Aumentano le persone respinte e la violenza è ormai strutturale

Pubblichiamo le immagini, registrate da alcune persone detenute nei container e diffuse dal collettivo Kesha Niya, che mostrano le condizioni in cui le persone vengono trattenute dalla polizia di frontiera francese prima di essere respinte in Italia

Sulla propria pagina facebook, il collettivo ha pubblicato due report riferiti alle giornate tra il 20 ottobre e il 2 novembre: ne pubblichiamo la traduzione qui di seguito.

Entrambi i report evidenziano il netto aumento del numero di persone migranti che tentano di lasciare l’Italia dalla frontiera di Ventimiglia. Gli ultimi due resoconti, e i dati raccolti dallo stesso collettivo nella settimana dal 3 al 9 novembre, registrano il respingimento di 1799 persone in sole 3 settimane, mentre in tutto il mese di settembre erano state 1536. Anche le presenze presso il Campo gestito dalla Croce Rossa nel Parco Roya sono evidentemente in crescita: se da oltre un anno il numero delle persone ospitate nella struttura non superava le 250 presenze, al 12 di novembre le persone registrate al campo erano 400.

Ad aggravare la situazione già difficile delle persone in viaggio si aggiungono le reazioni sempre più violente della polizia francese, ormai divenute prassi strutturale nei locali per la detenzione delle persone respinte al confine. Insulti e umiliazioni, spray al peperoncino e percosse si sommano così, con sempre maggior costanza, alle pratiche già normalizzate della privazione di cibo e acqua, della detenzione fino a 24 ore in locali insalubri e non attrezzati, del rifiuto di fornire qualsiasi forma di assistenze medica.

REPORT 20-26 Ottobre

Ciao a tutt*,

nell’ultima settimana abbiamo incontrato 553 persone al confine italo-francese a Grimaldi inferiore, che sono state fermate dalla polizia francese e poi respinte verso l’Italia. E’ il numero più grande da quando raccogliamo i dati. Il numero di persone sta aumentando molto in queste ultime settimane. Sappiamo di un totale di 578 persone respinte, abbiamo infatti visto 18 persone andare a Ventimiglia con l’autobus, la Croce Rossa o la polizia italiana, senza entrare in contatto con noi e 9 minori sono stati riportati in Francia dalla polizia italiana. Questo numero include 13 donne, tre delle quali incinte, 27 minori, 8 bambini e 4 minori accompagnati da un familiare. Non sono incluse in questo numero le circa 20 persone che sono state mandate a Taranto dalla polizia italiana il 24 ottobre.

Minori

7 minori sono stati riportati in Francia dalla polizia italiana prima di arrivare da noi.

Siamo tornati dalla polizia italiana con un quindicenne e un sedicenne che non avevano ancora dato le impronte digitali in Europa perché fossero registrati come minorenni. La polizia ha asserito che i due minori si erano dichiarati maggiorenni, fatto negato dagli interessati. La polizia italiana ha poi detto che il loro sistema di registrazione non funzionava. Ci hanno ordinato di andarcene e di non ritornare.

Questa settimana abbiamo incontrato una minore che viaggiava da sola.

Un sedicenne ci ha raccontato la sua esperienza con la PAF (Police Aux Frontières – Polizia di frontiera francese n.d.t.). Due poliziotte erano in disaccordo sull’accettarlo o meno come minore. Alla fine è stato respinto in Italia, ha dato 4 impronte digitali ed è stato registrato come ventunenne dalla polizia italiana perché questa era l’età indicata sul “refus d’entrée” (rifiuto di ingresso, documento consegnato alle persone respinte in Italia dalla polizia francese n.d.t.).

Violenza

Due quindicenni hanno detto di essere stati minacciati dalla polizia francese che sarebbero stati picchiati se avessero riprovato a passare.

7 persone che hanno attraversato il confine in montagna nella notte tra il 21 ed il 22 ottobre hanno riferito di essere state arrestate dalla Legione Straniera all’una del mattino e che alcuni militari hanno puntato loro contro il fucile. Il refus d’entrée dichiarava che erano stati arrestati a Ponte S.Ludovico (dove ci sono i controlli di confine sulla costa).

5 altre persone avevano sul loro “refus d’entrée” l’indicazione di luoghi errati in cui sono stati fermati. Sono stati fermati al primo casello dell’autostrada (La Turbie) a bordo della vettura di un trafficante. La polizia ha arrestato il conducente ma ha scritto che i passeggeri sono stati fermati mentre si trovavano su un autobus.

Una persona ha perso il controllo durante la detenzione nel container e ha rotto una finestra con la testa e le mani. Ha riferito di essere stato preso a pugni dalla polizia francese. Un’altra persona ha assistito ai fatti e ha visto anche un uomo ferirsi con i frammenti della finestra rotta. La persona ferita ha chiesto aiuto ma la polizia ha detto che non era niente e si è rifiutata di aiutarlo.

Dopo 16 ore di detenzione una persone ha chiesto di essere rilasciata. Ci ha detto che la polizia francese lo ha sollecitato ad avvicinarsi alla porta e quando lui l’ha fatto è stato prima picchiato e poi rilasciato.

Una persona ha riferito di essere stata colpita dalla polizia francese con un manganello su una gamba e sulla schiena. Il poliziotto gli avrebbe detto che lo faceva perché a causa sua non potevano andare in pausa a mangiare.

Alle 18.30 del 26 ottobre abbiamo visto più di 10 persone venire rilasciate dai container mentre la polizia francese urlava loro contro.

Ci è stato raccontato un caso di brutalità della polizia avvenuto nei container 3 mesi fa. Questo reporter ci ha detto di aver visto un poliziotto dare un calcio nei genitali ad una delle persone detenute che ha perso conoscenza per via del dolore. La polizia non ha fornito alcun supporto di primo soccorso.

Ci è stato detto da 32 persone di essere state detenute tra le 11 e le 22 ore dalla PAF.

Abbiamo continuato a incontrare un gran numero di persone con ferite infette, specialmente sulle gambe, e abbiamo praticato il primo soccorso.

REPORT 27/10-2/11

Ciao a tutt*,

questa settimana abbiamo incontrato 565 persone al confine italo-francese a Grimaldi inferiore, che sono state fermate dalla polizia francese e poi respinte verso l’Italia. E’ stato nuovamente superato il numero più alto che abbiamo registrato dall’inizio della raccolta dati. Sappiamo anche di altre 6 persone che sono state respinte ma con le quali non siamo entrati direttamente in contatto. Queste sei persone sono andate a Ventimiglia con l’autobus, la Croce Rossa o la polizia italiana. Ci sono stati quindi almeno 571 respingimenti. Il numero di persone menzionate (565/571) include 14 minori non accompagnati, 18 donne (di cui una in cinta), 5 bambin* e un minore non accompagnato che la polizia italiana ha riportato in Francia senza bisogno del nostro intervento.

                               Persone fermate dalla polizia di frontiera francese alla stazione di Menton-Garavan.

Minori

Dei 14 minori che abbiamo incontrato questa settimana, 4 casi spiccano in particolare.

Un ragazzo di quattordici anni è stato registrato dalla polizia francese come se ne avesse quaranta (data di nascita 1979 apposta sul suo refuse d’entrée) e la polizia italiana lo ha apparentemente registrato, con quattro impronte digitali, come se avesse quarant’anni. Siamo andati dalla polizia italiana con il ragazzo quattordicenne e abbiamo chiesto come sia stato possibile un errore di registrazione così ovvio. La poliziotta presente ci ha detto che non poteva farci nulla perché in quel momento non c’era la connessione con il data base di Stato. Resta il dubbio se questa informazione fosse vera dal momento che delle impronte erano stato prese un attimo prima e questo è possibile solo se l’accesso al data base è disponibile e il sistema per la registrazione è funzionante. E’ inoltre già successo in passato che, quando ci siamo recati dalla polizia italiana con dei minori, il sistema di registrazione fosse per coincidenza fuori uso.

Il giorno successivo lo stesso adolescente è stato nuovamente respinto dalla Francia ma questa volta come diciannovenne.

Un sedicenne, registrato in Italia come ventenne, aveva con se tutti i suoi documenti ufficiali della Costa d’Avorio che confermavano la sua età ma non li ha mostrati alla polizia per timore che glieli rubassero.

Ci sono stati raccontati due casi di violenza contro minori.

Un minore è stato preso a calci dalla polizia francese

Il 2 di Novembre un diciassettenne è stato colpito al naso dalla polizia francese. Aveva detto di avere vent’anni perché non voleva essere separato dai suoi amici. Durante il suo rilascio, la polizia francese lo ha spruzzato sul volto con spray al peperoncino.

         2/11/2019 Ragazzo di 17 anni colpito al naso e fatto bersaglio di spray al peperoncino dalla polizia francese.

Violenza

Il 2 di novembre siamo venuti a conoscenza di almeno 24 casi i cui la polizia francese ha usato spray al peperoncino contro le persone durante il loro rilascio. Una di queste, dopo che la polizia la ha spruzzata con lo spray al peperoncino, ha perso conoscenza, è caduta e si è ferita a un ginocchio. Il suo amico ci ha raccontato che la polizia francese lo ha preso a calci mentre si trovava a terra.

Nell’arco della settimana abbiamo ascoltato altri 17 casi in cui la polizia francese ha usato spray al peperoncino contro le persone durante il loro rilascio.

Un uomo ci ha spiegato che che alle nove di sera del 27 ottobre si trovava vicino a una galleria sulla A8, sulle montagne sopra Mentone. Era sul percorso che porta a Mentone e si è avvicinato ad una proprietà privata. Il momento dopo ha sentito qualcuno gridare “Stop”. Si è voltato ed ha iniziato a correre verso l’Italia. Durante la fuga ha sentito esplodere un colpo di pistola. E’ riuscito a tornare in Italia senza essere arrestato. Prima che accadesse tutto questo aveva visto un gruppo di cinque persone che cercavano anch’esse di attraversare il confine a piedi. Il gruppo è stato arrestato sulle montagne dai militari francese e ci ha incontrati il giorno dopo, confermando di aver sentito degli spari alle nove della sera prima.

Due persone hanno riferito di essere state picchiate dalla polizia francese dopo essere stati arrestati nella toilette del treno.

Un uomo ha detto di essere stato picchiato da cinque poliziotti francesi sul binario 1 della stazione di Menton Garavan alle 18.12 del 31 Ottobre quando è stato arrestato. Ricordava chi fossero gli aggressori ma dal momento che durante l’attacco si è protetto il capo con le mani non ha potuto darci altri dettagli.

A una persona che era detenuta nel container sono stati chiesti i documenti attraverso la porta dalla polizia francese. L’uomo ha passato i documenti attraverso la porta socchiusa e in quel momento il poliziotto l’ha sbattuta sulla mano dell’uomo. L’uomo ha riportato una ferita grave.

Un attivista per i diritti umani in Marocco è stato arrestato dalla polizia francese e detenuto nei container. Durante la detenzione ha registrato un video con il suo telefono cellulare. In questo video, ora in nostro possesso, sono registrate diverse violazioni dei diritti umani e comportamenti discutibili della polizia francese. L’uomo ha chiesto ai poliziotti francesi di presentare domanda di asilo politico, come risposta lo hanno preso in giro. Nel video si vede una persona incosciente sul pavimento. Questo è accaduto dopo che la polizia ha usato contro le persone detenute lo spray al peperoncino. Nel video si vede anche un uomo che chiede cibo alla polizia francese e si sente la polizia rispondere che non ce n’è. Il video mostra chiaramente anche la pessima condizione igienica all’interno dei container, si vede lo scarico della toilette che perde sul pavimento. L’attivista per i diritti umani ci ha detto che lui ed il suo amico hanno dovuto firmare il loro rifiuto d’ingresso prima che questo fosse compilato con i loro dati dalla polizie. Ha anche riferito che in questo giorno (29/10) la polizia è entrata nel container all’una di pomeriggio e ha usato lo spray al peperoncino su molte persone. In un altro video registrato da lui si vede un uomo incosciente che viene portato fuori dalla polizia e da alcune persone detenute in quel momento.

A due persone è stata negata assistenza medica dalla polizia francese nonostante avessero con sé documentazione medica ufficiale e l’avessero mostrata alla polizia.

Il primo caso riguarda una persona con una patologia polmonare, confermata da un medico tedesco di Colonia. La persona in questione ha chiesto medicine e acqua alla polizia francese. Sono state negate entrambe.

Il secondo caso riguarda una persone con problemi dentali confermati da un medico spagnolo . La richiesta di cure mediche fatte da questa persona sono state anch’esse negate.

In un’altra situazione un poliziotto francese ha picchiato un uomo del Mali. L’uomo ci ha raccontato che lo stesso poliziotto gli ha rubato il bankomat un momento dopo.

Una persona ci ha detto che la polizia francese gli ha sottratto il suo permesso scaduto.

Sappiamo di 10 persone detenute tra le 12 e le 23 ore dalla polizia francese. Possiamo presumere che il numero di casi sia molto più alto dal momento che ci sono persone che vengono detenute per tutta la notte ogni notte ed alcune di loro non sono le prime ad essere rilasciate e spesso neanche le ultime.

Kesha Niya Kitchen

– CUCINANDO CON E PER I RIFUGIATI –

www.keshaniya.org 

https://www.facebook.com/KeshaNiyaProject/

Il collettivo Kesha Niya è impegnato a Ventimiglia nella preparazione e distribuzione serale di pasti dalla primavera del 2017. Dall’estate del 2018 porta cibo e bibite calde sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia.

 

Sciacalli ai confini d’Europa

Giovani uomini, ma anche famiglie, donne e minori non accompagnati provenienti da Siria, Kurdistan, Pakistan, Afghanistan, Iran, Bangladesh percorrono, da circa tre anni, la rotta balcanica attraversando la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia fino all’Italia. La maggior parte di essi non ha intenzione di fermarsi e fare richiesta di asilo in nessuno di questi stati. Bloccate dalla frontiera croata con un uso massiccio della forza e della tortura da parte della polizia, le persone in viaggio hanno formato enormi accampamenti informali prima in Serbia e, poi, in Bosnia. Successivamente, un mix di gruppi intergovernativi (International Organization for Migration – IOM e United Nations High Commissioner for Refugees  – UNHCR) e non governativi hanno iniziato a gestire o collaborare alla gestione di campi formali altrettanto enormi, in Bosnia.

Noi siamo medici. Negli anni scorsi abbiamo preso attivamente parte alla lotta no border in Italia e, questa volta, abbiamo partecipato a una spedizione organizzata a seguito del crescendo di notizie sulle violenze e situazioni inumane alle quali è sottoposto chi tenta questo attraversamento.

Abbiamo raggiunto Bihać, nel cantone Una-Sana, al nordovest della Bosnia, al confine con la Croazia – circondata da monti e attraversata dal fiume Una. Durante la guerra (tra il 1991 e il 1995) gli abitanti di questa zona hanno vissuto nei rifugi antiaerei, senza acqua ed elettricità, con il cibo razionato. Secondo il Centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, a Bihać sono state uccise 4.856 persone [i].

In questo luogo senza pace, abbiamo potuto conoscere la violenza e la privazione di libertà a cui è sottoposto chi ha un passaporto che non vale nulla, in Europa e nelle sue vicinanze. Abbiamo potuto visitare: siti “di accoglienza” considerati più “dignitosi” per nuclei familiari, donne e minori non accompagnati; enormi campi informali; scheletri di edifici incompiuti o cadenti occupati nel tentativo di salvarsi dal freddo; abbiamo incontrato persone malmenate e torturate dalle diverse polizie, marchiate nei corpi da segni permanenti che molti altri, prima di noi, hanno descritto e raccontato. Esperienza nuova per noi e non comune per chi, in generale, si oppone a tale sistema, abbiamo potuto rivolgere domande dirette a chi fa parte dei grandi gruppi intergovernativi che “normalizzano”, gestiscono e legiferano il destino di chi viaggia.

Dai disegni di Emanuele Giacopetti per il reportage “Do you remember Balkan Route?” (https://www.doyourememberbalkanroute.org

Il 16 marzo 2016, dopo la chiusura della rotta Balcanica occidentale, Europa e Turchia siglarono un accordo con lo scopo di fermare la migrazione irregolare attraverso la Turchia. In base a esso, tutti i migranti irregolari e richiedenti asilo giunti alle isole greche, le cui richieste di asilo fossero state rigettate, andavano ricondotti in Turchia. Rimandiamo al sito del Parlamento Europeo per la lettura del testo dell’accordo che appare come un’improbabile e allucinatoria previsione del futuro, parzialmente smentita dai fatti. Tra le voci del trattato era previsto che la Turchia si impegnasse a migliorare le condizioni della crisi umanitaria in Siria[ii]

Tutto ciò ha portato alla deviazione dei flussi migratori attraversi la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia e infine l’Italia.

A partire dal 2017 e poi nel 2018 sorgono enormi accampamenti informali in Serbia e in Bosnia. Successivamente nascono in Serbia numerosi centri governativi per migranti, mentre in Bosnia i campi formalmente riconosciuti sono gestiti da International Organization for Migration (IOM, Organizzazione inter-governativa che include 173 paesi, il cui obiettivo sarebbe quello di promuovere condizioni migratorie “umane e ordinate”) e United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), fondato dopo la seconda guerra mondiale.

Da ormai molti anni, sul territorio europeo, diversi gruppi si sono organizzati per dare supporto al transito di coloro che abbiamo deciso di chiamare semplicemente “persone in viaggio”, per non sottostare al meccanismo di divisione in categorie che facilita la distanza e la de-responsabilizzazione.

Da diversi anni incontriamo, nelle nostre strade, donne e uomini sopravvissuti a violenze di ogni genere subite nel corso di questa e altre rotte[iii]

Questo testo deriva da una breve ma traumatica esperienza lungo una frontiera per noi nuova, a confine tra Bosnia e Croazia, sempre più nota per le condizioni di transito inumane, le violenze e le torture efferate perpetrate quotidianamente nei confronti di chi tenta di attraversarla.

Primo Giorno 28/10/19

Il parco dei giovani zoppi

Arriviamo a Bihać, nel cantone Una-Sana, territorio bosniaco confinante con la Croazia, intorno alle 13. Abbiamo alcune informazioni da persone che sono già state in questa zona.

Il passaggio del confine è molto difficile, tanto che il traffico, in questa zona, utilizza una figura definita “runner” che fa da apri-pista per valutare la possibilità del passaggio. I campi formali in Bosnia sono tutti gestiti da IOM che assume personale di sicurezza privata e operatori senza alcuna esperienza, (anche per lavorare con minori),  pare assunti tramite campagne su facebook. La procedura per la richiesta di asilo in Bosnia sembra sia molto complessa, ma praticamente nessuno chiede asilo qui.

Partiamo per andare al campo Borici, aperto dal gennaio di questo anno, un edificio dove sono ospitati donne, famiglie e minori e persone definite “con fragilità”. Il “campo modello” del governo. È un edificio, in un parco, la cui destinazione precedente era una casa per studenti.

Quando arriviamo ci sono molti ragazzi giovani e bambini che escono dal palazzo. Fuori c’è un operatore della sicurezza. Tre di noi hanno il permesso per entrare. Da una salita sterrata arriviamo in un piazzale. L’aspetto esterno è abbastanza diroccato. Nel piazzale ci sono 4-5 container. Ci sono bambini che giocano, molte donne e pochi uomini. Ci viene incontro la responsabile e ci dice che potrà dedicarci poco tempo a causa di problemi di sicurezza all’interno della struttura. All’interno ci sono 350 persone, soprattutto famiglie. La maggioranza delle persone viene da Pakistan, Siria, Irak, Kurdistan, Afghanistan. Attualmente non sembrano esserci minori non accompagnati. Il tempo medio di permanenza è di circa 3 mesi. Inoltre c’è un’associazione locale che lavora con le donne. Ci dicono che un medico del servizio sanitario nazionale è al campo 6 volte a settimana e c’è la possibilità di accesso all’ospedale di Bihać per i casi più urgenti. Inoltre affermano che un autobus porta i bambini tutti i giorni a scuola.

Mentre la responsabile ci spiega le caratteristiche del campo, all’improvviso un uomo nel piazzale si accascia a terra circondato da diverse donne. Sembra una crisi epilettica (vera o simulata) e, a un certo punto, arriva un giovane medico. Diverse  persone aiutano l’uomo ad alzarsi,  poi lui corre e inizia a dare dei pugni sulla parete di un container. La responsabile dice che non può più seguirci, parliamo con una giovane operatrice di IOM. Lei  racconta che ha visto gente permanere nel campo anche per un anno. Subito ci dicono di allontanarci per la nostra incolumità e, successivamente, un presunto rappresentante di una ONG arriva trafelato per annunciare che la situazione è molto pericolosa. Vediamo arrivare una macchina della polizia e un’ambulanza.

Nel frattempo il gruppo di noi rimasto all’esterno incontra delle persone di origine afghana nel parco. Tra loro F., una ragazza afghana che viveva in Iran da 21 anni, ha deciso di scappare di casa perché i genitori volevano che sposasse un cugino. Fugge con il suo compagno verso l’Europa e, a Borici, si incontrano anche con un altro parente. Tutti insieme ci dicono che il campo di Borici è molto affollato, ci sono più famiglie (8-10 persone) in una stessa stanza, il cibo non è buono. Vogliono andare in Francia o in Belgio poiché consigliati da amici che gli hanno detto che il sistema eurodac, per l’identificazione delle impronte digitali, non funziona in questi paesi, e quindi non sarebbero rispediti nel primo paese europeo di arrivo. Esprimiamo i nostri dubbi su questo fatto, ma forse con scarso successo.

Sia a F. che al suo compagno è stato rotto il telefono dalla polizia croata, ma non sono stati picchiati, come hanno visto invece accadere ad altre famiglie anche con bambini e donne anziane a cui erano stati anche bruciati i vestiti. Altri due uomini adulti sono conoscenti o familiari della coppia di ragazzi, uno più anziano ci dice che il più giovane, di 18 anni, è stato brutalmente picchiato dalla polizia croata a seguito di uno dei sei tentativi di attraversare la frontiera. Il più giovane mostra la gamba sinistra evidentemente deformata da una precedente frattura e ha visibilmente problemi a camminare.

Insieme a questi ultimi andiamo poi verso la sede di IOM e lungo questo tratto di strada l’uomo più anziano ci dice che uno dei problemi più gravi è che, oltre alla polizia croata, ora nei boschi intorno alla frontiera ci sono persone armate di coltelli che rapinano e feriscono chi passa. Alle nostre domande sulla possibile identità di questi uomini, ci dicono che alcuni di essi sono dei trafficanti.

Tornando verso il campo, passiamo nel parco, in cui camminano molte persone che vivono dentro o intorno a Borici, qualcuno porta con sé  buste della spesa.

Molti tra questi giovani zoppicano.

Passiamo di fronte a un grande edificio che pare contenga facoltà islamiche di diritto e pedagogia.

