Solidarietà alle persone sotto processo per il Corteo del 7 maggio 2016 al Brennero contro la costruzione di un muro di confine tra Austria e Italia
Con questo contributo vogliamo portare la nostra solidarietà alle compagne e ai compagni che hanno lottato contro la costruzione del muro di confine al Brennero, tra Italia e Austria
Il 5 marzo prossimo la Cassazione deciderà se confermare o meno oltre 125 anni di carcere. In vista di questa scadenza, hanno fatto un appello alla solidarietà presente in un opuscolo in cui sono raccolti una parte dei testi scritti durante quegli anni e che sviluppa in maniera più approfondita quanto accaduto. In questo appello ricordano che il 2 marzo a Trento e il 3 marzo a Bolzano ci saranno due cortei in solidarietà con gli imputati e le imputate del Brennero e con la popolazione di Gaza.
Le compagne e i compagni hanno creato una cassa di solidarietà. Non solo un numero di conto a cui far arrivare contributi economici, ma anche un contatto per avere materiale informativo (anche in francese, inglese e tedesco), organizzare interventi a concerti o altre iniziative di solidarietà, uno spazio in cui confrontarsi.
“La questione non sono tanto gli anni di carcere che dovremo scontare, ma il rischio che questa condanna porta in sé per la libertà di tutti e tutte”.
Qui il link a una panoramica che le compagne e i compagni hanno scritto sulla situazione alle frontiere in quel periodo, la scelta di fare il corteo e degli accenni alla situazione attuale in Italia.
L’opuscolo costa 2 euro che verranno versati nella Cassa di solidarietà Brennero.
Qui gli opuscoli impaginati per la stampa in italiano (sono pagine in A4, quindi da stampare su A3), inglese, tedesco e francese (sono pagine in A5, quindi da stampare su A4).
Per ricevere gli opuscoli in carta e inchiostro, scrivere a cassasolidarietabrennero@riseup.net
Diamo forza alla solidarietà!
Le ragioni per cui tutte e tutti eravamo il 7 maggio al Brennero non hanno fatto che moltiplicarsi
Condividiamo con piacere il risultato di un lavoro di collaborazione tra questo blog e il sito Osservatorio Repressione. Al link sottostante è possibile scaricare in formato pdf il quaderno informativo Resistere al Confine: un compendio sulla situazione al confine di Ventimiglia tra il 2015 e il 2023 e sulle conseguenze che questo confine causa nelle vite di chi tenta di resistere e attraversare la frontiera franco-italiana.
Per scaricare il quaderno integrale in versione pdf (a singola pagina o a doppia pagina):
L’introduzione al lavoro di Osservatorio Repressione:
Continua il nostro viaggio tra quell’umanità che il 14 giugno le autorità greche hanno lasciato consapevolmente morire nel mare Egeo, così come hanno fatto le autorità italiane per la strage di Cutro, così come accadde a Lampedusa nell’ottobre del 2013 distante nel tempo ma vivo nella memoria. Non sapremo mai il numero degli annegati: sappiamo che una nuova strage si è compiuta. E non sapremo mai quante, quanti, non riescono a correre il rischio di sopravvivere al mare. I nuovi desaparesidos. Con Resistere al confine, grazie al collettivo «Parole sul confine» raccontiamo le lotte di resistenza e di speranza, e gli avvenimenti che dal 2015 si sono succeduti sugli scogli di Ventimiglia e lungo i sentieri della frontiera tra Italia e Francia
Dalla quarta di copertina:
In una città di frontiera come Ventimiglia si dispiega tutta la forza oppressiva e repressiva delle politiche migratorie: persecuzione, annientamento, riduzione in schiavitù, condanna all’isolamento e alla marginalità delle persone migranti. «Parole sul confine» nasce per raccontare le pratiche di resistenza e di lotta contro la violenza istituzionale e contro tutti i dispositivi che negano il diritto a migrare e ad una vita migliore.
Per scaricare la versione pdf integrale della graphic novel La Bolla di Emanuele Giacopetti: La Bolla
Ahmed Safi è un ragazzo afghano di diciannove anni. Lunedì 7 novembre è morto attraversando il confine a Ventimiglia. Pubblichiamo il testo del comunicato che è stato letto e distribuito ieri, domenica 13 novembre, dalle persone solidali del territorio che si sono radunate proprio davanti al confine tra Italia e Francia per commemorare e portare un saluto ad Ahmed. (1, 2)
Per Ahmed
Alcuni giorni fa, lunedì 7 Novembre, Ahmed Safi, un ragazzo afghano di 19 anni è morto sull’autostrada A10 a Ventimiglia, investito mentre provava a raggiungere la Francia.
Ahmed è l’ennesima vittima delle politiche di discriminazione e respingimento della fortezza Europa. Come lui sono più di cinquanta le persone morte dal 2015 ad oggi nel tentativo di attraversare la frontiera italo-francese.
Chi crede nella libertà di circolazione deve oggi fare i conti con un aumento esponenziale delle vittime ai nostri confini. Ogni volta il primo tentativo è quello di ricostruire, dare un nome, documentare, raccontare e, malgrado tutto, contare. Il numero dei morti, questa triste contabilità, perde però di significato se non riflettiamo come ciascuna di questa persone morte fosse una vita, una storia personale che si è interrotta e i cui affetti sono spesso lontani dal luogo della fine.
In ogni società alla morte di una persona la comunità risponde con un rituale nel quale si intende salutare chi se ne è andato e rinnovarne il ricordo. Crediamo sia giusto che questo accada anche qui in frontiera, per quelle persone che se ne sono andate lontane dai propri affetti, dopo aver attraversato migliaia di chilometri ed essersi trovate davanti l’ennesimo muro.
Crediamo che salutare e commemorare ogni singola vittima della frontiera sia tanto più importante oggi, nel momento in cui i governi di Italia e Francia gareggiano a chi riesce a garantire il trattamento più inumano a chi è in viaggio, l’una chiudendo i porti l’altra aumentando gli effettivi alle frontiere. A questa inumanità oggi rispondiamo con il più umano dei gesti, salutare chi se ne va.
Siamo quindi qui per Ahmed, per la sua famiglia, per i suoi amici e per le sue amiche.
Per dirgli addio e rendergli omaggio.
Per Ahmed Safi, ragazzo di 19 anni, morto lunedì 7 novembre a Ventimiglia
Italia-Francia diventa un’espressione unica in questi giorni vibranti di tensioni, ricatti e giochi politici. Italia-Francia è un binomio che tiene insieme, in pochi mesi, un viaggio che parte dall’acclamata squadra mista di gendarmi e polizia “per la sicurezza transfrontaliera” per arrivare in picchiata alle velenose dichiarazioni delle ultime ore.
In tempi ormai sospetti e guasti, Italia-Francia suona come una minaccia di guerra.
Migranti, crisi Italia-Francia. Meloni: “non siamo più in grado di occuparcene”; Crisi Italia-Francia, in arrivo altre misure di ritorsione; Scontro tra l’Italia e la Francia, Parigi blinda i confini 500 agenti alla frontiera; Migranti, scontro aperto Italia-Francia; La crisi diplomatica tra Italia e Francia per la nave Ocean Viking. Questo è ciò che stanno scrivendo in queste ore di litigiosa contesa geopolitica tutte le testate giornalistiche di qualsiasi schieramento politico. (1,2,3,4,5)
Ecco: povera Italia quindi. Ma soprattutto, poveri italiani… Addirittura, su queste sponde italiche di rivoltamenti narrativi di convenienza, siamo riusciti a raggiungere nelle ultime dichiarazioni lo stadio del ‘poveri migranti!’ (che però non dovete sbarcare, crepate pure in mare, anzi gli uomini li rimandiamo direttamente in Libia perchè la pacchia è finita ).
Quello che accade è spiacevole, ma quello che si dice ha dell’incredibile.
In queste bieche ore di faide internazionali e minacce politiche, si stanno scalando inedite vette di ipocrisia, mentre si scava a piene mani dagli abissi più profondi dell’indecenza umana.
Una prima riflessione, per chi conosce Ventimiglia e le sue dinamiche di frontiera, è che una dichiarazione francese che annuncia torva la blindatura dei confini fa ridere. Una risata amara e lunga come la lista delle persone decedute a Ventimiglia nel tentativo di attraversare il confine dal 2015 ad oggi. Già, quante sono le persone morte sul confine Italia-Francia a Ventimiglia? C’è qualcuno che lo sa? Forse trenta. Forse quaranta. Probabilmente di più.
Era così aperto e accogliente prima questo confine, con la legione straniera con cani e infrarossi sui monti, i pattuglioni nelle stazioni francesi coi piedi di porco in una mano e i gas lacrimogeni nell’altra, i checkpoint lungo le strade e le autostrade, le detenzioni per donne uomini e bambini per ore infinite senza acqua e cibo in scatole di metallo, ma era così una festa che la gente decideva da sola di finire precipitata nei dirupi che portano in Francia, travolta sulle autostrade, bruciata sui tetti dei treni francesi.
L’ultima vita rubata dal confine Italia-Francia è quella di Ahmed Safi, diciannove anni, investito lunedì 7 novembre da tre diversi automezzi presso il casello autostradale che divide Italia-Francia: un corpo distrutto a causa di questo confine e raccattato in un macabro simbolismo proprio sulla linea della frontiera.
Che se non dicevano due giorni fa che vogliono blindarla, sta frontiera Italia-Francia, allora mica la gente se ne era accorta che si rischia l’osso del collo per raggiungere quella desiderata libertà in Europa.
Una seconda ovvia riflessione sorge leggendo certe grottesche dichiarazioni di certi amministratori regionali che scelgono, nel dubbio di un momento già abbastanza sinistro di per sé, di rincarare la dose di follia sostenendo che la gente che migra muoia di fame per strada a Ventimiglia per colpa della Francia.
A prescindere dai tuonanti titoli dei giornali e dalle scornate che si danno i politici italiani e i cuginid’Oltralpe in queste ore, quale che sia la posta in gioco nelle beghe per l’egemonia in Europa, il governo Italiano avrebbe il dovere di adoperarsi in ogni modo possibile per evitare che la gente finisca a morire lentamente, spegnendosi lungo i marciapiedi di una città.
Un dovere umano prima ancora che politico. E invece è proprio nell’anno del rinnovo della presidenza di regione di un certo personaggio, che oggi si straccia le vesti per i poveri migranti che languono nelle vie della città di confine, che si è deciso di sbaraccare qualsiasi centro d’accoglienza e ristoro per le persone in viaggio verso l’Europa: dal 2020 non c’è trippa per gatti, eppure gli oltraggiosi francesi erano, all’epoca, validi alleati per la sicurezza del territorio.
Per chiarezza: la gente moriva in strada col Pd (non ci si dimenticherà mai del divieto di portare da mangiare a chi aveva fame) come con la Lega. Con chiunque a qualsiasi livello politico, dagli amministratori locali agli apici delle posizioni in parlamento, negli ultimi sette anni la gente ha perso la vita certamente camminando sul confine, così come ha perso la vita nelle strade di Ventimiglia. Con Fratelli d’Italia, che il cielo scampi la popolazione migrante, le persone continueranno a morire in strada di fame, di freddo, di infarto, di abbandono, di malattie, annegate lungo il fiume dove sono costrette a dormire senza altre soluzioni. Queste sono responsabilità tutte nostrane, checchè abbia la faccia tosta di dichiarare chi è presidente per la regione Liguria, per ironia o forse no, proprio dal 2015.
È obiettivamente agghiacciante e impossibile prendere le parti di uno o dell’altro paese in questo rombare di accuse reciproche. Fate tutti veramente schifo, diciamolo un po’ fuori dai denti. Diciamolo serenamente che tra i due litiganti il terzo non gode, e chi ha sempre e da sempre pagato il conto più amaro è proprio la gente senza un documento europeo che viene dall’Africa e dal Medio Oriente.
Gente che viene definita “clandestini” quando serve alla politica italiana per far mambassa di voti per i partiti di estrema destra e che viene definita “persone che cercano solo di ricongiungersi ai parenti” quando bisogna fomentare il popolo, elmo di Scipio ben stretto sulla testa, a scagliarsi contro i nemici francesi.
Italia-Francia suona come una minaccia di guerra e in ogni guerra fatta a regola a versare il sangue è il capro espiatorio che si butta là davanti nel tritacarne: le persone migranti. Mentre chi dietro tiene le poltrone ci sprofonda saldamente ancora più dentro.
Inumani lo siete tutti, inumani e perversi, e fa veramente disgusto il modo in cui da anni riuscite a utilizzare i corpi e le vite delle persone per fare i vostri teatri di politica, le gazzarre elettorali italiane e i circhi dell’ipocrisia europea. Mentre fate a chi strilla più forte per potere e per soldi, per rivalsa e per orgoglio, la gente continua a camminare, a scappare da guerre, povertà, persecuzioni, cambiamenti climatici, mancanza di chance e prospettive di vita soddisfacenti. Le persone arrivano a centinaia al mese lungo il confine di Ventimiglia. A centinaia vengono catturate, vessate, rinchiuse e umiliate. Dalle polizie di qui come dalle polizie di là. Con o senza rinforzi di ulteriore gendarmeria, che essere fermati da quindici o trenta divise forse fa oggettivamente più brutto, ma il risultato è che le persone vengono comunque bloccate a morire nel corpo e nelle speranze nelle strade di un’Italia che dice che “non ce la fa”, ma che effettivamente nemmeno vuole provare a farcela.
Perchè infine bisogna dire anche che al confine di Ventimiglia continuano ad arrivare tante persone che sono appena sbarcate da queste navi di soccorso che fanno rizzare altre piume e scuotere altre scornate, quante altrettante (e negli ultimi anni sempre di più) sono quelle che stanno scappando da un’Italia in cui non riescono a trovare un proprio posto e continuano a rimbalzare contro muri di gomma e di razzismo fino a uscire di senno, suicidarsi o correre il rischio di perdere la vita per valicare questo confine maledetto che riempie la bocca di giornali, opinionisti e politici che di cosa sia la guerra per sopravvivere a Ventimiglia, che cosa sia la sfida a non soccombere a Italia-Francia, ma non ne hanno la più pallida idea.
Lo scalpo, parola di origine scandinava, consiste nel praticare un taglio circolare intorno alla testa al fine di strapparne una parte. Solitamente si conosce come una pratica adottata dai nativi americani, ma esiste un’altra storia che la riconosce appartenere ai coloni francesi e inglesi che estraevano un “premio” per ogni persona nativa uccisa, collezionando scalpi. Il gioco del fazzoletto sembra avere origine da lì: tutti si sparpagliano nel campo di gioco e al “via!” ognuno cerca di rubare il fazzoletto o lo “scalpo” degli altri.
Si può solo acchiappare lo scalpo: si è squalificati se ci si spinge, ci si afferra o se si trattiene con la mano il proprio scalpo.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Iniziamo così questa testimonianza di alcuni giorni trascorsi a Ventimiglia perché è questo che i nostri occhi vedono quando un giovane migrante nordafricano ci mostra la ferita sulla testa provocata dalle violenze ricevute, nel mese di luglio, dalla polizia francese. Il medico scriverà sul referto: trauma con scalpo parziale al capo. L’uomo ci racconta che la polizia francese aveva posto rimedio al taglio graffettando con una sparapunti la ferita e ci mostra una lesione al tendine estensore del III dito -che in medicina viene definito “atteggiamento a becco di flauto”- della mano destra. Anch’essa provocata dalla violenza poliziesca. Sarà lesionato a vita, ci dirà il medico, ma necessita di un appuntamento specialistico presso ambulatori di chirurgia della mano che in Liguria si trovano a Savona e Genova.
Inizia così il nostro viaggio nel girone dantesco della Sanità nella provincia di Imperia, inizia così il nostro muoverci tra gli scalpi.
Il primo passo è quello di chiedere il codice STP (straniero temporaneamente presente) che permette alle persone senza permesso di soggiorno di ottenere tutte le cure urgenti e/o essenziali, non potendo avere il medico di famiglia.
Secondo le direttive di A.Li.sa (Azienda Sanitaria Ligure): “Il codice STP può essere rilasciato dalle ASL, dalle Aziende Ospedaliere e dagli IRCCS, ha validità nazionale e ha una durata semestrale rinnovabile”. Su questa base ci rechiamo presso l’ospedale di Bordighera, precisamente al “Centro di prenotazione per le visite mediche” con la richiesta di una visita urgente o essenziale presso un ambulatorio di chirurgia della mano su un ricettario intestato AAICA (Associazione Ambulatorio Internazionale Città Aperta) redatto e firmato da un medico.
L’impiegata ci informa che loro non rilasciano il codice STP e che il luogo deputato a tale funzione si trova presso il Distretto Sanitario ventimigliese “Villa Olga”, distante 3 km dall’ospedale. Ci rimettiamo in viaggio, torniamo a Ventimiglia, arrivati a Villa Olga otteniamo un nuovo diniego: il codice STP viene dato solo alle persone non in regola che “intendono” eseguire la vaccinazione per il Covid 19 e alle persone di provenienza ucraina.
Dopo alcune telefonate all’Ufficio Relazioni col Pubblico e con la responsabile dell’ufficio Esteri il direttore del distretto di Ventimiglia si palesa affermando inopinatamente che “la prassi in Liguria è questa”. Dopo avergli chiarito che tale affermazione è falsa come da indicazioni di A.Li.sa, tanto che a Genova l’STP viene fornito da tutti i distretti sanitari ancorché accompagnati da una richiesta redatta e firmata da un medico, il direttore ci informa che per l’ASL 1 l’unico luogo deputato è il pronto soccorso, e che per il Distretto di Ventimiglia è rappresentato dal pronto soccorso dell’ospedale di Bordighera. Il medesimo da cui siamo stati respinti per dirigerci a Villa Olga.
Il direttore prova, ovviamente senza successo, ad avere una descrizione fisica della persona che sostiene aver dato un’informazione scorretta per avere un capro espiratorio su cui far ricadere la colpa.
Ritorniamo all’ospedale di Bordighera, quindi al pronto soccorso, dove un infermiere gentile ma un po’ contrariato dalla scarsa comunicazione/organizzazione ci fornisce l’STP: andare al pronto soccorso per fare l’STP, un atto amministrativo, significa intasare un luogo dedicato alle emergenze.
Rimane il problema della richiesta per la visita.
Nei distretti sanitari della ASL 3 genovese esistono i medici prescrittori che, valutando e segnalando direttamente sulla richiesta regionale il nome del medico che invia il paziente, forniscono ricetta regionale. Nell’ASL 1 non esiste tale possibilità: il paziente deve per forza essere valutato dal medico del pronto soccorso per convertire la ricetta regionale.
Tale situazione è inaccettabile. In primo luogo, per la persona che necessita di cure (condizione sancita in modo chiaro dalla nostra tanto declamata e decantata costituzione e regolata da indicazioni regionali): se il giovane fosse stato da solo tra le barriere linguistiche e burocratiche, incontrando personale stanco, poco informato e irritato, dovendosi spostare per 9 Km avrebbe probabilmente desistito e sarebbero peggiorate le sue condizioni di salute.
In secondo luogo, tale procedura è estremamente dannosa per i cittadini del territorio: la prassi secondo cui queste procedure, in gran parte burocratiche, siano a carico del pronto soccorso, del personale medico del pronto soccorso e non di quello amministrativo significa intasare il già denutrito ospedale.
Aggiungiamo un altro episodio per evidenziare la progressiva distruzione del sistema sanitario, soprattutto territoriale, che investe nella privatizzazione e nei progetti costosi e faraonici e lascia le persone, malate, in balia del caos e del caso.
Sempre al pronto soccorso dell’ospedale di Bordighera incrociamo una donna in gravidanza al VII mese. Con la stessa trafila assurda ha ottenuto l’STP, ma per fare una visita ostetrico/ginecologica con ecografia è stata inviata con l’ambulanza all’ospedale di Imperia non essendoci localmente un tale servizio, con costi e disagi intuibili.
Ci chiediamo fino a che punto l’anestesia generale riesca a far sì che i cittadini di Ventimiglia e Bordighera non chiedano conto di tale situazione al distretto sanitario, alla ASL 1, ad A.Li.sa (azienda sanitaria ligure) e all’Assessore alla Salute nella figura di Toti, tra l’altro pure presidente della regione Liguria.
Le autorità degli stati, le polizie italiane, francesi e di confine stanno giocando a modo loro allo “scalpo”: tutti si sparpagliano nel campo di gioco e, al “via!”, ognuno cerca di rubare il fazzoletto o lo “scalpo” degli altri.
Si può solo acchiappare lo scalpo: si è squalificati se ci si spinge, ci si afferra o se si trattiene con la mano il proprio scalpo.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Vince chi, nel tempo stabilito, ha preso più scalpi.
