in difficoltà sia la quotidianità dei pescatori del Mediterraneo meridionale : banale la conta dei morti a mezzo stampa, banale salpare delle reti nelle quali si incagliano i corpi di chi non ce l’ha fatta.

Allora, chi non si arrende alla banalizzazione dell’ingiustizia diventa pericoloso. L’umanità di chi è incapace di gettare qualcosa da bere e da mangiare a chi si rifiuta di essere riportato in Maghreb, disposto a sfidare la concreta possibilità che quel viaggio si trasformi intragedia, per poi riportare la prua verso il porto come niente fosse stato, diventa un crimine e, come tale, va perseguito.

Ma, se per le autorità il fatto che, al netto della riduzione delle partenze dalla Libia, la percentuale di morti tra chi affronta quel tratto di mare sia passata da 1 su 38 nel 2017 a 1 su 7 nel mese di giugno di quest’anno [3] non è altro che una constatazione statistica, per fortuna c’è ancora chi non ha intenzione di entrare a far parte della larga schiera dei colpevoli e dei cinici.

Chamseddine Bourassine è uno di questi. E’ il présidente di un’associazione molto attiva e conosciuta, ‘‘Le pecheur’’ de Zarzis pour le développement et l’environnement, che da anni anima dibattiti e azioni su vari fronti, dalla sensibilizzazione dei giovani rispetto ai rischi della migrazione clandestina, alla necessità di difendere la piccola pesca artigianale. La loro è una voce politicamente schierata, fondata sul rigore e la forza di chi le proprie idee le forgia ogni giorno, nella durezza della realtà, nelle immagini che gli occhi vedono non filtrate da schermi e pixel. L’estate scorsa hanno impedito l’ingresso nel loro porto alla C-Star, la nave di Generazione Identitaria, impegnata in patetiche operazioni da cane da guardia in nome della difesa del suolo europeo [2], e questa primavera hanno organizzato una manifestazione per denunciare la criminalizzazione del soccorso in mare (a questo link è possibile visionare un estratto video della manifestazione, filmato dal colletivo marsigliese Primitivi: https://vimeo.com/265557170).

Sono stati arrestati, in sei, dalle autorità italiane, e la notizia ha fatto a malapena il giro delle redazioni locali. Nel frattempo, aspettando l’esito dell’udienza di oggi (21 settembre), a Tunisi, a Zarzis e anche ad Agrigento, centinaia di persone hanno manifestato per chiedere la scarcerazione dei pescatori.

Proviamo rabbia e vergogna per chi blatera di porti chiusi, respingimenti e Ong colluse con i trafficanti : se avessero il coraggio di passare una notte a bordo del peschereccio di Chamseddine, forse, i termini della discussione sarebbero diversi.

[1] https://www.lecourrierdelatlas.com/tunisie-mobilisation-pour-la-liberation-de-six-pecheurs-detenus-en-italie-20566

[2] http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/tunisia-la-protesta-dei-pescatori-blocca-la-nave-nera-anti-migranti_3087931-201702a.shtml

[3] Dal rapporto dell’UNHCR: l’evoluzione del trend di mortalità durante le traversate è da 1/38 nella prima metà del 2017 a 1/19 nello stesso periodo del 2018, con un picco di 1/9 nel mese di giugno 2019. https://www.unhcr.it/news/calo-degli-arrivi-aumento-dei-tassi-mortalita-nel-mar-mediterraneo-lunhcr-chiede-un-rafforzamento-delle-operazioni-ricerca-soccorso.html

Cronaca di una morte annunciata

Un articolo di El Pais diffonde il comunicato della rete Interlavapiés sulla morte del cittadino senegalese Mame Mbaye Ndiay

 

Mame Mbaye Ndiay, cittadino senegalese trentacinquenne che esercitava la professione di venditore ambulante, è morto il 15 Marzo 2018 a Madrid, in Calle del Oso, nel quartiere Lavapiès, per un arresto cardiaco verificatosi nel corso di un intervento della polizia municipale.

 

Il fatto ha determinato l’indignazione e la ribellione della comunità senegalese e in generale degli abitanti del quartiere.