Incontriamo l’altra parte del nostro gruppo, che ci racconta di come la visita al campo di Borici si sia interrotta bruscamente.

Andiamo a vedere se c’è qualcuno in un moderno edificio diroccato, in centro, occupato, praticamente senza mura, dove pare che molti giovani tentino di rifugiarsi almeno durante la notte. Sul corso del fiume incontriamo diversi ragazzini, molti di loro minorenni. Iniziamo a parlarci, molti sono afghani e siriani, hanno quasi tutti la scabbia. Alcuni tra i siriani sono stati fermati in Croazia e in Italia nel tentativo di passare le frontiere e riportati indietro. I documenti rilasciati durante questi respingimenti illegali operati dalla polizia italiana sono stati sequestrati dalla polizia croata. Dicono che la polizia croata è Mafia.

Uno di loro, un ragazzo di 20 anni siriano, dice che anche in città la polizia bosniaca non li lascia stare seduti sugli argini del fiume. Un altro giovane siriano ha la metà destra del corpo ampiamente ustionata e un occhio gravemente lesionato. I suoi amici ci dicono che deve essere operato e ci chiedono come questo possa essere fatto, se in Bosnia o in “Europa”. Parliamo brevemente con lui, ci spiega che un anno prima, in Siria, durante un bombardamento aereo, ha riportato ampie ustioni su tutto il corpo.
Tutti dicono che l’unica acqua che bevono è quella del fiume Una.
Usiamo quasi tutta la crema anti-scabbia che abbiamo, molti antibiotici e alcuni farmaci per il dolore.

Secondo Giorno 29/10/19

La mafia è un elefante bianco

In mattinata incontriamo i rappresentanti di UNHCR. Ci parlano inizialmente dei dati sul transito di persone in Bosnia. Dicono che attualmente ci sarebbero circa 8000 persone nel paese e stimano che almeno il 20-30% in più non siano intercettati dal sistema. Intorno a 3900 si troverebbero nei centri e almeno lo stesso numero al di fuori di essi. Molte famiglie e minori non accompagnati. L’UNHCR ha gruppi definiti “out-reach” per la ricerca di soggetti sul territorio che definiscono “più vulnerabili”. In totale 672 persone, a loro dire, hanno iniziato la procedura d’asilo in Bosnia ma dicono che il sistema per la richiesta non funziona. Sottolineano il proprio impegno nel migliorare questo sistema. In totale pare siano state concesse solo 16 protezioni sussidiarie nel 2018, mentre 604 persone attendono la risoluzione della richiesta.

Imputano al contrasto tra il governo centrale e quello cantonale le colpe per il malfunzionamento del sistema d’asilo. Si insiste molto su questo tema.
Chiediamo se una eventuale richiesta di asilo in Bosnia potrebbe poi impedire il successo di una successiva procedura iniziata in un altro paese d’Europa. Una di loro dice chiaramente: “we are against onward movement, you don’t choose the place where you ask for asylum, we explain to the people that Bosnia has a system in place…”; dunque esprimendo apertamente la propria opposizione a qualsiasi prosecuzione del viaggio successivo a una eventuale richiesta di asilo in Bosnia, imputando tali movimenti all’azione di mafie e trafficanti. Proviamo a esprimere la nostra opinione sul fatto che sia possibile chiedere asilo politico in Bosnia e poi restarci davvero, e le nostre perplessità circa la posizione degli Stati di bloccare delle persone per dei tempi lunghissimi in spazi non idonei.

Continuando a soffermarsi su ciò che ritengono problematico, dicono che frequentemente i loro operatori legali si trovano in difficoltà nel sospetto di una “bogus family composition”, in quanto le persone, a loro dire, non dichiarano lo stesso numero di componenti della famiglia per tutta la durata del viaggio e quando vengono riconosciuti. Per questo si ritiene che non siano “veri” parenti, e che, anche in questo caso, si tratti di situazioni di traffico e sfruttamento, soprattutto per i minori. A nostra domanda su come intendessero gestire questo fenomeno, se volessero avvisare la polizia per iniziare un procedimento legale contro le persone sulla cui composizione familiare ci fossero stati dei dubbi, rispondono in maniera affermativa. Un segno chiaro di ciò sarebbe il fatto che una persona si dichiari zio/zia di qualcuno/qualcuna e poi si separi da esso/essa magari continuando il viaggio indipendentemente. Ci figurano la possibilità di una sorta di controllo e comunicazione delle composizioni dei nuclei familiari in diversi paesi per reprimere queste “pratiche”. Non viene assolutamente presa in considerazione la nostra obiezione che evoca un diverso concetto di famiglia che potrebbe influenzare tali dinamiche.
Una dei rappresentanti UNHCR continua a formulare metafore su degli elefanti: “C’è un’enorme elefante bianco in mezzo alla stanza di cui non ci stiamo occupando” … “se si vuole mangiare un elefante bisogna farlo a pezzi”.

Poiché continuiamo a fare discorsi sulla libertà di movimento, su come anche gli europei non restino bloccati nel primo paese nel quale migrano, eccetera, a un certo punto, iniziano a dire che forse il termine “mafia” era inappropriato. Probabilmente pensando che, in quanto italiani, il termine ci avesse offeso.

All’improvviso finisce il nostro tempo, perché gli operatori UNHCR hanno altri meeting.

Andiamo poi al campo di Sedra. Un altro campo per famiglie e minori non accompagnati, allestito in un vecchio hotel. È un vecchio edificio abbastanza cadente, al secondo piano piove all’interno. C’è poco da dire, ci sembra che i campi abbiano implementato di molto la condizione occupazionale della gioventù locale. I lavoratori che incontriamo sembrano ben disposti verso i rifugiati che vi abitano. Ci raccontano dei turni di 14 ore al giorno delle cuoche della croce rossa.

Dopo la visita, raggiungiamo l’altro gruppo che si trova di fronte al campo di Bira, un altro campo da 1200 posti gestito da IOM dove opera anche Save the children, al quale non ci è permesso l’accesso.

Fa molto freddo. Visitiamo molte persone nel parcheggio, molti ragazzi giovani (anche minorenni), tutti senza vestiti adatti per quel clima, molti con sandali. Aspettano lì fuori, al gelo, di entrare nel campo; quasi tutti hanno ferite infette e scabbia.

Dei ragazzi afghani iniziano a parlarci, è da molto tempo che aspettano di entrare, ma sembra che il campo sia pieno. Molti di loro trovano riparo in un edificio abbandonato non lontano, chiedono se vogliamo andare a vederlo. Ci accompagnano verso una grande costruzione diroccata, senza finestre e in alcuni punti anche senza pareti, sotto una pioggia che si infittisce. Salendo le scale si arriva a un secondo piano invaso dal fumo. In ogni stanza è stato acceso un fuoco, il pavimento è completamente ricoperto di carta e plastica. Ci saranno una cinquantina di persone, ma ci dicono che dormono li in 300 circa. I ragazzi hanno pochi materassi per terra e qualche coperta. Facciamo varie medicazioni e ad alcuni diamo degli antibiotici per malattie dell’apparato respiratorio. Quasi tutti hanno la scabbia, quindi avendo finito il farmaco diciamo che torneremo nel pomeriggio del giorno dopo.
Torniamo al campo di Bira, vediamo molta polizia arrivare. Raccolgono tutte le persone che stazionano nel parcheggio al di fuori del campo e le portano via.

Dopo un’ora da questa retata nuove persone al freddo e sotto la pioggia si avvicinano nuovamente al cancello del campo nella speranza di poter entrare. Tra di loro un ragazzo di provenienza afghana nato nel 2005, ha con sé un documento di identificazione. È appena arrivato da Sarajevo. Cerchiamo di mediare all’entrata del campo con un responsabile dell’IOM per capire se è possibile farlo entrare. Dopo una mezz’ora esce dal campo un funzionario di Save the children che controlla i documenti del ragazzo e gli dice di avvicinarsi alla rete di separazione. Improvvisamente, almeno una ventina di bambini compaiono dal nulla attorniando il funzionario e cercando di attirare la sua attenzione, mostrandogli i documenti sui quali è scritta la loro età.

La sera incontriamo brevemente una operatrice di una nota ONG della zona, che ci spiega l’attività dell’organizzazione. Sembra vi siano importanti limitazioni poste dal governo del cantone Una-Sana.

Ci dice di una circolare che è stata emanata dal governo locale, la quale impedisce ai cittadini di affittare casa alle persone migranti, di ospitarle o di fare qualsiasi atto che determini un assembramento in strada.

La sera apprendiamo che un cameraman solitamente filma e pubblica sui social network le operazioni di polizia.

Terzo Giorno 30/10/19

Leggende di frontiera

La mattina partiamo in auto alla volta di Velika Kladuša, a circa una 40 di km da Bihać.

Lungo il percorso, che in buona parte corre parallelo al confine con la Croazia, incontriamo diverse persone che camminano sulla carreggiata, nonostante il freddo e la pioggia. Ci fermiamo due volte nel tentativo infruttuoso di approvvigionarci presso farmacie locali di antibiotici, ormai agli sgoccioli. Alla seconda sosta avviciniamo un gruppo di persone presso un edificio in disuso, molto sporco, dove avevano riposato. Erano all’ennesimo tentativo di superare la frontiera, vittime di furti e delle consuete umiliazioni, percosse, vessazioni operate dalla polizia croata, non rare anche da parte della polizia slovena.

Li medichiamo e forniamo loro alcuni antidolorifici per i traumi. Raggiungiamo il parcheggio dell’ospedale di Velika Kladuša. Ci viene incontro una giovane attivista francese dell’associazione No name kitchen, un’organizzazione internazionale di volontari per il supporto al transito, che ci rende partecipi delle difficoltà e delle limitazioni nel poter fornire aiuto alle persone in viaggio. Per loro infatti, è necessario rinnovare mensilmente un documento con i dati anagrafici e il domicilio, cosa mai richiesta ad altre persone che sono in Bosnia con un visto turistico.

Giunge quindi una operatrice di MSF, accompagnando 2 giovani uomini, uno in sedia a rotelle e un altro che zoppica, provenienti da una casa occupata visitata da lei nel corso di un monitoraggio. Parlano di altre persone che vivono nell’occupazione e sono in condizioni pessime. I due ragazzi presentano un quadro di scabbia grave con sovra-infezione. Il giovane in sedia a rotelle appare molto debilitato e probabilmente febbrile, alza la testa solo quando la ragazza si rivolge a lui in arabo, per poi ritornare ad accasciarsi su sé stesso. Viene deciso di provare a portarlo presso il campo cittadino Miral. Seguiamo con la nostra auto il loro furgone, arrivati presso il campo ci fermiamo presso il parcheggio esterno. Veniamo dopo poco raggiunti dalle solite guardie private presenti in tutti i campi gestiti IOM che, dopo averci chiesto i documenti, ci intimano con atteggiamento irridente di allontanarci per la nostra incolumità.

Ritornati a Bihać, ci rechiamo all’edificio occupato che si trova nelle vicinanze del campo di Bira. L’aria è ancor più irrespirabile del giorno prima, piove e fa freddo e ci sono molti fuochi accesi nelle stanze. Ci fanno entrare nella stanza meno sporca e dove non c’è un fuoco, per poterli visitare. Il pavimento è ricoperto di scatole di cartone e in un angolo c’è un tappeto. È una moschea improvvisata.

Tutti si accalcano intorno chiamandoci per mostrarci le ferite infette procuratesi nel grattarsi a causa della scabbia, molti hanno la gola arrossata e le tonsille gonfie. Alcuni hanno i piedi rotti da manganellate della polizia croata con ferite aperte e vogliono disperatamente una medicazione per coprirli. Le piante dei piedi, in alcuni casi, hanno ferite poiché la polizia croata gli prende le scarpe, oltre a tutto il resto, costringendoli a camminare scalzi per chilometri. Finiamo praticamente tutti i farmaci che abbiamo e ci accompagnano fuori.

Torniamo davanti al campo di Bira, fa sempre più freddo e piove, ma lì di fronte c’è sempre una folla di giovani fantasmi con coperte in testa per ripararsi, come possibile, dal freddo. Aspettano la notte.

A qualcuno hanno detto che se riesci a resistere, ad aspettare fino a notte inoltrata, a volte, c’è un operatore anziano che ti fa entrare. Ad altri hanno detto, a Tuzla, che forse, quando arriverà la neve, ci saranno degli autobus italiani che verranno per portarli in Italia.

Un ragazzo non riesce più a sedersi per le ferite dovute alla scabbia. Gli diamo ciò che resta dei farmaci. A un altro che ha la febbre diamo un antinfiammatorio, sarebbe meglio assumerlo a stomaco pieno, ma lui non mangerà per oggi.

Giovani pakistani raccontano di essere stati picchiati selvaggiamente dalla polizia croata al confine, un loro amico diciassettenne è stato massacrato di botte da una poliziotta slovena, poiché rifiutava di firmare il foglio in cui era scritto che era maggiorenne.

Molte sono le torture di cui raccontano. Dicono che, in inverno, la polizia croata, dopo aver preso soldi, distrutto telefoni e bruciato vestiti, bagna le persone con acqua gelida e le lascia in un furgone con l’aria condizionata fredda accesa, al contrario dell’estate, quando li lasciano con l’aria condizionata calda.

Oppure, dopo avergli tolto le scarpe, usano i lacci per immobilizzarli ai polsi e poi li spingono giù per terreni scoscesi. Bastonano le persone coi manganelli per lunghissimi minuti, fino a fratturargli gli arti, poi li obbligano a tornare indietro verso la Bosnia.

Ci dicono di respingimenti operati informalmente e nottetempo dalle polizie croata, slovena e italiana, con un percorso a ritroso verso la Bosnia, e nessun documento scritto.

Quarto Giorno 31/10/19 – La città e l’incubo

Andiamo al campo di Vucjak, un enorme campo informale dove ci saranno almeno 800 persone..

Il campo si trova sulla linea di fuoco della guerra degli anni 90 e sono presenti numerosi campi minati nelle vicinanze..

All’ingresso c’è la polizia, ci chiedono i documenti e raccomandano di restare uniti. Piove, fa molto freddo, c’è fango e spazzatura ovunque, molte persone camminano tra grandi tende e tende più piccole. Molti non hanno che sandali. Le tende più ampie sono tutte fornite dalla mezzaluna rossa turca, sembra che siano state spostate qui dal campo di Bira.

Costantemente, con retate effettuate nelle città, le persone sono portate qui dalla polizia. Diversi ragazzi ci chiamano per mostrarci le tende in cui entra acqua, non hanno abbastanza vestiti e coperte, molti si sentono male. Capiamo che per loro è complicato anche solo raggiungere l’ambulatorio più vicino poiché la polizia non li fa uscire dal campo. Devono fare dei complicati percorsi per aggirare il blocco.

Il campo sembra la città di un futuro distopico o di un incubo. In mezzo al fango ci sono esercizi commerciali, una specie di bar e un mercato, e in alcune tende più grandi alcuni ragazzi impastano il pane in grandi bacinelle di plastica. In molte zone del campo ci sono fuochi, nei quali viene gettata anche la spazzatura. Ovunque c’è fumo nero e si sente odore di plastica bruciata.

Tra le tende e il fango si aggirano dei giornalisti, anche italiani, che riprendono le persone senza chiedere alcun consenso.

Ritorniamo nel parcheggio del campo Bira, dove come sempre, ci sono molti ragazzini che aspettano di poter entrare.

Alcuni pakistani ci parlano del fatto di non avere un posto dove stare e di non voler andare nella fabbrica abbandonata perché lì un ragazzo è morto di freddo. Dicono di aver visto il cadavere che veniva portato via da qualcuno venuto da fuori.

Un ragazzo di 16 anni ci mostra un’infezione diffusa a una mano e ci dice che ha bisogno di assistenza medica. Cerchiamo attraverso il cancello di parlare con persone che si occupino di minori, vediamo un ragazzo bosniaco che indossa la maglia di Save the children e gli urliamo attraverso le sbarre che fuori c’è un minore con un problema infettivo. Dice che non è sua responsabilità, ma dell’IOM e si allontana velocemente. Allora cerchiamo di chiamare una donna che invece indossa una maglia di IOM, costei ci dice che il ragazzo deve aspettare indicando un punto vicino alla recinzione. Intanto si rivolge in bosniaco a uno strano individuo di una certa età, vestito in borghese, che continua a guardarci con apparente sguardo di scherno.

Sembra che non parli inglese, dopo un po’ gli si affianca un’altra persona più giovane, alto, anch’essa in borghese che però sembra una specie di guardia del corpo. Ci chiede chi siamo e se facciamo parte di qualche associazione, diciamo di no, quindi ci dice lentamente ma decisamente che davanti al campo non si può stare, per problemi di sicurezza, e ci invita a lasciare l’area.

Più tardi scopriremo che l’individuo più anziano è il responsabile della polizia dell’ufficio stranieri.

Decidiamo di ripartire perché provati. Inoltre abbiamo finito tutti i farmaci ed evidentemente la nostra possibilità di agire è, per il momento, molto ridotta.

Tornando in macchina verso l’Italia incontriamo molte persone in cammino, nonostante il freddo e la pioggia.

Per noi il passaggio delle frontiere tra Bosnia e Croazia e tra Croazia e Slovenia è rapido. Il controllo è costituito da un rapido sguardo dentro la macchina e ai passaporti.

A un certo punto, a circa 20 km da Trieste, vediamo due ragazzi che camminano sulla carreggiata. Un centinaio di metri dopo, un cellulare della polizia fermo. Pensiamo di tornare indietro per fare qualcosa, avvertirli, prenderli con noi, ma già un’altra macchina della polizia era giunta ai ragazzi, dietro di noi, li aveva fatti sedere a terra e gli illuminava il volto con le torce. Un poliziotto che stava manovrando il cellulare per tornare indietro, si era fermato e aveva già aperto il portellone sul retro.

[i] https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2019/11/05/bosnia-migranti-rotta-balcanica-vujiak

[ii] http://www.europarl.europa.eu/legislative-train/theme-towards-a-new-policy-on-migration/file-eu-turkey-statement-action-plan(1/11/19)

[iii] Vedere ad esempio l’articolo sul sito Parole sul confine: “Malati di confine”. Analisi di un anno di report medicali alla frontiera di Ventimiglia (https://parolesulconfine.com/malati-di-frontiera-analisi-di-un-anno-di-report-medicali-alla-frontiera-di-ventimiglia/)

 

                Bosnia 28-31 novembre 2019

Nè meno persone respinte, né meno violenza

Pubblichiamo la traduzione del resoconto di lunedì 14 ottobre del collettivo Kesha Niya. Come nei precedenti report, pubblicati a gennaio, maggio, giugno e settembre, resta costante l’uso della violenza da parte della polizia francese sulle persone respinte , sia nella fase di fermo, che in quella di detenzione; aumenta inoltre il numero delle persone respinte in Italia.

 

Attenzione il report contiene resoconti sulla violenza della polizia

Numeri record questo mese. Abbiamo visto 1.536 persone respinte in Italia in totale, inclus* 59 minori non accompagnat* (9 erano bambin* molto piccol*) e 46 donne, alcune delle quali erano incinte. Questi numeri non includono quell* che sono stat* portat* via in macchina dalla Croce Rossa o dalla polizia, o le persone che sono passate mentre non eravamo presenti.

Possiamo ufficialmente dichiarare che ogni asserzione di politici o burocrati, sul fatto che la situazione si sia calmata e che sia molto piccolo il numero di persone respinte in Italia, è completamente falsa.

Ogni due settimane sono state viste circa 20 persone a bordo del pullman per la deportazione a Taranto.

Ci sono state alcune occasioni in cui più persone del solito sono venute alla nostra distribuzione della cena, a volte il numero ha superato le 100 persone.

All’inizio del mese, alcuni giornalisti italiani sono venuti al confine quattro volte. Lavoravano tutti per diversi canali televisivi italiani e volevano riferire i respingimenti effettuati dalla polizia francese. Hanno preteso i dati sul numero delle persone e i resoconti sulla violenza delle polizia comportandosi in modo molto irrispettoso delle persone presenti (non preoccupandosi del consenso, dell’anonimato e non dando alle persone il tempo di rilassarsi prima di rispondere).

A differenza degli ultimi mesi, abbiamo visto molte persone appena arrivate in Italia, alcune senza impronte digitali in Europa.

Molti dei minori incontrati questo mese non avevano mai lasciato le impronte in Europa. Si sono dichiarati minorenni alla PAF (Police Aux Frontières, ndt) ma sono stati respinti in Italia con una falsa data di nascita scritta sul rifiuto di ingresso.

Ciò che è stato diverso questo mese è stata loro registrazione come adulti, da parte della polizia italiana, anche in Italia, tramite la raccolta di 4 impronte digitali e basandosi sulla data di nascita scritta sul rifiuto di ingresso. Questo fatto è un paradosso che ci colpisce, dal momento che la polizia italiana sa che la polizia francese scrive spesso delle età false per respingere i minori, il che crea maggior lavoro per la polizia italiana.

Una giovane donna della Nigeria che era stata accolta in Francia in quanto minore, diventata maggiorenne nel frattempo, doveva rientrare in Francia perché aveva ricevuto una comunicazione dall’OFPRA (Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi n.d.t.) che le concedeva lo status di rifugiata. Viaggiava con una lettera del suo avvocato che spiegava la situazione, copia del suo vecchio rècèpissè (ricevuta di domanda d’asilo, ndt) e del suo certificato di nascita. E’ stata rimandata indietro a Bardonecchia e poi a Mentone. Ha riprovato con una copia della lettera dell’OFPRA che le concedeva lo status di rifugiata. La PAF l’ha respinta ugualmente. Non era in possesso del rifiuto di ingresso, perché questo è accaduto di sera e i militari italiani lo hanno trattenuto. Perciò era impossibile contestare il rifiuto d’ingresso. Siamo andat* insieme a richiedere copia del rifiuto di ingresso alla polizia italiana, ma l’agente ci ha detto che non sapeva dove fosse perché la squadra che lo aveva preso se n’era già andata.

Abbiamo incontrato molte persone che sono state deportate da altri paesi, come la Germania, l’Austria, il Belgio, o il Lussemburgo. Alcun* di coloro che sono stati deportat* da altri paesi, non avevano trascorso molto tempo in Italia prima della deportazione, ma le loro impronte digitali sono state immediatamente registrate al loro arrivo a Lampedusa, anche se avevano passato molto più tempo in un altro paese, costruendosi una vita, prima di essere deportat* in un posto che conoscono davvero molto poco.

Le detenzioni (nei container della polizia francese al confine, ndt) sono di nuovo state talvolta molto lunghe, alcune persone hanno dichiarato di essere state trattenute anche 24 ore. Adesso la polizia italiana non rilascia sempre il foglio di invito in questura (“per regolarizzare la prorpria posizione” come richiedente in territorio italiano, ndt), che era molto utile per [calcolare complessivamente la durata dello stato di fermo] comparando l’orario in cui le persone vengono fermate dalla polizia francese, a quello in cui le stesse vengono rilasciate dalla polizia italiana. Al momento le detenzioni sono a volte molto lunghe (dalle 19.45 alle 14.00 del giorno successivo, dalle 7.00 alle 16.00, dalle 20.45 alle 15.15 del giorno successivo) ma sono difficili da provare senza le carte rilasciate dalla polizia italiana.