Gli sbarchi in Sicilia continuano insieme alle violenze dei confini e alle morti nel cercare di attraversali; violenze che hanno travolto gli argini, lasciando tracce della loro desolazione ovunque.
Le storie delle persone sopravvissute che incontriamo a Ventimiglia con direzione “respingimento” tra i binari della stazione, sotto il ponte di Via Tenda, lungo la spiaggia alla foce del Roja, nel piazzale davanti al cimitero durante la distribuzione serale del cibo, nel parco adiacente al Comune di Ventimiglia mostrano scalpi, scabbia, micosi interdigitali dei piedi, ascessi secondari al vivere in condizioni forzate di scarsa igiene, mal di denti, febbri, traumi dovuti alle violenze frequenti della polizia di confine. E nel mostrare raccontano scenari di sopraffazione e sfruttamento, di connessioni tra lo stato e la mafia, tra la mafia e la polizia.
Un uomo proveniente dall’Africa centrale ci racconta di essere arrivato nel 2013 in Italia, aver fatto richiesta di asilo politico (respinta) ed essere finito irregolare a lavorare come operaio/carpentiere di un imprenditore siciliano, rivelatosi personaggio di spicco della mafia locale. Mentre racconta, intorno a lui, si muovono gli sguardi sperduti e angosciati della compagna incinta e delle loro due bambine.
Nel mese di luglio dopo una persistente mancata retribuzione per un totale di 4000 euro, e dopo le ripetute richieste disattese, l’uomo decide di cercare un nuovo lavoro, sempre sfruttato, sempre irregolare, sempre in Sicilia, sempre nello stesso paese per garantire alle bambine di proseguire la scuola e non sradicarle. Ma l’ex datore di lavoro non lo accetta, lo minaccia, dà fuoco alla casa con la moglie e le figlie che vengono salvate dai vicini. Lo minaccia con una pistola alla testa affermando che non può lavorare per nessun altro, pena la morte. L’imprenditore mafioso sarebbe agli arresti domiciliari ma controlla evidentemente il territorio.
L’uomo ha denunciato tutto alla polizia, sia l’incendio doloso sia le minacce armate, ma non sono stati presi provvedimenti se non consigliargli di scappare. Cosa che ha fatto soprattutto per tutelare la famiglia. Rimane la sua dignità, il desiderio di ottenere “giustizia” che si scontra con l’indolenza, la superficialità se non la connivenza delle autorità. Rimane lo sguardo traumatizzato della moglie, incinta, che non dice più una parola, guarda le sue bambine, è persa, ha paura…
La seconda storia ci viene raccontata da un giovane nordafricano scappato anche lui dalla Sicilia dopo aver scoperto e tentato di fermare traffici di esseri umani.
Ci racconta di legami mafiosi tra il Nordafrica e l’Italia, in particolare con la Sicilia; di come tali traffici siano cresciuti in modo esponenziale durante la pandemia e gli obblighi di quarantena per gli sbarchi. Ci descrive la dislocazione delle persone dalle navi quarantena direttamente in case/lager dove sarebbero perpetrate violenze con avviamenti alla tratta, al lavoro forzato e al trapianto di organi (quest’ultima pratica, talmente terribile da essere inaccettabile anche al solo pensarla, sta avendo riscontro in numerose indagini penali e giornalistiche).
Ci viene detto che tale situazione coinvolgerebbe molti migranti di diverse provenienze, ma in particolare i tunisini perché maggiormente ricattabili essendo il loro paese “considerato dal 2019 dall’Italia un “Paese di origine sicuro” per quanto riguarda il rispetto dei diritti”; ciò determina che siano quelli più respinti sul totale. Ci parla di violenze subite e consigli (intimidazioni?) da parte delle forze dell’ordine di tacere e allontanarsi dalla Sicilia.
Questi sono gli scalpi che le autorità e le polizie di confine mostrano come trofei? È questa la vita che stanno estorcendo alle persone: arti spezzati, corpi bruciati vivi, donne abusate, vite incarcerate, violate, denutrite, malate.
Sono queste le storie delle persone sopravvissute che incontriamo a Ventimiglia: tra gli avanzi gettati di tutti i transiti; lungo le rotaie di un binario morto dove i più giovani chiudono gli occhi sfiniti; nell’attesa di un pasto serale con vista cimitero tra stormi di uccelli che grufolano tra i resti dei resti; nelle notti di un fiume secco dove brulicano topi tra i corpi dormienti che si sono ricavati a stento un giaciglio; tra chi ha lo sguardo già perduto in un mondo che non è più questo, simile al fondale di un mare dove si depositano fotografie di scomparsi.
Sono loro che ci chiedono con fermezza, coraggio e determinazione di raccontare le loro storie.
Non arrenderti. Un messaggio e un disegno raccontano il dispositivo stritolante del confine, invitando alla resistenza. Pubblichiamo la testimonianza che una delle persone in viaggio ha lasciato presso la postazione del collettivo Kesha Niya.
Il collettivo Kesha Niya è attivo alla frontiera di Ventimiglia dalla primavera del 2017 dove fornisce quotidianamente cibo e sostegno alle persone migranti che tentano di attraversarla. A questo link potete leggere l’ultima traduzione del loro report mensile.
“Se non si riesce a pianificare, si pianifica il fallimento. Nella vita non si trova tutto quello che si merita. Ci sono molti tipi di persone in questa vita. Alcune ti insegneranno. Alcune ti distruggeranno.
È molto difficile trovare dei veri amici che ti amino e si fidino di te. Non dipendere mai da nessuno. Mai amare troppo e mai fidarsi troppo.
In questo universo alcuni paesi predicano l’amore ma non lo praticano. Io rispetto l’America, l’Europa – non hanno amore per i neri.
Tenere qualcuno nel tuo paese per un numero indefinito di anni senza documenti è frustrante.
Alcuni dei miei amici sono morti per mancanza di documenti. Perdono la concentrazione. La cosa migliore che si può fare per i meno privilegiati: fare. E lasciare il resto a Dio.
Amo gli italiani – solo che vedono l’immigrato come un animale. Nell’altro mondo prego di non essere testimone degli italiani.
Sono davvero triste mentre scrivo questo dopo che mi hanno dato 2 negativi [sulla richiesta d’asilo]. Mi chiedono di lasciare il loro paese, il che non è buono. Mi sento frustrato mentre scrivo queste cose.
Non importa quale sia la situazione, non arrenderti.” 19 gennaio 2021.
Questa è una storia che qualcuno ha deciso di condividere con noi in un libro che abbiamo iniziato a tenere alla frontiera. Le persone lasciano messaggi in inglese, francese, arabo,… Altre hanno lasciato immagini che hanno disegnato.
Le ultime settimane sono state in molti modi piene di storie e di piccoli cambiamenti.
È bello stare insieme nel nostro posto di lavoro, nonostante il lungo e duro viaggio che la gente non ha mai scelto di fare. Sappiamo che tuttə attraversano questa frontiera, ci possono volere 5, 6, 7 volte o più, a seconda della strada che riescono a scegliere, ma alla fine continuano il loro cammino verso il paese dove vogliono vivere, dove vogliono ottenere documenti e stabilirsi.
Le lotte continuano: essere Dublinati (soggetti al Regolamento di Dublino ndt), spesso in Italia, in Grecia o in un paese balcanico, permette all’Europa di dire loro dove devono e non devono stare. E senza supporto legale è un’altra giungla, quella della burocrazia e della perdita delle possibilità che hanno, in un determinato lasso di tempo, per reagire sulle procedure dei documenti e fare ricorso su una decisione.
Non importa dove ti trovi: non c’è bisogno di essere alla frontiera per essere coinvoltə. In tutti i paesi europei, gruppi auto-organizzati sostengono le persone con consulenza legale e le accompagnano agli appuntamenti, per colmare principalmente il vuoto di una lingua mancante e per essere lì nel caso in cui qualcuno si perda. Per assicurarsi che i diritti delle persone siano garantiti, non ignorati o spiegati in modo non corretto, come sappiamo succede facilmente. Siamo sicurə che voi che leggete questo testo siate in un modo o nell’altro già attivi o stiate progettando di farlo, in qualsiasi modo.
Mandiamo un po’ d’amore a voi, a tuttə quellə che abbiamo incontrato qui nel loro viaggio, a tuttə quellə che arriveranno ancora. Siamo noi a creare le condizioni di vita in paesi sfruttati e politicamente condizionati, in queste condizioni altre persone trovano spesso la ragione per partire – e siamo noi a creare le condizioni di vita e la solidarietà che tuttə trovano qui.
– Ciao da Kesha Niyas!
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Giovani uomini, ma anche famiglie, donne e minori non accompagnati provenienti da Siria, Kurdistan, Pakistan, Afghanistan, Iran, Bangladesh percorrono, da circa tre anni, la rotta balcanica attraversando la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia fino all’Italia. La maggior parte di essi non ha intenzione di fermarsi e fare richiesta di asilo in nessuno di questi stati. Bloccate dalla frontiera croata con un uso massiccio della forza e della tortura da parte della polizia, le persone in viaggio hanno formato enormi accampamenti informali prima in Serbia e, poi, in Bosnia. Successivamente, un mix di gruppi intergovernativi (International Organization for Migration – IOM e United Nations High Commissioner for Refugees – UNHCR) e non governativi hanno iniziato a gestire o collaborare alla gestione di campi formali altrettanto enormi, in Bosnia.
Noi siamo medici. Negli anni scorsi abbiamo preso attivamente parte alla lotta no border in Italia e, questa volta, abbiamo partecipato a una spedizione organizzata a seguito del crescendo di notizie sulle violenze e situazioni inumane alle quali è sottoposto chi tenta questo attraversamento.
Abbiamo raggiunto Bihać, nel cantone Una-Sana, al nordovest della Bosnia, al confine con la Croazia – circondata da monti e attraversata dal fiume Una. Durante la guerra (tra il 1991 e il 1995) gli abitanti di questa zona hanno vissuto nei rifugi antiaerei, senza acqua ed elettricità, con il cibo razionato. Secondo il Centro di documentazione e ricerca di Sarajevo, a Bihać sono state uccise 4.856 persone [i].
In questo luogo senza pace, abbiamo potuto conoscere la violenza e la privazione di libertà a cui è sottoposto chi ha un passaporto che non vale nulla, in Europa e nelle sue vicinanze. Abbiamo potuto visitare: siti “di accoglienza” considerati più “dignitosi” per nuclei familiari, donne e minori non accompagnati; enormi campi informali; scheletri di edifici incompiuti o cadenti occupati nel tentativo di salvarsi dal freddo; abbiamo incontrato persone malmenate e torturate dalle diverse polizie, marchiate nei corpi da segni permanenti che molti altri, prima di noi, hanno descritto e raccontato. Esperienza nuova per noi e non comune per chi, in generale, si oppone a tale sistema, abbiamo potuto rivolgere domande dirette a chi fa parte dei grandi gruppi intergovernativi che “normalizzano”, gestiscono e legiferano il destino di chi viaggia.
Il 16 marzo 2016, dopo la chiusura della rotta Balcanica occidentale, Europa e Turchia siglarono un accordo con lo scopo di fermare la migrazione irregolare attraverso la Turchia. In base a esso, tutti i migranti irregolari e richiedenti asilo giunti alle isole greche, le cui richieste di asilo fossero state rigettate, andavano ricondotti in Turchia. Rimandiamo al sito del Parlamento Europeo per la lettura del testo dell’accordo che appare come un’improbabile e allucinatoria previsione del futuro, parzialmente smentita dai fatti. Tra le voci del trattato era previsto che la Turchia si impegnasse a migliorare le condizioni della crisi umanitaria in Siria[ii]
Tutto ciò ha portato alla deviazione dei flussi migratori attraversi la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia e infine l’Italia.
A partire dal 2017 e poi nel 2018 sorgono enormi accampamenti informali in Serbia e in Bosnia. Successivamente nascono in Serbia numerosi centri governativi per migranti, mentre in Bosnia i campi formalmente riconosciuti sono gestiti da International Organization for Migration (IOM, Organizzazione inter-governativa che include 173 paesi, il cui obiettivo sarebbe quello di promuovere condizioni migratorie “umane e ordinate”) e United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), fondato dopo la seconda guerra mondiale.
Da ormai molti anni, sul territorio europeo, diversi gruppi si sono organizzati per dare supporto al transito di coloro che abbiamo deciso di chiamare semplicemente “persone in viaggio”, per non sottostare al meccanismo di divisione in categorie che facilita la distanza e la de-responsabilizzazione.
Da diversi anni incontriamo, nelle nostre strade, donne e uomini sopravvissuti a violenze di ogni genere subite nel corso di questa e altre rotte[iii]
Questo testo deriva da una breve ma traumatica esperienza lungo una frontiera per noi nuova, a confine tra Bosnia e Croazia, sempre più nota per le condizioni di transito inumane, le violenze e le torture efferate perpetrate quotidianamente nei confronti di chi tenta di attraversarla.
Primo Giorno 28/10/19
Il parco dei giovani zoppi
Arriviamo a Bihać, nel cantone Una-Sana, territorio bosniaco confinante con la Croazia, intorno alle 13. Abbiamo alcune informazioni da persone che sono già state in questa zona.
Il passaggio del confine è molto difficile, tanto che il traffico, in questa zona, utilizza una figura definita “runner” che fa da apri-pista per valutare la possibilità del passaggio. I campi formali in Bosnia sono tutti gestiti da IOM che assume personale di sicurezza privata e operatori senza alcuna esperienza, (anche per lavorare con minori), pare assunti tramite campagne su facebook. La procedura per la richiesta di asilo in Bosnia sembra sia molto complessa, ma praticamente nessuno chiede asilo qui.
Partiamo per andare al campo Borici, aperto dal gennaio di questo anno, un edificio dove sono ospitati donne, famiglie e minori e persone definite “con fragilità”. Il “campo modello” del governo. È un edificio, in un parco, la cui destinazione precedente era una casa per studenti.
Quando arriviamo ci sono molti ragazzi giovani e bambini che escono dal palazzo. Fuori c’è un operatore della sicurezza. Tre di noi hanno il permesso per entrare. Da una salita sterrata arriviamo in un piazzale. L’aspetto esterno è abbastanza diroccato. Nel piazzale ci sono 4-5 container. Ci sono bambini che giocano, molte donne e pochi uomini. Ci viene incontro la responsabile e ci dice che potrà dedicarci poco tempo a causa di problemi di sicurezza all’interno della struttura. All’interno ci sono 350 persone, soprattutto famiglie. La maggioranza delle persone viene da Pakistan, Siria, Irak, Kurdistan, Afghanistan. Attualmente non sembrano esserci minori non accompagnati. Il tempo medio di permanenza è di circa 3 mesi. Inoltre c’è un’associazione locale che lavora con le donne. Ci dicono che un medico del servizio sanitario nazionale è al campo 6 volte a settimana e c’è la possibilità di accesso all’ospedale di Bihać per i casi più urgenti. Inoltre affermano che un autobus porta i bambini tutti i giorni a scuola.
Mentre la responsabile ci spiega le caratteristiche del campo, all’improvviso un uomo nel piazzale si accascia a terra circondato da diverse donne. Sembra una crisi epilettica (vera o simulata) e, a un certo punto, arriva un giovane medico. Diverse persone aiutano l’uomo ad alzarsi, poi lui corre e inizia a dare dei pugni sulla parete di un container. La responsabile dice che non può più seguirci, parliamo con una giovane operatrice di IOM. Lei racconta che ha visto gente permanere nel campo anche per un anno. Subito ci dicono di allontanarci per la nostra incolumità e, successivamente, un presunto rappresentante di una ONG arriva trafelato per annunciare che la situazione è molto pericolosa. Vediamo arrivare una macchina della polizia e un’ambulanza.
Nel frattempo il gruppo di noi rimasto all’esterno incontra delle persone di origine afghana nel parco. Tra loro F., una ragazza afghana che viveva in Iran da 21 anni, ha deciso di scappare di casa perché i genitori volevano che sposasse un cugino. Fugge con il suo compagno verso l’Europa e, a Borici, si incontrano anche con un altro parente. Tutti insieme ci dicono che il campo di Borici è molto affollato, ci sono più famiglie (8-10 persone) in una stessa stanza, il cibo non è buono. Vogliono andare in Francia o in Belgio poiché consigliati da amici che gli hanno detto che il sistema eurodac, per l’identificazione delle impronte digitali, non funziona in questi paesi, e quindi non sarebbero rispediti nel primo paese europeo di arrivo. Esprimiamo i nostri dubbi su questo fatto, ma forse con scarso successo.
Sia a F. che al suo compagno è stato rotto il telefono dalla polizia croata, ma non sono stati picchiati, come hanno visto invece accadere ad altre famiglie anche con bambini e donne anziane a cui erano stati anche bruciati i vestiti. Altri due uomini adulti sono conoscenti o familiari della coppia di ragazzi, uno più anziano ci dice che il più giovane, di 18 anni, è stato brutalmente picchiato dalla polizia croata a seguito di uno dei sei tentativi di attraversare la frontiera. Il più giovane mostra la gamba sinistra evidentemente deformata da una precedente frattura e ha visibilmente problemi a camminare.
Insieme a questi ultimi andiamo poi verso la sede di IOM e lungo questo tratto di strada l’uomo più anziano ci dice che uno dei problemi più gravi è che, oltre alla polizia croata, ora nei boschi intorno alla frontiera ci sono persone armate di coltelli che rapinano e feriscono chi passa. Alle nostre domande sulla possibile identità di questi uomini, ci dicono che alcuni di essi sono dei trafficanti.
Tornando verso il campo, passiamo nel parco, in cui camminano molte persone che vivono dentro o intorno a Borici, qualcuno porta con sé buste della spesa.
Molti tra questi giovani zoppicano.
Passiamo di fronte a un grande edificio che pare contenga facoltà islamiche di diritto e pedagogia.
Incontriamo l’altra parte del nostro gruppo, che ci racconta di come la visita al campo di Borici si sia interrotta bruscamente.
Andiamo a vedere se c’è qualcuno in un moderno edificio diroccato, in centro, occupato, praticamente senza mura, dove pare che molti giovani tentino di rifugiarsi almeno durante la notte. Sul corso del fiume incontriamo diversi ragazzini, molti di loro minorenni. Iniziamo a parlarci, molti sono afghani e siriani, hanno quasi tutti la scabbia. Alcuni tra i siriani sono stati fermati in Croazia e in Italia nel tentativo di passare le frontiere e riportati indietro. I documenti rilasciati durante questi respingimenti illegali operati dalla polizia italiana sono stati sequestrati dalla polizia croata. Dicono che la polizia croata è Mafia.
Uno di loro, un ragazzo di 20 anni siriano, dice che anche in città la polizia bosniaca non li lascia stare seduti sugli argini del fiume. Un altro giovane siriano ha la metà destra del corpo ampiamente ustionata e un occhio gravemente lesionato. I suoi amici ci dicono che deve essere operato e ci chiedono come questo possa essere fatto, se in Bosnia o in “Europa”. Parliamo brevemente con lui, ci spiega che un anno prima, in Siria, durante un bombardamento aereo, ha riportato ampie ustioni su tutto il corpo.
Tutti dicono che l’unica acqua che bevono è quella del fiume Una.
Usiamo quasi tutta la crema anti-scabbia che abbiamo, molti antibiotici e alcuni farmaci per il dolore.
Secondo Giorno 29/10/19
La mafia è un elefante bianco
In mattinata incontriamo i rappresentanti di UNHCR. Ci parlano inizialmente dei dati sul transito di persone in Bosnia. Dicono che attualmente ci sarebbero circa 8000 persone nel paese e stimano che almeno il 20-30% in più non siano intercettati dal sistema. Intorno a 3900 si troverebbero nei centri e almeno lo stesso numero al di fuori di essi. Molte famiglie e minori non accompagnati. L’UNHCR ha gruppi definiti “out-reach” per la ricerca di soggetti sul territorio che definiscono “più vulnerabili”. In totale 672 persone, a loro dire, hanno iniziato la procedura d’asilo in Bosnia ma dicono che il sistema per la richiesta non funziona. Sottolineano il proprio impegno nel migliorare questo sistema. In totale pare siano state concesse solo 16 protezioni sussidiarie nel 2018, mentre 604 persone attendono la risoluzione della richiesta.
Imputano al contrasto tra il governo centrale e quello cantonale le colpe per il malfunzionamento del sistema d’asilo. Si insiste molto su questo tema.