Durante la serata del giovedì stesso e la mattina del giorno dopo, si sono verificati forti agitazioni.

Durante i disordini, ai quali la polizia ha risposto violentemente [1], un altro cittadino senegalese di Lavapiés, Ousseynou Mbaye, di 54 anni, è morto a seguito di un ictus cerebrale [2] e Arona Diakhate, di 38 anni, è stato ricoverato per trauma cranioencefalico all’ospedale Fundación Jiménez Díaz di Madrid. Il referto medico mostra che è stato trattato con quindici punti sulla testa e presenta due lividi. Trauma cranioencefalico, con ematomi interni, ma senza rischio di danno neuronale. Diakhate ha una ferita alla testa a seguito di trauma inferto con “un oggetto duro e sconosciuto” [3].

 

Una morte molto simile si è verificata, a Maggio 2017, a Roma. Niam Maguette, un cinquantaquattrenne senegalese, è deceduto nel corso di una operazione di polizia definita “anti-abusivismo”.

Secondo gli agenti, la morte si sarebbe verificata a seguito di un malore, mentre la comunità senegalese ha dato vita a intense manifestazioni di protesta, affermando che fosse stato ucciso e chiedendo l’interruzione delle ripetute operazioni di rastrellamento operate dalla polizia locale di Roma. [4, 5].

A seguito di questi eventi, ritenendo che l’unica certezza sia che a livello europeo si assiste ad un inasprimento della repressione verso donne e uomini già posti in condizioni di sfruttamento dalla mancanza di riconoscimento giuridico, pubblichiamo un articolo che riporta il comunicato della rete interlavapiés, che si definisce “una rete in movimento per la libera circolazione delle persone, perché nessun essere umano è illegale” [6].

Cronaca di una morte annunciata

DAVID FLORES E TERESA ÁLVAREZ-GARCILLÁN (RETE INTERLAVAPIÉS)

La morte di Mame Mbayee non è un fatto casuale, ma la conseguenza del razzismo radicato in alcuni settori della società e delle istituzioni a Madrid.

Ieri pomeriggio Mame Mbayee è morto a causa di un arresto cardiaco. Questo abitante di Madrid stava esercitando la vendita ambulante poco prima a Puerta del Sol.

Ci sono molte versioni degli eventi accaduti prima e dopo la sua morte. La confusione e i disordini ci fanno perdere la concentrazione: chi ha ucciso Mame? Cosa ha ucciso Mame? Nella differenza di queste due domande giace la chiave: Mame è morto per un attacco di cuore ma, nel motivo della sua tragica fine, c’è un lungo filo da seguire che trascende e attraversa tutta la nostra società, con le sue politiche, le sue leggi e le sue istituzioni.

Non possiamo solo pensare che quello che è successo ieri sia stato un incidente. Non è stato un evento isolato. C’è un serio problema strutturale che ha causato la morte di una persona. Mame, senegalese di 35 anni, non aveva documenti nonostante fosse da 12 anni in Spagna. Ha lavorato come ambulante perché non poteva lasciare una cerchia di esclusione. Ad una estremità del cerchio, la premessa che senza un contratto di lavoro non ti danno i documenti; nell’altro, che senza documenti, non puoi avere alcun lavoro. Nel frattempo, l’ultima riforma del codice penale, che ha trasformato le precedenti mancanze in crimini e, con essa, il venditore ambulante in un criminale. Avendo dei precedenti, nessuna offerta di lavoro ti aiuterà a regolarizzare la tua situazione.

Le persone che lavorano in strada e le persone prive di documenti sono spaventate da queste strutture in cui la tensione e la minaccia sono elementi costanti, al livello della strada e al livello della Legge. La persecuzione, i raid, i CIE, il Codice Penale e la mancanza di opportunità sono mattoni di alte mura, forse invisibili a molti, ma molto reali per gli altri. Ripetiamo: ieri non è stato un evento isolato, ma un riflesso di un problema strutturale, in ambito giuridico e politico. Una questione di razzismo e discriminazione.