Praticamente tutti i giorni stiamo ricevendo resoconti di violenze e furti da parte della polizia francese: sono abituali gli episodi in cui le persone vengono insultate, prese a schiaffi o gasate con lo spray al peperoncino in spazi chiusi. Quando vengono riconsegnati i loro effetti personali, ad alcune persone mancano centinaia di euro, oppure non vengono riconsegnati i telefoni, o viene impedito di raccogliere le proprie cose (nel momento della cattura, per esempio durante una retata sui treni, ndt) prima di essere prese in custodia dalla polizia francese. Ad alcune persone è stato negato l’accesso alle cure mediche per condizioni quali il diabete e problemi cardiaci congeniti.

Inoltre questo mese, due giovani marocchini sono stati pesantemente picchiati da nove agenti della polizia francese, nel retro di uno dei container. Alcun* di noi insieme a persone di Amnesty hanno assistito alle grida e hanno visto quando i due giovani sono usciti coperti di contusioni. Li abbiamo accompagnati all’ospedale, abbiamo ascoltato il racconto di come la polizia li avesse costretti a strisciare sul pavimento e ad altri comportamenti degradanti, e abbiamo raccolto un resoconto molto dettagliato in modo che possano sporgere denuncia. E’ la testimonianza più dettagliata e violenta che abbiamo mai sentito.

Se hai una settimana o più di tempo libero, per favore contattaci: abbiamo bisogno di volontar*!

Per favore condividete le informazioni e parlate di ciò che sta accedendo per creare consapevolezza.

Create il cambiamento e continuate a combattere le autorità!

Amore e Solidarietà!

Kesha Niya

(Il disegno della frontiera è di Dan Archer,

del progetto Lost in Europe )

Agosto in frontiera: report sulle violenze della polizia francese

Pubblichiamo l’ultimo resoconto estivo del collettivo Kesha Niya sugli episodi di violenza e abuso di potere commessi dalla polizia francese alla frontiera tra Ventimiglia e Mentone. Dopo i report e le testimonianze pubblicate a maggiogiugno e luglio, anche ad agosto non si sono visti miglioramenti rispetto all’esercizio arbitrario di ferocia gratuita che le guardie di frontiera infliggono alle persone non desiderate sul suolo francese. Anzi, a seguito di un modesto incremento, nell’ultimo mese, del numero di persone che prova a raggiungere il nord Europa (400 sono quelle respinte in Italia solo nella prima settimana di settembre, secondo i dati rilevati da associazioni e ong), il trattamento riservato alle persone non europee è diventato ancora più brutale: quotidiane sono le testimonianze di calci e pugni ricevuti dalla gente, di uso di gas e spray urticanti, di retate aggressive contro uomini, donne e minori, di insulti, bugie, minacce, furti e privazioni.

Le persone incassano, ma non si rassegnano: sempre più spesso decidono di raccontare, per poi tentare ancora di superare questo maledetto confine.

Il collettivo Kesha Niya mantiene quotidianamente un presidio per le “colazioni” al confine, nonostante i controlli e le continue pressioni da parte delle autorità nostrane affinché vadano via anche loro, testimoni scomodi di quello che avviene negli uffici di frontiera, lontano dagli occhi della città. 

(Qui la versione integrale in inglese)

Nel mese di agosto circa 1072 persone sono passate dal presidio solidale in frontiera, dopo la detenzione nei containers della polizia francese e la successiva riammissione in Italia. Due sono i pullman di Riviera Trasporti partiti alla volta di Taranto: le deportazioni avvengono ora con cadenza bisettimanale.
Sono di nuovo in aumento le persone appena arrivate in Italia, dagli sbarchi attraverso il mediterraneo, o, per la maggioranza, arrivate a piedi lungo la rotta balcanica. A causa di questi lunghi viaggi molte persone riportano ferite e gravi infezioni alle gambe.
Un elemento molto preoccupante, testimoniato dai racconti di diverse persone catturate, è la prosecuzione di azioni illecite e vessatorie da parte della polizia francese: telefoni cellulari e documenti sottratti arbitrariamente e non restituiti (di fatto, rubati), reiterate falsificazioni dei dati anagrafici delle persone respinte, retate violente sui treni diretti in Francia, con assalti fisici alle persone che oppongono resistenza e che, più volte, sono state costrette ad abbandonare i propri bagagli (con dentro tutti i soldi, i documenti e gli averi personali) sul treno che ripartiva.

Vediamo, nel dettaglio, i casi di abusi e torture fisiche e psicologiche che le persone catturate nel tentativo di attraversare la frontiera sono state costrette a subire.

 

ATTENZIONE! A SEGUIRE, I RACCONTI CHE CI SONO STATI RIFERITI SULLA VIOLENZA DELLA POLIZIA!

2019/03/08:

– 2 algerini erano sul treno e hanno incontrato un francese amichevole che parlava con loro e che voleva dare un aiuto. A Menton Garavan sono stati tutti fatti scendere dal treno e il ragazzo francese è stato afferrato e stretto alla gola dalla polizia francese, prima che lo lasciassero libero di andare.

– Un giovane tunisino è stato picchiato e respinto illegalmente [in Italia], abbiamo inviato la sua storia a un avvocato, così che possano sporgere denuncia.

M. è in Francia da 20 giorni, ha lasciato l’Italia perché è stato costretto a farlo, dopo una pena detentiva. Stava camminando al mercato di Nizza con un amico quando è stato fermato dalla polizia locale per un controllo di documenti e hashish. L’amico di M . aveva i documenti, e si è potuto allontanare liberamente. M. non aveva droghe con sé ma nemmeno i documenti, quindi è stato portato alla stazione di polizia. Lì ha dovuto dare le sue generalità e spogliarsi completamente in modo che potessero controllare se avesse droghe. Quindi è stato messo in cella per 2 ore.

Il poliziotto è tornato e ha detto a M. che sarebbe stato riportato in Italia. M. si è rifiutato, ha domandato le motivazioni, ha alzato la voce e chiesto di parlare con un avvocato. Il poliziotto lo ha ignorato e gli ha solo detto che lì era ricercato. M. è stato quindi ammanettato e spinto in una macchina. È stato portato agli uffici della PAF con i lampeggianti blu accesi.

Poiché M. non beveva nulla dalla mattina, diverse volte ha domandato dell’acqua, ma gli è solo stato risposto di aspettare. Una volta alla PAF è stato portato in ufficio e ha nuovamente domandato dell’acqua. Il poliziotto gli ha chiesto di guardarlo negli occhi. M. non ha obbedito e ha rivolto a terra lo sguardo. Il poliziotto l’ha colpito con un pungo molto forte sotto al mento per farlo guardare su. M. è stato preso a calci e pugni più volte alla schiena e alla nuca. È caduto a terra mentre ancora era ammanettato e sputava sangue sul pavimento. Una poliziotta gli ha calpestato la gamba destra e gli ha ordinato di guardarla in faccia. M. è stato lasciato lì, sdraiato a terra per 15 – 20 minuti finché non si è sentito meglio e ha aperto di nuovo gli occhi. È stato respinto in Italia.

Quando lo abbiamo incontrato aveva una piccola ferita sul labbro, segni rossi delle manette sui polsi e dolore al cranio, dietro l’orecchio sinistro e sulla schiena.

Il suo ‘refus d’entree’ diceva che era stato catturato su un pullman proveniente dall’Italia. Non era ricercato in Italia, la polizia italiana lo ha identificato con le impronte digitali e gli ha solo dato il normale invito ad andare in questura [per “regolarizzare la sua posizione in Italia”].

2019/11/08:

Un uomo si è sentito male nei container. Ha vomitato e ha chiesto alla polizia di aiutarlo. L’unica risposta che ha ottenuto sono stati 2 pugni in faccia.

19/08/2019:

Un ragazzo ha cercato di recarsi a Parigi per fare il suo passaporto perché la sua ambasciata, in Italia, ha rifiutato di rilasciarglielo e perché lo stato italiano non ha mai risposto alla sua richiesta di permesso di viaggio, che aveva presentato 6 mesi fa. Ha spiegato questo alla polizia francese e ha mostrato il suo certificato di nascita e il certificato di nazionalità che gli servono per andare all’ambasciata. La polizia ha preso i documenti e ha detto che avrebbero inviato loro stessi i documenti all’ambasciata in Francia. Il ragazzo ha rifiutato e ha detto che non se ne voleva andare senza i suoi documenti. La polizia gli ha restituito i documenti e [gli ha spruzzato] spray al peperoncino su tutta la faccia.

23/08/2019:

Un gruppo di 8 persone era nascosto nei servizi igienici del treno. La polizia ha usato spray al peperoncino per farli uscire.

– in questo gruppo un giovane ha detto alla polizia che non sono autorizzati a trattare le persone in questo modo. È stato ammanettato e spinto a terra. Il suo telefono è stato rubato.

– nello stesso gruppo c’era una donna incinta di 3 mesi. Dopo lo spray al peperoncino non riusciva più a respirare, aveva molto dolore al grembo e ha iniziato ad avere contrazioni. È stata portata in ospedale a Nizza.

Abbiamo incontrato suo marito che era davvero preoccupato e non aveva modo di contattarla perché tutte le sue cose, incluso il telefono, erano con lui. Abbiamo raggiunto l’ospedale, che ha accettato di trasmetterle il numero di suo marito e ci ha anche detto che non sarebbe stata riportata alla polizia. Più tardi abbiamo avuto l’informazione che non le avevano mai dato il numero e che avevano chiamato la polizia affinché la riprendessero al termine degli esami. L’abbiamo incontrata nel pomeriggio.

24/08/2019:

La polizia si è presa gioco di un ragazzo, gli ha scattato diverse volte delle fotografie e lo ha gasato nei containers.

25/08/2019:

– A molte persone viene spruzzato spray al peperoncino mentre si trovano sul treno o dentro ai container.

– un uomo è stato colpito in faccia e gasato su tutto il corpo.

– Altri 2 sono stati colpiti al ventre, sono stati ammanettati molto stretti e colpiti alla testa. Uno di loro perdeva sangue dal naso.

– un uomo è stato spruzzato con spray al peperoncino sul treno e davanti ai container. È stato picchiato con i manganelli e preso a calci con gli stivali, così forte che sanguinava molto e ha perso conoscenza. La polizia lo ha poi trascinato a terra fin dentro ai container. Le persone all’interno hanno iniziato a urlare quando lo hanno visto e quando la polizia lo ha riportato fuori trascinandolo di nuovo sul pavimento. È stato portato all’ospedale di Mentone.

Non abbiamo incontrato questa persona, abbiamo ricevuto questo resoconto dei fatti da un suo amico, che è stato anche lui picchiato e arrestato sullo stesso treno. Questa versione è stata confermata da diverse persone che hanno visto la scena.

Abbiamo chiamato l’ospedale per avere sue notizie, ma a quel punto era già stato restituito alla polizia. Non l’abbiamo mai incontrato, nè il giorno in cui questo è successo e nemmeno il giorno seguente. Deve essere stato respinto [in Italia] per qualche altra via.

29/08/2019:

Un uomo è stato arrestato mentre saliva su un treno in Francia, dopo aver attraversato il confine in altro modo. Sul suo ‘refus d’entrée’ è stato scritto che è stato arrestato mentre camminava sull’autostrada. La polizia ha preso il telefono per controllare il suo profilo Facebook e gli ha detto che stava mentendo sulla sua età (anche se questo non era importante, perché comunque non si trattava di un minore) e per tre volte è stato preso a schiaffi. È stato accusato di aver rilasciato false dichiarazioni.

 

La situazione al confine è nuovamente peggiorata e questo ci ha dato molte volte motivo di preoccuparci. Ci addolora e ci fa rabbia il fatto che la polizia possa liberamente abusare del proprio potere in questo modo. Nessuno dovrebbe mai affrontare questo trattamento e trovarsi in una tale situazione. Vogliamo diffondere le informazioni per mostrare alle persone il vero volto dei confini.

Vi invitiamo a condividere e parlare di ciò che sta accadendo per creare consapevolezza.

Innesca il cambiamento e continua a combattere le autorità!

Un’estate al male

Riceviamo e pubblichiamo il seguente contributo, che racconta gli eventi di una normale giornata d’agosto: una violenta routine diventata la prassi dell’estate in frontiera.

 

UN’ESTATE AL MALE

una mattinata in frontiera
(Ventimiglia, 9 agosto 2019)

“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso.”
[Hannah Arendt, La banalità del male]

 

Questo scritto è frutto di tre sguardi che hanno esperienze e conoscenze differenti rispetto alla frontiera fra Ventimiglia e Mentone. Per qualcuna è luogo quotidiano di presenza e resistenza, qualcun’altra ha potuto attraversare più volte a distanza di tempo gli spazi segnati dal dispositivo di controllo del confine, per qualcuna altra ancora questo è stato invece il primo incontro diretto con la frontiera alta di ponte S.Luigi e con il meccanismo di respingimento delle persone indesiderate dalla Francia.

Il pullman che ci porta in frontiera è dell’RT (Compagnia Riviera Trasporti) la stessa che portava le persone negli aereoporti per essere deportate, e che continua a portarle negli hotspot del Meridione. Ma questa è una piccola navetta carica di “onestx cittadinx” che sale nella ridente località di Grimaldi, ultimo paesino prima della frontiera alta, a cui siamo dirette.

Neanche il tempo di attraversare il lato francese che veniamo fermate per un “ordinario controllo di documenti”. Probabilmente ci stavamo guardando intorno in modo stra-ordinario.
Ci ritroviamo nell’ufficio di polizia della P.A.F.(Police Aux Frontiéres), vediamo il desk dove ci sono un sacco di guardie, da quella minacciosa, all’ultimo arrivato, passando per l’umorista, il poliglotta,il graduato ecc. Un clima da gita, grandi battute, saluti e scherzi. Dietro di loro una lavagna sulla quale sono scritte tre categorie: internatx, uscitx e trattenutx. Le persone in questa tabella sono numeri fluttuanti, cancellati e aggiornati continuamente man mano che le persone vengono respinte al confine italiano, lasciando il posto a quelle che nel frattempo vengono trattenute quotidianamente nelle retate sui treni. Ad un certo punto arriva uno sbirro che ci dà un caloroso Bonjour. Si risente del fatto che non rispondiamo al saluto. Ci dice di sorridere, mostrare i denti. Ci dicono di sorridere perchè siamo carine, noi non veniamo gasate con gli spray, non ci sequestrano e rompono i cellulari, non ci rubano i documenti nè ci tagliano le suole delle scarpe. Solo una molestia da bar, niente di diverso da quello a cui anche compagni di scuola, autobus e squat ci hanno abituate a reagire. Nulla in confronto alle molestie e violenze che chi detiene l’autorità e tutela l'”ordine” mette in atto continuamente con chi viaggia o comunque con qualsiasi persona abbia la possibilità di soverchiare. Dopo le 10 arriva un’operatrice di un’O.N.G. che si porta via quelli che sembrano dei minori, gli unici che riusciranno a restare sul suolo francese. Finalmente ci ridanno i documenti e, mentre rilasciano noi, cominciano a cacciare le persone recluse, i numeri sulla lavagna vengono cambiati e gli internati scendono da 24 a 19: gli sbirri cambiano modo di fare, indossano guanti di pelle e aria da duri.

Tornando verso la dogana italiana incontriamo una persona, ci dice che nel carcere di Solicciano ha conosciuto un amico, ci dice ridendo che i nostri compas hanno fatto un macello lì. Si ricorda il rumore, le grida, i saluti sotto quella galera. Giusto il tempo di una sigaretta, poi lo lasciamo tristemente alle ore che dovrà passare coi doganieri italiani.
Poco oltre al confine c’è una postazione con un po’ di ombra, cibo, acqua e pannelli solari per caricare i telefoni tenuta da qualche solidale. Lì ci fermiamo per due chiacchiere. Qualcuno racconta che è in italia da pochi mesi ed è alla terza notte nei container, qualcuno ha il permesso regolare, ma in corso di rinnovo, ci può volere anche un anno e nel frattempo è in un limbo burocratico. Ci parlano di una donna con tre bambinx che ha passato la nottata nel container, di tre persone che hanno provato a non farsi sbattere fuori dal bagno del treno, sono state gasate con spray al peperoncino. Poco dopo le vediamo arrivare, sembrano in forze, pare che da queste parti non sia niente di speciale. Ci raccontano quello che da anni succede nei container: non gli viene spiegato quello che sta succedendo, non gli vengono dati cibo e acqua, il pavimento viene bagnato impedendo che occupino troppo spazio sedendosi o sdraiandosi, e questo per un periodo di tempo variabile, spesso la nottata intera, a volte anche di più.
Sappiamo che i soprusi non si limitano a questo, che non risparmiano l’uso di taser, calci, violenza fisica e psicologica.(2)

Per andarcene noi, con i nostri documenti comunitari, scendiamo di nuovo in Francia, andiamo alla stazione di Menton Garavan. Nel parcheggio, due camionette di C.R.S. (antisommossa francese) e un pullmino grigio per deportare chi viene presx. Arriva il treno da Ventimiglia. Salgono almeno in sei, palestrati, perlustrano i vagoni, e alla fine sbattono giù un uomo e una donna con due bambinx. Gli controllano i documenti nella sala d’aspetto della stazione, mentre uno sbirro troppo spiritoso mima ridacchiando ai colleghi la scena di aver stanato qualcunx con aria spaventata dal proprio nascondiglio.

Saliamo sul nostro treno, arriviamo a Ventimiglia. Sbirri ufficiali e sedicenti scandagliano la stazione: affianco alla pol.fer le pattuglie della Vigile-guardia privata di imperia, incaricata dalla SNCF (Société Nationalle de Chemins de fer Français) per controllare che non salga sui loro convogli chi non ha documenti validi per entrare in Francia. Andiamo via giusto in tempo per non assistere alla retata coordinata fra una squadra della mobile di Torino e agenti e digos del commissariato di Ventimiglia (1).

L’unico punto di vista che spiega i fatti della retata, che ha portato 15 persone a un fermo in commissariato, è il comunicato della P.S. ventimigliese, da loro girato alle varie testate online e ripubblicato tale e quale. Niente di insolito nel panorama mediatico, abituato a ricevere le veline dei commissariati talvolta addirittura in anticipo rispetto alle loro operazioni, come successo poche settimane fa in occasione del tentativo di far sloggiare il presidio che distribuisce colazioni in frontiera: quella volta la municipale arrivò mezz’ora dopo che il successo dello sgombero era già stato pubblicato dalla testata di Sanremonews. Questa volta non c’erano testimoni scomodx durante la retata e il vanaglorioso racconto dell’operazione è l’unica voce che ci arriva. “Le operazioni si sono protratte per tutta la giornata”: la polizia ferma gente per strada a mucchi in base a caratteristiche cromatiche, arresta, emette espulsioni, rincorre persone nel fiume.Tutto questo viene spacciato per “attività di vigilanza” per “tutelare le vittime”, ovvero le persone definite “in stato di vulnerabilità e bisogno”, tradite dagli stessi “compagni di viaggio”, come se il “viaggio” fosse una piacevole scampagnata e non un dispositivo a ostacoli in cui finire gasatx, picchiatx, perquisitx, detenutx per ore e rimbalzatx decine di volte dalla frontiera presidiata. Le risse per il prezzo dei passaggi in francia, gli accordi saltati con i trafficanti, la lotta per la sopravvivenza quotidiana tra fughe e rastrellamenti sono la diretta conseguenza dei continui controlli razziali di cui questa retata è, per, ora, l’ultimo inglorioso atto. Due fogli di via, otto espulsioni, aggravamenti di misure per violazione di divieto di dimora, denunce per invasione di terreno sono il collaudato repertorio per far sparire le persone sprovviste del giusto pezzo di carta.
Ma la verità è uno schifo troppo difficile da abbellire: la velina degli sbirri è infarcita di termini quali “caccia”, “mirino”, “retata”. La chiamano “prevenzione”, mentre si dedicano alla persecuzione.

 

PER UN MONDO SENZA GABBIE E FRONTIERE

 

(1) http://www.riviera24.it/2019/08/ventimiglia-aggressione-a-un-afgano-maxi-retata-della-polizia-sono-decine-le-persone-identificate-600341/

(2)https://parolesulconfine.com/la-violenza-della-polizia-francese-si-intensifica/

Violenza e respingimenti non vanno in vacanza

Segnaliamo la video testimonianza, raccolta da Progetto 20k, di una delle persone respinte in Italia dopo essere state rastrellate sui treni alla stazione di Menton Garavan.

Questa testimonianza si pone in continuità con quanto già denunciato in tre resoconti pubblicati quest’anno dal collettivo Kesha Niya.

I report pubblicati da Kesha Niya a gennaio, maggio e giugno 2019 raccolgono i racconti e i segni della violenza esercitata dalla polizia francese contro le persone migranti durante i rastrellamenti sui treni e la detenzione arbitraria nel container di Ponte S.Luigi. I resoconti mettevano già in luce l’uso di spray al peperoncino, manganelli e taser, oltre a umiliazioni, privazione del sonno e del cibo durante la detenzione arbitraria.

A fine giugno 2019 le organizzazioni non governative Anafé, WeWorld e Iris hanno inviato al Procuratore di Nizza tredici segnalazioni riguardanti la privazione illegale della libertà di persone oltre alla privazione del cibo, del sonno e di esercitare i propri diritti nella fase precedente al loro respingimento in Italia (per es. chiedere asilo in quanto minori). Insieme ad altre organizzazioni francesi e italiane hanno poi invitato il Relatore speciale delle Nazioni Unite a recarsi sul posto per verificare le gravi violazioni ai diritti delle persone rifugiate commesse dalle autorità francesi. Il deferimento è stato trasmesso anche al Difensore dei diritti, al Controllore generale dei luoghi di privazione della libertà e alla Commissione nazionale consultativa dei diritti dell’uomo.

Progetto 20k è presente a Ventimiglia dal luglio del 2016 con attività di monitoraggio del territorio e aiuto concreto alle persone in viaggio. Ha ripreso una presenza costante sul territorio a giugno di quest’anno dopo la chiusura, avvenuta nel dicembre 2018, dell’Infopoint “Eufemia” che forniva accesso internet gratuito, spazio di incontro, consulenza legale e distribuzione di abiti, coperte e kit igienici. Oltre al supporto al presidio di Kesha Niya presso la Frontiera di Ponte S.Luigi, Progetto 20k è impegnato nell’informazione alle persone in viaggio tramite la distribuzione di materiale informativo presso la stazione di Ventimiglia.
Kesha Niya è impegnata dalla primavera del 2017 nella preparazione e distribuzione serale di pasti e nell’informazione alle persone migranti sui loro diritti e sui servizi a cui possono accedere nella città di Ventimiglia. Dall’estate del 2018 porta anche cibo e bevande sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia. La presenza di Kesha Niya a Ponte S.Luigi nei mesi scorsi è stata minacciata più volte di sgombero dalla polizia italiana e dalla polizia locale.

