Da diversi giorni è partita la campagna di raccolta fondi per il bar Hobbit di Ventimiglia: non un esercizio commerciale qualsiasi ma un avamposto di solidarietà e umanità reso possibile grazie a Delia, la donna corraggiosa e generosa che lo gestisce, e alle persone che in questi anni la hanno supportata.
In un luogo come la città di confine di Ventimiglia, dove il razzismo istituzionale e culturale la fa da padrone, dove la repressione poliziesca ha spezzato le lotte e le resistenze di chi ha a cuore la libertà, l’uguaglianza e la dignità di tutte e tutti, dove con la complciità delle istituzioni e la connivenza di una parte della popolazione autoctona le mafie e la criminalità organizzata si arricchiscono sulla pelle delle persone in viaggio in condizioni di debolezza e difficoltà, il bar di Delia rappresenta non solo una resistenza ma la prefigurazione di un mondo diverso, fatto di un’umanità capace di dare un senso nuovo e vero a questa parola.
Le difficoltà economiche in cui versa il bar Hobbit sono il segno evidente di come il profitto e l’arricchimento siano impossibili qualora si scelga di andare contro alle logiche imposte dal sistema ingiusto in cui viviamo.
Delia vessata, insultata, discriminata, boicottata: perché Delia non si è piegata alla logica del profitto fondata oggi sulla legittimazione di un nuovo schiavismo, di una nuova società coloniale.
Delia sostenuta, supportata, circondata di persone che hanno a cuore la costruzione di un mondo diverso e la fine delle ingiustizie sociali tremende che a Ventimiglia si mostrano in tutta la loro crudezza.
Sostenere lo spirito del bar Hobbit è possibile con una donazione in denaro, ma soprattutto portando il bar Hobbit in ogni città, in ogni territorio, organizzando iniziative popolari, collettive, sociali. Per raccontare Ventimiglia, raccontare i dispositivi di confine, la violenza, il razzismo di stato ma anche del mondo diverso che con la sua umanità degna faticosamente lotta contro l’opressione del mondo dei confini e dei profitti per pochi costruiti sulla sofferenza, l’umiliazione e lo sfruttamento di troppi.
Viva il bar Hobbit, Viva Delia, contro ogni frontiera, contro ogni razzismo, invitiamo tutte e tutti a sostenere e diffondere la campagna.
Di seguito il link e il comunicato di lancio della campagna di raccolta fondi.
A Ventimiglia, 9 km dalla frontiera francese, passano decine di migliaia di rifugiati ogni anno. Fuggono da guerre, da torture, da violenze. Tentano di varcare il confine per raggiungere familiari o conoscenti in Francia, Inghilterra e altri paesi europei, rischiando la vita durante il tragitto. Una volta superata la frontiera spesso incontrano abusi, detenzioni e respingimenti dalla polizia francese. Questi tentativi durano mesi, mesi in cui uomini, donne e bambini rimangono bloccati a Ventimiglia, senza accesso ai servizi primari: acqua potabile, bagni pubblici, cibo, un luogo dove dormire, a parte il campo della croce rossa, militarizzato, desolato e distante. I rifugiati sono oltretutto soggetti al razzismo e all’ostracismo di buona parte della popolazione locale, ostile a chiunque non abbia la pelle bianca. In questa situazione drammatica, tuttavia, una piccola parte della popolazione resiste: tra questi Delia, il cui bar è diventato l’anima della solidarietà a Ventimiglia. La storia di Delia inizia 3 anni fa, quando invita a entrare e offre un pasto ad alcune donne e bambini seduti sul marciapiede di fronte al bar.
Da allora, grazie al passaparola, il bar è diventato un punto di riferimento per tutti i rifugiati che transitano da Ventimiglia, oltre che per i volontari e le organizzazioni solidali. Delia, soprannominata “Mamma Africa”, ha aiutato migliaia di persone in transito, offrendo vestiti, un pasto caldo, un abbraccio e un luogo accogliente a chiunque ne avesse bisogno. Ha distribuito scarpe, aiutato a decifrare documenti, assistito nella ricerca di alloggio, offerto pasti gratuiti a donne, bambini e a chiunque non può permettersi di pagare. Al bar Hobbit si possono caricare i cellulari e si può utilizzare il bagno (attrezzato di spazzolini, dentifricio, sapone, assorbenti e fasciatoio) senza obbligo di consumazione. I bambini hanno un angolo tutto loro, che Delia ha creato raccogliendo giocattoli usati. Il bar è spesso l’unico rifugio per i più vulnerabili, donne incinte, minori, vittime di tratta.
Tuttavia la solidarietà di Delia l’ha resa invisa al vicinato e a una parte di popolazione di Ventimiglia, che ha messo al bando il Bar Hobbit, soprannominandolo il “bar dei neri” e il “bar degli immigrati”. Insulti, aggressioni e atti vandalici fanno ormai parte della quotidianità di Delia. L’isolamento, la perdita della clientela e pressioni di vario genere hanno spinto il bar in una situazione economica sempre più grave. Delia non è più in grado di sostenere le spese ed è stata costretta suo malgrado a mettere il bar in vendita.
Non permettiamo che scompaia uno dei pochi luoghi di umanità e solidarietà che resistono a Ventimiglia! Aiutaci a sostenere Delia e a continuare il suo progetto di solidarietà attiva: ogni donazione, anche piccola, ci aiuta a comprare cibo, acqua, bevande e a coprire le spese del bar.
Each year tens of thousands of refugees travel through Ventimiglia, a small town at the border between Italy and France. They are fleeing from war, torture and violence. Most want to reunite with family members and acquaintances in the U.K., France and other European countries, undertaking life-threatening journeys to cross the borders. Once past the Italian frontier refugees encounter abuse, detentions and deportations by the French police. For several months men, women and children are stranded in Ventimiglia while desperately attempting to cross border, with no access to clean water, food or shelter besides the isolated and militarized Red Cross camp. Their vulnerable condition is exacerbated by the racism of a large part of the local population, mostly hostile towards non-white residents.
Some locals, however, are resisting: like Delia, whose cafe has become an island of solidarity in the harsh reality of Ventimiglia. Delia’s story begins 3 years ago, when she invited in and offered food to some women and children sitting on the pavement in front of her cafe. Since then, thanks to word of mouth, the cafe has become a local hub for refugees, volunteers and organizations in Ventimiglia. Delia, who’s been nicknamed “Mama Africa”, has helped thousands of people on the move by providing clothes, warm meals, hugs and a welcoming place to anyone in need. She has handed out shoes, helped translating papers, assisted migrants in finding a place to stay, offered free meals to women, children and anyone who could not afford them. At The Hobbit’s Cafe you can charge phones and use the toilet (fully equipped with toothbrushes, toothpaste, soap, sanitary pads and a changing table) without buying anything. Children have their own corner, which Delia created collecting second-hand toys.The cafe is often the only lifeline for the most vulnerable: pregnant women, minors, sex trafficking victims. Sadly Delia’s commitment in helping refugees has attracted hostility from many neighbours and locals, who avoid the cafe, labelled “the negroes’ cafe” and “the immigrants’ cafe”. Insults, threats and acts of vandalism are now part of Delia’s everyday life. The isolation, the loss of clientele and pressures from many fronts have pushed the cafe in an extremely difficult economic situation. Delia can no longer cover the expenses and she was forced to put the cafe up for sale.
Support the Hobbit’s Cafe, help us keep humanity and solidarity alive in Ventimiglia! Each donation, no matter how small, contributes towards food, water, drinks and the cafe’s utility bills.