Gridiamo nelle strade “Sopravvivere non è un crimine!”, Ma con le leggi attuali lo è. Molti come Mame sono venuti qui attraverso mare e deserto con la morte alle calcagna, per poter vivere con dignità e sostenere le loro famiglie. Le regole del gioco sono quelle che sono e, dato che non hanno documenti o lavoro, comprano un sacco di scarpe – o occhiali, profumi o borse – in qualsiasi magazzino all’ingrosso e poi lo rivendono in strada. E questo è considerato un crimine, ma non hanno scelta.

Molti come Mame corrono davanti ai distintivi. E guardano con sguardi sfrenati le orde di persone della Puerta del Sol, sempre all’erta, giorno dopo giorno. Vivono con il cuore in un pugno, finché non scoppia.

La tensione per il timore di essere denunciati non è poca, ma hanno più paura della violenza quotidiana. I gruppi di Lavapiés sono in contatto con il Comune per denunciare la brutalità della polizia. In questi casi è difficile condurre un processo ordinario di denuncia: si tratta di accusare, senza documenti o con il timore di non rinnovarli, niente di più e niente di meno della polizia. E il giorno dopo tornare in strada per vendere, con quegli agenti che cercano di fermarti. In breve, le aggressioni terrorizzano, c’è la paura. La paura serve a rendere la violenza invisibile, confinata nella sfera quasi privata.

Nel centro di Madrid, da agosto 2016, i collettivi hanno documentato in un formato concordato con l’amministrazione cittadina per circa 20 aggressioni fisiche con fratture e contusioni di diversa gravità. Nel luglio del 2017, ad esempio, hanno spinto un ragazzo buttato in un furgone riportando lesioni a diverse vertebre. Al di fuori di questo registro formale, che accetta solo casi con indicazioni fisiche di violenza visibile, vi sono costanti abusi verbali e intimidazioni di ogni tipo.

Lo scopo di questo lavoro sistematico è aprire un percorso sicuro contro l’impunità ma le istituzioni, ribadiscono le loro buone intenzioni senza concretizzarle in mezzi per porre fine al problema. Invece, ci rimandano al Difensore Civico, che è già a conoscenza della violenza e suggerisce lo sviluppo di un programma di identificazione efficace, per garantire azioni non discriminatorie.

Tuttavia, il problema non è limitato a queste azioni. Esiste una dimensione giuridica, legata al codice penale e alla legge sull’immigrazione. I collettivi lavorano su una Proposta di legge per modificare l’articolo 270.4, che classifica la vendita nelle strade come reato. Questa proposta è stata approvata dalla Commissione per la giustizia del Congresso con il sostegno di Unidos Podemos, PSOE, PdeCat, ERC e PNV nel marzo dello scorso anno. Stiamo attualmente prendendo provvedimenti per rendere effettive le modifiche nella legislazione.

No, la persecuzione da parte di due poliziotti in moto non ha ucciso Mame, ma forse il silenzio istituzionale lo ha ucciso. O non è stato il silenzio istituzionale che ha ucciso Mame ma le leggi che lo hanno ucciso. O forse né la polizia né le leggi lo hanno ucciso, ma il razzismo ha ucciso Mame. Sì, Mame è morto. Le circostanze di questa morte sono state tragiche. Le circostanze della sua vita non lo erano meno. Ed è nella vita e nella dignità di tutti i residenti della città ciò su cui vogliamo concentrarci. Ora non solo è necessario svolgere un’indagine per chiarire i fatti, ma il Municipio deve assumersi la responsabilità politica per quanto è successo. L’ambivalenza non è possibile.