La forza delle gambe – Un aggiornamento sui minori sbarcati a Genova il 2 giugno

A seguito dell’articolo pubblicato la settimana scorsa sui minori sbarcati a Genova il 2 giugno, è arrivato alla redazione di Parolesulconfine un aggiornamento sul “trasferimento” degli stessi minori in altre città italiane, avvenuto proprio a ridosso dell’arrivo del Ministro degli Interni a Genova per l’esplosione dell’ultimo pilone del Ponte Morandi. 

Abbiamo deciso di pubblicare questo contributo al fine di mostrare quanto il diritto alla vita, in questo caso alla vita di minori, sia alla mercè di querelles politiche e mediatiche  orchestrate da coloro i quali violano essi stessi le leggi che vanno difendendo e istituendo. Botta e risposta, interviste, interrogazioni in Consiglio comunale: tanta confusione e nessuna presa di responsabilità, nessuna volontà di affrontare un problema che si è fatto vasto, al di là del breve spazio della durata delle attenzioni mediatiche e dell’eco delle dichiarazioni ad effetto. Far salire due minori su un Flixbus per Bologna senza accompagnamento è contro la legge – ma non lo è se nessuno li ha presi in carico come in questo caso. Non prendere in carico dei minori è contro la legge – ma non lo è se una presunta circolare del Viminale – di cui sembra si siano perse le tracce –  ne impedisce la presa in carico. Un servizio sociale che non prende in carico dei minori è contro la legge – ma non lo è se il Ministro degli Interni interviene personalmente e crea un’eccezione che poi presto diventerà una norma nel prossimo Decreto Immigrazione e Sicurezza.

A questo punto si possono fare alcune ipotesi su quello che accadrà: domani i minori verranno trasferiti a Bologna o in chissà quale altra città d’Italia, scortati dalla polizia per evitarne una nuova fuga. Verrà aperta un’indagine sulle strutture di accoglienza per i minori  così da spostare l’attenzione sul sistema di accoglienza a cui seguirà il solito balletto di chi attacca e chi difende. Verrà realizzato un nuovo regolamento per le strutture che accolgono minori stranieri non accompagnati contente ancora più restrizioni e ancora più dispositivi punitivi.

Queste sono previsioni non così lontane da quanto già abbiamo visto accadere negli anni passati. Nessun cambio di direzione quindi: il programma sicuritario sta solo erigendo altri piani ad un palazzo che ha visto porre le sue fondamenta nei decenni di neoliberismo e neocoloniasmo appena trascorsi e tutt’ora in corso. Decenni che in alcun modo possono cambiare segno, alla luce di un protagonismo – strumentale e viscido – di chi fino a ieri lavorava di gran lena a questo stesso cantiere.

Ma c’è chi continua a viaggiare in direzione ostinata e contraria, cercando di minare quel palazzo e svelare cosa si cela dietro a quelle pareti di vetro riflettente: a queste persone, pensiamo sia giusto e  sempre più necessario dare voce… a chi ha “la forza nelle gambe“.

 

La forza delle gambe. Resistenze

I minori stranieri non accompagnati trasferiti il 25 giugno in varie città italiane (Salerno, Bologna, Milano) si sono allontanati rapidamente dalle strutture di destinazione. In particolare due minori inseriti presso uno Sprar di Bologna hanno fatto ritorno a Genova il giorno 27 giugno. Sono stati indirizzati alla Questura, dove, a norma di legge e secondo la procedura, sono stati segnalati ai Servizi Sociali e inseriti presso la struttura di prima accoglienza Villa Canepa, perché è questo che succede quando un minore viene identificato sul territorio secondo l’art. 403 del Codice Civile: “Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato  o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. La Pubblica Autorità in questione è il Sindaco e l’Assessorato competente all’assistenza dell’infanzia, che, legalmente parlando, termina al compimento del diciottesimo anno di età.

Ma i minori stranieri non accompagnati a Genova di questi tempi sono evidentemente “stranieri” ancorché “minori”, perché all’interrogazione urgente promossa dalla Consigliera del PD Cristina Lodi in data 27 giugno il Sig. Sindaco ha esplicitamente declinato la responsabilità sui minori sbarcati il 2 giugno, demandandola al Ministero dell’Interno. Questa e altre inesattezze espresse dal primo cittadino sono consultabili ai links https://www.facebook.com/149684422423391/posts/404256226966208/e https://www.youtube.com/watch?time_continue=17&v=TFCVNqq2TvM. In quella sede la Consigliera Lodi chiedeva conto di due argomenti:

  1. Perché il Sig. Sindaco in una dichiarazione del 2 giugno ai microfoni di Telenord (https://telenord.it/nave-migranti-a-genova-accolti-32-minori-non-accompagnati-bucci-polemiche-strumentali/) avesse dichiarato che la città avrebbe garantito accoglienza ai minorenni sbarcati dalla nave Cigala Fulgosi, almeno fino al diciottesimo anno di età e, a distanza di un mese scarso, ne disponesse il trasferimento in altre città;
  2. Se nei trasferimenti fosse stato garantito il principio del maggior benessere dei minori.

 

Alle domande il Sig. Sindaco risponde:

  1. Che si dovrebbe avere l’accortezza di riportare fedelmente le sue dichiarazioni. Peccato che l’assicurazione che i minori in questione sarebbero rimasti a Genova è perfettamente udibile dalla bocca dello stesso Sindaco nella citata dichiarazione a Telenord;
  2. Che i trasferimenti sono stati preceduti da valutazioni caso per caso. Falso: l’unico intervento lontanamente somigliante ad una valutazione è stata una telefonata da parte del funzionario comunale in cui si chiedeva: “I minori come stanno?”. Stop.

 

A proposito del principio del maggiore benessere del minore, i due minorenni tornati a Genova recavano con sé alcune immagini scattate e video girati nella struttura sprar bolognese, che qui alleghiamo, in modo che – molto onestamente – ognuno si possa fare un’idea della cura con cui la nostra amministrazione si occupa delle necessità dei minori a lei affidati dalla legge:

 

Da questa struttura i minori trasferiti si sono allontanati e due di essi, ingenuamente, hanno pensato che Genova potesse riaccoglierli o, semplicemente, potesse tener fede alla parola data. Ma così non è stato. In data 8 luglio, infatti, su richiesta dell’Assessorato alle Politiche Sociali, la struttura ospitante Villa Canepa è stata informata che i due minorenni avrebbero dovuto essere rimandati a Bologna via bus. Il funzionario di detto Assessorato si è premurato di accompagnarli al bus e si è poi prodotto in un ridicolo inseguimento, quando i due minori si sono dati alla fuga, contando sull’unica forza a loro disposizione: la forza delle gambe. Perché questa Amministrazione non li ha difesi, né li ha assistiti, violando la legge, pur essendo perfettamente a conoscenza delle condizioni di decadenza della struttura bolognese.

Un’ultima amara amenità. In Consiglio Comunale il Sig. Sindaco non ha mancato di lamentare le cosiddette “fughe” dei minori stranieri non accompagnati dalle strutture genovesi, alludendo ad una supposta incapacità delle stesse a svolgere correttamente il lavoro per cui sono pagate. Rendiamo conto al Sig. Sindaco che il lavoro per cui le strutture di accoglienza sono pagate è l’assistenza e l’integrazione e che quando un minore non fa ritorno in comunità, l’evento si definisce “allontanamento”, che poi le FF. OO. stabiliranno se di natura volontaria o meno. Se l’Amministrazione definisce “fuga” ciò che è allontanamento se ne possono trarre le seguenti deduzioni (alcune confortate da esplicite affermazioni dell’Assessora Fassio):

  1. Che le strutture di accoglienza per i minori sono limitanti della loro libertà: devono fare contenzione, non integrazione.
  2. Che l’Amministrazione non ha la benché minima considerazione della capacità di un minore (16/17 anni) migrante, proveniente da qualche migliaio di chilometri di distanza, reduce da un viaggio pluriennale, di autodeterminare il proprio progetto di vita, che non è scontato coincida con i nostri programmi di accoglienza.

Eppure l’Assessora Fassio sta lavorando affinché i minori stranieri non accompagnati non possano più circolare autonomamente in città e affinché le strutture di accoglienza li privino dei telefoni cellulari durante le ore notturne.

Qual è l’idea di accoglienza, tutela e integrazione che questa città sta sviluppando?

Quante limitazioni alle libertà personali siamo disposti ad accettare?

Ma per finire una nota di speranza, anzi no, di resistenza: perché questi non sono tempi di speranza, bensì di tenere duro, fare piccoli passi in avanti ed essere respinti dalla durezza dei cuori. Durante la vicenda legata allo sbarco dei minori del 2 giugno, alcuni di noi hanno fatto conoscenza con operatori di Save the Children operanti nel campo Roja di Ventimiglia. Da essi hanno appreso che molte volte e per molti mesi Save the Children aveva fatto richiesta di inserimento dei minori del campo presso le strutture sprar/siproimi di Genova, non ricevendo risposta. Finalmente il 5 luglio quattro minori sono stati inseriti in strutture adeguate in città. Piccoli passi, ma a noi bastano per continuare a difendere i diritti garantiti dalla legge e dal senso di umanità.

 

 

Carola e Francesca nel mare in tempesta

Riceviamo e pubblichiamo un contributo scritto da compagne e compagni che hanno seguito, in questi anni, la lotta alle frontiere da Ventimilgia a Calais. Il testo affronta il fenomeno dell’eroizzazione della solidarietà bianca, che nelle ultime settimane ha investito la comandante della Sea Watch Carola Rackete. La costruzione dell’eroe/eroina, in questo come altri casi di sovraesposizione mediatica delle azioni intraprese da persone solidali, si accompagna immediatamente alla produzione di narrative diffamatorie, che distorcono la realtà restituendo un’interpretazione dei fatti piegata agli interessi della propaganda sovranista. Nel caso di Carola Rackete, per alimentare il polverone mediatico, la stampa italiana è riuscita a costruire un forzoso e inappropriato paragone con il caso di un’altra donna che, nel 2016, è finita a processo in Francia per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.  Ma Carola e Francesca non sono pupazzi a consumo delle testate giornalistiche, che, senza domandarne il consenso e diffondendo false informazioni, vorrebbero usarle per l’aumento di audience morbosa e click compulsivi. Mentre il circo massmediatico costruisce le sue favole, la nostra attenzione è rapita e portata altrove, lontano dalla scomoda verità di quello che succede alle persone lungo le rotte migratorie.

 

Carola e Francesca nel mare in tempesta

Donde manda capitán muere,
muere marinero.
Sara Hebe, Asado de Fa

A seguito dei recenti avvenimenti che riguardano la nave Sea Watch 3 e la sua comandante Carola Rackete, su alcuni media italiani e sui social network sono apparsi articoli e riferimenti alla vicenda di Francesca, da alcuni definita «la Carola italiana».

Come compagne e compagni di Francesca, che con lei hanno condiviso alcune esperienze di solidarietà ai/alle migranti che dal 2015 subiscono il regime europeo delle frontiere, ci siamo sentite/i interpellate/i dall’uso strumentale della sua storia e da alcuni meccanismi che essa svela.

Innanzitutto vorremo fare chiarezza sul processo e la condanna che riguardano la nostra amica, dato che sono diversi gli errori che abbiamo dovuto leggere. Francesca è stata condannata dalla Corte di appello di Aix en Provence, in Francia, a sei mesi di carcere con la sospensione condizionale della pena, e cinque anni di interdizione dal dipartimento delle Alpi Marittime, dopo che nel  Novembre 2016 era stata fermata dalla gendarmeria lungo il confine italo-francese mentre era alla guida di un furgone con a bordo otto persone senza documenti. La condanna della Corte d’appello è arrivata dopo il ricorso contro la sentenza di primo grado che l’aveva condannata al pagamento di mille euro di multa. Francesca, tramite il suo avvocato, è ricorsa in cassazione.

Come Francesca stessa ha ribadito la sua storia e quella di Carola sono diverse per contesto e scelte fatte dalle due donne. Le ragioni per le quali queste due storie vengono messe l’una accanto all’altra e diffuse a più non posso sono svariate e vanno viste in maniera distinta.

Per la stampa generalista si tratta di «fare notizia». Che il parallelo sia pertinente o meno, la scelta di due donne bianche impegnate nel portare la propria solidarietà a dei/delle migranti neri/e è di per sé «notiziabile». E la notizia di eventi che non sono, per fortuna, unici diventa in questo modo rilevante per l’opinione pubblica, qualcosa rispetto alla quale prendere posizione. Qualcosa di giustamente importante per chi crede nella solidarietà, perché contrasta lo spettacolo della crudeltà che Salvini sta portando avanti. Qualcosa di altrettanto importante per chi odia diversità e solidarietà, perché permette di mischiare in un unico discorso confuso e virulento appartenenza nazionale, giustizialismo, misoginia e razzismo puro e semplice. Detta in altri termini, che si sia pro o contro la solidarietà alle persone in viaggio, si sta centrando tutta l’attenzione sulla figura della solidale cosi da imputare a lei tutto il bene o il male del  mondo, facendo scomparire dalla scena i reali protagonisti delle vicende in corso e le drammatiche evoluzioni delle scelte politiche europee.

Sia chiaro, noi siamo dalla parte della solidarietà e contro le frontiere, e non stiamo dicendo che sostenitori di Carola e razzisti, nel pubblicare e ripubblicare sui social le proprie posizioni, sono la stessa cosa. Se deve essere tutto ridotto alla presa di posizione rispetto alle due donne non abbiamo dubbi, siamo con Carola e Francesca. Cio’ che non ci piace in tutta questa faccenda, al netto delle vere e proprie fake news che sono circolate, è la costruzione di una narrazione che ha i/le suoi eroi/ne, le sue vittime e i suoi carnefici, e che in fondo questa narrazione non solo non spiega fino in fondo la violenza delle frontiere, ma contribuisce a occultare responsabili, protagonisti/e e questioni centrali della cosiddetta «crisi migratoria» e del regime di frontiera che ne scaturisce.

Dal 2015 ad oggi sono stati/e i/le migranti a sfidare le frontiere, interne ed esterne, dell’Europa, ed è stata l’intera governance europea, e non solo Salvini o il suo predecessore Minniti, a determinare la violenza di queste frontiere e la loro natura troppo spesso letale. La  mediatizzazione di gesti che riteniamo di semplice umanità, per quanto coraggio questa umanità possa oggi necessitare, non puo far dimenticare il fatto che non sono i/le solidali europei/ee il soggetto principale di questa storia. Come a Ventimiglia le persone in viaggio non hanno certo aspettato i/le solidali per tentare e riuscire migliaia di volte ad attraversare la frontiera, allo stesso modo non sono state le ONG a determinare la scelta coraggiosa di centinaia di migliaia di persone di salire su una barca in direzione dell’europa.

Come antirazzisti/e europei/ee è giusto rispondere alla barbarie e alla crudeltà salviniana col massimo della determinazione, ma per fare questo è necessario rinunciare a qualunque narrazione che trasforma in eroine ed eroi le/i solidali. Crediamo sia importante essere coscienti di come la personalizzazione della solidarietà e la spettacolarizzazione della frontiera fisica esterna siano strumenti utili tanto a Salvini quanto all’UE per invisibilizzare le vere questioni alla base del dramma delle morti in mare. In concomitanza con la sua spettacolarizzazione infatti questa frontiera esterna perde, secondo noi, la sua centralità a fronte di un’espansione su entrambe le sponde del Mediterraneo. Da una lato i campi di prigionia libici, voluti da Minniti e finanziati dall’UE, si ritrovano oggi in prima linea nella guerra per procura che vede i diversi stati europei giocarsi risorse e controllo strategico di una regione in cui sono intrappolate migliaia di persone. Dall’altro un complesso controllo dei flussi fatto di hotspot, accoglienza più o meno coatta e centri di detenzione, il cui nodo centrale è il c.d. sistema di Dublino, un dispositivo reticolare che fa dell’europa una vasta zona di frontiera dove chi non resta là dove gli è stato imposto di rimanere si ritrova criminalizzato/a, invisibilizzato/a senza diritti né status, e non ha altra alternativa che continuare a fuggire senza tregua all’interno dell’europa stessa. Infine la personalizzazione della solidarietà oltre a fare il gioco delle destre razziste, che trovano qualcuno su cui sfogare le proprie basse tensioni, impedisce una reale moltiplicazione di gesti di solidarietà in favore di una delega che cerca nell’eccezionalità del gesto il proprio riferimento.

Le frontiere sono ovunque, ed ovunque e quotidianamente vengono messe in discussione da chi le subisce. E’ quindi necessaria un’attivazione della solidarietà che sia consapevole dei propri limiti e non definisca sempre e comunque le persone in viaggio come delle vittime che vanno aiutate. A noi il compito di affinare lo sguardo e cercare pratiche discrete di solidarietà e complicità con i/le migranti e di sabotaggio dell’attuale regime di frontiera. Potremo cosi vedere più chiaramente nell’europa delle frontiere, e nei suoi retaggi fascisti, la macchina di morte che dobbiamo combattere, nelle persone in viaggio le vere eroine ed eroi di questa storia,  ed infine in Carola e Francesca due donne tra le tante che partecipano di quella bella umanità che lotta contro la distopia concreta che ci circonda.

Non ci servono né capitani, né capitane, ma marinai e marinaie pronti/e ad attraversare questo mare in tempesta per approdare alla tanto agognata libertà per tutte e tutti.

alcune/i amiche/i e compagne/i di Francesca

 

Uno dei meme usciti nei giorni scorsi sui social, in chiave anti francese, sulle due donne solidali. Riportiamo l’immagine a solo titolo informativo per contestualizzare, per chi si fosse pers@ i contenuti edificanti di questa bagarre in salsa sovranista, la portata e la bassezza delle stupidaggini che sono state scritte su Carola e Francesca

 

 

(Immagine a copertina: grafica di Margherita Allegri)

“Senza autorizzazione” – dalla frontiera di Ventimiglia

Traduciamo il comunicato con cui il collettivo Kesha Niya – che da quasi due anni opera sulla frontiera di Ventimiglia fornendo quotidianamente pasti e sostegno alle persone migranti che tentano di attraversarla – racconta i fatti dell’ultima settimana.

Le autorità, in particolare con l’interessamento del nuovo sindaco Scullino, hanno deciso di spostare ancora l’asticella della criminalizzazione della solidarietà alle persone in viaggio. Del tutto in linea, va detto, con le decisioni del governo centrale e con le azioni della precedente amministrazione comunale (tristemente nota per le ordinanze del sindacolo Ioculano di divieto di distribuzione del cibo in città alle persone migranti). Il presidio di accoglienza delle persone rilasciate dopo le detenzioni in frontiera è evidentemente diventato scomodo, probabilmente anche a seguito delle denunce della violenza della polizia di frontiera fatte sulla pagina dei Kesha e tradotte su questo blog. In maniera, a dire il vero abbastanza goffa e assai poco avveduta, le forze dell’ordine intervengono per sgomeberare un telone per proteggersi dal sole (posto sul ciglio della strada, su di un pezzo di terra di proprietà del demanio) e poche vettovaglie utili a fornire qualche genere di conforto a chi ha passato ore e ore recluso nei container della frontiera, molto spesso subendo abusi e violenze da parte della polizia di frontiera.

Il collettivo Kesha Niya, con le e i solidali rimasti sul territorio di Ventimiglia, come in questi due anni passati, intende resistere e continuare a fare quello che non solo è giusto ma non può essere vietato da nessuna legge e seppure lo fosse, continuerebbe ad essere giusto fare.

La resistenza è vita. Grazie Kesha Niya, grazie Carola Rackete, grazie a tutte e tutti, le e i resistenti che continuano a dimostrarlo con i fatti.

Martedì 25 giugno: municipale, polizia di stato e digos, con tre volanti e operatore della scientifica per le riprese, salgono al punto ristoro a poche centinaia di metri dalla frontiera, intimando alle persone solidali di allontanarsi

 

Segue traduzione del comunicato dei Kesha Niya.

 

Negli ultimi tre giorni, la polizia è venuta ogni giorno alla colazione a ridosso del confine per sgomberarci.
La prima mattina abbiamo ricevuto la visita di un uomo vestito di blu. Prima ci ha chiesto cosa stessimo facendo, per poi dirci che non possiamo distribuire cibo senza autorizzazione. Abbiamo provato a spiegare che la polizia era già venuta diverse volte e che non era mai stato un problema, a patto che avessimo portato via ogni cosa finita la distribuzione. Ma l’uomo in blu ha chiamato qualcuno e se n’è andato. Qualche minuto più tardi, è arrivata la polizia dicendo che non eravamo autorizzati ad essere lì, accusandoci di occupare lo spazio in maniera abusiva. Ci hanno detto di andarcene, altrimenti ci avrebbero portato in commissariato. Mentre, lentamente, impacchettavamo tutto, sono arrivati i carabinieri. Ci siamo seduti vicino alla macchina per fare qualche telefonata e avvisare di diffondere la notizia. Ma la polizia ci ha raggiunti, dicendoci che non potevamo stare neanche lì, perché era un’area adibita a parcheggio.

Lo stesso giorno è apparso un articolo sui giornali locali, nel quale si diceva che il sindaco era molto contento del lavoro della polizia e che avevamo installato una vera e propria cucina da campo. Ha aggiunto che con l’estate il problema degli attivisti che cercano di aiutare i migranti sarebbe riapparso.

Il giorno seguente, la polizia locale è venuta nel pomeriggio e ci ha detto si togliere tutto. Quando abbiamo chiesto perché, hanno detto “perché siamo la legge e vi diciamo di fare così”. Quindi, abbiamo chiamato un avvocato per un consiglio e abbiamo discusso sul da farsi. Dopo qualche tempo, la polizia ci ha detto che avevamo due minuti per portare via tutto, altrimenti ci avrebbero portati al posto di polizia. Abbiamo lentamente iniziato a impacchetare tutto, tranne il telo che ci protegge dal sole. Qualche minuto ancora e la polizia ci chiede di levare il telo. Quando abbiamo chiesto spiegazioni e se valesse lo stesso per gli ombrelloni dei turisti sulla spiaggia, ci hanno risposto che il telo non è autorizzato, mentre gli ombrelloni lo sono. Mentre spostavamo le cose della colazione, un poliziotto ha aggiunto che se non ci muovevamo ci denunciava. Abbiamo cercato di capire con quale motivo ci stavano “sgomberando” e se c’è una legge che motivi le loro azioni, ma di nuovo hanno risposto: “Non ti deve interessare la legge, lo fai perché ti dico di farlo” . Poi ci hanno chiesto di mostrare i nostri documenti. Uno dei poliziotti ha aggiunto che se non ci davamo una mossa ci denunciava. Abbiamo chiesto per quale motivo e lui ha risposto “Non sono affari tuoi, intanto ti io ti denuncio e poi lo scoprirai il perché”. Quando hanno chiamato il commissariato, abbiamo lentamente rimosso il telo e poi mostrato i nostri documenti di cui hanno fatto delle foto.
Nello stesso giorno, sul giornale locale appariva una dichiarazione del sindaco che annunciava che sarebbero venuti a controllare ogni giorno e che nessuno può fare certe cose senza autorizzazioni. Aggiungendo: “questi attivisti non saranno autorizzati a stare lì”.