À Vintimille, à 9 km de la frontière italo-française, des dizaines de milliers de réfugiés passent chaque année. Ils fuient la guerre, la torture, les violences. Ils tentent de traverser la frontière pour rejoindre des proches ou des connaissances en France, en Angleterre et dans d’autres pays européens, risquant leur vie pendant le voyage. Lorsqu’ils franchissent la frontière, ils butent souvent sur des abus, des détentions et des refoulements par la police française. Ces tentatives durent pendant des mois; des mois où les hommes, les femmes et les enfants restent bloqués à Vintimille, sans accès aux services indispensables: eau potable, toilettes publiques, la nourriture, un endroit pour dormir, en dehors du campement de la Croix Rouge, militarisée, désolant et lointain. En plus, les réfugiés sont également victimes du racisme et de l’ostracisme d’une grande partie de la population locale, hostile à toute personne dite de couleur. Dans cette situation dramatique, cependant, une petite partie de la population résiste: parmi elle Delia, dont le bistro (le bar Hobbit) est devenu l’âme de la solidarité à Vintimille. L’histoire de Delia commence il y a trois ans, lorsqu’elle invite à entrer et offre un repas à des femmes et à des enfants assis sur le trottoir devant le bar.
Depuis, grâce au bouche à oreille, le café est devenu un point de repère pour tous les réfugiés qui transitent de Vintimille, ainsi que pour les volontaires et les organisations de soutien. Delia, surnommée “Maman Africa”, a aidé des milliers de personnes en transit, offrant des vêtements, un repas chaud, un câlin et un lieu d’accueil à ceux qui en ont besoin. Il distribue des chaussures, aide à déchiffrer des documents, à trouver un logement, offre des repas gratuits aux femmes, aux enfants et à quiconque ne peut pas payer. Les batteries des portables peuvent être chargés au bar Hobbit et la salle de bain peut être utilisée (équipée de brosses à dents, dentifrice, savon, d’une table à langer et couches pour enfants et femmes) sans obligation de consommation. Les enfants ont leur propre coin, que Delia a aménagé avec des jouets reçus en donation. Le bar est souvent le seul refuge pour les plus vulnérables, les femmes enceintes, les mineurs et les victimes de la traite.
Cependant, la solidarité de Delia l’a rendu impopulaire dans le quartier et chez une partie de la population Vintimille, qui a banni le bar Hobbit, le nommant le le «bar des immigrés», le «bar des noirs» ou meme des nègres. Les insultes, les agressions et le vandalisme font désormais partie du quotidien de Delia. L’isolement, la perte de clients et les pressions de toutes sortes ont plongé le bistro dans une situation économique de plus en plus grave. Delia n’est plus en mesure de supporter les coûts et a été obligée, malgré elle, de le mettre en vente.
Ne permettons pas que l’un des rares lieux d’humanité et de solidarité qui résistent à Vintimille disparaisse! Aidez-nous à soutenir Delia et à poursuivre son projet de solidarité active: chaque don, même petit, nous aide à acheter de la nourriture, de l’eau, des boissons et à couvrir les frais du bar.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una testimonianza diretta su quanto avvenuto nell’isola di Lesbo tre giorni fa. L’azione violenta di un gruppo organizzato fascista, legato ad Alba Dorata, contro i rifugiati in lotta, richiama immediatamente una lunga fila di episodi recenti: come l’azione di blocco della frontiera da parte del gruppo neofascista di Génération Identitaire sul Colle della Scala, la tentata strage di Macerata ad opera del fascio-leghista Traini, il pattugliamento delle coste italiane con la nave C-Star nell’ambito della campagna “Defend Europe” promossa dalla galassia di gruppi legati al format di Génération Identitaire durante la scorsa estate, le numerose manifestazioni organizzate da diverse sigle politiche contro i centri di accoglienza per richiedenti asilo…
I gruppi promotori, appartenenti tutti alla galassia neofascista e con legami più o meno espliciti tra di loro, hanno evidentemente elaborato una strategia comune. Attaccare i migranti e le persone richiedenti asilo, direttamente e in maniera violenta, arrivando a prevederne il ferimento e l’uccisione.
Non sorprendentemente, nonostante la gravità e l’efferatezza degli episodi, questi gruppi vengono lasciati agire indisturbati dai governi europei. Di fatto vengono tollerati attacchi armati contro civili – compresi i bambini – disarmati, senza protezione alcuna, in condizione di estrema debolezza e vulnerabilità.
Senza sorpresa, si diceva, perché questi gruppi vanno ad agire in situazioni dove, proprio per decisione dei governi europei, la violenza e il mancato rispetto dei diritti fondamentali sono già all’ordine del giorno.
A Lesbo, il campo Moria assomiglia più a un campo di detenzione che ad un centro di accoglienza (così come avviene in Italia per i CPSA e i CARA ), il confine italo-francese da Ventimiglia a Bardonecchia è già, quotidianamente, bloccato e setacciato su base razziale senza nessun bisogno delle sceneggiate fasciste; infine durante i fermi, i controlli, gli sgomberi le persone migranti sono già vittime di numerosi abusi da parte delle forze dell’ordine.
Anche a Ventimiglia, come abbiamo raccontato su questo blog, i fascisti di Casapound e Forza Nuova [1], hanno tentato qualche sortita. Non è da escludere che anche qui tenteranno ancora di sfruttare a fini propagandistici la situazione di forte tensione e di totale vulnerabilità vissuta dai migranti.
Certamente alcuni fatti vanno assunti come indicazioni: i gruppi fascisti non potrebbero agire se non trovassero una situazione estremamente favorevole per poterlo fare e non sarebbero certo lasciati fare se il loro agire fosse di segno politico opposto a quello di chi governa gli Stati europei. Le forze neo – fasciste con la loro ideologia sovranista e il loro razzismo violento portano avanti un’opzione neocoloniale non di segno opposto ma solo in competizione con quella ugualmente neocoloniale delle élite europee che governano l’Unione sulla base di un’ideologia tecnocratica e di un razzismo “biopolitico”.
Tuttavia, come i fatti di Lesbo dimostrano, e come la storia dei Balzi Rossi e dell’esperienza politica ventimigliese fino almeno al 2016 sta lì a ricordare, i migranti e le persone in viaggio non assumono solo il ruolo vittime di queste politiche, ma spesso incarnano soggetti politici capaci di produrre forme di resistenza e di conflittualità, in grado di spaventare e mettere in guardia il potere in maniera direttamente proporzionale alla violenza con la quale vengono represse.
23 APRILE 2018, ISOLA DI LESBO, MITILENE, SAFFOUS SQUARE, ATTACCO FASCISTA AI DANNI DI RICHIEDENTI ASILO IN PROTESTA PACIFICA
Nella giornata di ieri, verso le 7 del pomeriggio, un gruppo di fascisti e nazionalisti greci, circa 200 unità, riconducibili senza dubbio alla tristemente nota organizzazione fascista greca, Alba Dorata, diversi dei quali giunti appositamente da Atene in giornata, attaccava un sit- in pacifico di richiedenti asilo, da giorni in protesta pacifica nella piazza principale della città di Mitilene, sull’isola di Lesbo, hotspot per richiedenti asilo.
I fatti:
Circa una settimana fa, un ragazzo di 27 anni, afghano e residente nel campo Moria perdeva la vita per negligenza delle autorità presenti nel campo, le quali trattavano il suo caso con superficialità, non consentendogli di ricevere le dovute cure e disponendo per il trasporto in ospedale quando era ormai troppo tardi.
In segno di protesta, da martedì 17 aprile circa 200 uomini, donne e bambini, prevalentemente di nazionalità afgana, portavano tende e coperte nella pizza principale della città di Mitilene, occupandola pacificamente fino a ieri sera.