Quello che è successo ieri non è una fatalità, è una conseguenza di un problema che esiste in città. Un problema di razzismo strutturale, mancanza di responsabilità e abbandono di una popolazione vulnerabile [6]

1)http://www.publico.es/sociedad/protestas-lavapies-muerte-mantero-perseguido.html

2)http://www.eldiario.es/desalambre/senegales-ictus-muerte-lavapies_0_751025056.html

3)http://www.eldiario.es/desalambre/servicios-emergencia-desplomo-porrazo-Policia_0_750675282.html

4)http://elpais.com/elpais/2018/03/16/3500_millones/1521210124_575744.html

5)http://www.publico.es/sociedad/protestas-lavapies-muerte-mantero-perseguido.html

6)http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/03/roma-ambulante-fugge-durante-i-controlli-e-muore-dopo-caduta-investito-dai-vigili-no-e-stato-un-malore/3560326/

 

Traduzione di Lia Trombetta

 

Tra CasaPound e Salvini, a Ventimiglia si sdoganano fascisti e razzisti

All’apice di una campagna elettorale interamente incentrata sull’immigrazione, alienarsi i consensi del crescente elettorato xenofobo italiano rappresenta un rischio che le autorità non hanno alcuna intenzione di correre. In quest’ottica, il discorso fascista ormai ampiamente sdoganato, viene protetto arrivando a vietare qualsiasi espressione di dissenso, che sia davanti a un gazebo di CasaPound o in occasione di un comizio elettorale di Salvini, all’indomani delle sue inaccettabili affermazioni rispetto ai fatti di Macerata.

 

Il 14 ottobre 2017 il partito fascista CasaPound ha installato un gazebo informativo a Ventimiglia per illustrare il proprio programma politico e parlare in termini razzisti e xenofobi del loro punto di vista riguardo l’immigrazione.

Un gruppo di donne e uomini europee ha cercato di avvicinarsi con strumenti musicali e striscioni. Sono stati trasferiti alla stazione di Polizia e tenuti in stato di fermo fino a 5 ore senza che fosse loro fornito né un interprete né la traduzione dei documenti che veniva loro chiesto di firmare.

Il 9 febbraio 2018 il Teatro Comunale della città di confine ha ricevuto la visita del candidato premier della Lega Nord Matteo Salvini. L’obiettivo della giornata era quello di presentare alla cittadinanza il programma leghista che il partito delle ruspe porterà alle elezioni in Marzo.

Alla domanda di un giornalista di Sanremonews su cosa farebbe lui a Ventimiglia, Salvini ha risposto: “Qui bisogna fare come i francesi!”  Questi si distinguono per violare numerose norme di diritto internazionale con respingimenti arbitrari da parte della polizia di frontiera e della gendarmeria, che non espletano le verifiche del caso per accertare lo status giuridico della persona respinta, come prevederebbe invece il trattato di Dublino. Rimandano quotidianamente in Italia i minorenni, anche non accompagnati, che tornano a stare in strada privi di qualsiasi tutela.

Non soddisfatto, il leader della Lega ha proseguito dicendo “tornerò a Ventimiglia da Presidente del Consiglio e posso garantirvi fin d’ora che non ci sarà più nessun clandestino. “Mentre all’interno del teatro ventimigliese c’erano circa 500 persone, fuori uno schieramento di poliziotti in borghese e antisommossa, unitamente ad agenti della digos, si premuravano di allontanare chiunque potesse sollevare contestazioni rispetto ad una campagna elettorale giocata sullo sdoganamento di una sempre più allarmante xenofobia e di prospettive fasciste e razziste spacciate come soluzioni a tutti i mali del paese.

Mentre il centro di Ventimiglia riceveva le attenzioni di Salvini e della stampa, in via Tenda, nel quartiere popolare di Roverino dove trovano riparo centinaia di uomini e donne migranti, veniva rimosso da agenti di polizia in borghese uno striscione recante le parole “Da Ventimiglia a Macerata solidarietà, razzisti fascisti leghisti sono i veri terroristi”.

La motivazione addotta, è stata che il contenuto della striscione avrebbe potuto infastidire qualcuno.

In entrambi i casi il comportamento delle forze dell’ordine è stato il medesimo: vietare qualsiasi contestazione pacifica da parte di chi voleva manifestare il giusto dissenso verso la presenza di forze apertamente fasciste, xenofobe e incitanti all’odio razziale in un territorio delicato come quello di Ventimiglia.