Il giorno seguente, una donna facente parte di Amnesty International è venuta da noi. Ci ha spiegato che aveva chiamato la polizia di frontiera a Ventimiglia e che questi avevano detto che quel che stavamo facendo non era vietato. Più tardi, 10 poliziotti sono venuti a dirci che quel che stavamo facendo non era permesso, dandoci spiegazioni differenti (presidio illegale, campeggio, occupazione abusiva…), ma dicendo anche che il giorno dopo saremmo potuti tornare: non sapevano cosa sarebbe successo il giorno dopo, non dipende da loro.

Non smetteremo di andare alla frontiera a preparare la colazione. Restiamo e resistiamo.

NO NATION. NO BORDER. FIGHT LAW AND ORDER!

(contro le nazioni e le frontiere, combatti la legge e l’ordine costituito)

Che fine hanno fatto i minori sbarcati a Genova il 2 giugno?

Pubblichiamo un contributo, ricevuto ieri mattina, circa il “destino” dei 29 minori arrivati a Genova con la nave militare Fulgosi, il 2 giugno.

Pensiamo sia fondamentale farlo ora, nel mentre che la Sea Watch3 – dopo aver disegnato per 15 gg traiettorie impazzite di fronte a Lampedusa – nella giornata di mercoledì 26, ha deciso di forzare il blocco ed è entrata nel porto di Lampedusa. Ad ora mentre pubblichiamo l’imbarcazione è controllata da un dispositivo di “sicurezza” che ne impedisce lo sbarco di persone ridotte allo stremo delle forze e la capitana Carola Rackete viene accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rifiuto di obbedienza a nave da guerra. Nel mentre che la Corte Europea per i diritti dell’uomo (CEDU) ha negato il ricorso. Nel mentre che una parte di società attiva ha passato parte della notte davanti alle Prefetture di tutta Italia. Nel mentre che alcuni lavoratori del porto di Genova scrivono un comunicato alla Sea Watch3 per rendersi disponibili ad aiutarla, nel caso in cui volesse puntare dritta verso il porto della nostra città.

Quale strategia si nasconde dietro la scelta del Ministro dell’Interno di far arrivare la Fulgosi a Genova il 2 giugno e negare l’approdo alla Sea Watch 3? Complimentandosi con la CEDU per la decisione di non accettare la richiesta di approdo?

Nei giorni precedenti alla festa della Repubblica, Genova ha mostrato di non avere più paura e la piazza del 23 maggio, contro l’autorizzazione al presidio di Casa Pound, l’ha dimostrato[1]. Il blocco della Bahri Yanbu, che trasportava armi destinate all’Arabia Saudita da usare contro il popolo yemenita, l’ha dimostrato[2]– “CHIUDIAMO I PORTI ALLE ARMI”. Il corteo del 6 aprile in risposta all’arrivo di Salvini – “CHIUDIAMO I PORTI AI RAZZISTI” – l’ha dimostrato.

Risulta così abbastanza chiaro come mai Salvini decide che Genova sarà la citta destinata ad accogliere i naufraghi della Fulgosi, salvati 4 giorni prima davanti alle coste libiche. Genova? Che dista non sappiamo quante miglia dalla Libia – 4 giorni di navigazione -, mentre la Sea Watch3, da 15 gg in mare di fronte all’isola di Lampedusa, ha ricevuto il divieto ad attraccare. Chi decide di lasciar vivere e far morire è abbastanza chiaro ormai. 

Ma torniamo ai 29 minorenni arrivati a Genova – Salvini dichiarerà:

«Sulla nave “la situazione” è positiva. Ci abbiamo lavorato giorno e notte in silenzio e a carico degli italiani non rimarrà neanche un immigrato, perché verranno ripartiti tra Paesi europei. Ringrazio i vescovi italiani per la disponibilità, non a parole ma nei fatti».

Il 28 giugno, cioè domani, il Ministro degli Interni arriverà a Genova per l’esplosione dell’ultimo pilone del Ponte Morandi, e due giorni fa tutti i minorenni sono stati “ridistribuiti” sul territorio nazionale. A noi nulla importa che Salvini non abbia prestato “onore” alla sua parola di ripartirli tra i paesi Europei.

Per noi è fondamentale lasciare il racconto nelle mani di chi ne ha vissuto la deportazione, con il suo coraggio e la sua rabbia che dev’essere il coraggio e la rabbia di tutti e tutte.

 

Che fine hanno fatto i minori sbarcati il 2 giugno?

Politiche nazionali e locali sulla non tutela dei minorenni

 

Il giorno 02.06.2019 sono sbarcati 29 minori stranieri non accompagnati dalla nave della marina militare Cigala Fulgosi e sono stati inseriti presso diverse strutture accreditate nel Comune di Genova, alcune delle quali aderenti al progetto sprar/siproimi, cioè a quel progetto espressamente dedicato all’accoglienza e integrazione dei minori.

Ad un primo esame i minori sbarcati (degli adulti non saprei dire, tanto velocemente sono stati trasferiti in Lazio) erano piuttosto lontani dall’immagine dei migranti ben tenuti e telefonomuniti della propaganda usuale. Molti di loro non avevano idea di dove fossero e, una volta giunti alle strutture di destinazione, chiedevano l’ora, avendo evidentemente perso la cognizione del tempo. Alcuni di loro, almeno quelli che ricordavano un numero di telefono, hanno potuto contattare la famiglia dagli uffici delle comunità: Maman! C’est moi, je suis en vie. Je suis en Italie!

Le immediate prese di posizione da parte dell’amministrazione comunale sono state quantomeno ambigue: dapprima il consigliere Gambino e la speranza da lui espressa che dei migranti sbarcati non ne rimanesse in città nemmeno uno; le proteste dei rappresentati del Partito Democratico cittadino; le dichiarazioni del sindaco Bucci a Telenord che almeno i minori sarebbero rimasti nelle strutture genovesi[3]. Sopra tutte le parole e le opinioni sempre presente la promessa del ministro dell’Interno: nessuno dei migranti (quindi nemmeno i minori?) avrebbe gravato sui contribuenti genovesi (e in che modo, del resto, visto che le rette per i minori stranieri non accompagnati inseriti presso una struttura sprar provengono per l’85,71% dai fondi messi a disposizione dal Servizio Centrale di Roma?).

Gli operatori delle strutture che hanno accolto i minori sbarcati dalla nave Cigala Fulgosi si sono accorti ben presto che qualcosa non andava nel meccanismo, per altro già da anni collaudato, dell’accoglienza. Le strutture sprar non hanno potuto segnalare al Servizio Centrale la presenza dei minori al loro interno; il servizio sociale del Comune non ha potuto operare alcuna presa in carico; le tutele decretate dal Tribunale dei Minorenni di Genova erano in carico alla Direzione Politiche Sociali e all’Assessora Francesca Fassio; le deleghe necessarie ai responsabili delle strutture per avviare le necessarie pratiche amministrative in favore dei minorenni non sono state concesse.

Proprio i decreti di tutela emessi dal tribunale a una settimana dallo sbarco dei minori recano traccia di una esplicita “comunicazione del Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, dalla quale risulta che a breve il minore verrà trasferito in struttura sita in diverso distretto del territorio nazionale”. Di questa comunicazione, tuttavia, non è dato prenderne visione diretta.

Il giorno 24 giugno le strutture coinvolte hanno ricevuto comunicazione dell’imminente trasferimento di tutti i minori sbarcati il 2 giugno, previsto per il giorno 25. Solo due minori molto piccoli e due ragazze in stato interessante non sono stati coinvolti dal trasferimento.

E così il 25 giugno i minori della nave Cigala Fulgosi, dopo essere stati raccolti al largo di Lampedusa, aver visto l’Italia via mare da sud a nord nella sua interezza, aver iniziato un timido approccio al territorio, aver condiviso un mese di vita in compagnia di altri ragazzi, sono stati fatti salire con minimo preavviso (ma tanto che cambia loro?) su pulmini e trasferiti in altre città italiane, potendo godere dell’indubbio privilegio di conoscere l’Italia anche lungo le sue autostrade.Diversamente da quanto dichiarato a caldo dal Sindaco Bucci, cioè che i minorenni sarebbero stati accolti nelle strutture genovesi preposte, il loro mese di permanenza nella nostra città è stato più simile ad un parcheggio che ad un’accoglienza strutturata.

Ma a questo punto, che la storia è finita, qualche domanda resta: perché se il Comune di Genova aveva 14 posti sprar (e quindi non direttamente a carico del contribuente genovese) liberi almeno 14 dei minori sbarcati il 2 giugno non sono rimasti in città? C’è qualcosa che non va nel modo di lavorare di professionisti che da anni si dedicano all’integrazione dei minori stranieri a Genova? Oppure la posta in gioco era soltanto politica, appesa alle parole del ministro dell’Interno che, per qualche motivo sicuramente slegato dal principio del maggior benessere del minore, prometteva di dare alla città soltanto il disturbo delle operazioni in calata Bettolo e niente più? Nel qual caso vorrei dichiarare che mi disturba assai più essere un professionista dell’educazione e dell’integrazione e rispondere supinamente alla richiesta di spostare minorenni come fossero cose. Ancora un volta abbiamo perso in Italia l’occasione di trattare gli esseri umani come fini e non come mezzi.

Buon viaggio, allora, ragazzi. Una nave vi ha fatto vedere in lungo in largo le coste di questo Bel Paese abitato da gente discutibile. Ora rifarete più o meno a ritroso lo stesso viaggio lungo le autostrade dell’estate.

[1]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/23/genova-antifascisti-contro-il-presidio-di-casapound-tre-feriti-e-due-fermati-negli-scontri-con-la-polizia/5202761/

[2]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/20/genova-lo-sciopero-dei-portuali-blocca-la-nave-saudita-carica-di-armi-da-qui-non-ripartono-fumogeni-contro-il-cargo/5192421/

[3]https://telenord.it/nave-migranti-a-genova-accolti-32-minori-non-accompagnati-bucci-polemiche-strumentali/

 

 

 

Si apre il processo per l’occupazione ai Balzi Rossi, estate 2015

Lunedì 17 Giugno 2019, nelle aule del Tribunale di Imperia, si è tenuta la prima udienza del processo per occupazione nel 2015 della pineta dei Balzi Rossi (un’area adibita a parcheggio). A un passo dal confine, il campo chiamato “presidio permanente no borders” fu un’esperienza attraversata dalle più diverse realtà sociali e politiche, da attivist* e volontar* accors* da tutta Italia e non solo, per sostenere la protesta contro la chiusura del confine italo-francese iniziata da un gruppo di persone migranti che si trovarono la strada sbarrata.

 

Così scrivono, in un comunicato che annuncia l’inizio del processo, alcune delle persone che in quell’estate cercarono assieme di costruire un’alternativa alla chiusura e alla violenza dell’Europa:
Lunedì 17 si apre la prima pagina giudiziaria del processo al campo autogestito dei balzi rossi. Presidio permanente no border era il nome in cui persone in viaggio, solidali, donne e uomini che lo hanno partecipato si sono riconosciute. Centinaia, forse migliaia, in quell’estate del 2015 hanno fatto l’esperienza storica di scavare una bolla all’interno delle rotte migratorie e del tessuto sociale; una bolla dentro la quale si è cercato di praticare partecipazione, lotta e orizzontalità. Trentuno di loro saranno a processo. Processano loro, processano le lotte, la libertà di movimento, la solidarietà. Processano tutto quello che siamo stati e che saremmo voluti essere. Abbiamo commesso un reato forse: quello di creare un luogo dove si provava a stare assieme, ad ostacolare gli organismi repressivi, a provvedere ai nostri bisogni, a rivendicare un’altra rotta, più umana, per chi voleva muoversi attraverso le strade del mondo. Non volevamo confini, non volevamo lager, non volevamo violenze, non usavamo guanti di lattice, non volevamo che nessuno rimanesse indietro; forse più che imputarci i crimini che abbiamo commesso dovrebbero evidenziare quelli che non abbiamo voluto commettere. Quell’estate siamo stati tutto.

 

Un passo indietro: Nel giugno 2015, in occasione del G7, lo stato francese decise la sospensione del trattato di shengen, a svantaggio delle migliaia di persone in fuga dai paesi dell’Africa e del Medio Oriente per i più disparati motivi. L’empasse che si generò tra le diplomazie italiana e francese, poi il braccio di ferro su cui iniziarono a cimentarsi tutte le potenze europee nelle settimane seguenti, scatenarono quella che fu chiamata “l’emergenza migranti”. Improvvisamente scoppiò il caso mediatico: si gridò all’invasione e i media di tutta Europa si riversarono su quel pezzetto di scogli tra Ventimiglia e Mentone per documentare la protesta intrapresa alle soglie del vecchio continente.

Uno dei momenti di protesta delle persone migranti bloccate alla frontiera franco italiana, Balzi Rossi, estate 2015

 

Un gruppo di uomini provenienti principalmente da Sudan e Corno d’Africa, determinati a far valere i propri diritti e a far ascoltare le proprie rivendicazioni, decisero di piazzarsi sulla scogliera adiacente al valico di frontiera, così da evitare cariche e sgomberi da parte delle polizie. Di bocca in bocca, si diffuse un grido che rimbalzò sulle principali testate nazionali ed estere: we are not going back. Open the border.
Un numero variabile e crescente di persone italiane ed europee giunsero a Ventimiglia per unirsi alle richieste della gente bloccata al confine e portare loro supporto materiale, solidarietà umana e forza politica. Ne nacque un campo di resistenza e protesta contro le politiche di respingimento europee e, in particolare, contro gli accordi con cui Italia e Francia hanno continuato e continuano tutt’ora a rimbalzarsi avanti e indietro queste persone che nessuno vuole tenere sul proprio suolo nazionale.
Gli italiani brava gente assieme ai cugini d’oltralpe misero in piedi un meccanismo di selezione etnica alla frontiera che venne chiamato dalle persone solidali, dalle persone migranti e da chi si fece eco per quella protesta, “il ping pong” della frontiera. Le vessazioni e le umiliazioni iniziarono ad essere la prassi per le persone extraeuropee in viaggio che venivano e vengono tuttora sottoposte alla procedura: arrivarono i primi container in cui stoccare la gente catturata nel tentativo di attraversare il confine; poi le prime testimonianze di trattamenti degradanti, detenzioni arbitrarie, angherie.

Dopo alcune settimane di stallo, si delineò quella che divenne la politica ufficiale delle istituzioni nazionali e locali (amministrazione ventimigliese allora in quota pd): ordinanze contro la distribuzione del cibo ai migranti; persecuzione della solidarietà e reiterate richieste di sgomberi; una pioggia di fogli di via da Ventimiglia e provincia per le persone solidali; la distruzione a ruspate del campo all’inizio di quell’autunno.

I poteri istituzionali nostrani fecero tutto il possibile per stroncare qualsiasi contatto, condivisione di informazioni e prospettive di cambiamento tra la gente in arrivo da Africa e Medio Oriente e le persone europee in disaccordo con la chiusura dei confini e il proliferare di pratiche discriminanti. Sullo sfondo, la pressione di un’unione europea che si rivelava un mostruoso buco nero di egoismo, neocolonialismo, violenza, razzismo e sciovinismo nazionalista, scegliendo di auto rappresentarsi come fortezza.

 

Ora, giugno 2019, sta iniziando la quinta estate di controllo del confine: allora come oggi ad essere fermate sono solo le persone di colore, quelle che portano sulla fronte l’etichetta discriminatoria di “migrante”. Diciamocelo: la Francia non ha mai sospeso un bel niente per chi indossa pelle bianca e vestiti sufficientemente costosi e puliti.

E lunedì 17 è iniziato anche il processo per gli eventi di quel 2015, con oltre quattro ore di ritardo sulla mattinata: passano davanti due processi per direttissima a un presunto passeur e a due uomini di origine tunisina colpiti da decreto di espulsione. È condanna per tutti. Non si sa dove verranno portati (in un carcere? In un cpr?).

Quando ormai è pomeriggio si apre l’udienza: 31 persone imputate per occupazione in concorso di edifici e terreni, qualcuna anche di aggressione nei confronti di un giornalista che si infilò al campo. Molte le persone che si sono presentate al tribunale in solidarietà con gli imputati e le imputate.
Il processo inizia con alcuni teste per l’accusa: il giornalista che ripropone la sua versione della presunta aggressione, agenti della digos, polizia scientifica. Bastano poche battute ed è subito evidente la pressapochezza con cui l’accusa ha costruito il suo teorema. Goffi e imbarazzanti alcuni passaggi nella ricostruzione degli eventi e nella ricerca di una manciata di responsabili a cui accollare i fatti di quell’estate, tra le migliaia di persone che vissero e diedero forza a quel campo. Due dei testimoni dell’accusa si sono dati giustificati, non presentandosi. L’effetto complessivo è di assistere a una tragicommedia in color seppia di un film antico e quasi dimenticato

Mentre gli inquirenti e gli esecutori del sistema attaccano, banalizzano e riassumono per sommi capi le centinaia di sfide e di idee che mossero le rivendicazioni e le lotte al confine nell’estate del 2015, tra chi ancora è nemico e nemica delle frontiere non ci si può accontentare di riassumere gli accadimenti dei circa cento giorni di campo in una celebrazione di quello che è stato. Nemmeno è sufficiente avere il coraggio di soffermarsi anche sulle critiche e sulle riflessioni per quello che invece andò storto.

Se parlare della lotta dell’estate 2015 ai Balzi Rossi oggi ha un senso, lo ha non solo nel tenere viva la memoria di un passaggio storico che, lungi dall’essersi concluso, si è rivelato la prima pagina di una nuova epoca di orrori. Ma soprattutto perchè il paragone tra gli eventi e le risposte repressive di ieri e di oggi (oggi ben peggiori che nel 2015) contro le persone -migranti e solidali- che non accettano questo stato di cose, ci dice tantissimo sul cambiamento dei tempi. È avanzata a velocità spaventosa la normalizzazione di un sistema che, per essere tenuto in vita, necessita del capro espiatorio della storia contemporanea: il clandestino all’arrembaggio che sconquassa la nostra “pace” e interroga le nostre coscienze e che quindi va affogato, umiliato, sfruttato, annientato.

 

Quello contro cui si cercò di lottare quell’estate oggi è realtà normata. Si moltiplicano le prigioni etniche, i fili spinati e le cacce all’uomo. Eppure la gente non si è arresa e continua a migrare. Le frontiere continuano a uccidere, mentre dilagano i crociati a difesa di una presunta purezza identitaria europea (ma soprattutto in difesa della propria privilegiata posizione nel sistema economico globale).

Il processo iniziato lunedì 17 giugno porterà a sentenza una battaglia che sarebbe incompleto raccontare solo tramite i fatti di allora. Il ricordo di ciò che fu l’esperienza del campo dei Balzi Rossi a Ventimiglia non dovrebbe rispolverare soltanto la nostalgia per ciò che si fece e per come lo si fece, quanto accendere una rinnovata rabbia e determinazione per quello che si dovrebbe ancora combattere oggi. E per come non lo si stia facendo ancora abbastanza.

La prossima udienza è fissata per il 17 febbraio 2020, con ulteriori 4 teste dell’accusa e primi 5 teste per la difesa.

Si srotolano i mesi e si annacqua la memoria, ma il tempo non è un palliativo allo schifo che dilaga e che raschia le coscienze di tutte e tutti noi.

 

Tribunale di Iperia, striscioni appesi da alcune persone solidali poco prima dell’inizio del processo per l’occupazione dei Balzi Rossi.

alcune persone solidali hanno indossato una maglietta con la scritta “la Bolla a processo-io c’ero”, a sostegno delle 31 persone imputate per occupazione.

 

(Immagine di copertina: la locandina per l’inizio del processo, ispirata al lavoro La Bolla che raccontò i giorni del presidio ai Balzi Rossi.)

Aumenta anche la violenza della polizia italiana

Pubblichiamo di seguito la traduzione del terzo report del gruppo Kesha Niya postato su facebook il 14/06/2019.

 Il resoconto oltre a denunciare il proseguimento della violenza della polizia francese nei confronti delle persone migranti che cercano di lasciare l’Italia, mette in luce anche un incremento della violenza della polizia italiana nei confronti delle persone respinte dalla Francia affinché registrino le loro impronte digitali In Italia. Secondo il regolamento di Dublino le persone migranti sono vincolate a chiedere asilo nel paese in cui vengono registrate per la prima volta le loro impronte digitali.

Immagine tratta dal resoconto di Kesha Niya del 26 gennaio 2019

Attenzione! Questo è un altro post contenente resoconti sulla violenza della polizia!

03/06/2019un uomo è stato colpito diverse volte con un manganello da una poliziotta italiana dopo che si è rifiutato di dare le impronte digitali che non aveva ancora dato in Italia. L’uomo aveva dei lividi sulla testa e sulle mani.

04/06/2019Un uomo che si trovava in mare è stato inseguito dalla polizia francese verso l’Italia. Lo hanno inseguito, quando si trovava già in acque italiane, senza portarlo a bordo. Quando ci hanno visto guardare e filmare la situazione dall’alto, hanno detto: “Stop! Non facciamo niente per il momento, stanno filmando!”. Abbiamo chiesto loro cosa stessero facendo e perché non lo aiutassero. Senza rispondere hanno continuato a seguire l’uomo che ha nuotato fino ai Balzi Rossi dove la polizia italiana ha usato una barca a remi per portarlo fuori. La polizia francese se n’è andata poco dopo. La polizia italiana lo ha ammanettato e lo ha portato al confine. Dal momento che abbiamo assistito alla scena, ci hanno detto: “non avete visto e non sapete niente”, gli abbiamo spiegato che abbiamo visto tutto.

Su un giornale locale è stato pubblicato un articolo sul fatto, contenente anche una dichiarazione della polizia in cui si sostiene che l’uomo era “irregolare” in Italia ed era stato rimandato in Francia dove è scappato saltando in acqua per tornare in Italia. L’uomo avrebbe “raggiunto” a nuoto i Balzi Rossi e sarebbe stato tratto a riva grazie all’aiuto di un bagnino e di un carabiniere.
DIVERSE ONG, e anche il nostro gruppo, credono che l’articolo non sia molto accurato, perché non abbiamo mai visto un caso di persone irregolari che vengono mandate in Francia. In realtà, nella nostra esperienza è altamente improbabile che le persone siano respinte in Francia, anche quando ce ne sarebbe un valido motivo, come per esempio l’essere minorenni. Se l’uomo voleva tornare in Italia, avrebbe potuto semplicemente fare la strada a ritroso, la polizia francese sta infatti fermando le persone che entrano nel paese molto più di quanto faccia la polizia italiana.