Le loro rivendicazioni erano legate alle loro condizioni di vita nel tristemente noto campo Moria (campo principale sull’isola, dove al momento risiedono più di 6000 persone a fronte di una capienza di circa 3000), alle procedure per le richieste di asilo che richiedono anche anni per molti di loro (12 mesi in media) e alle condizioni igieniche, alimentari e di sicurezza generale del campo, totalmente al di sotto gli standard internazionali.
Ieri pomeriggio un gruppo organizzato di estrema destra composto da persone provenienti da Lesbo, Atene e altre isole arrivava in Sappho Square, diversi dei quali appartenenti a tifoserie organizzate di destra e membri di alba dorata, raggiungeva la piazza ove si trovava il sit- in di protesta, insultandone gli appartenenti e cercando in ogni modo lo scontro fisico per ottenere lo sgombero della piazza.
Il gruppo di aggressori iniziava, dopo un’ora circa di cori e urla ad avanzare verso il gruppo di richiedenti asilo, il quale, senza rispondere alle provocazioni, si posizionava in cerchio cercando di proteggere, formando una barriera, donne e bambini, seduti al centro della piazza.
La polizia, in assetto antisommossa, non interveniva in alcun modo, neppure quando il gruppo di fascisti iniziava un fitto lancio di bottiglie, pietre, fumogeni e bengala contro richiedenti asilo, antifascisti e volontari giunti in supporto.
Donne e bambini venivano protetti, pertanto, da coperte e scatole di cartone, mentre rimanevano al centro della piazza sedute, per scelta dei leader della comunità afgana, i quali non avevano intenzione né di reagire né di lasciare la piazza, protette dalla barriera umana formata dagli uomini del gruppo.
Anche dopo gli attacchi fatti con fumogeni e bengala, non vi era alcun tipo di risposta violenta da parte dei richiedenti asilo, i quali restavano fedeli al loro slogan “we want peace not violence”. Ai compagni e alle compagne giunti sul posto in aiuto veniva, inoltre, chiesto di non reagire alle azioni fasciste dagli stessi leader della protesta.
Successivamente, la tensione aumentava quando bottiglie di vetro iniziavano a volare e cassonetti dell’immonidizia venivano dati alle fiamme dal gruppo di estrema destra. Una molotov veniva lanciata all’indirizzo dei richiedenti, fortunatamente impattava contro uno dei furgoni della polizia, polizia complice dei fascisti, che continuava a non respingere i continui assalti fascisti ai danni di donne e bambini, mentre invece era sempre attenta a sparare lacrimogeni in direzione dei migranti e dei solidali intervenuti.
Molte persone restavano, purtroppo, ferite, e diverse di loro restavano intossicate dal fumo sprigionato dai lacrimogeni, inverosimilmente sparati dalla polizia locale ai danni del gruppo di inermi richiedenti asilo, quando avrebbero dovuto, invece, essere rivolti nei confronti del gruppo di estrema destra. Donne e bambini venivano a quel punto messi in sicurezza con l’aiuto numerosi volontari ed antifascisti locali, i quali sostenevano i richiedenti asilo fino alla fine della nottata. Una decina di persone venivano portate, inoltre, in ospedale in quanto ferite o intossicate.
Verso le ore 4 e 30 del mattino la polizia, utilizzando la scusa del voler proteggere la piazza, circondava il gruppo di richiedenti asilo e, dopo averli costretti in un spazio piuttosto ridotto, usando la forza, e un’ingente quantità di spray al peperoncino, sgomberava la piazza, sotto gli occhi compiaciuti dei militanti di estrema destra, portando i migranti uno per uno su diversi autobus, dei quali al momento non si conosce la destinazione.
A quanto risulta circa 35 appartenenti al gruppo di richiedenti asilo presenti nella piazza risultano essere stati posti in stato di fermo senza alcuna accusa formale.
Non si conosce la destinazione della restante parte del gruppo.
La polizia per l’ennesima volta confermava la propria vicinanza agli ambienti di alba dorata utilizzando ogni mezzo a propria disposizione per annichilire qualsiasi forma di protesta portata avanti dai richiedenti asilo, sempre più considerati come l’ultimo gradino della società.
Dopo gli arresti avvenuti nel campo moria lo scorso anno, la polizia greca continua imperterrita ad utilizzare la forza in maniera arbitraria solo ai danni di chi fa parte dell’ultimo gradino della società, fascisti e nazionalisti continuano in Grecia e in tutta Europa, con la protezione delle varie polizie, ad agire indisturbati, mentre compagni e compagne vengono duramente repressi nelle piazze e nei tribunali.
I volontari anonimi presenti sull’isola di Lesbo manifestano la loro solidarietà con i richiedenti asilo arrestati e condannano le azioni fasciste della polizia greca complice dei fascisti greci.
Un articolo di El Pais diffonde il comunicato della rete Interlavapiés sulla morte del cittadino senegalese Mame Mbaye Ndiay
Mame Mbaye Ndiay, cittadino senegalese trentacinquenne che esercitava la professione di venditore ambulante, è morto il 15 Marzo 2018 a Madrid, in Calle del Oso, nel quartiere Lavapiès, per un arresto cardiaco verificatosi nel corso di un intervento della polizia municipale.
Il fatto ha determinato l’indignazione e la ribellione della comunità senegalese e in generale degli abitanti del quartiere.
Durante la serata del giovedì stesso e la mattina del giorno dopo, si sono verificati forti agitazioni.
Durante i disordini, ai quali la polizia ha risposto violentemente [1], un altro cittadino senegalese di Lavapiés, Ousseynou Mbaye, di 54 anni, è morto a seguito di un ictus cerebrale [2] e Arona Diakhate, di 38 anni, è stato ricoverato per trauma cranioencefalico all’ospedale Fundación Jiménez Díaz di Madrid. Il referto medico mostra che è stato trattato con quindici punti sulla testa e presenta due lividi. Trauma cranioencefalico, con ematomi interni, ma senza rischio di danno neuronale. Diakhate ha una ferita alla testa a seguito di trauma inferto con “un oggetto duro e sconosciuto” [3].
Una morte molto simile si è verificata, a Maggio 2017, a Roma. Niam Maguette, un cinquantaquattrenne senegalese, è deceduto nel corso di una operazione di polizia definita “anti-abusivismo”.
Secondo gli agenti, la morte si sarebbe verificata a seguito di un malore, mentre la comunità senegalese ha dato vita a intense manifestazioni di protesta, affermando che fosse stato ucciso e chiedendo l’interruzione delle ripetute operazioni di rastrellamento operate dalla polizia locale di Roma. [4, 5].
A seguito di questi eventi, ritenendo che l’unica certezza sia che a livello europeo si assiste ad un inasprimento della repressione verso donne e uomini già posti in condizioni di sfruttamento dalla mancanza di riconoscimento giuridico, pubblichiamo un articolo che riporta il comunicato della rete interlavapiés, che si definisce “una rete in movimento per la libera circolazione delle persone, perché nessun essere umano è illegale” [6].
Cronaca di una morte annunciata
DAVID FLORES E TERESA ÁLVAREZ-GARCILLÁN (RETE INTERLAVAPIÉS)
La morte di Mame Mbayee non è un fatto casuale, ma la conseguenza del razzismo radicato in alcuni settori della società e delle istituzioni a Madrid.
Ieri pomeriggio Mame Mbayee è morto a causa di un arresto cardiaco. Questo abitante di Madrid stava esercitando la vendita ambulante poco prima a Puerta del Sol.