Chiediamo se una eventuale richiesta di asilo in Bosnia potrebbe poi impedire il successo di una successiva procedura iniziata in un altro paese d’Europa. Una di loro dice chiaramente: “we are against onward movement, you don’t choose the place where you ask for asylum, we explain to the people that Bosnia has a system in place…”; dunque esprimendo apertamente la propria opposizione a qualsiasi prosecuzione del viaggio successivo a una eventuale richiesta di asilo in Bosnia, imputando tali movimenti all’azione di mafie e trafficanti. Proviamo a esprimere la nostra opinione sul fatto che sia possibile chiedere asilo politico in Bosnia e poi restarci davvero, e le nostre perplessità circa la posizione degli Stati di bloccare delle persone per dei tempi lunghissimi in spazi non idonei.
Continuando a soffermarsi su ciò che ritengono problematico, dicono che frequentemente i loro operatori legali si trovano in difficoltà nel sospetto di una “bogus family composition”, in quanto le persone, a loro dire, non dichiarano lo stesso numero di componenti della famiglia per tutta la durata del viaggio e quando vengono riconosciuti. Per questo si ritiene che non siano “veri” parenti, e che, anche in questo caso, si tratti di situazioni di traffico e sfruttamento, soprattutto per i minori. A nostra domanda su come intendessero gestire questo fenomeno, se volessero avvisare la polizia per iniziare un procedimento legale contro le persone sulla cui composizione familiare ci fossero stati dei dubbi, rispondono in maniera affermativa. Un segno chiaro di ciò sarebbe il fatto che una persona si dichiari zio/zia di qualcuno/qualcuna e poi si separi da esso/essa magari continuando il viaggio indipendentemente. Ci figurano la possibilità di una sorta di controllo e comunicazione delle composizioni dei nuclei familiari in diversi paesi per reprimere queste “pratiche”. Non viene assolutamente presa in considerazione la nostra obiezione che evoca un diverso concetto di famiglia che potrebbe influenzare tali dinamiche.
Una dei rappresentanti UNHCR continua a formulare metafore su degli elefanti: “C’è un’enorme elefante bianco in mezzo alla stanza di cui non ci stiamo occupando” … “se si vuole mangiare un elefante bisogna farlo a pezzi”.
Poiché continuiamo a fare discorsi sulla libertà di movimento, su come anche gli europei non restino bloccati nel primo paese nel quale migrano, eccetera, a un certo punto, iniziano a dire che forse il termine “mafia” era inappropriato. Probabilmente pensando che, in quanto italiani, il termine ci avesse offeso.
All’improvviso finisce il nostro tempo, perché gli operatori UNHCR hanno altri meeting.
Andiamo poi al campo di Sedra. Un altro campo per famiglie e minori non accompagnati, allestito in un vecchio hotel. È un vecchio edificio abbastanza cadente, al secondo piano piove all’interno. C’è poco da dire, ci sembra che i campi abbiano implementato di molto la condizione occupazionale della gioventù locale. I lavoratori che incontriamo sembrano ben disposti verso i rifugiati che vi abitano. Ci raccontano dei turni di 14 ore al giorno delle cuoche della croce rossa.
Dopo la visita, raggiungiamo l’altro gruppo che si trova di fronte al campo di Bira, un altro campo da 1200 posti gestito da IOM dove opera anche Save the children, al quale non ci è permesso l’accesso.
Fa molto freddo. Visitiamo molte persone nel parcheggio, molti ragazzi giovani (anche minorenni), tutti senza vestiti adatti per quel clima, molti con sandali. Aspettano lì fuori, al gelo, di entrare nel campo; quasi tutti hanno ferite infette e scabbia.
Dei ragazzi afghani iniziano a parlarci, è da molto tempo che aspettano di entrare, ma sembra che il campo sia pieno. Molti di loro trovano riparo in un edificio abbandonato non lontano, chiedono se vogliamo andare a vederlo. Ci accompagnano verso una grande costruzione diroccata, senza finestre e in alcuni punti anche senza pareti, sotto una pioggia che si infittisce. Salendo le scale si arriva a un secondo piano invaso dal fumo. In ogni stanza è stato acceso un fuoco, il pavimento è completamente ricoperto di carta e plastica. Ci saranno una cinquantina di persone, ma ci dicono che dormono li in 300 circa. I ragazzi hanno pochi materassi per terra e qualche coperta. Facciamo varie medicazioni e ad alcuni diamo degli antibiotici per malattie dell’apparato respiratorio. Quasi tutti hanno la scabbia, quindi avendo finito il farmaco diciamo che torneremo nel pomeriggio del giorno dopo.
Torniamo al campo di Bira, vediamo molta polizia arrivare. Raccolgono tutte le persone che stazionano nel parcheggio al di fuori del campo e le portano via.
Dopo un’ora da questa retata nuove persone al freddo e sotto la pioggia si avvicinano nuovamente al cancello del campo nella speranza di poter entrare. Tra di loro un ragazzo di provenienza afghana nato nel 2005, ha con sé un documento di identificazione. È appena arrivato da Sarajevo. Cerchiamo di mediare all’entrata del campo con un responsabile dell’IOM per capire se è possibile farlo entrare. Dopo una mezz’ora esce dal campo un funzionario di Save the children che controlla i documenti del ragazzo e gli dice di avvicinarsi alla rete di separazione. Improvvisamente, almeno una ventina di bambini compaiono dal nulla attorniando il funzionario e cercando di attirare la sua attenzione, mostrandogli i documenti sui quali è scritta la loro età.
La sera incontriamo brevemente una operatrice di una nota ONG della zona, che ci spiega l’attività dell’organizzazione. Sembra vi siano importanti limitazioni poste dal governo del cantone Una-Sana.
Ci dice di una circolare che è stata emanata dal governo locale, la quale impedisce ai cittadini di affittare casa alle persone migranti, di ospitarle o di fare qualsiasi atto che determini un assembramento in strada.
La sera apprendiamo che un cameraman solitamente filma e pubblica sui social network le operazioni di polizia.
Terzo Giorno 30/10/19
Leggende di frontiera
La mattina partiamo in auto alla volta di Velika Kladuša, a circa una 40 di km da Bihać.
Lungo il percorso, che in buona parte corre parallelo al confine con la Croazia, incontriamo diverse persone che camminano sulla carreggiata, nonostante il freddo e la pioggia. Ci fermiamo due volte nel tentativo infruttuoso di approvvigionarci presso farmacie locali di antibiotici, ormai agli sgoccioli. Alla seconda sosta avviciniamo un gruppo di persone presso un edificio in disuso, molto sporco, dove avevano riposato. Erano all’ennesimo tentativo di superare la frontiera, vittime di furti e delle consuete umiliazioni, percosse, vessazioni operate dalla polizia croata, non rare anche da parte della polizia slovena.
Li medichiamo e forniamo loro alcuni antidolorifici per i traumi. Raggiungiamo il parcheggio dell’ospedale di Velika Kladuša. Ci viene incontro una giovane attivista francese dell’associazione No name kitchen, un’organizzazione internazionale di volontari per il supporto al transito, che ci rende partecipi delle difficoltà e delle limitazioni nel poter fornire aiuto alle persone in viaggio. Per loro infatti, è necessario rinnovare mensilmente un documento con i dati anagrafici e il domicilio, cosa mai richiesta ad altre persone che sono in Bosnia con un visto turistico.
Giunge quindi una operatrice di MSF, accompagnando 2 giovani uomini, uno in sedia a rotelle e un altro che zoppica, provenienti da una casa occupata visitata da lei nel corso di un monitoraggio. Parlano di altre persone che vivono nell’occupazione e sono in condizioni pessime. I due ragazzi presentano un quadro di scabbia grave con sovra-infezione. Il giovane in sedia a rotelle appare molto debilitato e probabilmente febbrile, alza la testa solo quando la ragazza si rivolge a lui in arabo, per poi ritornare ad accasciarsi su sé stesso. Viene deciso di provare a portarlo presso il campo cittadino Miral. Seguiamo con la nostra auto il loro furgone, arrivati presso il campo ci fermiamo presso il parcheggio esterno. Veniamo dopo poco raggiunti dalle solite guardie private presenti in tutti i campi gestiti IOM che, dopo averci chiesto i documenti, ci intimano con atteggiamento irridente di allontanarci per la nostra incolumità.
Ritornati a Bihać, ci rechiamo all’edificio occupato che si trova nelle vicinanze del campo di Bira. L’aria è ancor più irrespirabile del giorno prima, piove e fa freddo e ci sono molti fuochi accesi nelle stanze. Ci fanno entrare nella stanza meno sporca e dove non c’è un fuoco, per poterli visitare. Il pavimento è ricoperto di scatole di cartone e in un angolo c’è un tappeto. È una moschea improvvisata.
Tutti si accalcano intorno chiamandoci per mostrarci le ferite infette procuratesi nel grattarsi a causa della scabbia, molti hanno la gola arrossata e le tonsille gonfie. Alcuni hanno i piedi rotti da manganellate della polizia croata con ferite aperte e vogliono disperatamente una medicazione per coprirli. Le piante dei piedi, in alcuni casi, hanno ferite poiché la polizia croata gli prende le scarpe, oltre a tutto il resto, costringendoli a camminare scalzi per chilometri. Finiamo praticamente tutti i farmaci che abbiamo e ci accompagnano fuori.
Torniamo davanti al campo di Bira, fa sempre più freddo e piove, ma lì di fronte c’è sempre una folla di giovani fantasmi con coperte in testa per ripararsi, come possibile, dal freddo. Aspettano la notte.
A qualcuno hanno detto che se riesci a resistere, ad aspettare fino a notte inoltrata, a volte, c’è un operatore anziano che ti fa entrare. Ad altri hanno detto, a Tuzla, che forse, quando arriverà la neve, ci saranno degli autobus italiani che verranno per portarli in Italia.
Un ragazzo non riesce più a sedersi per le ferite dovute alla scabbia. Gli diamo ciò che resta dei farmaci. A un altro che ha la febbre diamo un antinfiammatorio, sarebbe meglio assumerlo a stomaco pieno, ma lui non mangerà per oggi.
Giovani pakistani raccontano di essere stati picchiati selvaggiamente dalla polizia croata al confine, un loro amico diciassettenne è stato massacrato di botte da una poliziotta slovena, poiché rifiutava di firmare il foglio in cui era scritto che era maggiorenne.
Molte sono le torture di cui raccontano. Dicono che, in inverno, la polizia croata, dopo aver preso soldi, distrutto telefoni e bruciato vestiti, bagna le persone con acqua gelida e le lascia in un furgone con l’aria condizionata fredda accesa, al contrario dell’estate, quando li lasciano con l’aria condizionata calda.
Oppure, dopo avergli tolto le scarpe, usano i lacci per immobilizzarli ai polsi e poi li spingono giù per terreni scoscesi. Bastonano le persone coi manganelli per lunghissimi minuti, fino a fratturargli gli arti, poi li obbligano a tornare indietro verso la Bosnia.
Ci dicono di respingimenti operati informalmente e nottetempo dalle polizie croata, slovena e italiana, con un percorso a ritroso verso la Bosnia, e nessun documento scritto.
Quarto Giorno 31/10/19 – La città e l’incubo
Andiamo al campo di Vucjak, un enorme campo informale dove ci saranno almeno 800 persone..
Il campo si trova sulla linea di fuoco della guerra degli anni 90 e sono presenti numerosi campi minati nelle vicinanze..
All’ingresso c’è la polizia, ci chiedono i documenti e raccomandano di restare uniti. Piove, fa molto freddo, c’è fango e spazzatura ovunque, molte persone camminano tra grandi tende e tende più piccole. Molti non hanno che sandali. Le tende più ampie sono tutte fornite dalla mezzaluna rossa turca, sembra che siano state spostate qui dal campo di Bira.
Costantemente, con retate effettuate nelle città, le persone sono portate qui dalla polizia. Diversi ragazzi ci chiamano per mostrarci le tende in cui entra acqua, non hanno abbastanza vestiti e coperte, molti si sentono male. Capiamo che per loro è complicato anche solo raggiungere l’ambulatorio più vicino poiché la polizia non li fa uscire dal campo. Devono fare dei complicati percorsi per aggirare il blocco.
Il campo sembra la città di un futuro distopico o di un incubo. In mezzo al fango ci sono esercizi commerciali, una specie di bar e un mercato, e in alcune tende più grandi alcuni ragazzi impastano il pane in grandi bacinelle di plastica. In molte zone del campo ci sono fuochi, nei quali viene gettata anche la spazzatura. Ovunque c’è fumo nero e si sente odore di plastica bruciata.
Tra le tende e il fango si aggirano dei giornalisti, anche italiani, che riprendono le persone senza chiedere alcun consenso.
Ritorniamo nel parcheggio del campo Bira, dove come sempre, ci sono molti ragazzini che aspettano di poter entrare.
Alcuni pakistani ci parlano del fatto di non avere un posto dove stare e di non voler andare nella fabbrica abbandonata perché lì un ragazzo è morto di freddo. Dicono di aver visto il cadavere che veniva portato via da qualcuno venuto da fuori.
Un ragazzo di 16 anni ci mostra un’infezione diffusa a una mano e ci dice che ha bisogno di assistenza medica. Cerchiamo attraverso il cancello di parlare con persone che si occupino di minori, vediamo un ragazzo bosniaco che indossa la maglia di Save the children e gli urliamo attraverso le sbarre che fuori c’è un minore con un problema infettivo. Dice che non è sua responsabilità, ma dell’IOM e si allontana velocemente. Allora cerchiamo di chiamare una donna che invece indossa una maglia di IOM, costei ci dice che il ragazzo deve aspettare indicando un punto vicino alla recinzione. Intanto si rivolge in bosniaco a uno strano individuo di una certa età, vestito in borghese, che continua a guardarci con apparente sguardo di scherno.
Sembra che non parli inglese, dopo un po’ gli si affianca un’altra persona più giovane, alto, anch’essa in borghese che però sembra una specie di guardia del corpo. Ci chiede chi siamo e se facciamo parte di qualche associazione, diciamo di no, quindi ci dice lentamente ma decisamente che davanti al campo non si può stare, per problemi di sicurezza, e ci invita a lasciare l’area.
Più tardi scopriremo che l’individuo più anziano è il responsabile della polizia dell’ufficio stranieri.
Decidiamo di ripartire perché provati. Inoltre abbiamo finito tutti i farmaci ed evidentemente la nostra possibilità di agire è, per il momento, molto ridotta.
Tornando in macchina verso l’Italia incontriamo molte persone in cammino, nonostante il freddo e la pioggia.
Per noi il passaggio delle frontiere tra Bosnia e Croazia e tra Croazia e Slovenia è rapido. Il controllo è costituito da un rapido sguardo dentro la macchina e ai passaporti.
A un certo punto, a circa 20 km da Trieste, vediamo due ragazzi che camminano sulla carreggiata. Un centinaio di metri dopo, un cellulare della polizia fermo. Pensiamo di tornare indietro per fare qualcosa, avvertirli, prenderli con noi, ma già un’altra macchina della polizia era giunta ai ragazzi, dietro di noi, li aveva fatti sedere a terra e gli illuminava il volto con le torce. Un poliziotto che stava manovrando il cellulare per tornare indietro, si era fermato e aveva già aperto il portellone sul retro.
Nell’articolo che segue, presentiamo un’intervista al collettivo R-esistiamo, attivo da un paio di anni nella lotta contro le politiche migratorie svizzere e, in particolare, contro la reclusione delle persone cosiddette migranti all’interno dell’ex bunker militare di Camorino. Parliamo quindi della frontiera tra Svizzera e Italia, e delle dinamiche repressive operate dal paese elvetico contro chi cerca di raggiungere l’Europa svalicando dai confini italiani a nord, anziché dall’estremo ponente ligure. Eppure parliamo sempre delle stesse politiche discriminatorie ed escludenti, che condannano le persone provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente a progetti esistenziali precari e spezzati, sospesi nel vuoto dei continui dinieghi, della privazione di dignità e libertà, intrappolandole negli infiniti “giochi dell’oca” disseminati di pericoli, minacce, violenze, ricatti e non-sensi.
Che sia la frontiera all’altezza di Ventimiglia, Mentone e Val Roya; che sia quella più a nord, da Bardonecchia, Claviere e Oulx; o quella ancora più in su, che attraversa le città di Como e Chiasso, il progetto della Fortezza Europa non cambia. Non cambiano gli effetti che gli ingranaggi di controllo e gestione delle persone in viaggio hanno sulle vite di migliaia di esseri umani. A Ventimiglia è comune incontrare persone che abbiano tentato già altrove di raggiungere la propria meta, prima di finire rinchiuse e gasate nei container a Mentone. Sono comuni le storie di respingimenti dalla Svizzera, soprattutto per chi proveniva dalle frontiere est della rotta balcanica: queste storie raccontano sempre degli stessi dispositivi, degli stessi attori e degli stessi abusi. Che si parli di Francia, Germania, Svizzera o Italia, più che le insignificanti differenze tra i meccanismi punitivi, sono gli elementi ricorrenti ad essere rivelatori della logica del dominio delle frontiere: la retorica della sicurezza, il lucroso business dei respingimenti e la corsa all’armamento dei confini. I responsabili sono i vari governi ed i loro esecutori: polizie, eserciti, Croce Rossa, agenzie di security e ditte private che vincono appalti milionari per gestire le gabbie dei reclusi e delle recluse.
Ringraziamo il collettivo R-esistiamo per aver condiviso la loro esperienza di lotta.
L’intervista
Cominciamo dalla cornice generale: in quale situazione si trovano le persone migranti in Canton Ticino? Com’è organizzata, a livello federale e cantonale, la politica migratoria della Svizzera?
Partiamo dal presupposto che, in Svizzera, è piuttosto difficile avere accesso a informazioni puntuali e veritiere circa decisioni e leggi riguardanti le politiche migratorie. Non si trovano documenti scritti ufficiali e si parla il meno possibile di migranti e frontiere. Per le istituzioni, l’obiettivo è mantenere la quiete sociale e insabbiare ogni testimonianza e notizia di abusi e ingiustizie. Per il governo federale, l’unico aspetto importante è non concedere affatto permessi alle persone, concentrandosi completamente su respingimenti e rimpatri.
Il Collettivo R-esistiamo è nato nella primavera del 2018: il nostro obiettivo è anzitutto rompere questo isolamento informativo, far circolare la verità sui fatti e sui maltrattamenti a cui sono sottoposte le persone, e chiedere la chiusura dei bunker militari in cui vengono messe per mesi e, talvolta, per anni. Le informazioni che riusciamo a raccogliere sono frutto della conoscenza diretta con loro, nonostante l’incontro e la comunicazione tra i e le migranti e persone attiviste e solidali sia scoraggiato in ogni modo dalle istituzioni. In questo senso, anche l’uso dei bunker è strategico: luoghi isolati, sotto terra, il cui accesso è vietato ai civili.
La politica migratoria, in Svizzera, è infatti una macchina ben organizzata, il cui unico scopo è non ammettere per nulla le persone e non dare la possibilità di ottenere permessi sul territorio. È inaccettabile l’ostinazione con la quale i vari responsabili dei percorsi per la richiesta d’asilo e per l’accoglienza, la Segreteria di Stato della Migrazione (SEM), i Cantoni, la Croce Rossa Svizzera, la ORS2 (ditta privata che si occupa della logistica nei centri per migranti, ndr) non riconoscano l’umanità e l’individualità di ciascuna Persona. Non vengono mai presi in considerazione i loro bisogni, la volontà, le competenze, e vengono invece viste solo come un peso, un problema da espellere il più velocemente possibile.
Da sempre, a tutela del proprio sistema economico, la Svizzera porta avanti una politica di selezione differenziale tra chi può restare per contribuire all’incremento delle ricchezze, e chi viene spinto a lasciare il paese o addirittura viene espulso coattamente. Questo vale sia per gli immigrati di ieri, come spagnoli, italiani, portoghesi, e tanto più per le nuove immigrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente. Eppure, a livello di opinione pubblica mondiale, si sente parlare di “Svizzera umanitaria”, basti pensare alla retorica sulla nascita della Croce Rossa proprio in questo paese.
Nell’ultimo anno, è partito un progetto di costruzione di sette centri federali per la raccolta e l’identificazione delle persone migranti. Nonostante sia in ancora in fase di rodaggio e potrebbe volerci ancora qualche tempo, l’idea è quella di accentrare il controllo delle persone in questi luoghi, per poi smistarle nei vari centri cantonali, metterle nei bunker, o, ancora, per respingerle nei primi paesi d’ingresso (soprattutto l’Italia) o direttamente destinarle a un volo di rimpatrio. È stato anche proposto di organizzare delle scuole differenziali per i figli delle persone che si trovano stoccate nei centri federali: si vuole negare l’inserimento nei percorsi scolastici svizzeri a bambini e bambine le cui famiglie vengono spinte con forza a lasciare il paese e vengono, spesso, infine rimpatriate coattivamente.