08/06/2019 – mentre un uomo era in stato di fermo, gli è stato chiesto se parlasse inglese e se sapesse scrivere il suo nome. Dal momento che non sapeva parlare in inglese e non sapeva scrivere in lettere latine il poliziotto ha iniziato a colpirlo fino a quando il suo collega non gli ha detto di fermarsi. Più tardi, l’uomo ha provato a usare qualche parola stentata di inglese per paura di essere colpito di nuovo. Lo stesso poliziotto gli ha detto che prima stava evidentemente mentendo perché in realtà sapeva parlare inglese e lo ha colpito di nuovo.

09/06/2019 – un uomo che di solito vive e lavora in Italia è andato a Mentone in giornata. Quando aspettava il suo treno di ritorno in Italia, la polizia francese lo ha controllato. Gli hanno detto che doveva tornare in Italia ma invece di fargli prendere il treno lo hanno preso, controllato brutalmente e gli hanno detto che doveva andare con loro. Lo hanno spinto in macchina e quando ha chiesto perché erano così aggressivi, hanno detto soltanto: ” entra in macchina, testa di cazzo!” e lo hanno schiaffeggiato più volte. Alla Paf (Police Aux Frontières) è stato controllato molto velocemente e gli è stato detto di camminare fino a Ventimiglia. Ha chiesto se poteva prendere il treno ma gli hanno detto di stare zitto e che doveva farsi i 10 km a piedi. Ha chiesto di nuovo perché tutta questa aggressività ed è stato nuovamente schiaffeggiato. La polizia francese gli ha poi detto di correre verso l’Italia ma l’uomo ha continuato a camminare e ha risposto: “non sono un animale e non siamo a Libia”. La polizia ha usato il taser per due volte sulla sua schiena, dicendo che due persone francesi sono morte in Francia, il mese scorso. Lo hanno poi inseguito in direzione dell’Italia per farlo correre. Quando è arrivato alla colazione era in condizioni pessime e aveva una guancia gonfia.

 Lo stesso giorno un minore di 15 anni è stato spruzzato con lo spray al peperoncino mentre si trovava sul treno e portato alla Paf. Nonostante non abbia opposto resistenza, per farlo entrare nel container lo hanno preso a calci nella schiena. Sul refus d’entree hanno dichiarato che aveva 19 anni.

Immagine tratta dal resoconto di Kesha Niya del 29 maggio 2019
Il gruppo Kesha Niya è impegnato dalla primavera del 2017 a Ventimiglia dove si occupa della preparazione e distribuzione serale di pasti. Dall’estate del 2018 porta cibo e bibite calde sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia.
Kesha Niya ha pubblicato altri due resoconti a gennaio e maggio di quest’anno denunciando la violenza della polizia francese sulle persone migranti.

uomini di origine nigeriana, arte di origine europea

La settimana appena trascorsa a Ventimiglia si è aperta e si è chiusa con due eventi che sembrerebbero non collegati tra loro, ma che ci parlano invece della situazione sociale e politica nella cittadina di frontiera se osservati nell’interezza della cornice in cui si sono verificati.

  1. Lunedì 3 giugno viene trovato il cadavere di un giovane di origine nigeriana.

  2. Da giovedì 6 e fino al sabato si è discusso della notizia della probabile rimozione di un’installazione artistica che è ora collocata alla frontiera.

Due uomini di origine nigeriana…

– pregresso –

Il 29 maggio 2019, durante una rissa scoppiata in spiaggia tra alcune persone di origine non europea, un uomo finisce in mare nei pressi della foce del fiume Roya. In quel tratto di litorale, dove le onde incontrano le acque dolci del fiume, si generano mulinelli e forti correnti: restare a galla è un tentativo disperato. L’uomo è sparito tra i flutti e nonostante le ricerche durate due giorni non è stato ripescato vivo né è stato ritrovato il corpo: si pensava che le correnti lo avessero trascinato in Francia.

Il 31 maggio i giornali riportano la notizia del fermo in zona stazione di un diciannovenne di origine nigeriana: un poliziotto lo riconosce come una delle tre persone avvistate sulla spiaggia durante la rissa che ha causato l’incidente. Non si sa se abbia fornito ulteriori informazioni per dare un nome e un pezzo di storia all’uomo trascinato via dal mare. Veniamo però a sapere che il diciannovenne fermato è un migrante con richiesta d’asilo in Francia e con espulsione dall’Italia, che è stato fermato come uno dei responsabili della rissa, che è stato processato per direttissima per inottemperanza all’ordine di espulsione del questore di Imperia, che è stato trasferito in Francia e che da qui dovrebbe essere infine espulso (cioè rimpatriato? Sulla base della presunta responsabilità per l’incidente? Sulla base di qualcosa che ha commesso in Francia? Sulla base degli accordi di rimpatrio con la Nigeria? Interrogativi senza risposta). Game-over, anche per lui. E game-over anche per l’altro uomo di 24 anni di origine siriana di cui, nello stesso articolo di giornale, apprendiamo di sfuggita che gli tocca la medesima sorte: espulsione.

Il corpo di Osakpolor Morogie, 25 anni, viene ritrovato sulla riva all’altezza della foce del Roya.

 

– Lunedì 3 giugno –

Poi, nella mattinata di lunedì, il cadavere dell’uomo caduto in acqua viene infine restituito dal mare, che lo deposita sulla spiaggia nella stessa zona in cui si era inabissato: il corpo doveva essersi incagliato da qualche parte sul fondale lì intorno. Nelle tasche dei vestiti che ancora coprono il corpo senza vita vengono trovati i suoi documenti, che dicono che lui era Osakpolor Morogie, uomo di 25 anni di origine nigeriana, residente in Italia nella frazione ventimigliese di Bevera assieme al fratello con cui si era ricongiunto.

Quindi a voler essere in regola con la lingua italiana l’uomo non era uno straniero o un migrante, come descritto negli articoli di giornale, ma al massimo un immigrato regolarmente residente in città. Ma le etichette classificatorie, che non restituiscono la completezza della realtà ed anzi la stravolgono e la viziano, restano lo strumento più facile per pensare in modi semplici e riduttivi a un mondo complesso e pieno di sfumature. Per tradurci un mondo che meno capiamo e più ci spaventa; che più ci spaventa e meno lo capiamo.

Dalla chiusura delle frontiere francesi nel giugno 2015 a Ventimiglia si è fatta l’abitudine alla morte di persone non europee arrivate qui per attraversare il confine. Oltre venti le persone decedute a causa delle difficoltà nel passare la frontiera o per i disagi e gli stenti che devono patire nell’attesa dell’impresa: qui è morta così tanta gente in viaggio che, alla quinta persona che ha perso la vita tra il fiume Roya e il mare, l’equazione nero/migrante era già lì pronta all’uso.  (22 novembre 2016; 13 giugno 2017; 22 giugno 2018; 10 settembre 2018)

Uno straniero (con un pezzo di famiglia e residenza italiane) dunque è morto. E un altro straniero, forse coinvolto nell’incidente e forse no (le indagini ancora erano in corso e non sono stati resi noti i risultati dell’autopsia sul cadavere ripescato), è stato deportato in Francia e verrà espulso. Non sappiamo nulla delle vite e dei progetti di queste due persone. Non sappiamo le cause e le esperienze che hanno portato a un epilogo così negativo della loro presenza a Ventimiglia. Tutto quello che interessa sapere: due stranieri fuori dai giochi.

un’opera d’arte di origine europea

12 Aprile 2017, inaugurazione dell’installazione artisticha Terzo Paradiso presso il valico di frontiera di Ponte San Ludovico, Ventimiglia_fonte Sanremonews

 

– pregresso –

Il 12 Aprile 2017 a Ventimiglia fu inaugurata in pompa magna l’opera Terzo Paradiso dell’artista Michelangelo Pistoletto. Il simbolo rappresenta un infinito a tre cerchi: nelle intenzioni di Pistoletto il cerchio centrale costituirebbe il punto di incontro, di armonia e congiunzione tra i poli avversi, i due cerchi opposti che sono il tu e l’io e che trovano al centro la sintesi nella scoperta del noi. Vuole essere un simbolo di pace. L’inizio di una nuova civiltà formulata in 50 pietroni che l’amministrazione dell’ex sindaco Ioculano (PD) decise di far “installare” nell’aiuola che si affaccia sul confine di Ponte San Ludovico.

Nello stesso luogo, due anni prima, centinaia di persone che avevano provato ad entrare in Francia ed erano state respinte (colore sbagliato, pezzo di carta sbagliato) avevano deciso di accamparsi ed iniziare una protesta, durata cento giorni, contro le frontiere e le discriminazioni, chiedendo il rispetto dei propri diritti e la libertà di poter realizzare le proprie aspettative di vita.

Ioculano era sindaco quando sgomberarono a ruspate quello spazio di lotta, resistenza, incontro e sperimentazione collettiva che fu il campo dei Balzi Rossi. Due anni dopo annuiva convinto accanto all’artista Pistoletto, uomo bianco di origine europea, che spiegava con vibranti parole il significato della sua opera e la sua personale interpretazione della Storia recente di quelle aiuole:

A me pare quasi un sogno veder realizzato questo simbolo dell’armonia, della pace e dell’incontro qui, in questo luogo di scontro e divisione. In questo spazio specifico (…) di forte tensione tra i due paesi, momenti di tensione inutile, anche provocata… io credo che non è sulla provocazione che dobbiamo muoverci, non è sulla critica e sull’aggressione, ma sulla proposta. (…) Se veramente si ha qualcosa da proporre, si sa cosa fare dopo la rivoluzione, non c’è nemmeno più bisogno di fare la rivoluzione. (…) Noi dobbiamo dimostrare in questa zona simbolica di essere capaci di fare proposte di unione, di connessione, di condivisione.

I giornali rincararono il condimento di entusiasmo per l’arrivo del Terzo Paradiso : “Un modo per dare un calcio, con l’arte, ai confini geografici e soprattutto sociali, che spesso emergono con più intensità al confine con la Francia”.

 Veduta di Ponte San Ludovico: l’installazione artistica simbolo dell’incontro si affaccia sulla barriera delle dogane francese e italiana.

 

– Giovedì 6 giugno –

Dall’inaugurazione dell’opera sono passati nuovamente due anni: Giovedì 6 giugno i quotidiani on line riportano dell’incontro, voluto dalla destrorsa giunta comunale appena eletta, tra Anas e il neo sindaco Scullino, che si propone si riqualificare la zona stradale innanzi alla frontiera. Sintesi: nella zona del confine si fanno i soldi, non spettacolini per allodole, quindi al posto dei 50 pietroni artistici ci si metteranno 50 parcheggi.

Parafrasando i giornali di allora: un modo per dare un calcio, con gli affari, all’arte e alla retorica sul buonismo sociale e sull’abbattimento dei confini. Proprio qui, di fronte alla barriera con la Francia.

La settimana si chiude nelle polemiche di routine del PD circa lo smantellamento della profetica opera d’arte che tanto fu lodata dall’allora sindaco ruspaiolo dello stesso partito. Eppure guardando le cose con un’onesta prospettiva non è affatto strabiliante che si voglia sostituire un simulacro della retorica europea sull’accoglienza con cinquanta parcheggi per far girare macchine e soldi. (Anche) dalle parti delle frontiere funziona così e chi non lo sa è in malafede: le merci hanno la precedenza e per il denaro tutto fila liscio. L’unico inconveniente lungo il confine erano e restano gli esseri umani ai quali, sulla base di criteri etnici, si deve impedirne l’attraversamento.

A poche centinaia di metri dall’installazione Terzo Paradiso, in linea d’aria sulle alture dell’Aurelia, c’è l’altro valico di confine, ponte san Luigi, dove la frontiera esercita quotidianamente il suo potere sulla vita della gente che ha un documento di poco valore e una pigmentazione troppo scura.

Là sotto, adagiato su un prato abbandonato, riposa coi giorni contati quell’infinito fatto di macigni giganti e muti innanzi ai controlli frontalieri ed al setaccio razziale. Sulla destra dell’installazione artistica, ad altezza mediana tra le due frontiere, corrono le rotaie che portano in Francia: troppe persone sono rimaste gravemente ferite o sono morte sfidando la frontiera ferrata e i suoi treni proibiti.

Sulla sinistra del Terzo Paradiso corrono invece gli scogli che nel 2015 furono casa di una lunga battaglia internazionale contro le chiusure dei confini. Poco oltre le rocce ondeggia il Mediterraneo che unisce e divide le terre. Un po’ come il centro dell’infinito di Pistoletto, che voleva ricongiungere gli opposti e portare la pace, ma che finirà smantellato in nome del profitto.

I tentacoli della frontiera sono potenti e pervasivi: Ventimiglia regala ogni settimana folgoranti accadimenti, bug di un sistema catastrofico che causa cortocircuiti di senso di fronte alla presenza e alle conseguenze del confine.

Vinceranno i 50 parcheggi. Proprio lì dove 50 pietroni si vantavano di aver inaugurato una proposta di unione e armonia: game-over anche per loro. Dalla posa di quei sassi, che sarebbero stati più sinceri se fossero state lapidi, sono morte -almeno- altre undici persone non europee che volevano attraversare la barriera per l’Europa. A Ventimiglia (in tutto lo stivale) le persone non-bianche resteranno comunque straniere, qualsiasi pezzo di carta abbiano in tasca. Qualcuno di origine europea suggeriva che non serve una rivoluzione…

La violenza della polizia francese si intensifica

Pubblichiamo la traduzione del resoconto del gruppo Kesha Niya di mercoledì 29 maggio che denuncia un nuovo intensificarsi della violenza della polizia francese nei confronti nelle persone migranti fermate sui treni diretti in Francia e detenute nei container di metallo alla frontiera di Ponte S.Luigi dove vengono poi respinte verso l’Italia.

Kesha Niya aveva già raccolto testimonianze sulla violenza della polizia francese a gennaio di quest’anno. La notizia era stata ripresa dalle testate locali Sanremo News e Riviera 24. Quest’ultima aveva messo in dubbio la veridicità delle testimonianze non ritenendo opportuno appurarla con nessuna delle parti coinvolte o informate dei fatti.

ATTENZIONE QUESTO POST CONTIENE RESOCONTI SULLA VIOLENZA DELLA POLIZIA !

La polizia francese usa regolarmente lo spray al peperoncino contro le persone migranti fermate sui treni e anche quando queste si trovano già nei container qui al confine, ma nelle ultime due settimane riceviamo sempre più resoconti di violenza verbale e fisica da parte della polizia nei confronti delle persone migranti.

Soldi e documenti vengono rubati, le persone vengono percosse, donne incinte soffrono e la verità viene distorta.

13/05/2019 – un uomo è stato portato nel container dove ha iniziato a parlare con un’altro quando la PAF ha detto ridendo e in francese: “Andate avanti, ammazzatevi!”

Lo stesso giorno un uomo e una donna sono stati arrestati su un Flixbus nei pressi di Nizza. Prima di essere riportati al confine hanno dovuto aspettare in un angolo e i poliziotti hanno detto all’uomo di approfittare della situazione per fare “quello che gli conveniva”.

17/05/2019 – nella notte alcune persone detenute nel container che stavano rispettando il Ramadan hanno chiesto di ricevere del cibo dopo 8 ore di detenzione. La risposta della polizia è stata: “Tacete o vi picchiamo!”

22/05/2019 – una donna è stata condotta in un container con l’aria condizionata fredda. Quando durante la notte ha chiesto se si potesse spegnere, la polizia le ha risposto: “Taci e torna a letto”. Nel container non c’è alcun letto né la possibilità di dormire.

Durante questa giornata 7 persone, inclusa una donna incinta, si stavano nascondendo nella toilette del treno nel tentativo di attraversare il confine. La donna incinta si trovava dietro la porta che si apriva verso l’interno. Quando la polizia ha controllato il treno ha detto alle persone nel bagno di uscire e iniziato a prendere a calci la porta.

La donna è stata colpita più volte al ventre dalla porta. La polizia ha poi spruzzato lo spray al peperoncino nel bagno. Quando alla fine sono usciti tutti, alcune persone sono state picchiate e la donna urlava per il dolore. Ha chiesto alla polizia di chiamare un’ambulanza ma si sono rifiutati, dicendo che stava fingendo.

E’ stata condotta nello stesso container con l’aria fredda dove si trovava l’altra donna, piangeva ancora per il dolore ed era probabilmente anche molto spaventata. L’altra donna ha chiesto che fosse chiamata un’ambulanza per la donna incinta. La PAF si è rifiutata di nuovo e ha detto: “Stai zitta, sta bene! Il bambino sta bene, lei stava bene prima!”.

Quando la donna incinta è uscita dal container era terrorizzata. Il furgone della Croce Rossa l’ha portata al campo dove ha la possibilità di parlare con le organizzazioni non governative ed essere visitata da un dottore.

Un altro gruppo di uomini è stato arrestato quel giorno mentre si nascondeva nei bagni dei treni. La polizia ha nuovamente preso a calci la porta e ha usato lo spray al peperoncino per far uscire gli uomini.

Uno degli uomini è stato colpito sulla mano con un manganello e sentiva ancora molto dolore quando più tardi è stato rilasciato dal container.

Un altro è stato preso per il collo e colpito in faccia diverse volte. Quando è uscito dal container aveva una ferita sotto all’occhio e molto sangue nei pantaloni.

E’ stato prima portato alle stazione di polizia di Nizza . La polizia gli ha detto “E’ normale che ti picchiamo. Crederanno comunque a noi”. A Nizza la polizia ha sporto denuncia contro di lui sostenendo che avesse picchiato un poliziotto con un pezzo di legno. Hanno anche cercato di incriminarlo con l’accusa di essere un trafficante perché aveva con sé dei contanti, anche se aveva spiegato che gli servivano per viaggiare.

23/05/2019due ragazzi sono stati colpiti dalla polizia mentre venivano fermati. Uno di loro voleva mostrare una fotografia dei suoi documenti alla polizia ma il suo telefono è stato requisito e sfasciato dalla polizia.

28/05/2019un uomo detenuto nel container ha chiesto del cibo ma gli è stato risposto di tacere. L’uomo ha poi iniziato a ferirsi con un pezzo dell’accendino che aveva con sé e a battere sulla porta. La polizia è arrivata, lo ha ammanettato e portato fuori dal container dentro una stanza.

L’hanno messo su una sedia, gli hanno bloccato i piedi con le fascette e lo hanno picchiato ferendolo alle spalle, al vivo e alle gambe.

Ogni volta che sentiamo questi racconti cerchiamo di spiegare alle persone migranti che possono sporgere denuncia e che possiamo aiutarli con un avvocato ma la maggior parte di loro è troppo spaventata per farlo o non crede che potrebbe cambiare nulla. Almeno possiamo pubblicare qui le loro storie.

PAF LA PAF!

Il gruppo Kesha Niya è impegnato dalla primavera del 2017 a Ventimiglia dove si occupa della preparazione e distribuzione serale di pasti. Dall’estate del 2018 porta cibo e bibite calde sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia.

La Morte di Prince e John – la Violenza del sistema

A qualche giorno dalla morte di Prince, giovane ragazzo nigeriano, condividiamo le parole di una compagna: parole che impongono una riflessione, ricordandoci che la lucidità è una delle nostre migliori armi, anche nei momenti di dolore. La terribile storia di Prince richiama alla memoria un’altra morte a noi vicina: poco meno di due anni fa, John, un altro giovane nigeriano, terminava il suo viaggio a Genova, a pochi passi dalla Fiera del Mare (al tempo centro di prima accoglienza). Allora, ben poche parole furono spese nel chiedersi quale disperazione si celi dietro – o appena fuori – le porte di una struttura d’accoglienza, tra le pagine della burocrazia migratoria. Cambiano i decreti e i ministri che li firmano, ma la violenza di un sistema che si fonda sull’univocità del giudizio e il ricatto è la medesima. E’ la stessa che spinge ormai da anni a schiacciarsi contro le frontiere, a Ventimiglia e altrove, per proseguire, quasi per inerzia, rischiando l’incolumità fisica, mortificando le proprie aspettative, mettendo a dura prova la propria salute mentale. L’unico vero omaggio che possiamo fare a Prince è allora quello di pretendere rispetto e dignità per tutte quelle vite sospese. Che la commozione sia motore di rivolta e non ornamento dell’ennesima commemorazione.

 

Prince e John Kenedy due giovani uomini nigeriani morti (dicono suicidi) a Genova.
John lo conoscevo, Prince no.
Di John se ne è parlato molto poco, di Prince molto.
Per John è stata fatta una veglia in piazzale Kennedy al tempo del campo della CRI presso la Fiera di Genova. Si è scelta quella piazza perché è vicino a dove è morto e perchè lui ci teneva a dire che si chiamava come il Presidente ma con una sola “N”. Eravamo si e no in una trentina.
Per Prince è stato fatto un funerale al quale si sono invitate moltitudini di persone.
Del corpo di John non si sa più niente, era all’obitorio come NC. Prince è stato sepolto in un cimitero cittadino.
John ha abitato il dispositivo nell’era Minniti ed è morto in quel tempo. Prince è entrato nell’era Minniti ed è morto in quella di Salvini.
John e Prince sono morti.
Per Kennedy è stata scritta una lettera, denunciando le condizioni nelle quali si è lasciato morire. Era Marzo 2017.
Per Prince si sono scritti articoli e si è tuonato quasi immediatamente che si sia suicidato per il diniego. Quale il bisogno nel costruire narrazioni sulla morte di Prince? Su quella di Kenedy ciò non è stato fatto… l’ipotesi era che fosse ubriaco e che si sia buttato in mare perchè ubriaco. Tra coloro che hanno conosciuto Prince, e ne hanno raccontato dopo la sua morte, tra quelli che con lui hanno vissuto il dispositivo dell’accoglienza, c’è stato chi aveva iniziato una lotta di rivendicazione, non per la mancanza del wi-fi, come molti giornalisti hanno tentato di mascherare, ma contro le condizioni in cui erano (e sono) costretti a vivere. Era Maggio 2017.
Alcuni di loro ad oggi devono ancora avere l’appuntamento in Commissione e sono convinti che quest’attesa sia dovuta alle proteste cui hanno preso parte. Alcuni hanno paura a raccontare quello che succede nei circuiti dell’accoglienza, pensano che il passo successivo sia il diniego. Supposizioni? Paure? E’ possibile vivere così? Come fanno a resistere a tutto questo? … Nel frattempo, la struttura che ospitava Prince, e tanti altri richiedenti asilo, prima invitava il ministro Orlando – ai tempi del Decreto Minniti-Orlando e della formalizzazione dei campi di detenzione in Libia – e poi Bucci e Garassino – nel tempo in cui questi sostengono il governo di chi tiene le persone in mezzo al mare e poi le riporta nel porto “sicuro” di Tripoli -. Questo – e non solo questo – non può lasciare indifferenti.
Io non mi sento di chiedere scusa agli amici di John e Prince, perchè non mi assolvo con delle scuse e perchè non assisto inerte a quello che succede. Ognuno, con le sue forme, deve avere il coraggio di dire che tutto questo fa letteralmente schifo. Che porti il nome o la bandiera di un partito, il nome di una cooperativa piuttosto che di un’associazione, laica o religiosa, bianca o rossa. Io penso che sia necessario denunciare la retorica della “buona accoglienza” perchè ad oggi è troppo chiaro che non esiste una “buona accoglienza” – il sistema è malato e porta malattia e morte. Tanti sono i morti, nelle nostre strade e nelle traversate per raggiungerle. Tanti e Tante quelle che stanno impazzendo nei luoghi di detenzione e di accoglienza, nei campi di lavoro, dove in troppi sono pure morti.
Tanti e Tante quelle che stanno resistendo e denunciando tutto questo. Io so da che parte stare e tutto questo sciacallaggio e buonismo mi fa profondamente incazzare! Tutto questo deresponsabilizzare alcuni per altri … ora il problema è il Decreto Sicurezza?! Quale poi? il Minniti o il Salvini?! Ma per favore!