Immigrazione: degrado sono le strade pulite e l’umanità ridotta a rifiuto

Pensa alla chiave che gira nella toppa, al familiare profumo di casa tua. Al frigo pieno, alla facilità con cui apri un’anta e scegli cosa cucinare questa sera. Al riscaldamento che accidenti se va acceso, l’inverno sta arrivando e ci sono solo 25 gradi, non so se mi spiego.

Pensa alla tua camera. Al mobile con i tuoi libri, ai ricordi, a quegli oggettini inutili che non riesci mai ad abbandonare perchè in un modo o nell’altro raccontano tutta la tua vita. Pensa al tuo armadio, alle ore passate a scegliere quale tonalità di blu si intoni meglio con i tuoi occhi e mi sta meglio il cardigan o quel vestito a tubino che dove cavolo è in mezzo a tutta questa roba?

Pensa al letto morbido che ti accoglie ogni sera, in cui puoi sprofondare nel sonno, al caldo, per poi ricominciare daccapo le tue giornate.

E adesso, se hai bene a mente queste piccole routine quotidiane di cui a malapena ti accorgi perchè nessuno ti ha mai impedito di viverle, immagina di perderle.

Immagina di non avere più niente, nessuna casa, niente abiti, niente cose a cui tenere, nessun oggetto che ti riporti al passato, nessuna traccia che ti possa far sperare di costruire un futuro.

Immagina di avere solo i vestiti che indossi: qualcuno ti donerà una giacca, un paio di calze, indumenti di ottava mano che tanto non potrai tenere, dopotutto dove posso metterli se con me non ho nemmeno uno zaino?, una coperta che in poche ore cambierà colore, imbrattandosi della terra e della spazzatura su cui sei costretto a dormire, sotto un ponte, al freddo.

Immagina che per ogni sguardo traboccante di solidarietà e gentilezza ce ne siano almeno mille di odio e diffidenza, che poi cos’hai fatto per meritare questo disprezzo ancora non lo sai.

Immagina di non avere più la libertà di fare una passeggiata, un’escursione con gli amici, un semplice giro dove vuoi tu. Di essere trattato come un criminale. Sei solo un numero e una provenienza geografica e, soprattutto, un problema.

Non possiedi più niente, nemmeno la tua vita.

Novembre 2017, Ventimiglia: le condizioni di vita dei migranti non sono migliorate, ancora oggi centinaia di persone vivono accampate sul letto del fiume Roja, nonostante le temperature sempre più basse e l’intensificarsi delle piogge. Alimentata dalle dichiarazioni cariche d’odio dei politicanti vari e da un giornalismo d’accatto e irresponsabile, crescono in una parte della cittadinanza italiana l’indifferenza, il cinismo e l’insofferenza verso il “degrado lasciato dai migranti”. Ma cos’è davvero il degrado? E’ nei resti di un accampamento di fortuna, nei pochi averi abbandonati sul ciglio della strada mentre si tenta la salvezza oltre confine, in questa miseria che spinge migliaia di esseri umani a rischiare (e spesso perdere) la vita… Oppure nelle politiche di accoglienza e negli interessi senza scrupoli di pochi, che di umano non hanno nulla? Il degrado non è forse nei cuori e nelle teste di chi tratta una parte di umanità come un rifiuto gettato ai bordi della strada?

parolesulconfine immigrazione e degrado (1)

fotografie: Francesca Ricciardi
vedi anche: le immagini di luglio dal fiume Roja

CasaPound Not Welcome. I fascisti scortati a Ventimiglia

Ventimiglia, sabato 14 ottobre 2017. Casapound installa un gazebo informativo in Via Roma per “presentare il movimento e parlare di immigrazione”(1).
Un gruppo di donne e uomini europei ha provato ad avvicinarsi con striscioni e strumenti musicali.
Immediatamente bloccati dai poliziotti che presidiavano il gazebo, sono stati identificati, trasferiti alla stazione di polizia e tenuti in stato di fermo per 5 ore senza che fosse fornito loro un interprete né tradotto il contenuto dei documenti che gli è stato chiesto di firmare.
Di seguito la testimonianza di una delle donne presenti. Al più presto seguirà anche un video.