In Canton Ticino, al momento, abbiamo tre centri federali: Stabio (distretto di Mendrisio), Biasca e Chiasso, che probabilmente saranno però sostituiti da un unico centro federale dei sette in costruzione su tutto il territorio elvetico. A Rancate, sempre nel Ticino, è stato allestito un centro respingimenti, dove le persone passano la notte in attesa che, il mattino successivo, riapra la dogana italiana1 e possa completarsi il respingimento. Il costo per mantenere il centro si aggira sui 670.000 franchi all’anno: a quante persone si potrebbe offrire una chance di vita dignitosa, se questi soldi fossero usati diversamente? Ci sono inoltre, ancora operativi, i centri a gestione cantonale: Paradiso, Cadro, Castione e Camorino
Veniamo quindi allo specifico del’impegno del collettivo R-esistiamo: la lotta per la chiusura del bunker di Camorino. Che cos’è questa struttura? Come viene utilizzata?
Durante la Guerra Fredda, per paura di un possibile attacco atomico, vennero costruiti dei bunker a scopo militare e di protezione civile. Rimasti inutilizzati, salvo che per alcune esercitazioni militari, questi luoghi sono stati “presi in prestito” negli ultimi anni dalla SEM, la Segreteria di Stato della Migrazione, che ha pensato di destinarli alla gestione delle persone migranti. Il bunker di Camorino (Bellinzona), che è aperto dal 2014, si trova fuori dal centro abitato, in un luogo isolato tra l’ingresso autostradale e la centrale di polizia. Per la gente costretta a vivere lì è impossibile allontanarsi, non avendo un abbonamento ai trasporti né soldi sufficienti a comprare un biglietto.
I locali in cemento armato sono sottoterra e privi di un’adeguata areazione, gelidi d’inverno e oltre i trenta gradi d’estate; l’acqua dai rubinetti esce sporca, durante la scorsa estate ci sono state gravi infestazioni da cimici nei materassi, non vi sono spazi adeguati nè possibilità di privacy. Da agosto 2019, per il cibo, che in passato era comunque insufficiente e di scarsa qualità, i vestiti, scarpe, le necessità personali di qualsiasi genere, le persone ricevono 10 franchi svizzeri al giorno, denaro insufficiente per coprire tutti i propri bisogni, visto il costo molto alto della vita nel paese. Il coprifuoco serale, l’obbligo di pernottamento, le perquisizioni, i ricatti e il controllo costante della polizia cantonale unito alle ronde della Securitas (ditta privata di vigilanza) rendono il luogo paragonabile a una prigione più che a un centro di accoglienza.
Per chi si trova nel centro, gestito prima dalla dalla Croce Rossa, che ha rinunciato dopo lo sciopero di luglio, e attualmente dal Dipartimento Sanità e Socialità del Cantone, viene ostacolato l’accesso alle cure mediche (salvo iperdosaggi di antidolorifici e psicofarmaci) e alla tutela legale; non vi è alcun programma di attività, corsi di lingua o percorsi di inserimento: decine di persone, semplicemente, sono costrette a restare lì mesi, aspettando il proprio turno di rimpatrio, quando la polizia viene a prenderli in piena notte per caricarli su un aereo.
Non si vuole riconoscere di chi sia la responsabilità di questo posto e di quello che vi accade: se si chiede al Cantone, dicono che la responsabilità è della SEM e quindi federale. Se chiedi alla SEM, rispondono che il referente è il Cantone, in un gioco di rimpalli dove non esiste nessun tipo di trasparenza rispetto alla struttura.
Il bunker è, a tutti gli effetti, l’ultima spiaggia delle persone indesiderate, quelle per le quali non c’è altra via di uscita né alcuna volontà del governo di concedere dei permessi. È un posto talmente malsano e abbrutente che la minaccia di un trasferimento a Camorino viene utilizzata come avvertimento per coloro che fanno problemi negli altri centri, e per scoraggiare qualsiasi protesta o rivendicazione di istanze.
Alcune delle persone che sono a Camorino non possono nemmeno essere espulse, sebbene il governo non abbia in ogni caso intenzione di rilasciare loro un documento: si tratta, per esempio, di uomini con lo status di apolidi, oppure il cui paese che sarebbe meta del rimpatrio non ne riconosce l’identità. È il caso di un uomo che si identifica come tibetano e a cui la Cina rifiuta la possibilità di rimpatrio. O, ancora, sono persone il cui paese di provenienza non ha firmato accordi di rimpatrio con la Svizzera, come l’Algeria, che accetta solamente rimpatri volontari. La maggior parte della gente rinchiusa a Camorino si trova in un limbo, senza possibilità di sbloccare la propria condizione. Tra l’altro, il sistema di rilascio dei permessi è assai controverso: non ci sono leggi precise in proposito alla valutazione dello status dei richiedenti asilo. Non esiste nemmeno una lista ufficiale di paesi d’origine considerati “sicuri”, così che la decisione spetta di volta in volta all’arbitrio della Segreteria di Stato della Migrazione.
Una parte delle politiche viene decisa a livello federale a Berna, ma una parte delle decisioni è presa a livello cantonale: la situazione è così nebulosa, che è molto difficile anche per gli stessi avvocati capire come agire. A pagine e pagine di ricorsi, spesso, viene semplicemente risposto un “non entriamo nel merito della questione del ricorso”: un no e basta insomma, senza ulteriori spiegazioni.
Come siete riusciti, visto il contesto ostile, ad entrare in contatto con le persone nel bunker? Com’è adesso la situazione a Camorino e quante persone vi sono rinchiuse?
L’incontro è cominciato nella primavera del 2018, grazie ad una prima conoscenza avviata con alcune di queste persone, che banalmente provavano a seguire un percorso di inserimento nel tessuto sociale, per esempio durante partite di calcio in cui partecipavano anche dei solidali (in seguito la Croce Rossa ha smesso di accompagnarle per sport e visite mediche, sostenendo di non avere personale sufficiente). Dai primi racconti sulle difficoltà che vivevano, è nata la voglia di conoscersi meglio, di capire che cosa stava succedendo e cosa fossero questi bunker in cui veniva messa la gente. Sono troppe le persone che aspettano in Svizzera come fantasmi, senza diritti e senza speranze di ottene davvero un regolare permesso, depositate nei centri per anni e infine espulse.
La nostra linea d’azione è quindi diventata la volontà di rompere l’isolamento, di informarci e di informare. Di costruire delle relazioni che possano portare un po’ di sollievo: parlare con qualcuno che ti considera una persona, e che prova a darti una mano per quanto possibile.
Abbiamo organizzato delle “merende” fuori dal bunker di Camorino, costruendo dei momenti e degli spazi per incontrare e conoscere chi stava lì dentro. L’intenzione dei presidi era anzitutto quella di far sentire meno sole le persone, raccogliere i loro racconti e le testimonianze di quello che subiscono. Ma, appena qualcuno si dimostrava interessato e partecipava, il giorno dopo veniva spostato lontanissimo, facendoci perdere il contatto reciproco.
Ovviamente per le istituzioni il punto è ostacolare la creazione di relazioni e spaccare i legami che nascono. Alle persone solidali sono state fatte pressioni sul posto di lavoro da parte delle autorità, diffondendo informazioni e articoli diffamanti. Per chi invece sta nel bunker, la strategia è quella di esercitare continuamente pressioni psicologiche e minacce. Alcuni funzionari cantonali, in visita a Camorino, avrebbero detto agli uomini che si trovano lì che è meglio se stanno zitti, che se stanno buoni prima o poi le cose cambiano, e che è meglio che non diano ascolto a noi e che non si uniscano ai momenti di manifestazione e ai presìdi.
Le persone, nel tempo, hanno comunque capito che gli vengono date solo false illusioni: anche se la loro situazione è sempre difficile, talvolta scoppiano delle proteste.
Quest’estate, il 2 luglio, i circa trenta uomini che stavano a Camorino hanno fatto uno sciopero della fame, per protestare contro la terribile situazione in cui vivono e perché, con la motivazione di dover areare le stanze, la direzione del bunker li obbligava ad uscire dai locali il mattino e a non potervi far ritorno fino alla sera. Questo senza soldi per potersi spostare, senza nulla da fare, senza un riparo dalla canicola estiva, con un panino e una bottiglietta d’acqua per tutto il giorno. La reazione immediata è stata quella di silenziare la protesta: nel giro di 24 ore, coloro che avevano un permesso anche solo provvisorio sono stati spostati. Sostenendo tra l’altro che i trasferimenti fossero già decisi da tempo e che la protesta non c’entrasse nulla.
A nessuno dei responsabili del bunker, dalla SEM, alla polizia, alla Croce Rossa, conviene che si parli della situazione a Camorino, quindi ogni voce di dissenso deve prontamente essere scoraggiata. Per tenere buone le persone si fa vedere che vengono concessi piccoli miglioramenti, o si promettono vantaggi in futuro (che poi vengono comunque disattesi) per i migranti che si comportano “bene”, seguendo la strategia di dividere le persone tra buone e cattive, con lo scopo di sedare gli animi e fiaccare le resistenze.
Dopo le proteste, nel bunker di Camorino sono rimaste al momento una decina di persone, prive di qualsiasi permesso e in attesa di espulsione o di finire in prigione.
Molti di loro, infatti, hanno già subito anche periodi di detenzione amministrativa (che prevede fino a 18 mesi di reclusione), con la sola accusa di non possedere documenti “utili”. Principalmente gli arrestati vengono messi nel carcere di Realta, nel Canton Grigioni, dove un intero piano del carcere è dedicato proprio ai sans papiers, che hanno minori diritti dei detenuti comuni. Un ragazzo ci ha raccontato che per un mese di fila non gli è stato concesso di uscire dalla sua cella, e, per questo motivo, ha cominciato a praticare gesti di autolesionismo. Adesso è tornato proprio a Camorino e sta peggio che mai. Un’altra ragione per essere imprigionati è se il governo federale pensa che tu possa allontanarti prima dell’esecuzione di espulsione: un uomo si è recato a trovare il fratello in un cantone della Svizzera interna, pur non avendo un permesso per spostarsi, è finito in un controllo di polizia (che si basano sempre sul racial profiling, visto che vengono fermate le persone in base al colore della carnagione) e, solo per questo, è stato imprigionato.
Alla luce di questo stato di cose, quali sono le richieste e gli obiettivi di lotta che portate avanti come collettivo R-esistiamo?
Quello che chiediamo è che luoghi come questo, e in particolare il bunker di Camorino, vengano definitivamente chiusi.
Siamo consapevoli che, quando cala l’attenzione, ricominciano invece a portare lì le persone. Vogliamo che il bunker venga chiuso e che venga data una possibilità di vita a queste persone, condannate ad un’esistenza sotto terra senza nessuna prospettiva.
Nel 2014 uscì un rapporto ufficiale della Commissione Federale Contro la Tortura, in cui si affermava che le persone non possono essere tenute nei bunker per oltre tre settimane, per ragioni igienico sanitarie. Nonostante non sia cambiata la loro situazione, nel report del 2018 della stessa Commissione non si fa più nessuna menzione a questo ammonimento, e nessun ente ufficiale federale si è più espresso in merito al fatto che, alcune persone, siano sottoterra da anni.
Da Marzo 2019 è entrata in vigore una nuova legge sulla migrazione, che avrebbe dovuto evitare alle persone di rimanere in attesa per anni, e velocizzare l’iter di valutazione delle richieste di asilo. Dopo pochi mesi, vediamo già come questa legge non funzioni affatto: la gente non riceve mai assistenza legale, la polizia cambia a proprio piacimento, sui moduli, dati, età e provenienza delle persone, per metterle nella condizione di poter essere espulse o respinte.
Nonostante le immense risorse di uno dei paesi più ricchi del mondo, che potrebbe con estrema facilità assorbire il numero esiguo di persone che arrivano in Svizzera, a prevalere sono in ogni caso gli interessi economici, che preferiscono nutrirsi del fruttuoso business legato alla repressione, alla militarizzazione delle frontiere, alle deportazioni e allo sfruttamento della manodopera in nero delle persone senza documenti giusti.
Sappiamo che sarà molto difficile farsi ascoltare e che abbiamo a che fare con il muro di gomma delle istituzioni, ma non si può proprio mollare.
1 Sembra che nel 2020 il centro di Rancate verrà chiuso: gli arrivi in Svizzera nell’ultimo anno, a fronte di un’ingente spesa di mantenimento della struttura, sono andati diminuendo in maniera consistente. La proposta del consigliere leghista Norman Gobbi, tuttavia, non è di eliminare un punto di riferimento per i respingimenti, ma semplicemente quella di spostarlo a Stabio o a Chiasso, sul confine con l’Italia, dove alcuni magazzini delle ferrovie FFS sarebbero già stati allestiti da tempo come dormitori, senza tuttavia mai essere utilizzati.
2 La ORS Service AG è una società privata svizzera che gestisce alloggi per l’asilo per conto del governo federale, ed è uno dei maggiori attori in questo campo. In seguito alla diminuzione degli arrivi in Svizzera, la società è entrata in una fase di crisi che l’ha portato a cercare di espandere il proprio mercato nei paesi sul Mediterraneo, in primis l’Italia. Nel luglio 2018 è stata fondata quindi a Roma la nuova filiale ORS Italia S.r.l., che mira ad aggiudicarsi la cospicua fetta di investimenti piovuti sul settore degli hotspot e dei centri di detenzione e rimpatrio, grazie ai decreti legge Salvini e all’imminente apertura dei nuovi CPR, come il Corelli di Milano.
Ieri il tribunale di Gap, nelle Hautes-Alpes francesi, ha emesso giudizi pesanti nei confronti di sette persone, accusate di aver favorito l’ingresso illegale in Francia di una ventina di migranti. Si è scelto di non considerare il contesto dell’episodio: una manifestazione, il 22 aprile scorso, che arrivava dopo un intero inverno di drammi e interventi in montagna, per soccorrere chi, totalmente privo di equipaggiamento, si trova ad attraversare valichi alpini innevati, braccato dalla polizia francese. Si è scelto di non dare peso alle condizioni materiali e politiche delle valli franco-italiane: nessuna menzione per la carenza di infrastrutture e sostegno ai migranti dalla parte italiana, nessun accenno alle sortite dei neofascisti, che, proprio in quei giorni, manifestavano pubblicamente la volontà di costituirsi in pattuglie di frontiera autonome e illegali (nessuno di loro è stato inquisito, nessuna inchiesta è stata aperta). Si è scelto di non guardare ai percorsi dei militanti, da anni impegnati nel soccorso in montagna e nella solidarietà attiva. Tutto ciò succede ad un giorno dall’annullamento di un’altra sentenza per “delitto di solidarietà”, caduta su altri militanti, di altre valli frontaliere. Non è semplice esprimere giudizi su tale disparità di trattamento. A caldo, prevale un sentimento di ingiustizia, prevale la rabbia verso una società che accetta di scagionare un eroe, ma che sia uno! Il messaggio sottinteso sembra dire: non osate ripetere le sue gesta, che la solidarietà non diventi appannaggio di tutti, soprattutto se praticata collettivamente e alla luce del sole.
Ci sembra chiaro che, ad essere sanzionata, sia prima di tutto la linea politica che ha animato una manifestazione che, in maniera chiara e radicale, avulsa da qualsiasi velleità umanitaria e assistenzialista, esprime una lotta orizzontale contro i dispositivi di confine, per la libertà di tutt*.
Il tribunale correzionale di Gap (Hautes-Alpes) giovedì ha emesso dei verdetti che vanno fino a quattro mesi di prigione nei confronti di sette militanti, il cui capo d’imputazione è quello di aver aiutato dei migranti a entrare in Francia la primavera scorsa. Due degli imputati, francesi, già condannati in passato e inquisiti in questo stesso dossier giudiziario anche per ribellione, sono stati condannati a dodici mesi di prigione, di cui 4 da scontare in carcere.
Per uno di loro, M. B., 35 anni, la pena prevede anche una ‘messa alla prova’ di due anni e una multa di 4.000 euro. «Erano due le scelte possibili oggi, si trattava di scegliere tra la solidarietà e la morte. Il tribunale di Gap ha scelto la morte per gli esiliati» – ha dichiarato quest’ultimo all’uscita dal tribunale (https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/12/13/7-de-briancon-les-reactions-apres-les-condamnations-hautes-alpes-gap). In effetti, l’allarme ha suonato in quel di Briançon: le associazioni di aiuto ai migranti (Anafé, Amnesty, Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, Secours catholique…) hanno lanciato l’allerta «sull’insufficienza della presa in carico e il respingimento sistematico di uomini, donne e bambini che cercano di oltrepassare la frontiera franco-italiana (…) mentre inizia la fredda stagione invernale». Si temono altri drammi, considerando che le temperature scendono a -10° in montagna.
Gli altri cinque, due francesi, un’italiana, uno svizzero e un belga-svizzero, dalla fedina penale intonsa, sono stati condannati a sei mesi di prigione con la condizionale. Hanno dieci giorni per ricorrere in appello. Un centinaio di militanti della causa dei rifugiati si sono radunati giovedì pomeriggio sotto le finestre del palazzo di giustizia per sostenere i ‘sette di Briançon, come vengono chiamati. Il tribunale ha seguito le richieste del procuratore di Gap Raphael Balland, che durante il processo dell’8 novembre non aveva invocato l’aggravante di ‘banda organizzata’.
«Sono un po’ basito davanti a una decisione così severa, per dei fatti che sono quantomeno discutibili (…). I gilets jaunes ne hanno fatte di ben più gravi» – si è lamentato Christophe Deltombe, présidente della Cimade, associazione di difesa dei diritti dei migranti. «Ero convito che sarebbero stati rilasciati. Non vedevo dove potessero essere individuati gli elementi materiali e intenzionali dell’infrazione penale. Siamo in pieno in quel che viene chiamato ‘crimine di solidarietà’: sono condannati perché sono stati solidali a delle altre personé» – ha aggiunto.
«Siamo tutti un po’ colpiti da questa decisione. E’ una pena estremamente severa. La motivazione del tribunale non ci ha convinto» – ha reagito da parte sua Maeva Binimelis, uno dei sei avvocati dei militanti. «Questa decisione è un colpo di freno alla direzione presa in favore di una maggiore umanizzazione e individualizzazione delle condanne per delitto di solidarietà, nell’attesa della sua soppressione», critica da parte sua un altro dei difensori, Vincent Brengarth.
L’accusa imputava ai sette militanti, le cui età vanno dai 22 ai 52 anni, di aver facilitato, il 22 aprile, l’entrata in Francia di una ventina di migranti confusi ai manifestanti forzando una barriera eretta dalle forze dell’ordine. Durante l’udienza, gli imputati avevano contestato il fatto di aver coscientemente aiutati i rifugiati a passare la frontiera nel corso della manifestazione. Partita da Clavière, in Italia, questa si era conclusa a Briançon.
Il processo iniziale, previsto in maggio, era stato rapidamente rimandato, per concedere il tempo al Consiglio costituzionale di esprimersi sul ‘delitto di solidarietà’. In luglio, i ‘Saggi’ hanno considerato che, in nome del ‘principio di fraternità’, un aiuto disinteressato al soggiorno irregolare non sarebbe passibile di condanna, l’aiuto all’entrata resterebbe però illegale.
Mercoledì, la Corte di cassazione –la più alta giurisdizione dell’ordine giudiziario in Francia – ha annullato la condanna di Cédric Herrou, diventato un volto noto dell’aiuto ai migranti, e di un altro militante della Valle Roya, condannati in appello per aver assistito dei migranti.
A Ventimiglia, il 21 giugno alcuni bagnanti hanno visto affiorare, poco distante dalla riva, il cadavere di un uomo. Il volto sfigurato dalla lunga permanenza in acqua, il corpo ancora vestito: un migrante quasi sicuramente. Queste le poche informazioni che si possono leggere sull’ansa e sulle testate locali che hanno diffuso la notizia. [1]
Quest’uomo senza volto, senza identità, va ad aggiungersi al tremendo numero dei morti per mano della violenza delle frontiere. Per mano del capitalismo che impone che la vita degli esseri umani si riduca a merce, per mano degli Stati che sono gli esecutori politici di questo sistema di morte e di tutti quei poteri che cooperano nel funzionamento di questo sistema.
Un uomo senza volto. Un volto sfigurato dalla violenza che si infiltra in ogni angolo di questo sistema, si insinua dentro ogni recesso. Una violenza che sta dentro di noi. Che di questo sistema siamo attori ma troppo spesso ci figuriamo come spettatori.
Se anche quest’uomo avesse avuto ancora il suo volto, il silenzio a cui la sua morte sarebbe stata condannata, glielo avrebbe sottratto.
L’assenza di un volto che, chi combatte ogni giorno la frontiera, nei tanti modi in cui questo è possibile, non potrà dimenticare.
