Lunedì 17 Giugno 2019, nelle aule del Tribunale di Imperia, si è tenuta la prima udienza del processo per occupazione nel 2015 della pineta dei Balzi Rossi (un’area adibita a parcheggio). A un passo dal confine, il campo chiamato “presidio permanente no borders” fu un’esperienza attraversata dalle più diverse realtà sociali e politiche, da attivist* e volontar* accors* da tutta Italia e non solo, per sostenere la protesta contro la chiusura del confine italo-francese iniziata da un gruppo di persone migranti che si trovarono la strada sbarrata.

 

Così scrivono, in un comunicato che annuncia l’inizio del processo, alcune delle persone che in quell’estate cercarono assieme di costruire un’alternativa alla chiusura e alla violenza dell’Europa:
Lunedì 17 si apre la prima pagina giudiziaria del processo al campo autogestito dei balzi rossi. Presidio permanente no border era il nome in cui persone in viaggio, solidali, donne e uomini che lo hanno partecipato si sono riconosciute. Centinaia, forse migliaia, in quell’estate del 2015 hanno fatto l’esperienza storica di scavare una bolla all’interno delle rotte migratorie e del tessuto sociale; una bolla dentro la quale si è cercato di praticare partecipazione, lotta e orizzontalità. Trentuno di loro saranno a processo. Processano loro, processano le lotte, la libertà di movimento, la solidarietà. Processano tutto quello che siamo stati e che saremmo voluti essere. Abbiamo commesso un reato forse: quello di creare un luogo dove si provava a stare assieme, ad ostacolare gli organismi repressivi, a provvedere ai nostri bisogni, a rivendicare un’altra rotta, più umana, per chi voleva muoversi attraverso le strade del mondo. Non volevamo confini, non volevamo lager, non volevamo violenze, non usavamo guanti di lattice, non volevamo che nessuno rimanesse indietro; forse più che imputarci i crimini che abbiamo commesso dovrebbero evidenziare quelli che non abbiamo voluto commettere. Quell’estate siamo stati tutto.

 

Un passo indietro: Nel giugno 2015, in occasione del G7, lo stato francese decise la sospensione del trattato di shengen, a svantaggio delle migliaia di persone in fuga dai paesi dell’Africa e del Medio Oriente per i più disparati motivi. L’empasse che si generò tra le diplomazie italiana e francese, poi il braccio di ferro su cui iniziarono a cimentarsi tutte le potenze europee nelle settimane seguenti, scatenarono quella che fu chiamata “l’emergenza migranti”. Improvvisamente scoppiò il caso mediatico: si gridò all’invasione e i media di tutta Europa si riversarono su quel pezzetto di scogli tra Ventimiglia e Mentone per documentare la protesta intrapresa alle soglie del vecchio continente.

Uno dei momenti di protesta delle persone migranti bloccate alla frontiera franco italiana, Balzi Rossi, estate 2015

 

Un gruppo di uomini provenienti principalmente da Sudan e Corno d’Africa, determinati a far valere i propri diritti e a far ascoltare le proprie rivendicazioni, decisero di piazzarsi sulla scogliera adiacente al valico di frontiera, così da evitare cariche e sgomberi da parte delle polizie. Di bocca in bocca, si diffuse un grido che rimbalzò sulle principali testate nazionali ed estere: we are not going back. Open the border.
Un numero variabile e crescente di persone italiane ed europee giunsero a Ventimiglia per unirsi alle richieste della gente bloccata al confine e portare loro supporto materiale, solidarietà umana e forza politica. Ne nacque un campo di resistenza e protesta contro le politiche di respingimento europee e, in particolare, contro gli accordi con cui Italia e Francia hanno continuato e continuano tutt’ora a rimbalzarsi avanti e indietro queste persone che nessuno vuole tenere sul proprio suolo nazionale.
Gli italiani brava gente assieme ai cugini d’oltralpe misero in piedi un meccanismo di selezione etnica alla frontiera che venne chiamato dalle persone solidali, dalle persone migranti e da chi si fece eco per quella protesta, “il ping pong” della frontiera. Le vessazioni e le umiliazioni iniziarono ad essere la prassi per le persone extraeuropee in viaggio che venivano e vengono tuttora sottoposte alla procedura: arrivarono i primi container in cui stoccare la gente catturata nel tentativo di attraversare il confine; poi le prime testimonianze di trattamenti degradanti, detenzioni arbitrarie, angherie.

Dopo alcune settimane di stallo, si delineò quella che divenne la politica ufficiale delle istituzioni nazionali e locali (amministrazione ventimigliese allora in quota pd): ordinanze contro la distribuzione del cibo ai migranti; persecuzione della solidarietà e reiterate richieste di sgomberi; una pioggia di fogli di via da Ventimiglia e provincia per le persone solidali; la distruzione a ruspate del campo all’inizio di quell’autunno.