Alle 2.45 circa nove di noi sono arrivati con alcuni cartelli e strumenti musicali. I militanti di Casapound era ancora alle prese con il montaggio del gazebo e c’erano più di una decina di poliziotti nella loro tenuta migliore.

Abbiamo aspettato che si sistemassero poi alcuni di noi sono andati a fare delle domande a quelli di Casapound. I poliziotti si sono mostrati subito insospettiti.

Quando abbiamo iniziato a muoverci per andare tutti insieme, i poliziotti ci hanno subito fermato, ci hanno confiscato gli striscioni e ci hanno chiesto i documenti.

Nonostante ci avessero preso gli striscioni e ci fosse impossibile manifestare, ci è stato detto ripetutamente “siete solo in cerca di guai”, “dovete parlare in Italiano perché siete in Italia” e che stavamo resistendo all’arresto (l’accusa era di aver manifestato illegalmente, cosa che in realtà non siamo riusciti a fare).

Tutti tranne me hanno consegnato i propri documenti (quello che li ha chiesti a me era clandestino (2) e non voleva mostrarmi i suoi prima). Per tutto il tempo ho detto ad alta voce in Italiano e Inglese che avevamo diritto di parlare e che stavano bloccando il nostro diritto alla libertà di parola mentre proteggevano i fascisti. Abbiamo anche cantato “ siamo tutti antifascisti” accompagnati da tamburo.

Sia quelli di Casapound che i poliziotti ci filmavano così io ed un’altra persona abbiamo tirato fuori i nostri telefoni per fare altrettanto. La polizia ci ha vietato di filmare (3) è ha cercato di prenderci i telefoni (non ci sono riusciti). Nel frattempo Marc ha cercato di uscire in modo nonviolento dal cerchio di poliziotti che si era chiuso intorno a noi, gli anno torto il polso dietro la schiena e lo hanno spinto nell’androne della banca, lontano dalla vista del pubblico, poi contro un muro e infine in una macchina della polizia.

Dopo hanno preso Elle, nonostante avesse seguito le loro istruzioni e non avesse fatto nulla di male. Ho cercato di afferrarla ma poco dopo venivo spinta anch’io in una macchina. Avevo gli strumenti sulla schiena e intorno al collo, all’inizio hanno cercato stupidamente di strapparli via, ma essendo ben fissati non ci sono riusciti e alla fine hanno dovuto farmi uscire di nuovo dalla macchia per togliermeli.
Sulla stessa macchina c’era anche Michelle. La macchina della polizia con la quale hanno portata via Elle è partita ad alta velocità per la stazione di polizia che si trova a un chilometro e mezzo e ha fatto un’incidente con un’altra vettura.
Una volta alla stazione le donne sono state separate dagli uomini. Le donne sono state sottoposte a perquisizione personale. Ci hanno preso le impronte digitali, ci hanno fotografato e hanno preso tutti i nostri effetti personali.
Due tedeschi sono stati accusati di essere nazisti durante la perquisizione. Si sono sentiti chiedere se “gli piace gasare le persone”, atti immotivati di aggressione e violenza.

Abbiamo atteso cinque ore mentre loro non facevano nulla (letteralmente nulla, dove potevamo vederli). Quando alla fine ci hanno dato i fogli da firmare non ci hanno fornito un vero traduttore, solo un tizio della Croce Rossa che appariva molto confuso e non sapeva parlare né Inglese né Italiano. Il mio italiano era meglio del suo, walla.

Alla fine abbiamo firmato tutti anche se sapevamo che erano solo cavolate.

Hanno cercato di far firmare a Vincent un foglio solo in Italiano con accuse di traffico di persone risalenti a giugno senza spiegargli nulla del suo contenuto, per fortuna è stato sufficientemente intelligente da non firmare.

Hanno separato i francesi fra noi da tutti gli altri e hanno detto che la polizia doveva scortarli al confine. Sono stati scortati da una macchina della polizia fino a Mentone.

Poi ci hanno rilasciato restituendoci le nostre cose e senza più conferire parola.

Sembra che, a un certo punto, potremmo ricevere posta da un tribunale.