In un mare estivo, celeste e scintillante, in un mare bello, nel mare nostrum, alcuni bagnanti hanno recuperato un corpo. Da dove arriva? Difficile arrivi dalla Francia: le correnti non spingono quasi mai in direzione Italia… dicono i locali. Potrebbe arrivare dal fiume Roya, magari una fuga dai militari francesi appostati nella valle per catturare i migranti che tentano di passare la frontiera, e fuggendo una caduta e poi il fiume… giù a valle fino al mare. Oppure chissà. Chi è? Qual è la sua storia di uomo?
E’ solo un numero. Uno dei tanti numeri dei desaparecidos contemporanei.[2]
Si insinua il dubbio amaro, se abbia senso scriverne, se esistano delle parole con cui rendere giustizia a tanto dolore e a questo male.
Viene in mente un altro corpo, ritrovato nel porto di Genova circa un anno e mezzo fa. [3] Un ragazzo, entrato nel circuito dell'”accoglienza” e finito in fondo al mare, affogato da un dispositivo disumanizzante. Allora più di un centinaio di persone si era riunito per ricordarlo e per ricordarsi che non si può e non ci si deve abituare alla banalità del male e soprattutto che occorre resistere e reagire.
Per quest’uomo, ancora e forse per sempre senza nome e senza volto. Per John e per tutte le altre sorelle e fratelli morti ammazzati dalle frontiere con cui si difende il privilegio di pochi e il diritto allo sfruttamento di troppi: è ora di non farsi più sconti!
Le vite delle sorelle e dei fratelli in viaggio contano tanto quanto le nostre.
Dobbiamo cominciare difenderle come difendiamo le nostre e quelle dei nostri car*. Dobbiamo difenderci insieme.
Foto tratta dal blog https://hurriya.noblogs.org/ Frontiera italo-francese tra la Val di Susa e la Val de la Clarée
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, i comunicati scritti dagli occupanti di Chez Jesus, a proposito del recente ritrovamento del corpo senza vita di una migrante, nel fiume Durance.
Le frontiere uccidono: non è una frase ad effetto, non è un’iperbole da utilizzare enfaticamente. E’ la realtà dei rinnovati confini interni all’Europa degli anni ’10. Ma non sono le impervietà geografiche ad uccidere, non si tratta di fatali incidenti: B. è morta durante un inseguimento da parte della Polizia Nazionale francese e, qualche giorno più tardi, venerdì 18 maggio, dei camminatori hanno trovato M., un giovane senegalese, morto di sfinimento su un sentiero alpino. La caccia al migrante, di cui sono teatro i passi che uniscono la Val Susa a quella della Durance, ha le stesse conseguenze, in termini di vite umane, delle operazioni di militarizzazione e controllo di altre zone di frontiera: dalle acque del Sud del Mediterraneo allo stretto di Calais, da Ventimiglia alle strade dell’Est. In un mondo nel quale i rapporti coloniali si rinnovano e le diseguaglianze continuano ad essere un fertile terreno di estrazione di ricchezza, la grottesca difesa di anacronistici confini nazionali giustifica il massacro, anche a due passi dalle nostre case, anche nel cuore della democraticissima Europa: magari si leverà qualche voce di sdegno, qualche moto di commozione … Oppure, più semplicemente, si aggiungerà un nome alla lista di chi non ce l’ha fatta: le autorità competenti ne parleranno con la freddezza di chi già lo aveva messo in conto, reiterando la normalizzazione di una realtà feroce.
LA FRONTIERA UCCIDE. LA MILITARIZZAZIONE E’LA SUA ARMA.
Una donna è morta. Un cadavere ancora senza nome è stato ritrovato mercoledì 9 maggio all’altezza della diga di Prelles, nella Durance, il fiume che scorre attraverso Briançon.
Una donna dalla pelle nera, nessun documento, nessun appello alla scomparsa, un corpo senza vita e senza nome, come le migliaia che si trovano sul fondo del Mediterraneo.
Questa morte non è una disgrazia inaspettata, non è un caso, non è “strana” per tanti e tante. Non c’ entra la montagna, né la neve o il freddo.
Questa morte è stata annunciata dall’inverno appena passato, dalla militarizzazione che in questi mesi si è vista su queste montagne e dalle decine di persone finite in ospedale per le ferite procuratesi nella loro fuga verso la Francia. È una conseguenza inevitabile della politica di chiusura della frontiera e della militarizzazione.
Questa morte non è una fatalità. È un omicidio, con mandanti e complici ben facili da individuare.
In primis i governi e le loro politiche di chiusura della frontiera, e ogni uomo e donna in divisa che le porta avanti. Gendarmi, polizia di frontiera, chasseurs alpins, e ora pure quei ridicoli neofascisti di Géneration Idéntitaire, pattugliano i sentieri e le strade a caccia dei migranti di passaggio da questi valichi alpini. Li inseguono sui sentieri e nella neve sulle motoslitte; li attendono in macchina in agguato lungo la strada che porta a Briançon e quelle del centro città. Molti i casi quest’inverno di persone ferite e finite all’ospedale in seguito alle cadute dovute alle fughe dalla polizia.
Quella donna era una delle decine di migranti che ogni giorno tentano di andare in Francia per continuare la propria vita. Per farlo, ha dovuto attraversare nella neve, a piedi, quella linea immaginaria che chiamano frontiera. Perché i mezzi di trasporto, sicuri, le erano preclusi data la mancanza di documenti e per la politica razziale di controllo che attuano al confine. Poi è scesa sulla strada, quei 17 chilometri che devono percorrere a piedi per raggiungere la città. È lungo quel tratto che deve essere inceppata in un blocco della polizia, come spesso viene raccontato dalle persone respinte. Probabilmente il gruppo di persone con cui era, che come lei tentava di attraversare il confine, si è disperso alla vista di Polizia o Gendarmerie alla ricerca di indesiderati da acchiappare e riportare in Italia, nel solito gioco dell’oca che questa volta ha ucciso.
Questa donna senza nome deve essere scivolata nel fiume mentre tentava di scappare e nascondersi, uccisa dai controlli poliziesci. L’ autopsia avverà a Grenoble nella giornata di lunedì, solo allora sarà possibile avere maggiori dettagli sulla causa della morte.
La frontiera separa e uccide.
Non dimentichiamo chi sono i responsabili.
11 maggio, Rifugio autogestito Chez Jesus
CRONACHE DI UNA MORTE ANNUNCIATA
È passata una settimana dalla morte di B. Cinque giorni dal ritrovamento del cadavere di una giovane donna, “forse una migrante”, nel fiume sotto Briançon, la Durance.
Questi i fatti.
Un gruppo di quasi una decina di persone parte da Claviere per raggiungere Briançon a piedi. È domenica sera, e come ogni notte i migranti che cercano di arrivare in Francia si ritrovano costretti a camminare per le montagne per evitare i controlli di documenti.
Il gruppo inizia il cammino e poi si divide, una donna fa fatica a camminare ed ha bisogno di supporto. Due persone stanno con lei, e i tre si staccano dal gruppo. Camminano sulla strada, nascondendosi alla luce dei fari di ogni macchina e a ogni rumore. Infatti la polizia sta attuando una vera caccia al migrante, negli ultimi giorni più che mai. Oltre a nascondersi sui sentieri per sorprendere con le torce chi di passaggio e fare le ronde con le macchine sulla strada, hanno iniziato ad appostarsi sempre più spesso agli ingressi di Briançon e ai lati dei carrefour facendo dei veri posti di blocco.
Il gruppo di tre cammina per una quindicina di chilometri e si trova a 4-5 Km da Briançon. All’altezza della Vachette, cinque agenti della Police National sbucano fuori dagli alberi alla sinistra della strada. Sono le 4-5 del mattino di lunedì 7 maggio. I poliziotti iniziano a rincorrerli. Il gruppetto corre e entra nel paesino della Vachette. Uno dei tre si nasconde; gli altri due, un uomo e una donna, corrono sulla strada. L’uomo corre più veloce, cerca di attirare la polizia, che riesce a prenderlo e lo riporta in Italia diretto. La donna scompare.
La polizia prosegue per altre quattro ore le ricerche nel paesino della Vachette. Il fiume è in piena, e i poliziotti concentrano le ricerche sulle sponde della Durance e nella zona del ponte. Poi la Police se n’è andata. Questo operato si discosta totalmente dalle modalità abituali della Police Nationale, che nella prassi cerca i fuggitivi per non più di qualche decina di minuti. Le ricerche concentrate nella zona del fiume rendono chiaro che i poliziotti avessero compreso che qualcosa di molto grave era successo, a causa loro.
50 ore dopo, mercoledì, un cadavere di una donna viene ritrovato bloccato alla diga di Prelles, a 10 km a sud da Briançon. È una donna nigeriana, un metro e sessanta, capelli lunghi scuri con treccine. Cicatrici sulla schiena, una collana con una pietra blu.
Il Procureur della Repubblica di Gap, Raphael Balland, ha dato la notizia il giorno seguente, dicendo che “Questa scoperta non corrisponde a una scomparsa inquietante. Per il momento, non abbiamo nessun elemento che ci permette di identificare la persona e quindi di dire che si tratta di una persona migrante”. Pesanti le dichiarazioni del procuratore.
Una scomparsa “non è inquietante” se non c’è una denuncia, e quindi se si tratta di una migrante? In più il procuratore mente, perché la polizia sapeva che una donna era sparita dopo un inseguimento. Ben pochi i giornali che hanno rilevato la notizia. Sembra che nessuno fosse molto interessato a far uscire la vicenda, anzi. L’interesse è quello di insabbiare questa storia, per evitare un ulteriore scandalo, dopo i due casi di respingimento di donne incinte, che possa scatenare una reazione pubblica davanti alle violenze della polizia. Un’inchiesta giudiziaria è stata aperta e affidata alla gendarmeria al fine di determinare le circostanze del decesso. Il magistrato ha detto “non avendo elementi che fanno pensare alla natura criminale del decesso, un’inchiesta è stata aperta per determinare le cause della morte”.
Ma anche questo è falso. La natura del decesso è criminale.
Non è una morte casuale, non è un errore. Questo è omicidio. Erano cinque i poliziotti che li hanno inseguiti. Quella donna, B, è morta per causa loro e della politica di leggi che dirige, controlla e legittima le loro azioni. B. è morta perché la frontiera senza documenti non la passi in altro modo. Ma B. non è nemmeno morta a causa della montagna, per errore, e non è morta per la neve quest’inverno. È morta perché stava scappando dalla polizia che in modo sempre più violento si dà alla caccia al migrante. L’hanno uccisa quei cinque agenti, come il sistema di leggi che glielo ordina. Un omicidio con dei mandanti e degli esecutori. Il procuratore di Gap e la prefetto sono responsabili quanto i poliziotti che l’hanno uccisa, date le direttive assassine che danno. Responsabili sono le procure e i tribunali, che criminalizzano i solidali che cercano di evitare queste morti rendendo il più sicuro possibile il passaggio. Responsabili sono tutti i politicanti che portano avanti la loro campagna elettorale sulla pelle delle persone.
Se continuiamo così, i morti aumenteranno. È la militarizzazione che mette in pericolo le persone. La polizia, uccide.
La foto di copertina rappresenta l’esterno dell’hotspot di Moria nell’isola di Lesbo, vero e proprio centro di detenzione per migranti. (FONTE: REUTERS/Alkis Konstantinid)
Riceviamo e pubblichiamo questa seconda testimonianza da parte di un solidale che da diversi mesi si trova come operatore legale in servizio volontario presso l’hotspot di Lesbo.
Il testo analizza con accuratezza la vicenda giudiziaria dei trentacinque rifugiati processati in seguito alla protesta messa in atto il 18 luglio 2017 nel campo di Moria (hotspot dell’isola di Lesbo) contro le condizioni di vita lesive dei diritti fondamentali a cui sono sottoposti i suoi abitanti.
Un iter giudiziario emblematico della costruzione della nuova condizione coloniale dentro la stessa Europa.
Come hanno messo in evidenza alcuni teorici del postcolonialismo analizzando in particolare il caso dell’India [1] la colonizzazione è un fenomeno in cui la violenza e la sopraffazione bruta vanno sempre di pari passo con la costruzione di nuovi ordinamenti giuridici. Dallo stato di eccezione – contraddistinto dalla violenza come sospensione di ogni norma – alla ricostruzione di un ordinamento giuridico frutto e giustificazione di quella violenza e di quei rapporti di forza. Il colonialismo classico vide la prospettiva del “legislatore” affiancata molto presto a quella del “conquistatore”, nella conoscenza così come nella governamentalità.
Tuttavia se nel colonialismo classico la produzione di una normalità coloniale, cioè di una legislazione in grado di riempire il vuoto creato dall’eccezionalità della violenza, è stata strettamente legata al rapporto di implicazione che sin dall’inizio aveva stretto la metropoli (quindi il cittadino occidentale) con le colonie (ossia con i sudditi coloniali) in quanto legati dall’appartenenza “ alla medesima storia collettiva” c’è da chiedersi quanto il nostro mostruoso presente, di cui questa testimonianza racconta aspetti salienti, sia leggibile attraverso lo stesso nesso.
In un’Europa sempre più chiaramente postcoloniale riemerge la distinzione tra cittadino e suddito coloniale, cioè colui che non gode dello stato di diritto: una distinzione creata evidentemente in base ad un criterio razziale. Ma la razza diventa un dispositivo in grado di catturare figure molteplici, destinate con gradi diversi ad appartenere alla schiera dei nuovi colonizzati ai quali, con gradi diversi, vengono negati i diritti civili, sociali e politici. Ancora una volta il governo della migrazione appare come il laboratorio su cui viene sperimentata una nuova governamentalità coloniale. Da questo punto di vista non è affatto inutile ricordare il contenuto del decreto Minniti – Orlando, varato ormai un anno fa, nel quale le tre figure chiave individuate come nuovi sudditi coloniali erano i migranti, i poveri e “gli antagonisti”.
Molte altre riflessioni vengono in mente leggendo questa testimonianza, come per esempio il ruolo giocato dal limbo temporale (una vera e propria tortura psicologica) a cui vengono costretti i migranti nella governamentalità della migrazione. Anni persi ad aspettare la risposta dell’ottenimento di uno status grazie a cui essere riconosciuti come soggetti di diritto, per essere, ad un certo punto, riportati forzatamente al punto di partenza. Il gioco dell’oca a cui sono sottoposti i migranti, deportati da Ventimiglia a Taranto con i bus della Riviera Trasporti, è una delle tante forme che assume questo confine temporale. Un confinamento temporale che , seppure con un’intensità diversa,viene sperimentato anche sui subalterni autoctoni attraverso la precarietà lavorativa e le forme di vita ad essa connessa.
La nuova dimensione coloniale che osserviamo costituirsi nei nostri mondi con il suo carico di violenza e di terrore ha motivo di essere chiamata “post-coloniale” se si è in grado di riconoscere in quel prefisso “post” non solo la sconfitta dei movimenti anticoloniali novecenteschi ma anche la traccia indelebile che essi hanno impresso nella nostra storia, rendendo il mondo davvero globale. La contraddizione oggi è portata al cuore stesso dell’Europa: ogni dispositivo violento di dominio, controllo e segregazione, in realtà è una risposta alle lotte e alle pratiche di liberazione che partono da una presa di coscienza dell’eguaglianza da parte dei migranti che sfidano l’ipocrisia dell’universalismo occidentale mettendo a nudo il carico di violenza ad esso soggiacente. La migrazione può essere così scoperta non solo come laboratorio di teniche di dominio ma anche come fenomeno i cui soggetti spesso incarnano le vere avanguardie nella lotta contro la brutalità dello status quo.
g.b.
#FREETHEMORIA35
I 35 imputati del processo contro i Moria35 sono stati tutti rimessi in libertà, tuttavia con la sentenza è stato commesso, a parere di chi scrive, un grave errore giudiziario da parte del Tribunale a giuria mista di Chios, in Grecia, dove 32 dei 35 imputati sono stati dichiarati colpevoli di lesioni contro pubblico ufficiale.
Ricordiamo che i 35 imputati erano stati arrestati arbitrariamente e con metodi violenti nel campo di Moria a Lesvos il 18 luglio 2017 in seguito a quella che era partita come una protesta pacifica al di fuori dell’ufficio dell’EASO (l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo).
Il verdetto intrinsecamente pericoloso, raggiunto nonostante la totale mancanza di prove a sostegno delle accuse, arriva dopo un processo durato una settimana che ha continuamente violato i principi fondamentali del giusto processo, garantiti dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e mette seriamente in discussione l’imparzialità, sia dei giudici, sia del procuratore designato per il caso.
32 dei 35 imputati sono stati giudicati colpevoli di lesioni a pubblico ufficiale, ma assolti da tutte le altre accuse. I tre imputati, arrestati invece da un vigile del fuoco fuori dal campo Moria, sono stati ritenuti innocenti da tutte le accuse. La testimonianza contro di loro è stata screditata, ritenuta inconsistente, nonché priva di credibilità in quanto il vigile del fuoco, nel corso di una delle udienze, ha erroneamente identificato persone diverse dalle tre da lui arrestate. Nonostante ciò, nessuno dei testimoni dell’accusa è stato iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico, false dichiarazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza.
Mentre le prove contro i rimanenti 32 imputati erano ugualmente inconsistenti, i tre giudici e i quattro giurati li hanno ritenuti all’unanimità colpevoli. Inoltre, la sentenza è stata raggiunta senza che il pubblico ministero dimostrasse che vi fossero gli elementi necessari per ritenere responsabili dei crimini gli imputati: vi era infatti solo prova di lesioni superficiali ad un agente di polizia, e non c’era alcuna prova credibile che identificasse nessuno dei 32 come aggressore di un agente di polizia.
I testimoni di polizia hanno infatti confermato che tutti e 32 gli imputati arrestati all’interno del campo di Moria erano colpevoli semplicemente perché presenti nella sezione africana del campo dopo che erano cessati gli scontri tra alcuni migranti e la polizia in assetto antisommossa. La conferma da parte della Corte che la colpevolezza può essere ritenuta esistente solo in base alla razza e alla evenutale presenza nei pressi del luogo dove si sono verificati i presunti crimini costituisce un precedente estremamente pericoloso per gli arresti che potrebbero derivare da future rivolte e/o proteste.
I testimoni della difesa inclusi diversi residenti di Mitilene e del Moria Camp hanno confermato che il campo di Moria non è mai stato evacuato, che la gente è entrata ed è uscita dal campo per tutto il pomeriggio attraverso le entrate posteriori e che nel campo la situazione era sotto controllo circa un’ora prima degli arresti.
Molti imputati hanno confermato la loro partecipazione alla protesta che chiedeva la libertà di circolazione da Lesvos alla Grecia continentale, la fine delle ingiuste procedure di asilo sull’isola e che denunciava le terrificanti condizioni in cui i richiedenti asilo sono costretti a vivere nel campo Moria.
Hanno spiegato, inoltre, che la polizia ha risposto violentemente alla protesta, disperdendo i manifestanti tramite un uso eccessivo di gas lacrimogeno. Altri hanno testimoniato di essere entrati nel campo di Moria dopo che la situazione era tornata alla calma, per poi ritrovarsi arrestati con metodi violenti durante il raid della polizia.
L’eccessiva violenza della polizia è stata confermata nel processo attraverso la documentazione medica delle lesioni subite dagli imputati, le prove video degli arresti e la testimonianza di diversi testimoni e imputati. Il pubblico ministero di Mitilene ha già aperto un’indagine contro agenti di polizia, non idenfiticati (al momento) per aver causato gravi danni fisici a 12 dei 35 imputati.
Il processo a Chios è stato caratterizzato da numerosi e gravi problemi procedurali, tra cui l’assenza di interpreti per la maggior parte del processo e per il tempo molto ristretto concesso a testimoni della difesa ed imputati di fornire la loro testimonianza e/o dichiarazione spontanea.
Una delegazione internazionale di osservatori legali è stata presente durante tutto il processo e pubblicherà un rapporto in merito all’equità del processo a tempo debito.
Sfida ogni logica il fatto che 32 su 35 imputati, nonostante le sconvolgenti riprese video[2]degli attacchi della polizia contro contro gli stessi, nonostante il fatto che i testimoni della polizia non siano stati in grado di identificare nessuno dei 35 in tribunale, siano stati riconosciuti colpevoli.
Questa sentenza arriva solo quattro giorni dopo gli arresti del 23 aprile 2018 e le accuse penali contro 122 persone – per lo più afghane – che avevano protestato pacificamente a Mitilene e che si sono viste brutalmente attaccate da un commando di fascisti prima di essere arrestate dalla polizia. Siamo estremamente preoccupati rispetto alla possibilità che la decisione della Corte di Chios possa incoraggiare ulteriormente lo Stato a continuare a criminalizzare tutte le persone che resistono alle politiche ostili del Governo.