Aumenta la violenza della polizia francese

Pubblichiamo la traduzione del resoconto del gruppo Kesha Niya di sabato 26 gennaio relativo all’aumento della violenza della polizia francese nei confronti nelle persone migranti detenute nel container di metallo alla frontiera di Ponte S.Luigi in attesa di essere respinte verso l’Italia.

ATTENZIONE: seguono resoconti su violenza e crudeltà della polizia

L’atmosfera al container al confine, che era già una stanza di tortura, è diventata ancora più cupa nelle ultime settimane.

Come menzionato già in altri resoconti, decine di persone vengono tenute dentro a questi container di metallo fino a 24 ore, a volte anche di più, senza accesso a cibo, acqua, cure mediche e a un vero riparo. Il pavimento è tenuto bagnato così nessuno si può sedere o sdraiare. Ovviamente per coloro che sono esausti o hanno problemi fisici questa e’ già una situazione pericolosa.

Noi siamo posizionati 300 metri più avanti, sul lato italiano, per accogliere coloro che escono con cibo, tè, caffè e una postazione per ricaricare i cellulari che non sono stati sequestrati o rotti dalla polizia. In una settimana ascoltiamo centinaia di storie. Nell’ultimo periodo le storie che abbiamo raccolto mostrano un enorme aumento nella violenza della polizia e nell’abuso di potere:

La polizia francese sottrae importanti documenti (come i certificati di nascita dei minori) e quando le persone chiedono di riaverli o di ricevere cibo e acqua vengono colpite con un pugno in faccia (e con l’anello…). Colpiscono i minori che cercano di dichiararsi come tali. Spruzzano lo spray al peperoncino all’interno del container chiuso, a volte direttamente negli occhi e picchiano le persone senza pietà.

Due giorni fa un uomo è uscito dal container con escoriazioni e tagli, aveva sangue sulla giacca e una bruciatura sul dorso della mano. La polizia francese non solo lo aveva pestato e insultato, gli aveva anche spento una sigaretta sulla mano (fotografia allegata). Ci ha raccontato di come lo avessero schiaffeggiato e preso a pugni e uno dei poliziotti gli avesse detto che si sarebbe scopato sua madre. Gli hanno tolto tutti i suoi averi.

Speriamo che non ci sia bisogno di aggiungere che non abbiamo motivo di dubitare di questi resoconti: le persone sono tutte chiuse insieme e confermano indipendentemente i racconti fatti dalle altre.

Non siamo sorpres* ma indignat*. Questo è dove lo stato francese è disposto ad arrivare per “scoraggiare” la migrazione.

Continueremo a a fare la colazione e a cercare di fornire tutto l’incoraggiamento, la solidarietà e il caffè che possiamo.

La frontiera uccide! E’ fondamentale fare tutt* qualcosa, ognuno secondo le proprie possibilità .

Il gruppo Kesha Niya è impegnato dalla primavera del 2017 a Ventimiglia dove si occupa della preparazione e distribuzione serale di pasti. Dall’estate del 2018 porta cibo e bibite calde sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia.

Questo Male non finirà mai

23 dicembre 2018. Praticamente è natale, ma la luce sul mare vista dalla frontiera alta ha ancora una bellezza che contrasta con ciò che conosciamo di questo territorio.

Giovani uomini tornano indietro sulla strada in salita perché respinti dal paese dei Gilet Jaunes.

Da questa parte, altri giovani, solo più chiari, sono ormai da anni organizzati per offrirgli qualcosa che assomigli a una colazione. Luminosi e gentili come sempre, gli attivisti di Kesha Nija riescono a trasformare una cunetta dell’inospitale strada in un luogo piacevole e accogliente.

Chi si ferma per mangiare e bere qualcosa, ha l’aspetto di uomo e occhi di bambino. Racconta avventure di sfruttamento e di fatica in diversi paesi o città della nostra penisola. Tutti sorridono, ringraziano, qualcuno ha la forza di augurare a noi buona fortuna.

Uno di questi giovani uomini è stremato. Con gli occhi pieni di paura, non sa come arrivare a Ventimiglia, si sente male e la strada è troppo lunga. Ha solo 4 dita della mano sinistra.

Molti sono i dolori e i disturbi che lamenta. Nulla che sembra possibile trattare con qualche compressa.

Dobbiamo andare a vedere un posto quì vicino, poi ti porteremo noi in città.

Mostra ancora paura, ma si convince.

Quattro donne si dirigono verso un piccolo paese di montagna. Quattro donne alla ricerca di un luogo dove forse delle sorelle vengono sfruttate, vengono vendute per pagarsi l’agognato passaggio a una vita ignota, forse migliore.

Uno dei paesi italiani vuoti. Solo qualche signora anziana e un uomo che fuma una sigaretta affacciato a parlare con un passante.

Intanto, una semplice fontana con qualche dipinto mostra la macabra ironia di cui non capiamo la penultima parola: “affinché le bocche del viaggiatore stremato si perdano nel tuo dolce…. Canto? Cammino? …infinito”.

Ripreso il giovane in macchina veniamo a sapere che un morso di serpente ha causato l’amputazione del dito. Ci dice che è stato trattato, ma il veleno e il male che ne è derivato non finirà mai.

Questo male è misto con il dolore per non poter vedere più la sua compagna di 28 anni, e la bambina, che ormai ha sei anni e che non vede da 4. Proprio in quel momento riceve una video-chiamata. Ci mostra una giovane donna sorridente e una piccola bambina sotto un bellissimo tetto di una casa tradizionale della Guinea Conakry, e sorridendo gli occhi gli si riempiono di lacrime.

Pranziamo con altre due donne importanti per questa terra. Diverse dalla uniforme massa inerte o rancorosa, solidali e umane, la loro vita è ormai una lotta costante e passare del tempo con loro da queste parti è vitale per poter mantenere la fiducia nel genere umano.

Camminiamo poi molto. Di nuovo 4 donne ma diverse, nei luoghi dove in passato le persone si sono fermate, ora vuoti e dove la natura prende il sopravvento.

Agghiacciante spettacolo per noi è la vista del parcheggio di fronte alla chiesa delle Gianchette, dove sono stati montati dei giochi gonfiabili per pochi bambini, chiuso da grate e sorvegliato da un ingente schieramento di poliziotti, per i festeggiamenti del quartiere.

Sappiamo che è importante cercare persone isolate, qualcuna/o che sia più fragile tra queste/i viaggiatori e combattenti. Ragazze vendute per dieci euro. Possibile? Come possiamo fermare questo scempio della razza umana?

Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia (seconda parte)

Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo “Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia” contenente un insieme di interviste volte a indagare e restituire uno sguardo polifonico sulla situazione nella zona di confine di Ventimiglia durante i passati mesi estivi.

Rimandiamo all’introduzione pubblicata con la prima parte di questo articolo per chiarimenti relativi agli obiettivi, alla metodologia seguita e alla presentazione delle e degli intervistati.

Dopo aver posto domande ai nostri interlocutori circa il tipo di presenza avuto sul territorio di confine di Ventimiglia e sulle caratteristiche e le trasformazioni notate nel paesaggio sociale che caratterizza la zona di frontiera, in questa seconda parte abbiamo provato insieme ai nostri intervistati a delineare in che modo gli avvenimenti e le situazioni che hanno caratterizzato questa zona di frontiera interna all’Europa raccontino qualcosa circa le politiche e lo scenario internazionale.

Per concludere, abbiamo posto la domanda cruciale: cioè quella che riguarda le possibilità e le modalità con cui agire polticamente per contrastare i dispositivi di confinamento e le politiche razziste sperimentate in modo sempre più violento lungo le linee di confine interne ed esterne all’Europa.

Con la speranza che queste riflessioni, maturate a partire dall’esperienza  di attiviste/i e militant* impegnati sul campo, possano fornire strumenti critici utili per pensare forme di azione collettive capaci di incidere contro la violenza dei confini,

vi auguriamo un buona lettura.

La redazione


 

Lungo il confine, si materializzano, in maniera forse più evidente che altrove, anche le conseguenze di scelte prese altrove e di disposizioni di portata nazionale e internazionale. Ci chiediamo, quindi, che ricadute abbiano avuto, a Ventimiglia, i numerosi eventi e provvedimenti che, durante l’estate, hanno influito sulle dimensioni e la gestione dei flussi migratori.

Per Antonio, innanzitutto, è fondamentale tenere in considerazione le politiche di esternalizzazione dei confini: «Quello che si è cercato di fare, sia in Italia che in Europa, è stata l’extraterritorializzazione del confine, impedendo a tutti di vedere cosa succede. Anche se possiamo definire come un canto del cigno la manifestazione della scorsa estate, per diversi anni il confine è stato di fatto un presenza almeno nel pensiero sociale. Far si che il confine diventi invisibile, permette di non avere più in casa il problema. La favola continuamente ripetuta dal sistema è che si stia combattendo il traffico di esseri umani, in realtà lo si mantiene e questo è particolarmente evidente in una realtà molto piccola come Ventimiglia». Nel dettaglio, la questione libica viene riconosciuta da tutti come direttamente determinante la realtà vissuta al confine franco-italiano: «Il governo italiano continua a mantenere i contatti come se ci fossero degli accordi internazionali e come se potesse controllare qualcosa. Che non ci sia effettivamente un controllo è evidente dal fatto che, anche se in un numero minore, le persone continuano ad arrivare e continuano ad essere persone che sono state torturate, che hanno sul loro corpo i segni delle violenze che noi abbiamo visto e fotografato con il loro consenso. Hanno voluto raccontare le torture a scopo di estorsione che hanno subito in Libia. L’interesse nei loro confronti da parte dei carcerieri libici terminava quando ricevevano un certo quantitativo di denaro» (Lia).

Scritta in prossimità del campo di accoglienza gestito da Croce Rossa Italiana

Senza dimenticare che «il caos in Libia è stato in un certo senso costruito e determinato da certi tipi di logiche e di azioni, partendo dall’azione francese per eliminare Ghedafi, passando per gli interessi delle compagnie petrolifere» (Gabriele). Da Ventimiglia si coglie, quindi, la complessità di un quadro nel quale risulta estremamente difficile prevedere tutte le conseguenze delle misure messe in campo: «Un peso poi lo ha la situazione al confine est dell’Europa, in Turchia dove l’Europa ha negoziato con Erdogan un accordo per il controllo dei flussi. La rotta balcanica riattivatasi con la chiusura voluta da Salvini della rotta libica, ha determinato l’arrivo nell’ultimo periodo di persone provenienti dall’Asia più che dall’Africa sub sahariana a Ventimiglia, nonché un’evidentissima diminuzione degli arrivi» (Gabriele).

Dalle riflessioni dei nostri interlocutori emerge poi il ruolo delle politiche europee, nello specifico delle conseguenze degli accordi di Dublino, nel produrre erranza e clandestinità: «Molti che si incontrano a Ventimiglia sono stati respinti dagli altri paesi, la Francia in primis. Hanno finito il loro viaggio in situazioni di estremo disagio, di abbandono, di disperazione, a Ventimiglia, e continuano a vagare intorno a questo territorio, magari deportati qualche volta al Sud. Per loro una soluzione non è stata trovata, né nel bene, né nel male. Ci sono alcuni, per esempio, che avevano iniziato una vita in un’altra parte d’Europa e a seguito del Regolamento di Dublino sono stati riportati in Italia e non hanno una via d’uscita se non quella di avere una vita estremamente disagiata come senza fissa dimora, aspettando il nulla. Di persone in questa situazione ne abbiamo incontrate tante, qualcuno si ferma, qualcuno vorrebbe tornare a casa, altri impazziscono, diventano alcolizzati, altri spariscono e alcuni muoiono» (Lia).

Il valico di Ponte S. Ludovico e la costa francese visti dal valico di Ponte S.Luigi

Le persone con cui abbiamo parlato concordano nel rifiutare una lettura che attribuisca all’attuale governo italiano, insediatosi in primavera, tutte le responsabilità della tragedia umana che è oggi la migrazione verso l’Italia, così come il transito e la permanenza nel Bel Paese: «Dal punto di vista nazionale la repressione verso le persone in viaggio è iniziata prima di quest’estate, non direi quindi che il problema sia dovuto dall’attuale governo. La situazione non è chiaramente migliorata, ma tutte le metodiche utilizzate, sono sempre state ideate e attuate precedentemente. Sappiamo che c’è stato interesse da parte dell’attuale governo nel ricevere fascicoli su Ventimiglia per poi prendere delle decisioni in merito, ma al di là della chiusura di qualsiasi campo informale, che era già stata messa in atto precedentemente, non vedo una modifica reale della politica nazionale nella situazione attuale. Gli accordi con la Libia sono proseguiti e hanno fatto sì che le persone arrivassero in quantità sempre inferiori perché bloccate prima, detenute, rinchiuse in veri e propri campi di concentramento, morti in mare, probabilmente detenuti anche in altre parti d’Italia» (Lia).

Quindi, come riporta Lucio, «il primo grande cambiamento è di un anno fa quando c’è stato il decreto Minniti, bloccando i flussi grazie agli accordi con i criminali libici. Durante l’inverno c’è stato un allentamento delle maglie, a causa della rottura di alcuni equilibri, se così si possono chiamare, in Libia e l’apertura di alcune delle prigioni denunciate anche dall’Onu e ci si è ritrovati con persone che partivano anche in una stagione nella quale il clima è peggiore e le condizioni più difficili. Quindi c’è stata l’emergenza freddo e dei momenti davvero difficilissimi quest’inverno. La rottura parziale di quel dispositivo ha fatto sì che si fosse come levato un tappo ad una diga, con la conseguente ondata. Quest’estate, con l’apparente stabilità durata fino a qualche settimana fa in Libia, la situazione è tornata quella del calo di presenze e di arrivi. Adesso si vedrà perché comunque in Libia gli scontri riprendono e la situazione non è per nulla stabile. Sul piano nazionale, a mio avviso, tutto è figlio di quelle politiche, e l’Italia intera deve essere considerata una frontiera, perché chi arriva per la maggior parte non vuole rimanere e subisce quindi le disposizioni dei patti di Dublino…insomma per quanto i vari ministri e governanti attuali vogliano fare campagna elettorale, prima e dopo il voto, la situazione è figlia del decreto Minniti. E’ chiaro che se continui a non offrire un’accoglienza degna, se continui a perseguitare il reato di clandestinità, fai in modo anche che la gente cerchi di perseguire i propri desideri il più velocemente possibile e di andare in un altro Stato, con delle presenze che si riversano a ridosso di ogni confine. Poi il caso della Diciotti è l’ultimo e più eclatante : sono arrivate 177 persone, dopo giorni le porti in provincia di Roma e dopo qualche altro giorno ne ritrovi molte a Ventimiglia. E’ abbastanza chiaro : sono arrivati, ma non per restare in Italia, e se in più non offri nessun’altra possibilità di arrivo se non il barcone, li trovi a ridosso della frontiera dopo poco … e se poi li metterai in un altro centro, la cosa si ripeterà».

Comprendere la continuità è una delle preoccupazioni di Gabriele, al fine di rendere visibili quei meccanismi che strutturano, ad esempio, il mercato del lavoro europeo e la persecuzione di imponenti interessi economici: dei meccanismi che si celano dietro all’approccio emergenziale alla questione migratoria: «c’è una continuità che arriva da Minniti e quindi dal Pd per la gestione di quella che loro definiscono “emergenza migranti”, che però ha le sue radici ancora più indietro: la legge Turco Napolitano. In termini temporali la costruzione di un confine dipende sia dalle forme normative che hanno contraddistinto il contesto nazionale e internazionale, sia dal raffinamento del dispositivo biopolitico come meccanismo per espellere dei corpi e includerne in maniera differenziale altri. I corpi che vengono usati nel bracciantato, trattati, prostituiti, quei corpi che costituiscono un’ampia parte del mercato italiano e europeo del lavoro. Non è una questione di legalità e illegalità ma di sfruttamento, questo è evidente sia nel mercato del lavoro legale che illegale. La lotta all’illegalità rispetto alla questione migrazione è un palliativo per legittimare in termini normativi lo sfruttamento. Il confine funziona come dispositivo in questo senso. Vi è dunque una continuità che arriva se vogliamo da come gli sbarchi sono stati controllati, dalle politiche in termini di esclusione di certi tipi di corpi, della mancata riforma della cittadinanza (sebbene io credo che la cittadinanza dovrebbe essere data a tutti coloro che passano e vivono per un certo tempo su un territorio), della gestione delle frontiere esterne dell’Europa. L’archivio della costruzione delle norme sulle migrazioni non riguarda solo la sedimentazione di leggi, ma è costituito anche da pratiche di segregazione, razzismo, xenofobia e sessismo. Questo archivio continuamente aggiornato e in cui c’è una continuità temporale non è importante solo per leggere la questione immigrazione e lavoro, ma per rendersi conto che esiste una continuità d’egemonia: soggetti che sono poteri forti in questo paese utilizzano i partiti sia per mantenere un controllo del consenso politico (non solo elettorale perché il potere non sta più solamente lì) ma soprattutto un controllo su certi tipi di business e di interessi economici. C’è chiaramente una continuità anche nei termini di classe dirigenziale tra il Pd e la Lega, e questo è evidente analizzando l’archivio di cui parlavamo».
In questo quadro, tra queste reti, trova spazio «la forza dei migranti che riescono ad organizzarsi per passare i confini» (Gabriele).

Quali possono essere, allora, oggi, le strade da percorrere, in quanto solidali e militanti contro le frontiere? Quali possibilità e che senso dare all’impegnarsi in percorsi politici a Ventimiglia? A questi interrogativi, le risposte che abbiamo raccolto possono talvolta mostrare punti di vista differenti, alla luce di esperienze diverse, frequentazioni più o meno lunghe della frontiera, sensibilità individuali. Crediamo sia particolarmente interessante cercare di fare dialogare queste voci, nel tentativo di contribuire a una riflessione comune sulle prospettive di una presenza solidale e militante a Ventimiglia, sugli spazi politici e di lotta da alimentare o inventare.

Inizia Antonio, difendendo il dovere e il senso del testimoniare: «Nel primo agire dell’attivismo a mio avviso c’è anche il raccontare il territorio, mantenere una memoria di quello che avviene. Fai una cosa e la puoi rivendicare, quello che vedi lo puoi denunciare. Secondo me questa è una forma di attività politica che lì si può e si deve continuare a fare andare avanti». Nel proseguo del ragionamento, Lia e Antonio ci offrono delle osservazioni riflessive, rispetto alla loro attività di visite e diffusione di report degli ultimi anni: «La comunità coesa dei Balzi Rossi, o anche dei campi informali del 2016, rispondeva agli avvenimenti in modo chiaro: può aver risposto in modo sbagliato in alcune occasioni, ma rispondeva. Almeno una collettività esisteva. Questo non ha niente a che vedere con me che vado da sola ad esplorare un territorio per capire cosa si può fare e scrivo da sola in merito. Adesso faccio questo perché manca quello che auspicherei: un gruppo di persone che partecipa con il maggior tempo e impegno possibile, che prenda decisioni che mettano insieme chi viaggia e chi è stanziale, perché la differenza tra queste/i non è poi così grande. Attualmente i solidali sono troppo pochi per avere un vero e proprio successo politico e modificare qualcosa realmente. È più probabile che si diano delle risposte simboliche sperando poi che queste attivino qualcosa. E’ un grande insuccesso a mio parere quando, in una situazione di tale gravità, un singolo evento simbolico come una manifestazione, viene considerata una risposta congrua. O è una risposta simbolica o si attende almeno che vi consegua qualcos’altro» (Lia).

Un momento della manifestazione “Ventimiglia città aperta” del 14 luglio 2018

Una visione leggermente diversa, rispetto al lascito della manifestazione del 14 luglio, viene da Giulia. Una visione che, comunque, non manca di esprimere alcune considerazioni rispetto alle difficoltà di un contesto “ostile”: «Secondo me l’agibilità è un pochino mutata dopo il corteo, nel senso che migliaia di persone per strada hanno lasciato qualcosa…qualcosa che ancora potrebbe essere raccolto, nel senso che non tutto è stato raccolto e c’è la possibilità che ci sia ancora qualcosa che possa svilupparsi. L’agibilità politica comunque è quello che è, nel senso che rimane una cittadina che va a destra in una regione che va a destra in un paese che va a destra, quindi le possibilità restano risicate. Probabilmente, pur non essendo fan degli scout, mi ha stupito quanti ragazzi giovani siano passati di lì, volendosi rendere utili, poi sempre magari in un’ottica estemporanea e assistenzialista, però c’è ancora una parte degna di questo paese che vuole metterci le mani dentro. Quindi lo spazio secondo me è questo: continuare a provare a dedicarsi a ciò che c’è di buono, perché c’è e c’è anche in quel territorio e non stancarsi di parlare con la gente perché , magari un po’ timidi, ma ci sono delle persone, anche ragazzi e ragazze giovani della zona, che vivono lì, magari anche seconde generazioni, che vorrebbero partecipare e provare a dire qualcosa. Chiaro che si parla di cose molto piccole, considerando la violenza della situazione, con l’ennesima chiusura dell’acqua, le reti … la direzione è molto chiara, però credo che qualcosa si possa provare a raccoglierlo ancora. Secondo me a Ventimiglia, nei paesi limitrofi e nelle valli … io sono un’inguaribile ottimista, alle volte, ma non credo che si sia alla totale barbarie… che poi sono paesini, cioè banalmente ad Eufemia scade il contratto a dicembre e si deve trovare il modo di posticipare o trovare altro e il problema è che il proprietario non vuole che quello spazio sia aperto al pubblico e non è il fascismo è quella roba tipo “non voglio che vengano rotti i coglioni a me, che ci sia attenzione su quello spazio per colpa vostra”. E’ lì che sta quel margine per far capire il vecchio discorso che non è che se chiedo diritti, è perché ne siano negati a te, però viviamo andando contro il vento costantemente». In linea con quel che dice Giulia, Lucio continua indicando quali potrebbero essere, a suo parere, le potenzialità di un lavoro politico che parta da Ventimiglia come luogo di presa di coscienza e comprensione di fenomeni più ampi, che, sulla frontiera, assumono caratteri di violenza ed evidenza più marcati che altrove: «partendo dai vari gruppi scout mi viene in mente questo aneddoto : alcuni di loro ci hanno raccontato le ragioni che li hanno spinti a venire a Ventimiglia con tutto il loro gruppo: tra di loro, alcuni neo-elettori avevano votato per la Lega e si ponevano il problema del come far capire a quei ragazzi, che frequentano tutto l’anno, che il problema non sono i migranti che ci invadono, quanto piuttosto le politiche che dall’alto generano delle discriminazioni… ecco l’aneddoto degli scout può dare il quadro di quello che è possibile fare a Ventimiglia : intanto arrivare e capire cosa succede su un territorio piccolo in seguito a questi grandi fenomeni e decisioni politiche prese a livello internazionale e, d’altra parte, banalmente provare a trovare momenti di relazione con delle persone bloccate alla frontiera, prendere il tempo di conoscerle e mettere in piedi attività che a volte possono anche semplicemente permettergli di evadere dalla noia quotidiana, che poi è una condizione che accomuna diversi contesti, come quelli delle molte periferie italiane e d’Europa. Qualsiasi attività che possa portare ad una maggiore coscienza di sé o alla socializzazione può essere utile. L’esistente va mantenuto, in più andrebbe implementato qualsiasi tipo di proposta, dalle iniziative estemporanee culturali, come proiezioni di film e spettacoli, magari momenti per socializzare, ma che aiutino anche a conoscere la realtà del momento…Sarebbe forse il momento di fare un invito a chi fa queste queste cose, di andare a fare concerti, spettacoli ecc a Ventimiglia».