Secondo i giornali italiani siamo lo staff di una cucina “no border”.

Testo originale:

9 of us with some banners and musical instruments arrived around 2.45 p.m. Casapound was still struggling to put up their gazebo and there were many police in their finest costumes, maybe 10 or 15.
We waited until they were set up then a few of us went to ask Casapound some questions. Already i poliziotti were suspicious of them.In the end we all started to move together.

I poliziotti stopped us subito before we could do anything, and they confiscated our banners and demanded documents. Even after they had taken our banners and there was no way we could “manifest” in any case, they told us repeatedly just to shut up, that we were “just looking for trouble”, that we “need to speak Italian because we’re in Italy” and that we were resisting arrest (based on ‘illegal manifestation’ which we never accomplished in the first place.)

Everyone except me gave documents (because the one asking for mine was clandestino and wouldn’t show me his documents first). This whole time I was screaming in Italian and English that we had the right to speak and that they were blocking our right to speak freely while protecting fascists, and we were also chanting ‘siamo tutti antifascisti’ with the drum.

Both people from Casapound and poliziotti were filming us so I and another took out our phones to film, but the police told us we weren’ t allowed to film police and tried to take our phones (they did not succeed). Meanwhile, one of us Marc tried to nonviolently walk out of a circle of cops and they twisted his wrist behind his back and dragged him into a bank, out of sight of the public, and shoved him against a wall, then put him in a police car. After they took Elle (though she complied completely and did nothing wrong). I tried to grab but soon they were also shoving me into a car (with instruments on my back and around my neck which they stupidly tried to tear off me even though they were strapped to me so in the end they had to take me back out of the car to take them off, cretini). In my car was also Michelle.

In the car Elle was taken they smashed another car speeding to the station that was a kilometer and a half away. Once there the women and men were separated, strip searched the women, our finger prints and pictures were taken along with all our possessions. Two of our German comrades during the perquisizione were accused of being nazis and asked if they “like to gas people”, unmotivated acts of aggression to illicit violence.
We were there waiting for about five hours while they did nothing (literally, where we could see them.) When they finally gave us the papers to sign, they provided no real translator, just some guy from Red cross who seemed very confused and could not speak English nor italian. My italian was better than his.

We all signed in the end, even though we all knew it was bullshit.

They tried to get Vincent to sign a paper on smuggling charges from June (which he was clever enough not to sign even though of course they explained nothing of what the papers said.)

They separated the French from everyone else and said the police had to escort them to the border. We tried to convince our french not to comply with this but they were just told it was the procedure, wouldn’t say anything about what the procedure was for foreigners, and we just told to “shut up if they can’t speak italian” they did it anyway and drove to Menton with poliziotti following. Then they released us and returned our stuff without another word.

Apparently we will receive some post about a tribunale at some point.

According to local newspaper we are of “no borders” kitchen.

 

1 http://www.sanremonews.it/2017/10/12/leggi-notizia/argomenti/politica-1/articolo/ventimiglia-sabato-pomeriggio-gazebo-di-casapound-in-via-roma-presenteremo-il-movimento-e-parle.html
2 Ndr si trattava di un poliziotto in borghese. I diritti nel caso di controllo documenti,
identificazione e fermo di accompagnamento (ART. 11 L. 191/1978 E ART. 349 C.P.P.) “Nel caso in cui tu sia fermato da un ufficiale-agente in borghese: hai diritto a chiedergli di identificarsi ovvero a chiedere il corpo di appartenenza e a mostrare il tesserino di riconoscimento.Qualora l’ufficiale-agente in borghese si rifiuti a dare le sue generalità in modo corretto: non sei tenuto a eseguire i suoi ordini.”  Know Your Rights, breve guida ai tuoi diritti di fronte alle forze di polizia. Associazione Antigone http://www.associazioneantigone.it/news/antigone-news/3051-know-your-rights-breve-guida-ai-tuoi-diritti-davanti-alle-forze-di-polizia
3 https://www.laleggepertutti.it/48722_e-lecito-fotografare-o-filmare-la-polizia-e-gli-altri-pubblici-ufficiali