La sentenza è stata impugnata dai 32, condannati a 26 mesi di reclusione con pena sospesa, dopo 9 mesi di ingiusta prigionia. Una pena, peraltro irragionevole poiché aumentata di 19 mesi rispetto ai 7 mesi proposti dal pubblico ministero in sede di rogatoria finale.
Ad ogni modo, i 32 condannati, avendo ottenuto la sospensione condizionale della pena, dopo nove mesi di ingiusta detenzione, sono stati finalmente liberati. Alcuni di loro, tuttavia, avendo ricevuto due decisioni negative rispetto alla loro richiesta di asilo politico in Grecia, rischiano, inverosimilmente, la deportazione in Turchia, in forza dell’accordo EU/TURCHIA.
Nello specifico, sette dei #Moria35 si trovano al momento iscritti nella lista delle persone per le quali è prevista la deportazione in Turchia e conseguentemente si trovano nel concreto pericolo di rimpatrio forzoso nel Paese di origine da dove erano fuggiti negli anni passati.
Con un processo ricco di violazioni procedurali, infatti, le loro domande di asilo sono state respinte. Quindi, dopo aver dovuto subire oltre un anno di trattamenti disumanizzanti nel campo di Moria, dopo essere stati vittime del barbaro attacco posto in essere dalla polizia – attacco seguito da nove mesi di ingiusta detenzione – ora 7 dei #Moria35 rischiano di essere spediti in una prigione turca, per poi essere probabilmente espulsi nei paesi di origine da cui erano fuggiti.
Peraltro, tutti potrebbero beneficiare della protezione umanitaria in Grecia come vittime o testimoni di gravi crimini. Inoltre, tre di loro hanno presentato diverse denunce contro la polizia per l’attacco, le violenze e l’arresto arbitrario subito, e al momento un’indagine risulta essere stata avviata dal pubblico ministero di Mytilene (Lesvos) contro la polizia, indagine per la quale tutti e sette sono testimoni importanti.
La loro evenutale deportazione non solo violerà i loro diritti ad un giusto processo, ma assicurerà l’impunità della polizia nelle proprie politiche di repressione violenta negli hotspot greci.
Seguiranno aggiornamenti.
Alfredo Curto – operatore legale volontario presso l’hotspot di Lesbo
[1] Guha R., Dominance without Egemony. History and Power in Colonial India, Harward University Press, 1997; per approfondire, Mezzadra, Rigo, Diritti d’Europa. Una prospettiva postcoloniale sul diritto coloniale in A. Mezzacane (a cura di), Oltremare. Diritto e istituzioni dal colonialismo all’età postcoloniale, Editoriale scientifica. 2006, Napoli.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una testimonianza diretta su quanto avvenuto nell’isola di Lesbo tre giorni fa. L’azione violenta di un gruppo organizzato fascista, legato ad Alba Dorata, contro i rifugiati in lotta, richiama immediatamente una lunga fila di episodi recenti: come l’azione di blocco della frontiera da parte del gruppo neofascista di Génération Identitaire sul Colle della Scala, la tentata strage di Macerata ad opera del fascio-leghista Traini, il pattugliamento delle coste italiane con la nave C-Star nell’ambito della campagna “Defend Europe” promossa dalla galassia di gruppi legati al format di Génération Identitaire durante la scorsa estate, le numerose manifestazioni organizzate da diverse sigle politiche contro i centri di accoglienza per richiedenti asilo…
I gruppi promotori, appartenenti tutti alla galassia neofascista e con legami più o meno espliciti tra di loro, hanno evidentemente elaborato una strategia comune. Attaccare i migranti e le persone richiedenti asilo, direttamente e in maniera violenta, arrivando a prevederne il ferimento e l’uccisione.
Non sorprendentemente, nonostante la gravità e l’efferatezza degli episodi, questi gruppi vengono lasciati agire indisturbati dai governi europei. Di fatto vengono tollerati attacchi armati contro civili – compresi i bambini – disarmati, senza protezione alcuna, in condizione di estrema debolezza e vulnerabilità.
Senza sorpresa, si diceva, perché questi gruppi vanno ad agire in situazioni dove, proprio per decisione dei governi europei, la violenza e il mancato rispetto dei diritti fondamentali sono già all’ordine del giorno.
A Lesbo, il campo Moria assomiglia più a un campo di detenzione che ad un centro di accoglienza (così come avviene in Italia per i CPSA e i CARA ), il confine italo-francese da Ventimiglia a Bardonecchia è già, quotidianamente, bloccato e setacciato su base razziale senza nessun bisogno delle sceneggiate fasciste; infine durante i fermi, i controlli, gli sgomberi le persone migranti sono già vittime di numerosi abusi da parte delle forze dell’ordine.
Anche a Ventimiglia, come abbiamo raccontato su questo blog, i fascisti di Casapound e Forza Nuova [1], hanno tentato qualche sortita. Non è da escludere che anche qui tenteranno ancora di sfruttare a fini propagandistici la situazione di forte tensione e di totale vulnerabilità vissuta dai migranti.
Certamente alcuni fatti vanno assunti come indicazioni: i gruppi fascisti non potrebbero agire se non trovassero una situazione estremamente favorevole per poterlo fare e non sarebbero certo lasciati fare se il loro agire fosse di segno politico opposto a quello di chi governa gli Stati europei. Le forze neo – fasciste con la loro ideologia sovranista e il loro razzismo violento portano avanti un’opzione neocoloniale non di segno opposto ma solo in competizione con quella ugualmente neocoloniale delle élite europee che governano l’Unione sulla base di un’ideologia tecnocratica e di un razzismo “biopolitico”.
Tuttavia, come i fatti di Lesbo dimostrano, e come la storia dei Balzi Rossi e dell’esperienza politica ventimigliese fino almeno al 2016 sta lì a ricordare, i migranti e le persone in viaggio non assumono solo il ruolo vittime di queste politiche, ma spesso incarnano soggetti politici capaci di produrre forme di resistenza e di conflittualità, in grado di spaventare e mettere in guardia il potere in maniera direttamente proporzionale alla violenza con la quale vengono represse.
23 APRILE 2018, ISOLA DI LESBO, MITILENE, SAFFOUS SQUARE, ATTACCO FASCISTA AI DANNI DI RICHIEDENTI ASILO IN PROTESTA PACIFICA
Nella giornata di ieri, verso le 7 del pomeriggio, un gruppo di fascisti e nazionalisti greci, circa 200 unità, riconducibili senza dubbio alla tristemente nota organizzazione fascista greca, Alba Dorata, diversi dei quali giunti appositamente da Atene in giornata, attaccava un sit- in pacifico di richiedenti asilo, da giorni in protesta pacifica nella piazza principale della città di Mitilene, sull’isola di Lesbo, hotspot per richiedenti asilo.
I fatti:
Circa una settimana fa, un ragazzo di 27 anni, afghano e residente nel campo Moria perdeva la vita per negligenza delle autorità presenti nel campo, le quali trattavano il suo caso con superficialità, non consentendogli di ricevere le dovute cure e disponendo per il trasporto in ospedale quando era ormai troppo tardi.
In segno di protesta, da martedì 17 aprile circa 200 uomini, donne e bambini, prevalentemente di nazionalità afgana, portavano tende e coperte nella pizza principale della città di Mitilene, occupandola pacificamente fino a ieri sera.
Le loro rivendicazioni erano legate alle loro condizioni di vita nel tristemente noto campo Moria (campo principale sull’isola, dove al momento risiedono più di 6000 persone a fronte di una capienza di circa 3000), alle procedure per le richieste di asilo che richiedono anche anni per molti di loro (12 mesi in media) e alle condizioni igieniche, alimentari e di sicurezza generale del campo, totalmente al di sotto gli standard internazionali.
Ieri pomeriggio un gruppo organizzato di estrema destra composto da persone provenienti da Lesbo, Atene e altre isole arrivava in Sappho Square, diversi dei quali appartenenti a tifoserie organizzate di destra e membri di alba dorata, raggiungeva la piazza ove si trovava il sit- in di protesta, insultandone gli appartenenti e cercando in ogni modo lo scontro fisico per ottenere lo sgombero della piazza.
Il gruppo di aggressori iniziava, dopo un’ora circa di cori e urla ad avanzare verso il gruppo di richiedenti asilo, il quale, senza rispondere alle provocazioni, si posizionava in cerchio cercando di proteggere, formando una barriera, donne e bambini, seduti al centro della piazza.
La polizia, in assetto antisommossa, non interveniva in alcun modo, neppure quando il gruppo di fascisti iniziava un fitto lancio di bottiglie, pietre, fumogeni e bengala contro richiedenti asilo, antifascisti e volontari giunti in supporto.
Donne e bambini venivano protetti, pertanto, da coperte e scatole di cartone, mentre rimanevano al centro della piazza sedute, per scelta dei leader della comunità afgana, i quali non avevano intenzione né di reagire né di lasciare la piazza, protette dalla barriera umana formata dagli uomini del gruppo.
Anche dopo gli attacchi fatti con fumogeni e bengala, non vi era alcun tipo di risposta violenta da parte dei richiedenti asilo, i quali restavano fedeli al loro slogan “we want peace not violence”. Ai compagni e alle compagne giunti sul posto in aiuto veniva, inoltre, chiesto di non reagire alle azioni fasciste dagli stessi leader della protesta.
Successivamente, la tensione aumentava quando bottiglie di vetro iniziavano a volare e cassonetti dell’immonidizia venivano dati alle fiamme dal gruppo di estrema destra. Una molotov veniva lanciata all’indirizzo dei richiedenti, fortunatamente impattava contro uno dei furgoni della polizia, polizia complice dei fascisti, che continuava a non respingere i continui assalti fascisti ai danni di donne e bambini, mentre invece era sempre attenta a sparare lacrimogeni in direzione dei migranti e dei solidali intervenuti.
Molte persone restavano, purtroppo, ferite, e diverse di loro restavano intossicate dal fumo sprigionato dai lacrimogeni, inverosimilmente sparati dalla polizia locale ai danni del gruppo di inermi richiedenti asilo, quando avrebbero dovuto, invece, essere rivolti nei confronti del gruppo di estrema destra. Donne e bambini venivano a quel punto messi in sicurezza con l’aiuto numerosi volontari ed antifascisti locali, i quali sostenevano i richiedenti asilo fino alla fine della nottata. Una decina di persone venivano portate, inoltre, in ospedale in quanto ferite o intossicate.
Verso le ore 4 e 30 del mattino la polizia, utilizzando la scusa del voler proteggere la piazza, circondava il gruppo di richiedenti asilo e, dopo averli costretti in un spazio piuttosto ridotto, usando la forza, e un’ingente quantità di spray al peperoncino, sgomberava la piazza, sotto gli occhi compiaciuti dei militanti di estrema destra, portando i migranti uno per uno su diversi autobus, dei quali al momento non si conosce la destinazione.
A quanto risulta circa 35 appartenenti al gruppo di richiedenti asilo presenti nella piazza risultano essere stati posti in stato di fermo senza alcuna accusa formale.
Non si conosce la destinazione della restante parte del gruppo.
La polizia per l’ennesima volta confermava la propria vicinanza agli ambienti di alba dorata utilizzando ogni mezzo a propria disposizione per annichilire qualsiasi forma di protesta portata avanti dai richiedenti asilo, sempre più considerati come l’ultimo gradino della società.
Dopo gli arresti avvenuti nel campo moria lo scorso anno, la polizia greca continua imperterrita ad utilizzare la forza in maniera arbitraria solo ai danni di chi fa parte dell’ultimo gradino della società, fascisti e nazionalisti continuano in Grecia e in tutta Europa, con la protezione delle varie polizie, ad agire indisturbati, mentre compagni e compagne vengono duramente repressi nelle piazze e nei tribunali.
I volontari anonimi presenti sull’isola di Lesbo manifestano la loro solidarietà con i richiedenti asilo arrestati e condannano le azioni fasciste della polizia greca complice dei fascisti greci.
A seguito dei dati raccolti durante le attività di monitoraggio svolte da associazioni e avvocati alla stazione di Menton Garavan e alla frontiera di Ponte San Luigi, due sentenze del Tribunale di Nizza prendono di mira le pratiche attuate dalla polizia francese per impedire l’ingresso dei migranti minorenni.
Riconosciuto grave ed illegittimo il respingimento di un Minorenne Eritreo al confine delle Alpi Marittime
Da quando, nel giugno del 2015, la Francia ha ripristinato i controlli alle frontiere, migliaia di persone, donne uomini adulti e bambini, si affidano a trafficanti tentando di passare il confine per continuare il loro percorso migratorio. La cronaca parla di corpi violentati, denudati, umiliati, carbonizzati, schiacciati da Tir e investiti da treni. Gli Stati – quando non sono degli incidenti a terminare tragicamente il viaggio, quando non è un confine, a molti invisibile, a impedire il migrare, quando non è una malattia a rendere impossibile il cammino – agiscono anche attraverso “leggi speciali” e “misure di emergenza” legittimandosi a divenire illegittimi. Continuando così a perpetuare la repressione della libertà di movimento.
Ma cosa accade quando un ragazzino eritreo, solo, di 12 anni, viene fatto scendere dalla polizia di frontiera alla stazione di Mentone Garavan, arrestato per ingresso irregolare, venendogli notificato il “refus d’entrée”, messo su un treno per Ventimiglia – condannato alla vulnerabilità giuridica oltre che materiale? Nulla sarebbe accaduto, come nulla è accaduto in questi tre anni di violazioni ai diritti dell’infanzia, se l’ANAFE – Associazione Nazionale per l’Assistenza degli Stranieri alle frontiere – non avesse presentato con urgenza un ricorso al tribunale di Nizza e soprattutto se non lo avesse vinto.
La sentenza emessa dal Tribunale Amministrativo di Nizza contiene parole molto forti nei confronti delle autorità francesi: disposizioni di legge nazionali e internazionali ignorate, violazioni gravi del diritto europeo di asilo, illegittimo il respingimento del minore alla frontiera e gravi le interferenze alla libertà fondamentali dei diritti dei bambini.
Il giudice, nella valutazione del ricorso cita:
– la Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali;
– la Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 26 gennaio 1990;
– Regolamento (CE) n. 2016-399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, relativo a un codice dell’Unione sulle norme che disciplinano i movimenti di persone oltre frontiera;
– il codice di ingresso e residenza degli stranieri e il diritto di asilo;
– il codice di giustizia amministrativa.
Dagli atti in possesso del giudice che ha emesso la sentenza si ricostruisce quanto sia accaduto il 12 gennaio 2018 quando il giovane eritreo, nato il 1 gennaio del 2006 – quindi dodicenne – viene condotto alle ore 13:40 al posto di polizia di frontiera di Mentone Saint-Louis a seguito di un “controllo” sul treno proveniente da Ventimiglia. Alle ore 14:10, cioè 20 minuti dopo, gli viene notificata la decisione di “refus d’entrée” in Francia e allontanato dal confine. L’ANAFE’ ha immediatamente presentato ricorso e la sentenza che ne consegue impone alle autorità francesi di ristabilire i diritti del minore, rilasciando un lasciapassare per l’ingresso in Francia, dove la sua posizione andrà valutata individualmente in presenza di un interprete qualificato e a un risarcimento di 1500 euro.
Tra le note conclusive si legge come l’ordine pubblico avrebbe commesso nell’esercizio dei suoi poteri, una violazione grave e manifestamente illegale. Ne consegue che la decisione di rifiutare l’ingresso in Francia fosse viziata da una manifesta illegittimità che ha pregiudicato e continuerà a pregiudicare seriamente l’interesse del giovane.
Il giovane eritreo ad oggi è “irreperibile” insieme ai 5mila minori non accompagnati che si stima siano transitati per il confine di Ventimiglia. I dati parlano di 25mila arrivi di minori in Italia nell’anno appena concluso. Molti di loro tentano di proseguire il viaggio, per raggiungere famigliari o paesi in cui ritengono di avere prospettive migliori, scontrandosi con frontiere che continuano a rimanere chiuse, da Ventimiglia al Brennero e con Stati che commettono, nell’esercizio dei propri poteri, gravi violazioni e manifeste illegitimità…. Tribunale di Nizza – Repubblica di Francia – IN NOME DEL POPOLO FRANCESE
Ti offro questi dati perché niente muoia,
né i morti di ieri, né i resuscitati di oggi.
Voglio brutale la mia voce, non la voglio bella, non pura,
non voglio si diverta, perché parlo infine dell’uomo e del suo rifiuto,
del suo marcio quotidiano, della sua spaventosa rinuncia.
Voglio che tu racconti.
F. Fanon, Lettera a un francese, p. 60.
Dall’inizio del 2016, siamo stati a Ventimiglia regolarmente e tutte le volte abbiamo voluto scrivere e condividere ciò che abbiamo visto e vissuto.
Ci muoveva la convinzione dell’importanza di descrivere gli eventi di cui eravamo testimoni.
Un forte movimento politico e umano tentava di rovesciare la visione dominante e di condividere spazi politici con chi viaggiava, nonostante la repressione delle istituzioni.
Da allora abbiamo osservato e cercato di delineare ciò che accadeva sul nostro territorio: gli effetti della privazione della libertà di movimento basata sulla provenienza geografica e sul colore della pelle, costringevano un grande numero di persone a vivere in uno spazio artefatto, in condizioni di difficoltà estrema.
Negare l’esistenza di esseri umani, arbitrariamente, in un determinato tempo e luogo, costituisce il presupposto per politiche con cui le istituzioni non solo negano qualsiasi supporto, ma addirittura appaiono tendere all’annientamento della vita stessa.
Riteniamo che, per non cadere nella complessa macchinazione, basata sulla disumanizzazione degli oggetti delle politiche e di noi spettatori, il primo passo sia la conoscenza di ciò che concretamente e quotidianamente accade intorno alla recentemente rinforzata frontiera, delle donne, degli uomini, delle bambine e dei bambini che tentano di attraversarla e che forzosamente si trovano a vivere nelle sue vicinanze.
Come medici, siamo da sempre politicamente impegnati nella direzione dell’accesso alla salute per tutte e tutti.
Per tale motivo, non potevamo esimerci dal portare il nostro sapere tecnico dove ce ne fosse più bisogno e descrivere nuove/antiche malattie, sviluppate nella deprivazione di quelli che vengono definiti legalmente i determinanti sociali della salute: accesso al cibo e all’acqua potabile, condizioni igieniche e un luogo abitativo adeguati, ecc.
Per essere così pochi, e spesso travolti dagli eventi che si susseguono sempre insensati nell’area di Ventimiglia, abbiamo spesso la sensazione di tralasciare argomenti importanti: la scelta dei luoghi isolati e più miseri per l’installazione di campi profughi formali e informali; la malattia di chi vive il confine come abitante o come solidale; i mestieri, i guadagni ed anche i nuovi carnefici che forzosamente originano dal confine; la tensione e il conflitto costanti, che crea alleanze o le distruggono.
Ultimo, ma non per importanza, il senso politico della lotta di chi viaggia, tentando di affermare il proprio diritto al movimento, alla vita, a non essere discriminato per motivi razziali o geografici.
Quest’ultimo fine settimana, tornando da Ventimiglia con i vestiti pregni di quell’odore acre di fumo che non si ostina ad uscire dalle narici, abbiamo affrontato un ragionamento che tuttavia non può essere più evitato.
Il rap sudanese ci risuona nelle orecchie, insieme al rumore cadenzato dei passi che smuovono di volta in volta le pietre grigie ed appuntite di quel frammento d’Europa che continuiamo a calpestare. L’ odore di burro d’arachidi che cuoce insieme al pomodoro, si mischia nel ricordo con l’olezzo dei rifiuti abbandonati lungo l’argine del fiume Roja, ancora una volta in piena. Quella sponda scandisce la distanza di un attraversamento, Il fiume che s’ingrossa proprio mentre ci apprestiamo a ripartire sotto una pioggia torrenziale.
Abbiamo ascoltato molto altro, davanti agli occhi troviamo altre immagini. Vorremmo utilizzare le dita per incidere su questo foglio tutto ciò che ci rimbomba in testa in questi giorni, le riflessioni che abbiamo condiviso, ciò che abbiamo visto e il poco che siamo riusciti a fare, le parole che abbiamo udito, la pelle che abbiamo toccato.
Desideriamo fortemente che, ancora una volta, la parola si faccia testimonianza.
Testimonianza di questo tempo, dell’assurdità di questo Occidente, questo Occidente dei campi profughi che si allargano nel bel mezzo delle città, proprio di fronte alle case vuote.
Ma è l’11 marzo.
Il confine ci ha tolto la voce. Gli ultimi rivolgimenti politici, destra xenofoba ha al 52, 7%, la repressione sempre più violenta, l’utilizzo dei poveri contro i poveri, fanno si che il racconto di ciò che davvero avviene potrebbe essere molto più facilmente non compreso, o usato ai danni dei nostri compagni viaggiatori.