I poteri istituzionali nostrani fecero tutto il possibile per stroncare qualsiasi contatto, condivisione di informazioni e prospettive di cambiamento tra la gente in arrivo da Africa e Medio Oriente e le persone europee in disaccordo con la chiusura dei confini e il proliferare di pratiche discriminanti. Sullo sfondo, la pressione di un’unione europea che si rivelava un mostruoso buco nero di egoismo, neocolonialismo, violenza, razzismo e sciovinismo nazionalista, scegliendo di auto rappresentarsi come fortezza.

 

Ora, giugno 2019, sta iniziando la quinta estate di controllo del confine: allora come oggi ad essere fermate sono solo le persone di colore, quelle che portano sulla fronte l’etichetta discriminatoria di “migrante”. Diciamocelo: la Francia non ha mai sospeso un bel niente per chi indossa pelle bianca e vestiti sufficientemente costosi e puliti.

E lunedì 17 è iniziato anche il processo per gli eventi di quel 2015, con oltre quattro ore di ritardo sulla mattinata: passano davanti due processi per direttissima a un presunto passeur e a due uomini di origine tunisina colpiti da decreto di espulsione. È condanna per tutti. Non si sa dove verranno portati (in un carcere? In un cpr?).

Quando ormai è pomeriggio si apre l’udienza: 31 persone imputate per occupazione in concorso di edifici e terreni, qualcuna anche di aggressione nei confronti di un giornalista che si infilò al campo. Molte le persone che si sono presentate al tribunale in solidarietà con gli imputati e le imputate.
Il processo inizia con alcuni teste per l’accusa: il giornalista che ripropone la sua versione della presunta aggressione, agenti della digos, polizia scientifica. Bastano poche battute ed è subito evidente la pressapochezza con cui l’accusa ha costruito il suo teorema. Goffi e imbarazzanti alcuni passaggi nella ricostruzione degli eventi e nella ricerca di una manciata di responsabili a cui accollare i fatti di quell’estate, tra le migliaia di persone che vissero e diedero forza a quel campo. Due dei testimoni dell’accusa si sono dati giustificati, non presentandosi. L’effetto complessivo è di assistere a una tragicommedia in color seppia di un film antico e quasi dimenticato

Mentre gli inquirenti e gli esecutori del sistema attaccano, banalizzano e riassumono per sommi capi le centinaia di sfide e di idee che mossero le rivendicazioni e le lotte al confine nell’estate del 2015, tra chi ancora è nemico e nemica delle frontiere non ci si può accontentare di riassumere gli accadimenti dei circa cento giorni di campo in una celebrazione di quello che è stato. Nemmeno è sufficiente avere il coraggio di soffermarsi anche sulle critiche e sulle riflessioni per quello che invece andò storto.

Se parlare della lotta dell’estate 2015 ai Balzi Rossi oggi ha un senso, lo ha non solo nel tenere viva la memoria di un passaggio storico che, lungi dall’essersi concluso, si è rivelato la prima pagina di una nuova epoca di orrori. Ma soprattutto perchè il paragone tra gli eventi e le risposte repressive di ieri e di oggi (oggi ben peggiori che nel 2015) contro le persone -migranti e solidali- che non accettano questo stato di cose, ci dice tantissimo sul cambiamento dei tempi. È avanzata a velocità spaventosa la normalizzazione di un sistema che, per essere tenuto in vita, necessita del capro espiatorio della storia contemporanea: il clandestino all’arrembaggio che sconquassa la nostra “pace” e interroga le nostre coscienze e che quindi va affogato, umiliato, sfruttato, annientato.

 

Quello contro cui si cercò di lottare quell’estate oggi è realtà normata. Si moltiplicano le prigioni etniche, i fili spinati e le cacce all’uomo. Eppure la gente non si è arresa e continua a migrare. Le frontiere continuano a uccidere, mentre dilagano i crociati a difesa di una presunta purezza identitaria europea (ma soprattutto in difesa della propria privilegiata posizione nel sistema economico globale).

Il processo iniziato lunedì 17 giugno porterà a sentenza una battaglia che sarebbe incompleto raccontare solo tramite i fatti di allora. Il ricordo di ciò che fu l’esperienza del campo dei Balzi Rossi a Ventimiglia non dovrebbe rispolverare soltanto la nostalgia per ciò che si fece e per come lo si fece, quanto accendere una rinnovata rabbia e determinazione per quello che si dovrebbe ancora combattere oggi. E per come non lo si stia facendo ancora abbastanza.

La prossima udienza è fissata per il 17 febbraio 2020, con ulteriori 4 teste dell’accusa e primi 5 teste per la difesa.

Si srotolano i mesi e si annacqua la memoria, ma il tempo non è un palliativo allo schifo che dilaga e che raschia le coscienze di tutte e tutti noi.

 

Tribunale di Iperia, striscioni appesi da alcune persone solidali poco prima dell’inizio del processo per l’occupazione dei Balzi Rossi.

alcune persone solidali hanno indossato una maglietta con la scritta “la Bolla a processo-io c’ero”, a sostegno delle 31 persone imputate per occupazione.

 

(Immagine di copertina: la locandina per l’inizio del processo, ispirata al lavoro La Bolla che raccontò i giorni del presidio ai Balzi Rossi.)