Ci sono molte versioni degli eventi accaduti prima e dopo la sua morte. La confusione e i disordini ci fanno perdere la concentrazione: chi ha ucciso Mame? Cosa ha ucciso Mame? Nella differenza di queste due domande giace la chiave: Mame è morto per un attacco di cuore ma, nel motivo della sua tragica fine, c’è un lungo filo da seguire che trascende e attraversa tutta la nostra società, con le sue politiche, le sue leggi e le sue istituzioni.
Non possiamo solo pensare che quello che è successo ieri sia stato un incidente. Non è stato un evento isolato. C’è un serio problema strutturale che ha causato la morte di una persona. Mame, senegalese di 35 anni, non aveva documenti nonostante fosse da 12 anni in Spagna. Ha lavorato come ambulante perché non poteva lasciare una cerchia di esclusione. Ad una estremità del cerchio, la premessa che senza un contratto di lavoro non ti danno i documenti; nell’altro, che senza documenti, non puoi avere alcun lavoro. Nel frattempo, l’ultima riforma del codice penale, che ha trasformato le precedenti mancanze in crimini e, con essa, il venditore ambulante in un criminale. Avendo dei precedenti, nessuna offerta di lavoro ti aiuterà a regolarizzare la tua situazione.
Le persone che lavorano in strada e le persone prive di documenti sono spaventate da queste strutture in cui la tensione e la minaccia sono elementi costanti, al livello della strada e al livello della Legge. La persecuzione, i raid, i CIE, il Codice Penale e la mancanza di opportunità sono mattoni di alte mura, forse invisibili a molti, ma molto reali per gli altri. Ripetiamo: ieri non è stato un evento isolato, ma un riflesso di un problema strutturale, in ambito giuridico e politico. Una questione di razzismo e discriminazione.
Gridiamo nelle strade “Sopravvivere non è un crimine!”, Ma con le leggi attuali lo è. Molti come Mame sono venuti qui attraverso mare e deserto con la morte alle calcagna, per poter vivere con dignità e sostenere le loro famiglie. Le regole del gioco sono quelle che sono e, dato che non hanno documenti o lavoro, comprano un sacco di scarpe – o occhiali, profumi o borse – in qualsiasi magazzino all’ingrosso e poi lo rivendono in strada. E questo è considerato un crimine, ma non hanno scelta.
Molti come Mame corrono davanti ai distintivi. E guardano con sguardi sfrenati le orde di persone della Puerta del Sol, sempre all’erta, giorno dopo giorno. Vivono con il cuore in un pugno, finché non scoppia.
La tensione per il timore di essere denunciati non è poca, ma hanno più paura della violenza quotidiana. I gruppi di Lavapiés sono in contatto con il Comune per denunciare la brutalità della polizia. In questi casi è difficile condurre un processo ordinario di denuncia: si tratta di accusare, senza documenti o con il timore di non rinnovarli, niente di più e niente di meno della polizia. E il giorno dopo tornare in strada per vendere, con quegli agenti che cercano di fermarti. In breve, le aggressioni terrorizzano, c’è la paura. La paura serve a rendere la violenza invisibile, confinata nella sfera quasi privata.
Nel centro di Madrid, da agosto 2016, i collettivi hanno documentato in un formato concordato con l’amministrazione cittadina per circa 20 aggressioni fisiche con fratture e contusioni di diversa gravità. Nel luglio del 2017, ad esempio, hanno spinto un ragazzo buttato in un furgone riportando lesioni a diverse vertebre. Al di fuori di questo registro formale, che accetta solo casi con indicazioni fisiche di violenza visibile, vi sono costanti abusi verbali e intimidazioni di ogni tipo.
Lo scopo di questo lavoro sistematico è aprire un percorso sicuro contro l’impunità ma le istituzioni, ribadiscono le loro buone intenzioni senza concretizzarle in mezzi per porre fine al problema. Invece, ci rimandano al Difensore Civico, che è già a conoscenza della violenza e suggerisce lo sviluppo di un programma di identificazione efficace, per garantire azioni non discriminatorie.
Tuttavia, il problema non è limitato a queste azioni. Esiste una dimensione giuridica, legata al codice penale e alla legge sull’immigrazione. I collettivi lavorano su una Proposta di legge per modificare l’articolo 270.4, che classifica la vendita nelle strade come reato. Questa proposta è stata approvata dalla Commissione per la giustizia del Congresso con il sostegno di Unidos Podemos, PSOE, PdeCat, ERC e PNV nel marzo dello scorso anno. Stiamo attualmente prendendo provvedimenti per rendere effettive le modifiche nella legislazione.
No, la persecuzione da parte di due poliziotti in moto non ha ucciso Mame, ma forse il silenzio istituzionale lo ha ucciso. O non è stato il silenzio istituzionale che ha ucciso Mame ma le leggi che lo hanno ucciso. O forse né la polizia né le leggi lo hanno ucciso, ma il razzismo ha ucciso Mame. Sì, Mame è morto. Le circostanze di questa morte sono state tragiche. Le circostanze della sua vita non lo erano meno. Ed è nella vita e nella dignità di tutti i residenti della città ciò su cui vogliamo concentrarci. Ora non solo è necessario svolgere un’indagine per chiarire i fatti, ma il Municipio deve assumersi la responsabilità politica per quanto è successo. L’ambivalenza non è possibile.
Quello che è successo ieri non è una fatalità, è una conseguenza di un problema che esiste in città. Un problema di razzismo strutturale, mancanza di responsabilità e abbandono di una popolazione vulnerabile [6]
COL FRATELLO IDY DIANE NEL CUORE! Anche Genova grida “No al RAZZISMO”!
Storie di ordinario razzismo.. ordinario e sempre più quotidiano, sempre più per mano non solo dello stato, cioè di chi si riempie la panza con la vita di tutti noi, o per mano di poliziotti, burattini dei governi che svolgono il loro lavoro di servi pestando, ammazzando ed imprigionando, salvo poi l’improvviso destarsi del pubblico scandalo se qualcuno gli urla forte e chiaro in faccia: “DOVETE MORIRE”.
Le mani sporche di sangue aumentano ogni giorno e sono quelle di cittadini qualunque: i fascisti si sentono più forti, gli si è lasciato spazio e questi stanno sguazzando nella merda che abbiamo lasciato accumulare, e le tentate stragi e gli omicidi continuano, sempre più difese, sempre più “scusate o capite”.
Più di una settimana fa ormai, un altro morto “ordinario”, un altro omicidio per mano razzista, un altro negro morto ammazzato.
IDY DIANE, senegalese, ucciso a Firenze da un italiano di 65 anni, Roberto Pirrone.
Si chiamava IDY DIANE, immigrato, regolare e faceva l’ambulante. Serve altro o possiamo dire che era SEMPLICEMENTE un UOMO?
Casualità, era sposato con la vedova di MODOU SAMB un altro senegalese ucciso sempre a Firenze il 13 dicembre 2011 insieme ad un paesano, DIOR MOR. Uccisi da Gianluca Casseri, un’altra mano fascista!
I giornali hanno provato come sempre a rivedere la storia: a Macerata problemi mentali, a Firenze “mancanza di coraggio nel suicidarsi”… e quindi, scende in strada, salta qualche donna bianca e te eccolo lì: spara a un negro.
UN UOMO!
Dopo l’omicidio molti ragazzi immigrati sono scesi nelle strade, hanno espresso la loro rabbia, hanno urlato, hanno attraversato luoghi e volti, hanno parlato e, per tutta risposta, i giornali, sostenuti dal coro dei cittadini per bene, il giorno dopo, parlavano delle fioriere rotte dal passaggio di questi giovani neri, sostenuti da quegli scansafatiche dei centri sociali… povere fiorere, troppa rabbia! È solo morto Idy, un venditore ambulante!