La neve s’è sciolta.
Della rivolta, di fronte a cui in tanti hanno alzato la testa, non v’è più traccia.
Iniziamo a fare i conti con ciò che vorremmo raccontare di questi giorni. Facciamo un lungo elenco di volti, di persone, di storie che vorremmo riportare. Subito realizziamo che dobbiamo invertire il criterio del ragionamento.“Questo non è il caso di raccontarlo, è un momento troppo delicato”. Poco dopo squilla il telefono, una compagna ci comunica l’ennesima perplessità sul rendere pubblico anche l’ultimo evento che volevamo narrare. Ci guardiamo intorno. Non troviamo più le risposte. O meglio, molte risposte le abbiamo cercate, ma con lo scorrere delle ore capiamo che ogni singolo passaggio del nostro racconto può diventare strumento. Strumento di una guerra, quella che si consuma ogni giorno nelle zone di confine.
L’ago della bilancia tra i rischi e i benefici sembra impazzire di fronte ai nostri occhi. Troppi i rischi delle strumentalizzazioni di una testimonianza. Troppa la distanza tra l’immagine e la possibilità della sua sovraesposizione.
Chi resta? Chi parte? Chi è che sorveglia? Chi sono i sorvegliati? Quali i corpi docili? Chi sono le vittime? Chi i carnefici?
Le tracce si fanno segni. La frontiera è una ferita aperta.
Tutto muta troppo repentinamente.
Il fermo immagine, malgrado tutto, non è sufficiente.
Ci sentiamo come nel mezzo di una distopia.
[Scegliamo perciò di alzare gli occhi dal campo di via Tenda e di prenderci un periodo di pausa, coscienti del fatto che se il pensiero si rifiuta di pesare, di violentare, corre il rischio di subire senza frutti ogni brutalità che la sua assenza ha liberato]
In un testo intitolato Immagini malgrado tutto George Didi Huberman narra la storia di quattro fotografie, quattro immagini scattate da un ebreo del sonderkommando di Auschwitz-Birkenau nell’agosto del ’44. Queste rappresentano i soli frammenti visivi di quanto altrimenti inimmaginabile: in quanto tali, atto di resistenza radicale, poiché strappata al progetto dell’ingranaggio nazista che mirava alla cancellazione totale di ogni traccia della stessa operazione di eliminazione.
Nella loro forma originaria, non sono altro che delle fotografie mosse, scure, sul fondo delle quali si scorgono soltanto le ombre di alcune persone, in fila verso l’inferno dell’uomo che annulla se stesso.
A partire da quelle immagini, Didi Huberman scrive un testo che parla del valore della testimonianza, sostenendo che proprio l’incompletezza di quei frammenti a rendere le immagini comprensibili. In breve, le modifiche che queste subiscono nel corso del tempo, tese a definire più chiaramente l’oggetto della rappresentazione, secondo l’autore non fanno altro che trasformarle da testimonianza in feticcio. In tal modo esse mostrano esattamente ciò che ci si aspetta ed il nostro sguardo viene costretto al “riconoscimento”:
Ma l’immagine, secondo il filosofo non è mai nulla, né tutta, né una.
Ogni immagine è già sempre immersa in un linguaggio e può essere compresa a partire dall’atto che l’ha resa possibile. Ogni immagine, per diventare testimonianza, necessita di un contesto e di un immaginario al quale far riferimento. L’immaginario che si dispone attorno all’analisi di un evento, possiede però anche il potere di definirne il regime di verità. E allora è la distanza dello sguardo che ci consente di non cadere nell’oscenità della rappresentazione: quando lo sguardo diventa voyeuristico e l’orrore irrompe nel quotidiano. L’immaginario si traspone nel reale e si confonde con esso: in questo caso non siamo più di fronte all’evento, ma davanti alla sua spettacolarizzazione.
Cercando l’immagine-tutto non facciamo altro che affermare la necessità del simbolo. Ed il simbolo dell’orrore può essere soltanto riconosciuto ed “evitato”, ma mai compreso. Di fronte al simbolo ci si limita ad individuare, a ravvisare, ciò che si presume come già conosciuto. In questo senso, è proprio il piano dell’azione ad essere negato dialetticamente: si paralizza la stessa possibilità di mettere in relazione l’immagine con l’altro da sé. Tutto di quelle immagini ci parla dell’orrore della Shoah: gli spazi, le sbavature, il fuoco con cui è stata scattata, ci consentono di “vedere” la mano tremante al di là dell’obiettivo che corre il rischio di produrla, ogni particolare ci rivela qualcosa in più di quell’evento/immagine.
La negazione operata dalla trasformazione di quell’immagine in un immagine feticcio, trasforma invece l’evento, da problema semantico a “problema semiotico”: l’immagine diventa segno ed il segno può essere riconosciuto, ma mai compreso. Come sostiene Émile Benveniste, la differenza fra riconoscere e il comprendere rinvia infatti a due facoltà distinte della mente: la capacità di percepire l’identità fra l’anteriore e l’attuale da una parte, e quella di percepire il significato di una nuova enunciazione dall’altra.
Negando la possibilità semantica dell’immagine, si nega anche la possibilità di agire il nuovo, intrinseca nella pratica stessa della significazione.
[Cosa c’entra tutto questo con Ventimiglia? Probabilmente, che in qualche modo la morsa nella quale ci siamo sentiti immersi, è la medesima. Anche noi, eravamo parte di quella scena. Ecco, in questo momento Ventimiglia è una realtà sovraesposta, ed ogni immagine che possiamo tentare di restituirne, corre il rischio di divenire necessariamente un’immagine feticcio, utile a rafforzare il regime di verità costruito da qualcun altro. In questo momento gli sguardi che si indirizzano su quella frontiera sono sguardi complici, che cercano di comprendere, ma che sanno già cosa hanno bisogno di riconoscere, a quale immaginario far riferimento]
Forse è proprio in questi giorni che abbiamo sentito sulla pelle tutta la violenza di ciò che Nicholas De Genova definisce lo “spettacolo del confine” Quel preciso meccanismo che si attiva sul confine, e che consente di essenzializzare l’ineguaglianza facendo sì che l’alterità prodotta giuridicamente possa essere concepita come differenza categoriale. Nello spettacolo del confine scena ed osceno sono, difatti, dialetticamente interconnessi: l’intera vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli ed alle radici di quella finzione stanno la divisione sociale del lavoro e la specializzazione del potere.
Il confine è modellato proceduralmente come «sito di trasgressione», e per questo, la scena che si dispone e che genera la necessità dell’esclusione, viene allestita attraverso il ricorso ad un supplemento di oscenità. Ciò che definisce tale produzione dell’oscenità è il fatto che essa venga costruita non solo da un processo di occultamento, ma soprattutto da una fase di esposizione selettiva.
In questo senso, la scena dell’esclusione dischiude e riafferma compulsivamente il «fatto osceno dell’inclusione subordinata»: in questo modo, la politica della cittadinanza pone le condizioni per essere tradotta in una politica essenzialista della differenza.
E’ la stessa regolamentazione istituzionale del regime migratorio a produrre nello stesso atto costituente il presupposto dell’illegalità migrante, lasciandola apparire come il frutto di una mancanza intrinseca dei soggetti, ponendo le basi del processo di razzializzazione. Lo spettro del confine intensifica il grado in cui tutta la vita del migrante è resa aliena, mobilitata a sostegno di allarmanti segnali di separazione ed allontanamento diretti contro i ”sempre già inclusi”, che fondano la partizione in cui la macchina governamentale amministra le condotte.
Forse la prossima volta useremo i rumori e i suoni di quella terra di mezzo e di nessuno, oppure torneremo a raccontare la malattia del confine così come tentiamo di curarla, in chi viaggia e in noi stessi.
Come in questo caso e come sempre, sarà utile mettere insieme i saperi di compagne e compagni, viaggiatrici e viaggiatori, per avere una visione completa della realtà, immaginare possibili alternative e modalità per attuarle.
Le testimonianze dei migranti in Italia: il viaggio di A., diciassettenne afgano, che ha percorso tutte le frontiere dell’Europa dell’est
Vorrei sapere come e perché sei arrivato qui.
A. – Sono arrivato qui a causa dei tanti problemi in Afghanistan. Sai, ci sono molti problemi in Afghanistan, è per questo che lasciamo il nostro paese e veniamo qui in Italia. Sono arrivato qui attraverso un percorso difficile, mi sono trovato in una situazione davvero difficile. Dopo essere partito dall’Afghanistan sono arrivato in Iran e lì la polizia mi ha preso per la prima volta e mi hanno picchiato così tanto e dopo mi hanno mandato indietro in Afghanistan. Dopo ho provato a partire di nuovo, ho fallito varie volte ma alla fine sono riuscito ad arrivare in Turchia.
Poi ho tentato di arrivare in Bulgaria per 5 o 6 volte, ma c’era troppo controllo e non riuscivo a passare. Mi hanno preso e mi hanno picchiato ancora e ancora…una volta mi hanno rubato le scarpe e la giacca, mi hanno rubato tutto, sono rimasto solo con la biancheria intima e mi hanno rimandato in Turchia. Ma ho provato ancora alcune volte e alla fine sono arrivato in Bulgaria, a Sofia, la capitale, dove la polizia mi ha preso e picchiato, chiedendomi “Cosa sei venuto a fare in Bulgaria?”, io ho risposto che venivo dall’Afghanistan e che avrei voluto restare lì.
Mi hanno chiesto i documenti e ho risposto che non avevo niente e mi hanno preso di nuovo, hanno chiamato una macchina della polizia apposta per me, mi hanno fatto salire e mi hanno portato in un carcere, sono rimasto lì 4 o 5 mesi. Lì in prigione in Bulgaria c’era una situazione bruttissima perché ogni 20 giorni la polizia arrivava e picchiava tutti i rifugiati. Venivano solo per controllare gli smartphone di alcuni rifugiati. Ci chiamavano uno per uno, c’era così tanta polizia che stava lì schierata in piedi. Quando il rifugiato passava lo picchiavano ripetutamente con un bastone finché non fosse arrivato dall’altra parte. Poi mi hanno rilasciato e finalmente ero libero. C’erano così tanti problemi in Bugaria…
Dopo ho tentato 3 volte di arrivare in Serbia, ma le prime 2 non sono riuscito a sorpassare il confine. La prima volta ero in viaggio in macchina verso Belgrado, quando la polizia mi ha intercettato e respinto verso la Bulgaria. Ho tentato altre 2 volte e alla fine sono riuscito ad arrivare a Belgrado, sono rimasto lì 6 mesi. Da lì ho tentato di attraversare la frontiera ungherese e quella croata, ma c’era troppo controllo dei confini e ho tentato varie volte.
La prima volta ho tentato di oltrepassare il confine con l’Ungheria, ma la polizia ungherese mi ha preso e mi ha picchiato duramente, poi mi ha rispedito in Serbia. Lì ho provato ancora 5 volte a passare il confine, poi ho visto che era una situazione troppo chiusa e ho abbandonato l’idea di passare in Ungheria. Così ho deciso di seguire la strada verso la Croazia e ci sono riuscito.
Mi ha preso la polizia più o meno a metà strada e mi hanno rispedito in Serbia. Ho ritentato 5 o 6 volte di ritornare in Croazia, ma ogni volta non mi lasciavano entrare. In tutto sono rimasto 8 mesi in Serbia. Quando ho riprovato a passare il confine con l’Ungheria, ma ho trovato 3 punti di contenimento e abbiamo provato a sorpassarli e ci siamo riusciti. Poi siamo arrivati in Austria e ci sono rimasto 6 giorni, ma mi hanno detto che non potevo stare lì perché avevo i documenti della Bulgaria. Ho deciso di proseguire per l’Italia e sono arrivato.
In Bulgaria c’era una situazione molto brutta: quando mi hanno rilasciato sono stato in un campo aperto ad Harmanli ma c’erano troppi problemi: non mi lasciavano né uscire né andare in giro. C’era troppo controllo e mi chiedevano contuamente i documenti, non avendoli non potevo uscire dal campo. Ma c’erano troppi problemi e quindi, quando in Austria mi hanno detto che non potevo rimanere lì, ho deciso di entrare in Italia. Spero che le autorità italiane mi rilasceranno, se Dio lo vorrà, il passaporto così che io possa proseguire.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il video racconto del progetto di arteterapia “Oltre le paure” nato dall’unione delle competenze e creatività di due insegnanti della Scuola Media di Dolceacqua, 9 chilometri da Ventimiglia.
Progetti dal basso come questo, in grado di interagire e mettere in comunicazione tra loro coloro che abitano i territori, costituiscono importanti strumenti per combattere la xenofobia e il dilagare del consenso alle politiche razziste. La loro importanza è inoltre fondamentale in una zona come quella intorno a Ventimiglia, fortemente segnata dalla violenza del confine.
Oltre le paure… si può andare, (se si vuole!)
Alle Medie di Dolceacqua il mondo entra nella scuola e la scuola nel mondo. Come? Vi domanderete! Attraverso l’incontro dei ragazzi con alcuni migranti ospiti del Seminario di Bordighera. Da questa straordinaria esperienza è nato il video Oltre le paure.
Non inganni la breve durata del filmato; la sua realizzazione ha richiesto mesi di lavoro sia a scuola, con ore di riprese, sia da parte del video-maker Diego Diaz Morales, già autore di Una vita, cortometraggio su un richiedente asilo diffuso dalla rivista Internazionale, che ha distillato con un sapiente montaggio il materiale girato.
Tutto è iniziato a novembre quando 4 giovani migranti hanno varcato la soglia della scuola media per incontrare i ragazzi e lavorare insieme sulle paure rappresentandole graficamente, stimolati dall’osservazione dell’Urlo di Munch. Per i migranti, tali paure, si sono dimostrate più legate al rischio di morire o di essere costretti a tornare indietro, per i ragazzi si sono invece rivelate più fondate sulla scarsa conoscenza dell’altro e dei pericoli di cui può essere portatore.
Disegnare le proprie paure senza doverle necessariamente esprimere a parole ha favorito il processo di presa di coscienza e di incontro senza pregiudizi. Ousmanou, camerunense, a tal proposito, ha affermato “Attraverso il disegno abbiamo preso contatto con i ragazzi, ho potuto far capire loro che in Africa ci sono molte ricchezze (Oro, Cacao, Caffè, Uranio ecc) ed il motivo per il quale siamo stati costretti a scappare”. Visto il felice esito dell’esperienza si è pensato di girare un video, non solo per documentare il lavoro fatto ma anche, e soprattutto, per ampliare il processo di sensibilizzazione.
Le paure, che a novembre erano state rappresentate individualmente, sono state condivise su un grande lenzuolo dove sono diventate foglie di un Baobab. Ma ogni paura può essere superata e infatti, grazie alla sagoma di un bellissimo ulivo disegnato da Marius Soffiotti, le paure si sono trasformate in opportunità, in foglie di pace.
Grazie a questo percorso gli studenti hanno potuto capire le dinamiche del fenomeno migrazione, cambiare criticamente opinione sui migranti e scoprire che l’ignoranza e il pregiudizio sono la vera fonte di ogni paura.
Il progetto, nato dalla collaborazione delle insegnanti Monica Di Rocco, arteterapeuta e docente di Arte e Immagine, e Maddalena Vernia, docente di sostegno, ha ricevuto il supporto dei colleghi della scuola e il sostegno di Caritas Intemelia, Arci Imperia e della Diocesi di Ventimiglia Sanremo, che hanno contribuito alle spese.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un intenso contributo, ricevuto da un camminatore solidale che ha percorso i sentieri montani che dalla Liguria portano in Francia. La montagna è meraviglia, sfida, impegno per chi può camminarla liberamente. Ma mostra un altro volto quando ad attraversarla è chi deve conquistarsi la libertà rischiando la vita. Una linea di confine che non si può e non si deve dimenticare. Sfidarla è possibile, come raccontato da questo testo, rifiutando di considerare la libertà un privilegio. Accettando di rischiare la propria, per conquistare insieme l’unica libertà che valga la pena sognare.
Un sacco a pelo blu arrotolato a spirale. Erba gialla tutt’intorno, le pietre grigie del sentiero. Dietro quel sacco a pelo ci sono mille immagini. Mille storie. Basta uno sguardo e ti entrano dentro. Chi l’ha usato, perché. Da dove veniva. L’odore denso di marcio e sudore. L’erba gialla, così gialla in questa giornata di sole. Ma è un attimo. Basta chiudere gli occhi per sentire in bocca il sapore della sua paura. La tensione che sale e un cielo stellato.
Stellato senza luna. Piedi che scivolano sulla terra e un silenzio assoluto. Arrivare di là l’unico obiettivo. Un focus che non riesce ad alleviare una dolce brezza notturna e gli sguardi del suo compagno. Tra le pupille una sola domanda. Ce la faremo? Il termine di un viaggio che termine non è.
E’ solo all’inizio.
Un inizio di frustrazione, di tempi prolungati, di attese infinite. Meno pericoloso del resto del viaggio, di sicuro, ma più subdolo. Più sfiancante. Il cielo stellato senza luna. Non è poi così difficile morire in questa seconda parte di viaggio. Basta il buio. Bastano migliaia di stelle e una scarpata. Sessanta metri di parete verticale. Roccia bianca illuminata dai riflessi della notte. Basta la deviazione sul sentiero sbagliato.
Bastano quelle luci, laggiù. Mentone la parte di un sogno. Eppure è giorno. C’è il sole e tu quella linea la attraversi quante volte vuoi.
Avanti e indietro. Francia Italia e poi ancora Francia. Incontri uomini in divisa da entrambe i lati e il più che fanno è guardarti.
Male, può essere, ma solo ti guardano. Qual è la differenza. Il colore. E’ stagione di caccia. Fortini costruiti con i rami. Uomini in mimetica spuntano dal nulla e abbattono stormi di uccelli. Fucilate, scoppi, sflappio di ali e pallini che ti rotolano accanto alle scarpe.
Sopra il saccopelo blu rimbalzando tra le pietre. Non è notte.
E’ giorno e qui tra le montagne di Ventimiglia- Mentone sembra un giorno qualunque. Tra passeggiate della domenica e cacciatori che giocano ai militari tanto per fare sport. Qui non è mai un giorno qualunque.
Cento, mille, diecimila passi su questi sentieri. Sulla terra nuda, sull’erba tra i rovi e i rampicanti. Per la vita, per un sogno per la libertà personale. Senz’acqua senza vestiti adatti, senza aver mangiato e a volte senza scarpe. Perché questo confine è niente. Questo confine non esiste.
E’ una linea immaginaria tracciata da menti perverse sulla roccia e sull’erba. Quello che esiste sono soltanto i passi, i piedi. Uno dopo l’altro. Avanti più in su. Oltre il confine, oltre i rami, le pietre, la polvere. Quello che esiste è la montagna e la sua dura via di salvezza. Un passo dopo l’altro col fiato corto e le stelle sul capo.
Nulla può fermare il vento e c’è chi il vento lo aiuta. In un soffio di umanità e di speranza. Segui la stella. Segui il sole. Non ti prenderanno. Forse non lo sai. Siamo con te. Con i tuoi passi che solcano le montagne.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa testimonianza che racconta uno dei tanti incontri e delle tante storie di vita che si incrociano per le strade di Ventimiglia e vengono attraversate e segnate duramente dal dispositivo del confine.
Un racconto che ci viene inviato dal Progetto 20K [1], un progetto messo in piedi nel 2016 da un gruppo di attivisti di Bergamo, che ormai da un anno e mezzo svolge un’intensa e generosa attività nell’area di confine di Ventimiglia, fornendo supporto materiale, informativo, logistico e umano ai migranti in viaggio. Nonostante questa testimonianza fosse già stata pubblicata sulla rivista Pequod[2] e non si tratti quindi di un inedito, ci sembra importante ripubblicarla per darle diffusione. Sono storie che come sassolini nel mare si perdono velocemente nell’oscurità e nella profondità delle acque di una Storia sempre più feroce e concitata ma allo stesso tempo producono sulla superificie una catena di cerchi concentrici in grado di trasformare l’immagine e la nostra idea di società e delle identità culturali che la sostengono.
“Domani ci riprovo!” – Storia di Ahmed
Siamo seduti in tranquillità attorno a un tavolino e Ahmed decide di raccontarci per filo e per segno la sua storia. Viene dal sud della Somalia, e la sua città di origine si trova a una manciata di kilometri da Etiopia e Kenya. La sua famiglia –padre e madre, due sorelle e un fratellino – è ancora lì e sta aspettando che Ahmed riesca a raggiungere il suo obiettivo. Lui è il figlio maggiore, e ha sedici anni. Parla sollevando gli occhi grandi e scandendo le frasi con un inglese tagliente. Indossa il suo nuovo cappellino rosso, quello dei momenti speciali, quello che non metti quando dormi la notte sul pavimento di una stazione in attesa di andare oltre il confine.