Giulia e Lucio propongono un ragionamento a scala territoriale, nel quale il fatto di nutrire spazi di condivisione e arricchimento culturale diventi l’occasione per far incontrare tutti i soggetti che vivono il territorio Giulia, nel lungo o nel breve termine: «Abbiamo anche provato a ragionare sul fatto che manchi una proposta culturale su quel territorio. Una proposta che sia anche il dar luogo a situazioni nelle quali ci si possa incontrare tra persone diverse, cose banali e che però non si danno» (Giulia). A questo proposito, viene evocato un momento, una serata del mese d’agosto, durante la quale un concerto ha offerto la possibilità di confondere tra il pubblico le persone alloggiate nel campo della Croce Rossa e i giovani della zona, permettendo anche una, seppur breve, presa di parola dal palco: «Per il concerto dei Modena City Ramblers, insistendo, essendo una settimana dopo il corteo e avendo un altro tipo di reputazione sul territorio, si è riusciti a spingere sul campo della Croce Rossa per far sì che i ragazzi dal campo potessero andare al concerto, che potessero rientrare più tardi: in quell’occasione hai portato i ragazzi che stanno alla Croce Rossa ad un evento che succede in città, assieme alla cittadinanza e assieme ai giovani locali. Il passo oltre dovrebbe essere riuscire ad organizzare cose tutti assieme» (Lucio).

Incidere almeno sulla dimensione sociale locale, per rendere meno duro il territorio di confine, quindi, come un primo obiettivo possibile: «Si parte anche dall’assunto basic che il razzismo è ignoranza. Poi è evidente che tutto il resto dipende dalla geopolitica, nel senso che non abbiamo parlato del dispositivo frontiera, che evidentemente è il dramma, ma è vero che se, nel tempo che passano a Ventimiglia, potessero camminare per strada senza essere additati o insultati, allora forse anche il dispositivo frontiera potrebbe avere una minore violenza intrinseca, senza riuscire ad annullare tutta la violenza del dispositivo, chiaramente» (Giulia). Quella sui territori di confine è una riflessione condivisa anche da Gabriele: «Mi mette molto in difficoltà dare una risposta in merito all’agibilità politica a Ventimiglia e alle prospettive. Inizialmente arrivato a Ventimiglia pensavo si potesse mettere insieme l’azione politica con quella culturale. Ho visto che è molto più difficile di quello che pensavo. Gli stimoli che potrei dare in questo senso sono essenzialmente due. Il primo parte dall’idea che sia possibile spostare il piano dell’azione politica su Ventimiglia oltre la questione dell’immigrazione. Il confine, visto non solo come frontiera, ma come, al tempo stesso, dispositivo e risultato di una società: reinterpretare il confine in quest’ottica duplice, senza togliere lo sguardo sugli attraversamenti, può forse permettere di ripartire dal territorio di Ventimiglia in termini di lotte con un raggio geografico e di soggettività coinvolte ben più ampio della sola frontiera. Sia in una direzione culturale: rispetto a cosa sia questo confine, a come funzioni, a quali siano le dinamiche di sfruttamento e di esclusione e di soggettivazione dei corpi; sia in un’ottica politica: comprendere e potenziare le capacità di resistenza e di sovversione di certi tipi di logiche. L’altro stimolo che mi sento di suggerire è quello di leggere questo confine in confronto ad altri confini, osservando se vi siano similitudini, differenze con altri dispositivi di confine e con altre società di confine. Riflettendo sulla particolarità dei territori di confine, dovute al fatto che in questi territori sono racchiuse tutte le contraddizioni delle società nazionali, si osserva che questi territori permettono di vedere più chiaramente e distintamente come queste contraddizioni possano essere affrontate in maniera conflittuale».

Un rapporto, quello tra ciò che succede a ridosso della frontiera e le dinamiche che permeano le nostre società, evocato anche da Lia. In questo senso, il rarefarsi della partecipazione politica su scala locale e il trasferimento di una gran parte del dibattito pubblico nella sfera mediatica, diventano i principali ostacoli alla nascita di movimenti trasversali e radicati, e, allo stesso tempo, determinano una minore capacità di risposta a livello di comunità : « Un’altra ripercussione importante che c’è stata sia a livello nazionale che internazionale è la mancanza di compattezza dei movimenti, di risposta e di partecipazione politica sul territorio. Ciò determina a livello locale che non si riescano ad inventare delle strategie, a metterci dell’energia, a partecipare a un reale conflitto nei confronti di questa situazione assurda e che viola la nostra idea di vita e di convivenza. Non possiamo pensare che questo sia solo un problema di Ventimiglia, avviene in maniera disorganizzata, non corale, avviene in una popolazione che non vive più un minimo di collettività al suo interno e di conseguenza con qualcuno che può passare per lo stesso territorio. Mi capita di parlare con compagne/i che si trovano in altre parti d’Europa, non ultimo oggi un’amica in Austria e i discorsi sono gli stessi, rispetto a tutti quei fatti che qualche tempo fa ci sarebbero sembrati assurdi e li avremmo paragonati alla Shoah: a fatti che abbiamo considerato come aberranti, ad oggi non rispondiamo. Non credo che sia un problema solo italiano, c’erano territori che aborrivano fenomeni che sapevano di razzismo, di neonazismo e fascismo e la risposta è veramente carente oggi rispetto ad una situazione del genere» (Lia). Il rischio che si corre è quindi quello di ritrovarsi a rispondere solo su un piano che non ha la possibilità di innescare processi reali di lotta e cambiamento: «Questo è un problema sociale dato anche dal fatto che la verifica di quello che avviene è sempre delegata ad altri. In grande lo possiamo vedere nell’informazione data dalla televisione per cui se non mostrano una cosa, questa non esiste. Anche tra le persone a noi più affini la definizione il più possibile oggettiva di una situazione viene spesso delegata e non viene assunta con il contatto diretto, questa è una considerazione legata anche alle valutazioni della situazione di Ventimiglia. I risultati ottenuti da grandi incontri sono importanti, ma il pericolo è che esauriscano questa voglia di fare ed intervenire attraverso un atto simbolico ed unico. Già da tempo ma ancora più evidentemente adesso, hanno perso grandemente il loro significato» (Antonio).

Il fatto che emergano punti di vista talvolta distanti tra loro è, per Gabriele, sintomatico della densità che caratterizza i territori di confine: «Sul confine, non è un caso, che appaiano diversi modi di fare politica e di leggere la situazione. Che appaiano diversi posizionamenti politici nei confronti di quelli che sono i soggetti delle misure di controllo, le persone migranti e rispetto ai dispositivi confinari. L’approccio intersezionale è molto importante in questo caso, permette di comprendere come il confine sia un oggetto di studio interessantissimo: è sia il prodotto di una società, la società cioè produce il confine, ma anche il confine segmenta gli spazi della società. Il confine è il dispositivo che produce i rapporti di forza e posizionamento nella società. Quindi è assolutamente normale ci siano molti percorsi e posizioni politiche differenti sul confine. Questi percorsi si incontrano, ma al momento paiono non riuscire a intrecciarsi e solidificarsi».

A distanza di qualche tempo dallo svolgersi delle conversazioni di cui abbiamo riportato gran parte dei contenuti, rileggiamo la trama che ne abbiamo tessuto, dicendoci che il confronto permette di consolidare e problematizzare le analisi, aggiungendo osservazioni, dando profondità e permettendo di riconsiderare alcuni assunti. Ben lontane dalla pretesa di indicare linee più sensate di altre, ci diciamo che stare a Ventimiglia, fare esperienza della realtà e della quotidianità del confine, oggi, ha un senso ben preciso, in un momento storico nel quale riprendono piede i nazionalismi e nello stesso tempo il neoliberismo conquista spazi: lo consideriamo un punto di partenza, forse scontato, ma che prende forza proprio nel momento in cui si articolano e si confrontano le analisi che lo sostengono. Rileggiamo il risultato dell’incrocio di voci diverse e abbiamo più chiaro perché Ventimiglia sia un luogo da cui guardare al mondo, perché da Ventimiglia si debba anche saper ripartire.

Aiuto ai migranti: fino a quattro mesi di prigione per i “sette di Briançon”

Ieri il tribunale di Gap, nelle Hautes-Alpes francesi, ha emesso giudizi pesanti nei confronti di sette persone, accusate di aver favorito l’ingresso illegale in Francia di una ventina di migranti. Si è scelto di non considerare il contesto dell’episodio: una manifestazione, il 22 aprile scorso, che arrivava dopo un intero inverno di drammi e interventi in montagna, per soccorrere chi, totalmente privo di equipaggiamento, si trova ad attraversare valichi alpini innevati, braccato dalla polizia francese. Si è scelto di non dare peso alle condizioni materiali e politiche delle valli franco-italiane: nessuna menzione per la carenza di infrastrutture e sostegno ai migranti dalla parte italiana, nessun accenno alle sortite dei neofascisti, che, proprio in quei giorni, manifestavano pubblicamente la volontà di costituirsi in pattuglie di frontiera autonome e illegali (nessuno di loro è stato inquisito, nessuna inchiesta è stata aperta). Si è scelto di non guardare ai percorsi dei militanti, da anni impegnati nel soccorso in montagna e nella solidarietà attiva. Tutto ciò succede ad un giorno dall’annullamento di un’altra sentenza per “delitto di solidarietà”, caduta su altri militanti, di altre valli frontaliere. Non è semplice esprimere giudizi su tale disparità di trattamento. A caldo, prevale un sentimento di ingiustizia, prevale la rabbia verso una società che accetta di scagionare un eroe, ma che sia uno! Il messaggio sottinteso sembra dire: non osate ripetere le sue gesta, che la solidarietà non diventi appannaggio di tutti, soprattutto se praticata collettivamente e alla luce del sole.

Ci sembra chiaro che, ad essere sanzionata, sia prima di tutto la linea politica che ha animato una manifestazione che, in maniera chiara e radicale, avulsa da qualsiasi velleità umanitaria e assistenzialista, esprime una lotta orizzontale contro i dispositivi di confine, per la libertà di tutt*.

Traduciamo un articolo dal portale Politis, qui il link all’originale: https://www.politis.fr/articles/2018/12/aide-aux-migrants-jusqua-quatre-mois-de-prison-ferme-pour-les-sept-de-briancon-39748/

Il tribunale correzionale di Gap (Hautes-Alpes) giovedì ha emesso dei verdetti che vanno fino a quattro mesi di prigione nei confronti di sette militanti, il cui capo d’imputazione è quello di aver aiutato dei migranti a entrare in Francia la primavera scorsa. Due degli imputati, francesi, già condannati in passato e inquisiti in questo stesso dossier giudiziario anche per ribellione, sono stati condannati a dodici mesi di prigione, di cui 4 da scontare in carcere.

Per uno di loro, M. B., 35 anni, la pena prevede anche una ‘messa alla prova’ di due anni e una multa di 4.000 euro. «Erano due le scelte possibili oggi, si trattava di scegliere tra la solidarietà e la morte. Il tribunale di Gap ha scelto la morte per gli esiliati» – ha dichiarato quest’ultimo all’uscita dal tribunale (https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/12/13/7-de-briancon-les-reactions-apres-les-condamnations-hautes-alpes-gap). In effetti, l’allarme ha suonato in quel di Briançon: le associazioni di aiuto ai migranti (Anafé, Amnesty, Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, Secours catholique…) hanno lanciato l’allerta «sull’insufficienza della presa in carico e il respingimento sistematico di uomini, donne e bambini che cercano di oltrepassare la frontiera franco-italiana (…) mentre inizia la fredda stagione invernale». Si temono altri drammi, considerando che le temperature scendono a -10° in montagna.

Gli altri cinque, due francesi, un’italiana, uno svizzero e un belga-svizzero, dalla fedina penale intonsa, sono stati condannati a sei mesi di prigione con la condizionale. Hanno dieci giorni per ricorrere in appello. Un centinaio di militanti della causa dei rifugiati si sono radunati giovedì pomeriggio sotto le finestre del palazzo di giustizia per sostenere i ‘sette di Briançon, come vengono chiamati. Il tribunale ha seguito le richieste del procuratore di Gap Raphael Balland, che durante il processo dell’8 novembre non aveva invocato l’aggravante di ‘banda organizzata’.

«Sono un po’ basito davanti a una decisione così severa, per dei fatti che sono quantomeno discutibili (…). I gilets jaunes ne hanno fatte di ben più gravi» – si è lamentato Christophe Deltombe, présidente della Cimade, associazione di difesa dei diritti dei migranti. «Ero convito che sarebbero stati rilasciati. Non vedevo dove potessero essere individuati gli elementi materiali e intenzionali dell’infrazione penale. Siamo in pieno in quel che viene chiamato ‘crimine di solidarietà’: sono condannati perché sono stati solidali a delle altre personé» – ha aggiunto.

«Siamo tutti un po’ colpiti da questa decisione. E’ una pena estremamente severa. La motivazione del tribunale non ci ha convinto» – ha reagito da parte sua Maeva Binimelis, uno dei sei avvocati dei militanti. «Questa decisione è un colpo di freno alla direzione presa in favore di una maggiore umanizzazione e individualizzazione delle condanne per delitto di solidarietà, nell’attesa della sua soppressione», critica da parte sua un altro dei difensori, Vincent Brengarth.

L’accusa imputava ai sette militanti, le cui età vanno dai 22 ai 52 anni, di aver facilitato, il 22 aprile, l’entrata in Francia di una ventina di migranti confusi ai manifestanti forzando una barriera eretta dalle forze dell’ordine. Durante l’udienza, gli imputati avevano contestato il fatto di aver coscientemente aiutati i rifugiati a passare la frontiera nel corso della manifestazione. Partita da Clavière, in Italia, questa si era conclusa a Briançon.

Il processo iniziale, previsto in maggio, era stato rapidamente rimandato, per concedere il tempo al Consiglio costituzionale di esprimersi sul ‘delitto di solidarietà’. In luglio, i ‘Saggi’ hanno considerato che, in nome del ‘principio di fraternità’, un aiuto disinteressato al soggiorno irregolare non sarebbe passibile di condanna, l’aiuto all’entrata resterebbe però illegale.

Mercoledì, la Corte di cassazione –la più alta giurisdizione dell’ordine giudiziario in Francia – ha annullato la condanna di Cédric Herrou, diventato un volto noto dell’aiuto ai migranti, e di un altro militante della Valle Roya, condannati in appello per aver assistito dei migranti.

“Fare i conti, senza l’oste” – Ventimiglia (17/11/18 )

Ventimiglia 17/11/18 : “Fare i conti, senza l’oste”
Una pagina di diario che contiene impressioni rielaborate cercando un filo che non sia solo analitico ma anche emotivo. Nell’incapacità di tracciare un quadro esaustivo o di trovare una quadra politica rispetto alla sfida terribile che il presente ci pone di fronte, il racconto soggettivo è solo un modo di lasciare una traccia.

 


Ventimiglia è quella città di confine in cui esci dal treno e ti trovi davanti ad un quadro metafisico. Il tempo sembra sospeso: un gruppo di suore vestite in bianco si affretta sulle scale della stazione, pochi ragazzi neri aspettano il loro destino seduti su un muretto, un quartetto di donne e uomini di affari si salutano e entrano nella loro audi metalizzata, distrattamente una volante attraversa il piazzale.

Ventimiglia, di nuovo e d’autunno inoltrato, ormai quasi inverno.

 Ventimiglia: manca qualcosa, un’assenza corposa e tangibile.

Una città di confine dove le contraddizioni scoppiano e ti buttano in faccia quanto qualsiasi posizione – se non inserita in una visione complessiva, concreta e radicale di cambiamento – diventi astratta e moralistica.

A Ventimiglia quasi tutti i bar vivono grazie alle macchinette per il gioco. Il sindaco da un paio di settimane ha emesso un’ordinanza contro le macchinette che prescrive di tenerle chiuse dalle 7 alle 19.
Il sindaco delle ordinanze, quello del divieto di dare da mangiare alle persone migranti, emette un’altra ordinanza. A prima vista, stavolta fa bene. Ma davvero è così?

Alcuni bar potrebbero essere costretti a chiudere. Nei bar di Ventimiglia lavora gente normale con tutte le sue contraddizioni, molti lavorano da mattina a sera per campare. La maggior parte si è piegata al razzismo, non tutti come sappiamo però.
I commercianti strozzati dalle tasse, che non riescono a sbarcare il lunario e che saranno ancora più nella merda, magari costretti a chiudere, a causa della perdita delle macchinette.  Quei commercianti che sono alcuni degli omologhi italiani dei Gilets Jaunes che in questi giorni incendiano la République.

Certamente le macchinette sono una merda, sintomo della vita alienata che la gente, soprattutto quelli dei ceti più bassi, si trova a vivere. Ma un’ordinanza sulle macchinette fatta dal  sindaco delle ordinanze contro il cibo distribuito alle persone migranti, da un sindaco che ha ordinato lo sgombero dell’esperienza dei Balzi Rossi, da un sindaco del partito di Minniti, non potrà mai essere un’ordinanza buona.

Il confine ti mette continuamente di fronte alle contraddizioni sanguinanti di questo tempo.

Le persone in viaggio sono radicalmente diminuite e quelle che ci sono restano il più invisibile possibile.

 

Uscita dal bar di Delia, costeggio il lungo fiume prima di dirigermi all’assemblea del Coordinamento territoriale in Via Tenda, presso lo spazio Eufemia. Mi fermo a guardare delle palme che sono state decapitate. Mi si avvicina un signore sulla cinquantina, si presenta: “ Alfiero Pasquale, piacere, un tempo ero il vigile coi baffi . Guardi qui, nella foto, come ero bello un tempo. Sì le palme le hanno decapitate, hanno tagliato tanti alberi. Perché io lo so, sa, chi è stato. Quello lì, fa finta di fare ma non sa da dove si comincia.

 Ogni tanto sogno, o meglio sono in dormiveglia. Vedo delle cose, degli uomini. Appesi come pipistrelli, per i piedi. Sotto il ponte del cavalcavia della ferrovia là sotto. Lo sa? Li ha visti? Ma poi da lì sono stati mandati via. Verso la spiaggia. Ora li vedo, sotto il mare che camminano, in un tunnel. E io li inseguo e gli sparo delle frecce, proprio qui in mezzo alla fronte.”

“ Per ammazzarli?” – domando io.

“ Ma no sono già morti. Sono tanti, neri, vengono da altri posti, io li vedo, sono visioni che mi arrivano, come nel dormiveglia, me le manda il Padre di tutto, così lo chiamo io, che mi chiede di pregarlo…..”

L’ex vigile viene interrotto e io proseguo, pensando a come alcune situazioni con la loro enorme violenza sociale e politica producano nelle menti più sensibili e più porose delle visioni, delle ossessioni, pazzie che in fondo lo sono poco, confrontate all’accettazione brutale e diffusa della normalità spettrale.

 

 

Via Tenda è buia, piena di lavori stradali. Dentro Eufemia la luce è accesa e la stanza piena. La prima cosa che penso è che, partecipanti alla riunione del coordinamento territoriale, siamo solo europei con i documenti in regola.

Si ricapitola la situazione.

L’afflusso delle persone migranti è radicalmente diminuito. Le presenze al campo Roya lo dimostrano. Molti si fermano appena nella città di confine, sono già indirizzati al circuito dei passeurs. Il campo Roya se chiuderà, probabilmente poi riaprirà sotto forma ancora peggiore. Verranno applicate delle misure speciali varate per le zone di frontiera. Suona tutto molto inquietante e molto verosimile.

A gennaio lo spazio Eufemia gestito dal progetto 20K dovrà chiudere, il proprietario non rinnova il contratto d’affitto, non vuole grane. Difficile sarà trovare un nuovo spazio  in un territorio sempre più blindato, da una politica locale e nazionale razzista, dal controllo mafioso, da una popolazione in buona parte in difficoltà e chiusa nel suo egoismo. Resta un posto solo, ancora amico, il bar di Delia, ma per proteggerlo ci vorrebbe un progetto collettivo fatto da persone solidali che vivono il territorio e che abbiano la voglia e trovino le motivazioni per sporcarsi le mani con la melma di questa città di frontiera.

La repressione è sempre più forte: viene citato il caso delle due compagne che hanno ricevuto il foglio di via da Ventimiglia solo per aver documentato un’azione poliziesca volta alla deportazione delle persone migranti dalla città. Qualcuno chiede se sia possibile fare qualcosa collettivamente, un’azione dimostrativa per denunciare il livello repressivo inaudito, ma nell’assemblea sembra prevalere l’idea che occorra evitare altri problemi. Resta da chiedersi per fare cosa, visto che gli spazi di agibilità sono praticamente finiti.

La riunione si conclude, lasciando più interrogativi che progettualità condivisa.

Percorrendo Via Tenda a ritroso, nel buio fitto della sera, di nuovo percepisco un’assenza così concreta e reale. E cercando il comune denominatore di questa mezza giornata al confine, come al solito col suo tempo sospeso, condensato e lunghissimo, penso al detto: “fare i conti, senza l’oste”.

g.b. della redazione