In diverse città sono stati fatti presidi e cortei in solidarietà alla rabbia di tutte queste persone, attraversati da gente bianca e nera, a cui ancora batte un cuore, che ancora non si è lasciata annichilire dalle ordinarie schifezze quotidiane.
“Nessuno di noi accetterà mai questa ordinaria brutale realtà!”.
Così decidiamo di riportare uno di questi pezzi di umanità che resiste e irrompe sulla scena decisa a non lasciarsi soggiogare.
Raccontiamo una delle manifestazioni contro il razzismo che ha ucciso IDY DIANE, raccontiamo alcune voci di queste strade attraversate, fiamme di un fuoco che arde contro il gelo di un Paese sempre più cupo.
Questi gli slogan che hanno attraversato i vicoli del centro storico, da via Pre a via del Campo per poi andare verso Piazza De Ferrari al grido di “SO-SO-SOLIDARITE’ AVEC LE SAN PAPIERS”. Le voci che intonavano questo grido di lotta sono state voci di uomini e donne, bianche e nere, italiani e stranieri che hanno riempito le strade, trasformando spontaneamente il presidio indetto alla Commenda di Pré dalla comunità senegalese di Genova in un corteo. Il ricordo e la denucnia dell’assassinio di Idy a Firenze e della tentata strage di Macerata hanno aperto il presidio, unendo la piazza con determinazione, nonostante la pioggia.
Alcuni giovani migranti nel frattempo hanno fatto uno striscione dove le parole scritte in italiano arabo e inglese urlano la voglia di riscatto e di uscire dal silenzio:
“NO AL RAZZISMO” dietro a quelle morti c’è il ritorno dell’odio razziale, sostenuto e promosso da partiti di destra ed estrema destra, sovranisti e fascisti, dalla Lega a Forza Nuova, da Casa Pound a Lealtà e Azione. Proprio quest’ultima ha organizzato nello stesso pomeriggio la presentazione di un libro insieme all’organizzazione Memento nella propria sede, che doveva essere un magazzino di stockaggio di prodotti alimentari da distribuire alla popolazione bianca e che ora diventa “spazio politico”. Di questo dovranno rispondere i Padri Scolopi e tutta la comunità che si dichiara cattolica.
“NO AL COLONIALISMO” dietro a quelle morti c’è un chiaro progetto coloniale che non essendo mai stato realmente né denunciato né riconosciuto continua indisturbato a mietere le sue vittime. Vittime che però oggi sono qua e che nella giornata di sabato hanno dato testimonianza di quello che i paesi neoliberalisti stanno facendo qui e nei loro paesi: sfruttamento, apartheid, disastri ecologici e ambientali, vendita di armi, consumo di risorse… LAGER IN LIBIA, UN GENOCIDIO NEL MEDITERRANEO.
Questi gli interventi passati di mano in mano, tra mani bianche e nere, attraverso megafono che è rimasto acceso per tutta la durata del presidio e durante il corteo. I ragazzi hanno dato voce al sentimento di rabbia e dolore che sentono sempre più forte, hanno dato voce alla sofferenza e all’odio che provoca il razzismo ogni giorno sulla loro pelle. Alcuni di loro parlavano di amore, fratellanza, sorellanza e bisogno di solidarietà, altri portavano più un desiderio di giustizia, non sentendo come parole proprie quelle sulla “violenza sbagliata, in cui non bisogna cadere”, sentendo invece la necessità di rispondere all’odio che si riversa sui “diversi” sempre più frequentemente, sentendo che, in ogni caso, la violenza non è la nostra. Semmai la nostra è autodifesa e voglia di vivere in maniera degna. In quelle tre ore sono stati denunciati anche il decreto Minniti, il sistema di accoglienza, le morti per mano fascista e i partiti riconosciuti dalla democrazia che inneggiano all’odio, con il coltello in mano lasciati liberi di aprire sedi nella nostra città.
Molti dei ragazzi che hanno portato insieme i loro corpi fra i vicoli di Genova, determinati, più forti di tutti quegli sguardi di chi, dai negozi, li guardava stupito ed impaurito, avevano sul volto rabbia e dolore, sì, ma anche gioia di essere lì, insieme, a testa alta.
Speriamo tutte e tutti che ci siano altre giornate come questa, altre voci forti, altri momenti di unione, altre strade piene di persone che non si faranno fermare da paura e repressione, dall’odio razzista e dall’indifferenza.
Quella di sabato è stata una giornata che ha dato speranza, che ha mostrato forza e determinazione nel reagire uniti, noi sfruttati, colonizzati, pronti a rivoltarci alla violenza fascista e razzista, a Genova, Firenze ed in altre città.
L’invito di fine corteo continua ad aleggiare per i vicoli della città vecchia:
“A presto nelle piazze! Per uscire dall’isolamento e contrastare i nostri nemici!”
A cura di Fight
[1] MeMento: E’ un’associazione che si occupa della continuazione della memoria della Repubblica Sociale Italiana attraverso la pulizia e la tutela delle tombe dei repubblichini fucilatori dei loro connazionali e alleati dei nazisti. Inoltre è la diretta erede spirituale ed immobiliare della Unione Nazionale Comnbattenti della Repubblica Sociale Italiana UNCRSI.
Dopo l’emergenza-piogge, è arrivata l’emergenza-freddo a Ventimiglia.
Si sa, sono anni ormai che paradossalmente si va avanti di emergenza in emergenza.
Eppure qualcuno potrebbe notare che un’ondata di gelo eccezionale, il Burian Siberiano in questo caso, è sì un evento insolito ma per chi ha una casa riscaldata, vestiti caldi e impermeabili è qualcosa di gestibile, qualcosa che può diventare finanche piacevole: improvvisamente la neve arriva fino al mare, il paesaggio si fa candido e i bambini, ma non solo, si divertono a tirare qualche palla di neve.
L’emergenza allora ancora una volta è stata un’emergenza selettiva: ha riguardato principalmente le centinaia di persone accampate all’aperto sotto il ponte di Via Tenda o nei tendoni del Campo della Croce Rossa a Ventimiglia… insieme alle altre migliaia di persone accampate all’aperto nel resto della Penisola.
La netta maggioranza di questi bambini, di queste donne e di questi uomini sono immigrati, non italiani.
Durante i giorni di gelo sono uscite alcune testimonianze, articoli e reportage sulla situazione di emergenza vissuta a Ventimiglia dalle persone migranti.
Ne riportiamo qualche passaggio significativo:
27/02/2018 Dalla pagina FB del Progetto 20k[1]
Da ormai quasi tre giorni la situazione a Ventimiglia è parecchio critica per i più di 150 migranti senzatetto che si trovano sotto il ponte stradale. Abbiamo chiesto ufficialmente al comune di attivarsi per sopperire alla mancanza di uno spazio dove queste persone possano ripararsi dal freddo e dal gelo, almeno finché non finirà l’emergenza maltempo. Fra queste persone sono presenti molti soggetti vulnerabili, soprattutto infanti, minori e persone con vari problemi di salute. Dopo aver diffuso la notizia su svariate testate giornalistiche abbiamo ricevuto sostegno da molti solidali di Imperia e dalla regione, ma anche dai vicini transfrontalieri: purtroppo non abbiamo avuto nessuna risposta dal Comune di Ventimiglia.
Con gli attori locali stiamo cercando di gestire questa situazione vergognosa: i solidali e gli attivisti, anche transfrontalieri, stanno cercando di sopperire autonomamente a queste carenze, distribuendo cibo, bevande calde, legna per i fuochi, vestiti e coperte. Le ONG locali si stanno muovendo per convincere le donne con o senza bambini e minori ad andare al campo CRI o per aiutarci ad assicurare la distribuzione di cibo serale che, a causa del maltempo, si è dovuta interrompere. Anche la Croce Rossa di Monaco si è attivata con alcune navette per trasportare i migranti al campo, che è distante e la strada per raggiungerlo pericolosa, ma queste funzionano solo per parte della giornata, in maniera poco costante.