Ascoltiamo un flebile sottofondo musicale dal telefono, mentre Ahmed si immerge nei suoi ricordi. Prima andava a scuola in Kenya, poi il confine è stato chiuso e militarizzato, e così gli è stata preclusa la possibilità d’istruirsi. Ha quindi frequentato per due-tre anni una scuola non regolamentare – peraltro non condivisa dalla maggior parte della sua comunità (“ma un giorno i miei amici per strada mi hanno detto: Vieni a lezione, il maestro è bravo, molto bravo!”) – creata da un uomo che pagava personalmente l’affitto delle aule utilizzate per le lezioni.
Le aule scolastiche erano dislocate in diversi punti della città per non essere rintracciate, ma almeno garantivano l’accessibilità allo studio. Questa persona, che credeva fortemente nell’educazione per poter strappare i ragazzi alla guerra, è diventata il suo insegnante: c’erano due classi in base al livello di scolarizzazione di partenza (“piccoli” e “grandi”) e venivano spiegate varie materie (inglese, arabo, matematica, chimica, informatica…).
Ogni tanto Ahmed dava una mano all’insegnante, facendo lezione agli allievi di livello inferiore, nonostante alcuni fossero d’età più grandi di lui.
Da tempo però i terroristi del gruppo jihadista Al-Shabaab minacciavano il professore perché, oltre ad insegnare ai ragazzi discipline “inammissibili” (come ad esempio la lingua Inglese), li strappava al loro addestramento militare. Ad un certo punto l’insegnante ha scelto di condividere con Ahmed le sue preoccupazioni, l’ha messo in guardia rispetto al pericolo che stava correndo, e la situazione è andata avanti così per circa un anno: telefonate minatorie, messaggi di morte, intimidazioni sempre più serie. Come Ahmed ci racconta, la principale difficoltà nella sua cittadina sta nel fatto che i terroristi sono ovunque ma non sono riconoscibili. “Sono parte integrante della popolazione. Capitava che tu stessi parlando con una donna, e questa cadeva uccisa davanti a te senza che si capisse come né da per mano di chi. Spesso c’erano proiettili vaganti e sassaiole improvvise”.
Un giorno il professore ha chiesto ad Ahmed di tenere la classe di livello inferiore, mentre lui sarebbe andato a insegnare in un’altra aula. La sera prima i terroristi l’avevano minacciato al telefono per l’ennesima volta.
Ahmed ha portato a termine ciò che l’insegnante gli aveva chiesto, d’altronde l’aveva già fatto in passato. Questa volta però i terroristi sono entrati nell’aula del professore e l’hanno ucciso a sangue freddo davanti ai suoi allievi. “Sapevo che il prossimo sarei stato io… Ero nel mirino, e sarebbero venuti a prendere anche me”. Ahmed, appena ricevuta la notizia, si è organizzato grazie al pieno supporto di parenti e amici, e nel giro di tre giorni ha raccolto 3000$. E’ scappato dalla sua comunità dirigendosi verso il confine. Ha aggirato un posto di blocco e, dopo aver evitato i soldati, si è trovato in Kenya. Tutto ciò avveniva nel marzo 2016.
“Arrivato in Kenya ho solo dovuto cercare un trafficante che mi avrebbe garantito una serie di passaggi attraverso tutti i confini africani fino all’arrivo in Libia. Ci sono volute poche ore per trovarlo, ho mostrato di avere i soldi e lui mi ha detto che avrei dovuto pagare alla fine del viaggio”.
Ha quindi attraversato l’Uganda come unico passeggero a bordo di un pick-up Toyota.“Ad ogni confine cambiavamo autista e aumentavamo di numero”. Nel Sud-Sudan sono infatti ripartiti in sei, in Sudan si sono aggiunte altre persone e poi si sono diretti verso il deserto del Sahara.
Il viaggio nel deserto è durato otto giorni: erano in 24 e solamente il quarto giorno hanno fatto una vera e propria pausa. “E’ stata molto dura. Faceva caldissimo e solo ogni tanto ci davano un goccio d’acqua da spartirci; a volte ci fermavamo qualche ora a dormire sul ciglio della strada.”
In seguito ad altri cinque giorni di cammino – era ormai maggio – è arrivato in Libia, dove è stato subito portato in una prigione alla periferia di una città non ben specificata. “Mi hanno introdotto insieme a tante e tanti in un corridoio.. Mi hanno detto <<Sei somalo, sono 6000 dollari. Hai i soldi?>> Ho risposto che avevo solo 3000 dollari, ma loro insistevano e io: <<Non ho 6000 dollari>> e allora mi hanno detto <<Chiedili alla tua famiglia! Abbiamo un uomo di fiducia vicino a loro e potrebbero consegnarci i soldi per salvarti dalle carceri>>. E io ho risposto <<Conosco la mia famiglia, non li hanno. Fai ciò che vuoi, picchiami, uccidimi, ma io né loro abbiamo quei soldi>>”. Ci riporta questo discorso agghiacciante con una naturalezza incredibile.
Le condizioni erano durissime e l’acqua davvero poca (“ce ne davano una volta al mattino e una alla sera, perché dicevano che altrimenti pisciavamo troppo e le guardie avrebbero perso tempo a controllarci”). Lì è rimasto per quattro mesi subendo vessazioni continue (“venivano ogni giorno a chiederci i soldi e io ogni giorno gli rispondevo che non li avevo”), finché non è stato rilasciato senza spiegazioni. Ahmed ci spiega che in Libia esistono moltissimi campi per rifugiati controllati dalle diverse milizie armate locali, in base a chi appartiene il controllo territoriale. Lui in un campo di quel tipo ci è rimasto per alcuni mesi, appena uscito dalla prigione. Sicuramente si stava meglio, ma anche qui le guardie minacciavano i rifugiati con le pistole. “C’erano tanta gente, ragazzi, uomini e anche donne incinte o con i bambini piccoli.”
A questo punto ha aspettato che gli dicessero quando partire per attraversare il mare (“<<Tu! Alzati. E’ ora di andare>>. E io, con un fucile puntato addosso, mi sono alzato e sono andato così com’ero.”). Era il mese di novembre.
In circa 200 hanno raggiunto il pontile, per poi aumentare enormemente di numero e arrivare ad essere tra le 600 e le 800 persone. I trafficanti hanno stipato tutti e tre i piani dell’imbarcazione, indicando ai “passeggeri” dove e come sedersi. “Eravamo impacchettati come biscotti in una scatola. Uno perfettamente accanto all’altro, in modo che non ci potessimo muovere. Io ero seduto con le ginocchia tra le braccia. Come biscotti in una scatola.”. Ripete più volte questa metafora, mimando con le mani questo particolare incastro, e ci assicura che sono rimasti tutti nella stessa posizione per più di sei ore. Ahmed era nella zona posteriore della barca, al livello inferiore, in uno dei punti più rischiosi. Racconta dell’inquietudine, delle preghiere sottovoce e dei pianti sommessi. Questo stato di cose è durato fino all’arrivo della squadra di Medici Senza Frontiere, quando sono esplose le grida di gioia, dopo un lungo ed assordante silenzio: “We are safe! We are safe!”. Quando il primo soccorritore è sceso al suo livello, Ahmed ha scoperto dove si trovavano e quale fosse la loro direzione: “Non sapevamo dove fossimo diretti, tantomeno la città. In quel momento ho capito che la meta era l’Italia, e che stavo per arrivare a Trapani”. Il viaggio sulla nave di MSF è durato due giorni e mezzo, durante i quali i migranti hanno ricevuto assistenza medico-legale e supporto psicologico, oltre all’avviso che una volta sbarcati il personale di accoglienza avrebbe inevitabilmente richiesto loro le impronte digitali, in base alla Convenzione di Dublino.
Così è stato: trasferito in una struttura di accoglienza a Trapani, Ahmed ha dato le impronte ed è stato foto-segnalato. Lì è rimasto una sola notte e il giorno seguente è stato portato a Chianciano Terme, nel senese. Ha scoperto di avere la scabbia sulle mani e, dopo essere stato visitato da un medico, gli è stato somministrato un trattamento consistente soprattutto in creme e pomate.
Una volta guarito è stato inserito in una comunità, ma dopo due settimane ha ricominciato il suo viaggio: dopo varie peripezie è arrivato a Ventimiglia. Dice di avere un amico in Francia, non sa precisamente dove perché non sono più in contatto, e spera di ritrovarlo, presto o tardi che sia “Per me arrivare in Francia è importante. Avete sentito del sistema educativo che danno ai ragazzi rifugiati? Me ne hanno parlato molto bene. […] Il lavoro dei miei sogni è fare l’informatico.. o il programmatore.. oppure l’ingegnere informatico, insomma, qualsiasi cosa riguardi la tecnologia!”.
Da quando si trova qui, Ahmed ha cercato di passare la frontiera per ben due volte: è minorenne e sarebbe suo diritto chiedere protezione umanitaria in Francia. Non sono di quest’opinione i poliziotti francesi, che la seconda volta l’hanno rimandato indietro addirittura con un decreto di espulsione infarcito di dati falsi. “Hanno scritto un nome diverso dal mio, io insistevo dicendo loro che non erano quelle le mie generalità ma non hanno voluto sentire ragioni e mi hanno rispedito a Ventimiglia. Uno dei poliziotti mi ha detto che se mi avesse rivisto, che se anche solo ci avessi riprovato, mi avrebbe gonfiato di botte. Un altro invece mi ha suggerito a bassa voce come provare a farcela”. Dorme alla stazione, quando lo incontriamo per la prima volta. Gli lasciamo qualche coperta e il nostro contatto telefonico, con la promessa di risentirci.
Il giorno dopo ci vediamo lungo la spiaggia, fa piuttosto caldo per essere dicembre inoltrato.
Parliamo della sua storia, di come è appassionato di informatica e di lingue (infatti ne parla sette in maniera fluida). Mangiamo assieme e scherziamo un po’ lanciando sassolini in acqua. Ahmed è convinto, vuole tentare nuovamente di varcare la frontiera. Scriviamo con lui qualche riga in francese: “Je m’appelle Ahmed. J’ai seize ans et j’ai le droit de demander asile en France”: benché probabilmente inutile, almeno potrà mostrare qualcosa di cartaceo la prossima volta che proveranno a fermare lui e il suo desiderio di attraversare una linea immaginaria.
Decidiamo di farlo restare da noi perché si rimetta in forze, prepariamo un super risotto e ridiamo, cantiamo. Ci rilassiamo un po’ in modo che possa affrontare tranquillo il viaggio che vuole intraprendere il giorno dopo. Gli spieghiamo che la tratta verso Parigi è parecchio rischiosa: con lo sgombero della “Jungle” di Calais migliaia di migranti si sono riversati per le strade della capitale e la repressione è altissima. E’ proprio quella tratta che vuole tentare. “Il poliziotto francese mi ha detto nell’orecchio: Prendi un autobus! ed è quello che farò. Ho un paio di contatti, posso farmi venire a prendere alla stazione”. Acquistiamo quindi un biglietto del pullman, visto che ad Ahmed sono rimasti in tasca solo 20€.
Al momento di partire sembra raggiante con il suo cappellino rosso in testa, lascia in casa tutte le cose che potrebbero appesantirlo durante il viaggio e riparte. Aspettiamo trepidanti che ci faccia sapere qualcosa. Ci chiama alla sera, dopo molte ore, ma purtroppo non si tratta di buone notizie. Anche questa volta non ce l’ha fatta: a Nizza, lungo l’autostrada, c’era un posto di blocco ed è stato scoperto subito. Ha mostrato il foglietto in francese ai poliziotti ma non è stato minimamente considerato e l’hanno rispedito di nuovo a Ventimiglia. Quando ci telefona è alla stazione, e dandogli indicazioni al cellulare riusciamo ad indirizzarlo verso un posto accogliente: anche per questa notte non dormirà all’addiaccio, ma è stanco di aspettare e afferma sicuro:
“Domani ci riprovo!”.
[Al quarto tentativo Ahmed è finalmente riuscito nel suo intento: ora si trova in una città della Francia, dove ha avviato le pratiche per fare richiesta di asilo politico. Ha raggiunto il suo obiettivo, e ora sta cercando di rintracciare il suo amico, mentre stringe nuove relazioni. Di storie simili alla sua ne abbiamo sentite a decine, e tutte hanno in comune ricordi grotteschi, dinamiche coercitive, situazioni rischiose dalle quali allontanarsi il più in fretta possibile. Non possiamo che augurarti il meglio, Ahmed, convinti che condividere con te una piccola parte del viaggio sia stata un’importante occasione di crescita personale e collettiva. Buona strada!]
Ventimiglia, sabato 14 ottobre 2017. Casapound installa un gazebo informativo in Via Roma per “presentare il movimento e parlare di immigrazione”(1).
Un gruppo di donne e uomini europei ha provato ad avvicinarsi con striscioni e strumenti musicali.
Immediatamente bloccati dai poliziotti che presidiavano il gazebo, sono stati identificati, trasferiti alla stazione di polizia e tenuti in stato di fermo per 5 ore senza che fosse fornito loro un interprete né tradotto il contenuto dei documenti che gli è stato chiesto di firmare.
Di seguito la testimonianza di una delle donne presenti. Al più presto seguirà anche un video.
Alle 2.45 circa nove di noi sono arrivati con alcuni cartelli e strumenti musicali. I militanti di Casapound era ancora alle prese con il montaggio del gazebo e c’erano più di una decina di poliziotti nella loro tenuta migliore.
Abbiamo aspettato che si sistemassero poi alcuni di noi sono andati a fare delle domande a quelli di Casapound. I poliziotti si sono mostrati subito insospettiti.
Quando abbiamo iniziato a muoverci per andare tutti insieme, i poliziotti ci hanno subito fermato, ci hanno confiscato gli striscioni e ci hanno chiesto i documenti.
Nonostante ci avessero preso gli striscioni e ci fosse impossibile manifestare, ci è stato detto ripetutamente “siete solo in cerca di guai”, “dovete parlare in Italiano perché siete in Italia” e che stavamo resistendo all’arresto (l’accusa era di aver manifestato illegalmente, cosa che in realtà non siamo riusciti a fare).
Tutti tranne me hanno consegnato i propri documenti (quello che li ha chiesti a me era clandestino (2) e non voleva mostrarmi i suoi prima). Per tutto il tempo ho detto ad alta voce in Italiano e Inglese che avevamo diritto di parlare e che stavano bloccando il nostro diritto alla libertà di parola mentre proteggevano i fascisti. Abbiamo anche cantato “ siamo tutti antifascisti” accompagnati da tamburo.
Sia quelli di Casapound che i poliziotti ci filmavano così io ed un’altra persona abbiamo tirato fuori i nostri telefoni per fare altrettanto. La polizia ci ha vietato di filmare (3) è ha cercato di prenderci i telefoni (non ci sono riusciti). Nel frattempo Marc ha cercato di uscire in modo nonviolento dal cerchio di poliziotti che si era chiuso intorno a noi, gli anno torto il polso dietro la schiena e lo hanno spinto nell’androne della banca, lontano dalla vista del pubblico, poi contro un muro e infine in una macchina della polizia.
Dopo hanno preso Elle, nonostante avesse seguito le loro istruzioni e non avesse fatto nulla di male. Ho cercato di afferrarla ma poco dopo venivo spinta anch’io in una macchina. Avevo gli strumenti sulla schiena e intorno al collo, all’inizio hanno cercato stupidamente di strapparli via, ma essendo ben fissati non ci sono riusciti e alla fine hanno dovuto farmi uscire di nuovo dalla macchia per togliermeli.
Sulla stessa macchina c’era anche Michelle. La macchina della polizia con la quale hanno portata via Elle è partita ad alta velocità per la stazione di polizia che si trova a un chilometro e mezzo e ha fatto un’incidente con un’altra vettura.
Una volta alla stazione le donne sono state separate dagli uomini. Le donne sono state sottoposte a perquisizione personale. Ci hanno preso le impronte digitali, ci hanno fotografato e hanno preso tutti i nostri effetti personali.
Due tedeschi sono stati accusati di essere nazisti durante la perquisizione. Si sono sentiti chiedere se “gli piace gasare le persone”, atti immotivati di aggressione e violenza.
Abbiamo atteso cinque ore mentre loro non facevano nulla (letteralmente nulla, dove potevamo vederli). Quando alla fine ci hanno dato i fogli da firmare non ci hanno fornito un vero traduttore, solo un tizio della Croce Rossa che appariva molto confuso e non sapeva parlare né Inglese né Italiano. Il mio italiano era meglio del suo, walla.
Alla fine abbiamo firmato tutti anche se sapevamo che erano solo cavolate.
Hanno cercato di far firmare a Vincent un foglio solo in Italiano con accuse di traffico di persone risalenti a giugno senza spiegargli nulla del suo contenuto, per fortuna è stato sufficientemente intelligente da non firmare.
Hanno separato i francesi fra noi da tutti gli altri e hanno detto che la polizia doveva scortarli al confine. Sono stati scortati da una macchina della polizia fino a Mentone.
Poi ci hanno rilasciato restituendoci le nostre cose e senza più conferire parola.
Sembra che, a un certo punto, potremmo ricevere posta da un tribunale.
Secondo i giornali italiani siamo lo staff di una cucina “no border”.
Testo originale:
9 of us with some banners and musical instruments arrived around 2.45 p.m. Casapound was still struggling to put up their gazebo and there were many police in their finest costumes, maybe 10 or 15.
We waited until they were set up then a few of us went to ask Casapound some questions. Already i poliziotti were suspicious of them.In the end we all started to move together.
I poliziotti stopped us subito before we could do anything, and they confiscated our banners and demanded documents. Even after they had taken our banners and there was no way we could “manifest” in any case, they told us repeatedly just to shut up, that we were “just looking for trouble”, that we “need to speak Italian because we’re in Italy” and that we were resisting arrest (based on ‘illegal manifestation’ which we never accomplished in the first place.)
Everyone except me gave documents (because the one asking for mine was clandestino and wouldn’t show me his documents first). This whole time I was screaming in Italian and English that we had the right to speak and that they were blocking our right to speak freely while protecting fascists, and we were also chanting ‘siamo tutti antifascisti’ with the drum.
Both people from Casapound and poliziotti were filming us so I and another took out our phones to film, but the police told us we weren’ t allowed to film police and tried to take our phones (they did not succeed). Meanwhile, one of us Marc tried to nonviolently walk out of a circle of cops and they twisted his wrist behind his back and dragged him into a bank, out of sight of the public, and shoved him against a wall, then put him in a police car. After they took Elle (though she complied completely and did nothing wrong). I tried to grab but soon they were also shoving me into a car (with instruments on my back and around my neck which they stupidly tried to tear off me even though they were strapped to me so in the end they had to take me back out of the car to take them off, cretini). In my car was also Michelle.
In the car Elle was taken they smashed another car speeding to the station that was a kilometer and a half away. Once there the women and men were separated, strip searched the women, our finger prints and pictures were taken along with all our possessions. Two of our German comrades during the perquisizione were accused of being nazis and asked if they “like to gas people”, unmotivated acts of aggression to illicit violence.
We were there waiting for about five hours while they did nothing (literally, where we could see them.) When they finally gave us the papers to sign, they provided no real translator, just some guy from Red cross who seemed very confused and could not speak English nor italian. My italian was better than his.
We all signed in the end, even though we all knew it was bullshit.
They tried to get Vincent to sign a paper on smuggling charges from June (which he was clever enough not to sign even though of course they explained nothing of what the papers said.)
They separated the French from everyone else and said the police had to escort them to the border. We tried to convince our french not to comply with this but they were just told it was the procedure, wouldn’t say anything about what the procedure was for foreigners, and we just told to “shut up if they can’t speak italian” they did it anyway and drove to Menton with poliziotti following. Then they released us and returned our stuff without another word.
Apparently we will receive some post about a tribunale at some point.
According to local newspaper we are of “no borders” kitchen.
2 Ndr si trattava di un poliziotto in borghese. I diritti nel caso di controllo documenti,
identificazione e fermo di accompagnamento (ART. 11 L. 191/1978 E ART. 349 C.P.P.) “Nel caso in cui tu sia fermato da un ufficiale-agente in borghese: hai diritto a chiedergli di identificarsi ovvero a chiedere il corpo di appartenenza e a mostrare il tesserino di riconoscimento.Qualora l’ufficiale-agente in borghese si rifiuti a dare le sue generalità in modo corretto: non sei tenuto a eseguire i suoi ordini.” Know Your Rights, breve guida ai tuoi diritti di fronte alle forze di polizia. Associazione Antigone http://www.associazioneantigone.it/news/antigone-news/3051-know-your-rights-breve-guida-ai-tuoi-diritti-davanti-alle-forze-di-polizia