La sospensione delle identificazioni al campo CRI è stata disposta solo per donne e minori, ma non per gli uomini. Questo fatto genera quindi diffidenza perché lasciare le impronte digitali significa essere esposti maggiormente al rischio di deportazioni, rimpatri o di un ennesimo trasferimento in un centro chissà dove in Italia, così in molti preferiscono rifugiarsi in altri posti e/o piuttosto restare al freddo. La chiesa delle Gianchette è rimasta aperta per qualche ore e il parroco ci ha concesso uno spazio da utilizzare come magazzino temporaneo per le coperte che tanti solidali ci stanno inviando. Abbiamo ancora bisogno di trovare altri spazi per la legna che raccogliamo, dato che è l’unica fonte di riscaldamento per le persone sotto il ponte. Ci auspichiamo che la solidarietà tra le varie realtà locali possa portare a gestire con più facilità questa situazione di assoluto disagio, perché purtroppo il peggio non è ancora arrivato: nei prossimi giorni è prevista neve, pioggia e un calo drastico delle temperature.
Ieri sera la sala d’attesa della stazione avrebbe dovuto essere aperta, ma in realtà è rimasta chiusa. In tanti durante il giorno si riparano lì dal gelo e dalla neve che continua a cadere fitta, ma stamattina ci è giunta notizia della presenza sia di camionette con agenti in borghese che caricavano i migranti sulle camionette sia di pullman che, come di prassi, li deportavano forzatamente verso il sud Italia.
Riteniamo vergognoso e inaccettabile l’accanimento di queste ore nei confronti dei soggetti più vulnerabili presenti sul territorio ventimigliese. L’alta probabilità di essere intercettati dalla polizia potrebbe avere, infatti, l’effetto di incentivare i migranti a restare per strada o sotto il ponte, a costo di rimetterci la pelle. È in situazioni come questa che le istituzioni dovrebbero attivarsi per proteggere la vita di queste persone, piuttosto che dileguarsi senza rispostee facilitare l’azione poliziesca di repressione nei confronti dei transitanti.
28/02/2018 Da Repubblica, reportage di Pietro Barabino e Giulia De Stefanis:[2]
Ventimiglia, anche un bimbo di 3 mesi fra i migranti bloccati nel gelo. Ma il centro di accoglienza non si fa
A Ventimiglia non nevicava dal 1985 e molte delle persone – in tutto alcune centinaia – che stazionano al confine con la Francia in attesa del “grande salto” oltre la frontiera, non avevano mai visto un fiocco di neve. Tra i migranti, che stanno trascorrendo queste notti all’aperto a -7 gradi, anche tantissimi ragazzini e giovani mamme con i loro bambini di pochi mesi. Attualmente il Campo della Croce Rossa ospita trecento persone, duecento quelli che preferiscono restare fuori. La legge sui minori non accompagnati obbligherebbe ad aprire un centro dedicato ai più piccoli e alle donne, ma l’apertura – pianificata mesi fa dalla Prefettura – è stata bloccata dalla protesta di alcuni cittadini capeggiati dal sindaco della città di frontiera, che dopo aver insistito per la chiusura del campo gestito dalla Caritas, ha ostacolato in ogni modo l’apertura del centro per i minori non accompagnati.
Donne e uomini solidali si sono subito mobilitati per fornire aiuti e generi di conforto, per cercare di alleviare pericolo e sofferenza delle persone lasciate al gelo.
Invece nessun ente istituzionale, né Comune, né Prefettura, né Protezione civile ha preso iniziative per affrontare la situazione.
Il messaggio da parte delle istituzioni è stato molto, fin troppo, chiaro: non c’è nessuna emergenza umanitaria in atto perché quegli esseri che vivono sotto al ponte o non sono umani, oppure smettono di esserlo in quanto clandestini.
Come ha reagito la popolazione di Ventimiglia? A parte il gruppo dei solidali che attraversano il territorio – italiani, francesi, europei – la popolazione autoctona si è mossa di fronte a questa situazione così evidentemente penosa per le persone costrette a subirla?
La cittadinanza del territorio ha mostrato sdegno, disaccordo, disapprovazione nei confronti dell’abbandono riservato alle persone migranti, lasciate all’aperto con il ghiaccio, la neve e temperature molto al di sotto dello zero, o ha taciuto, di fatto assentendo al comportamento delle istituzioni?
Lo chiediamo ad una solidale che è stata costantemente presente e attiva durante la settimana di gelo e ha vissuto in presa diretta la drammatica situazione sotto il ponte di Via Tenda, tra le persone accampate:
“Guarda, la situazione a Ventimiglia è molto complessa e il clima, giorno dopo giorno, si fa sempre più teso e pesante… Sarebbe troppo semplice rispondere che la stragrande maggioranza della cittadinanza di Ventimiglia vuole lo sgombero dei migranti da sotto il fiume, che non ha voluto l’apertura del centro per minori, che è favorevole alle deportazioni verso Taranto, insomma che è razzista e xenofoba, quindi d’accordo con il comportamento delle istituzioni. Questa gente esiste e non è certo una minoranza, anzi…
Però attenzione non ci sono solo loro. In realtà tantissima gente in questa settimana di gelo ha aiutato come ha potuto, soprattutto offrendo sostegno materiale. Sono arrivate tantissime donazioni di beni di prima necessità a Eufemia, tanto che è stato chiesto al parroco di mettere a disposizione il magazzino della chiesa delle Gianchette perché la roba non entrava più nello spazio di Eufemia. Per dirti, ancora, quando gli attivisti del collettivo Kesha Niya, che di solito forniscono i pasti sotto al ponte, sono rimasti bloccati nella neve, a quel punto a cucinare è stata sempre la Caritas… Ma lo sai chi ci sta in Caritas? Tantissimi volontari che prima, quando era aperta la chiesa delle Gianchette, stavano lì a organizzare l’accoglienza dal basso per i migranti. Questo per dirti che una parte di cittadinanza si è mossa, ma certamente lo ha fatto sotto traccia. In maniera assolutamente non pubblica.
Se vuoi sapere perché, io credo che il motivo sia principalmente il clima di repressione e intimidazione che si vive a Ventimiglia. La chiusura della Chiesa delle Gianchette, avvenuta per ordinanza del Comune, ha segnato un punto di non ritorno: ogni sostegno pubblico ai migranti, anche quello di tipo umanitario e non conflittuale, è stato sempre più ostacolato. Si dà appositamente massima rilevanza ad ogni rigurgito razzista e si ostacola in maniera palese o “silenziosa” qualsiasi iniziativa di solidarietà. La polizia ha intensificato i suoi atteggiamenti intimidatori, il Comune le misure repressive, i media i toni di scontro da civiltà e questo ha permesso alla cittadinanza razzista di alzare la testa e sentirsi legittimata a comportamenti orrendi. Capita spesso che i solidali girino per Ventimiglia sentendosi insultare, soprattutto le donne peraltro, con frasi tipo: “Ecco la puttana che va con i negri” “Ecco gli amici dei negri..” ecc. ecc. Lo riporto per farti capire come mai la cittadinanza solidale e antirazzista agisca sotto traccia, in maniera diciamo “invisibile” allo sguardo pubblico.
Questo ovviamente ha anche delle ripercussioni sul rapporto con le persone migranti. Vedendo questa situazione, che loro ovviamente vivendo sulla loro pelle percepiscono, hanno sempre meno fiducia nei solidali. Non si tratta della fiducia umana a mancare, ovviamente sentono la nostra amicizia e vicinanza, ma si rendono anche perfettamente conto della nostra debolezza e questo li porta ad affidarsi a chi riconoscono come dotato di strumenti più efficaci… Inoltre tutto questo clima sta accelerando il processo di ghettizzazione lungo il fiume: ti isolano, ti marchiano da reietto, ti lasciano senza nulla, nelle condizioni più disumane… beh gli effetti sociali che tutto questo può produrre, credo che non serva un professore di sociologia a spiegarli… Sembra veramente che qui in Via Tenda, tra il sotto ponte e il quartiere popolare, in atto ci sia una strategia della tensione. Ecco, direi che questa situazione fa capire quanta poca democrazia sia rimasta in questo posto ma forse non solo qui, se è vero che questo posto è uno dei laboratori dove si sperimentano pratiche che poi vediamo riprodursi velocemente in molti altri territori di questo Paese. Probabilmente tutto questo deve farci riflettere profondamente sui modi e sugli strumenti possibili per un agire politico e sulla posta in gioco in questo momento…”
Emergenza freddo – Migranti fuori dalla Chiesa delle Gianchette
Torniamo alla domanda iniziale: si è trattato dell’ennesima emergenza, oppure di un ulteriore passo nella costruzione di una politica nei confronti delle persone migranti, dei poveri, degli esclusi, che si può definire come tanatopolitica (politica di morte)?
Michel Foucault ha coniato la categoria di “biopolitica” per indicare le pratiche e i dispositivi con cui il potere opera sulla vita della popolazione ai fini di far vivere chi è produttivo, lasciar morire chi invece non lo è, né può diventarlo. L’espressione “tanatopolitica” indica l’emergere di dispositivi diretti al far morire una parte di popolazione. Precisamente la parte delle “masse senza volto” che risulta in eccedenza. Sempre seguendo la traccia del pensiero foucaultiano, occorre chiedersi a quale scopo e per produrre cosa, oggi, il potere statuale operi in questo modo.
Con lo sguardo al sotto ponte di via Tenda a Ventimiglia, osservando le dinamiche in atto è possibile affermare che l’intenzione istituzionale sia quella di produrre un’esclusione/ghettizzazione radicale di una parte di popolazione, della quale lo stato non si interessa in nessun modo e sulla quale mette in opera una sorta di selezione.
I più forti resisteranno, i più deboli saranno eliminati. Chi resisterà avrà sempre la chance di poter uscire dal ghetto / passare il confine – dall’esclusione ad un’inclusione selettiva – molto spesso (ma non sempre né necessariamente) trasformato, grazie anche ai dispositivi burocratici e alle procedure disumanizzanti per i permessi di soggiorno, in un corpo docile, totalmente disponibile allo sfruttamento.
La morsa di gelo che ha serrato l’Italia nell’ultima settimana del febbraio di quest’anno richiama cupamente alla mente la morsa che attanaglia la maggioranza delle coscienze dei cittadini “legittimi” di un Paese sempre più vicino alla barbarie.
Un gelo difficile da sopportare, soprattutto per chi viene e per chi ama i climi caldi e meridionali.
Sotto la neve e gli strati di ghiaccio, tuttavia, la vita trova il modo di serbare le sue energie per riespodere, senza bussare, in primavera.
Anche le energie di chi ama la vita e la libertà, se ritrovate e alimentate, sanno diventare molto più potenti di qualsiasi prigione di ghiaccio.
All’apice di una campagna elettorale interamente incentrata sull’immigrazione, alienarsi i consensi del crescente elettorato xenofobo italiano rappresenta un rischio che le autorità non hanno alcuna intenzione di correre. In quest’ottica, il discorso fascista ormai ampiamente sdoganato, viene protetto arrivando a vietare qualsiasi espressione di dissenso, che sia davanti a un gazebo di CasaPound o in occasione di un comizio elettorale di Salvini, all’indomani delle sue inaccettabili affermazioni rispetto ai fatti di Macerata.
Il 14 ottobre 2017 il partito fascista CasaPound ha installato ungazebo informativo a Ventimiglia per illustrare il proprio programma politico e parlare in termini razzisti e xenofobi del loro punto di vista riguardo l’immigrazione.
Il 9 febbraio 2018 il Teatro Comunale della città di confine ha ricevuto la visita del candidato premier della Lega Nord Matteo Salvini. L’obiettivo della giornata era quello di presentare alla cittadinanza il programma leghista che il partito delle ruspe porterà alle elezioni in Marzo.
Alla domanda di un giornalista di Sanremonews su cosa farebbe lui a Ventimiglia, Salvini ha risposto: “Qui bisogna fare come i francesi!” Questi si distinguono per violare numerose norme di diritto internazionale con respingimenti arbitrari da parte della polizia di frontiera e della gendarmeria, che non espletano le verifiche del caso per accertare lo status giuridico della persona respinta, come prevederebbe invece il trattato di Dublino. Rimandano quotidianamente in Italia i minorenni, anche non accompagnati, che tornano a stare in strada privi di qualsiasi tutela.
Non soddisfatto, il leader della Lega ha proseguito dicendo “tornerò a Ventimiglia da Presidente del Consiglio e posso garantirvi fin d’ora che non ci sarà più nessun clandestino. “Mentre all’interno del teatro ventimigliese c’erano circa 500 persone, fuori uno schieramento di poliziotti in borghese e antisommossa, unitamente ad agenti della digos, si premuravano di allontanare chiunque potesse sollevare contestazioni rispetto ad una campagna elettorale giocata sullo sdoganamento di una sempre più allarmante xenofobia e di prospettive fasciste e razziste spacciate come soluzioni a tutti i mali del paese.
Mentre il centro di Ventimiglia riceveva le attenzioni di Salvini e della stampa, in via Tenda, nel quartiere popolare di Roverino dove trovano riparo centinaia di uomini e donne migranti, veniva rimosso da agenti di polizia in borghese uno striscione recante le parole “Da Ventimiglia a Macerata solidarietà, razzisti fascisti leghisti sono i veri terroristi”.
La motivazione addotta, è stata che il contenuto della striscione avrebbe potuto infastidire qualcuno.
In entrambi i casi il comportamento delle forze dell’ordine è stato il medesimo: vietare qualsiasi contestazione pacifica da parte di chi voleva manifestare il giusto dissenso verso la presenza di forze apertamente fasciste, xenofobe e incitanti all’odio razziale in un territorio delicato come quello di Ventimiglia.
La foto qui sopra cattura uno dei quotidiani episodi di respingimento di ragazzi giovanissimi – i quali si dichiarano minori – alla stazione di Menton Garavan.
Pubblichiamo il racconto di un viaggio, il cui tragitto a molti risulterà noto per averlo compiuto tante volte senza problemi ma che in questo caso diventa un’epopea che mostra cosa stia accadendo nelle nuove zone di confine interne all’Europa.
Mi sveglio per andare in bagno. Il giorno prima eravamo andati a dormire presto perchè la mattina dopo ci attendeva una sveglia quasi all’alba per prendere un bus diretto in Francia. Guardo l’ora nell’orologio analogico: sono le 6:35, “Cazzo!”, mi dico, “è tardi, abbiamo perso il bus”. In realtà sono le 5:35, non avevo spostato le lancette indietro (quella notte era cambiata l’ora).
Corro in camera per svegliare S.: “Presto vestiamoci e corriamo, forse ce la facciamo a prendere il bus”. Arriviamo di corsa in una piazza vicino a casa, mancano due minuti esatti alla partenza del bus, ma per fortuna siamo molto vicini al luogo della partenza. Prendiamo un taxi; arriviamo alla stazione dei bus, chiedo ai pochi presenti se il pullman per la nostra destinazione è già partito, mi rispondono di no. Io ed S. siamo tutti contenti. Arriva il bus, gli autisti sono italiani, lombardi, frettolosi per il ritardo. Gli mostro i due biglietti, ci chiedono il documento: io gli do il passaporto, S. l’unico foglio che ha (da un anno ormai) che attesta la sua richiesta d’asilo in Francia, in attesa di ricevere documento vero e proprio. Il conducente afferma che quel documento non è valido per entrare in Francia. Io provo a spiegargli che quel pezzo di carta legittima S. ad entrare in Francia perchè lui ha chiesto l’asilo proprio li’. Niente da fare, continua a dire di no con aria scocciata e mi chiede: “che fa signorina? Lei sale con noi o no?” ed io ovviamente rispondo che non sarei salita.
Ce ne andiamo verso la stazione dei treni. S. silenzioso, io con le lacrime agli occhi per il nervoso. Sono allibita ed incazzata da quello che io considero il razzismo incistato nella mente della gente. Il conducente continuava a dire che non poteva accettare quel foglio per legge, e fin qui tutto ok, ma aggiungeva che « gli dispiaceva » non farci salire. E qui sta il problema, cosa vuol dire che « ti dispiace »? O per te la legge è la stessa cosa della giustizia, e allora non dovresti dispiacerti di applicarla, oppure se ti dispiace vuol dire che sai che c’è qualcosa che non va in quel comportamento.. Ma eviti di chiederti quanto e soprattutto cosa non va… Un meccanismo che Hannah Arendt ha posto alla base della mostruosa « banalità del male ». Molti diranno : « sì però, il lavoro è il lavoro », ma quando il lavoro consiste nel bloccare delle persone negandogli un diritto solo perché si trovano in una situazione di debolezza, allora in ballo c’è altro, si parla di accettare silenziosamente un sistema marcio e razzista. Questo’esempio puo’ sembrare esagerato ma spiega bene il mio pensiero: è come il ferroviere che ai tempi del nazismo si è trovato a guidare i treni che trasportavano le persone nei campi di sterminio e si è detto: “è il mio lavoro, non posso rifiutare”. Si capisce il problema? Se davvero si prova dispiacere per una determinata situazione o si fa qualcosa per cambiarla o è meglio lasciare perdere e non far trapelare il proprio disagio.
Arriviamo in stazione per prendere il treno, aspettiamo un’ora ed ovviamente paghiamo il biglietto: il mio umore peggiora, visto che dobbiamo pagare nuovamente dopo aver perso due biglietti del bus. Mentre attendiamo l’arrivo del treno sento di essere molto dispiaciuta per S.
Lui deve subire numerose ingiustizie per il semplice fatto di essere nero, sì perché non c’è altra spiegazione; lui non è un criminale, lui viene da un Paese nel quale c’è una dittatura da circa 40 anni o forse più, quale è la sua colpa? Più ci rifletto e più capisco che adesso ci sono in mezzo anche io. Amo un africano e lui ama me. Ma questo non importa; le istituzioni, le leggi, il sistema, il fascismo non guarda in faccia nessuno. Colpevolizzano S. per essere nero in Europa, colpevolizzano me perché amo un nero in Europa.
Sto provando sulla mia pelle, attraverso l’amore che mi lega ad S., le ingiustizie che subiscono i migranti.
Non riesco a stare in silenzio, sento che devo fare qualcosa.
Ma cosa posso fare? Non lo so. Ci ragiono. Ma qualcosa devo pur fare.
Non è facile fare i conti con questa constatazione : non posso liberamente vedere la persona che amo, non posso liberamente stare con lui e muovermi con lui, aspetto insieme a lui il responso di persone che quotidianamente decidono sulla sua vita e sulla vita dei tanti uomini e donne nella sua stessa situazione; già, proprio sulla vita, perchè se tu non hai un documento, dopo aver rischiato la vita in un viaggio tremendo spendendo tutto quello che avevi, rischi di venire deportato di nuovo nel tuo Paese da cui sei fuggito perché non avevi garantito il diritto alla sopravvivenza. Eh si’, l’Europa dei diritti e delle libertà!
Ed io , ragazza-bianca -con documenti (perchè è con questi termini che il potere ragiona), pur avendo da anni lottato contro queste ingiustizie, capisco solo ora pienamente cosa vuol dire. Non riesco a stare in silenzio, sento che devo fare qualcosa; se vedo, agisco; non riesco a girarmi dall’altra parte, non posso farlo, perché ho la consapevolezza che significa non dare adito al fascismo dilagante. Ma che posso fare? Non lo so, ci devo ragionare.
Nel frattempo arriva il treno per Ventimiglia. Ovviamente dobbiamo dribblare la polizia sul binario che chiede i documenti solo ai neri. Dico ad S. di stare vicino a me; spero sempre che il mio essere bianca possa aiutare chi ha la pelle nera.
Saliamo sul treno, destinazione Ventimiglia.
Stazione di Ventimiglia – Foto di redazione
Arriviamo a Bordighera, so che scesi dal treno ci può essere il rischio che la polizia fermi S. con il rischio dell’espulsione dall’Italia per tre anni. Ci dividiamo per non dare nell’occhio. Io vado a fare i biglietti per Nizza. Saliamo sul treno francese ed è tutto tranquillo finchè arriviamo alla prima fermata, la prima stazione oltre confine : Menton Garavan. Io la chiamo la stazione dell’inferno per i migranti; qui la PAF (Polizia di frontiera francese) fa un vero lavoro di pulizia dei treni che si dirigono in Francia, chiede i documenti solo ai neri ed anche chi possiede una carta valida per stare in Francia deve scendere dal treno per “ulteriori controlli” (li chiamano cosi’ ma in realtà per loro è solo un gioco, mettere ansia e fare violenza psicologica). Ok, siamo a Menton Garavan, sul treno salgono una decina di poliziotti francesi con guanti di pelle e manganelli.
Non ero troppo preoccupata per S. perchè sapevo che lui possedeva un documento per stare in Francia. Mantenevamo le distanze per stare più tranquilli, non so bene perchè ma eravamo convinti di questo.
La polizia arriva da S., lui gli da i documenti ma loro decidono comunque di farlo scendere. S. scende dal treno scortato da tre poliziotti. Io scendo poco dopo. Vviene portato nell’ufficio della polizia senza dargli la possibilità di controbattere. Insieme a lui hanno fatto scendere anche una ragazzina forse di 15 anni, incinta, tirandola.
Io ovviamente rimango fuori e vado alla ricerca di un tabaccaio per comprare cartine ed accendino. la ricerca fallisce ma un passante mi offre quello che mi manca.
Mentre fumo una sigaretta aspetto e mi chiedo cosa sarebbe successo; mi sale l’ansia, l’angoscia e la paura per S. che in quel momento si trovava nell’ufficio della polizia di frontiera francese.
Dopo una mezz’oretta S. mi chiama dicendomi che era tutto ok, di non destare nell’occhio, di prendere il treno e che anche lui l’avrebbe preso e che ci saremmo rincontrati giunti a destinazione. Mentre attendo il treno vedo S. mettersi dall’altra parte del binario; nel frattempo la polizia francese effettua le espulsioni verso l’Italia con il treno. Tra gli espulsi ci sono tanti minori, tutti sanno che gli Stati non possono per legge espellere i minori. Ma qui, in Francia, lo fanno e nessuno apre bocca. Tante associazioni e gruppi di attivisti hanno denunciato questo, ma la polizia continua ad agire cosi’.
La ragazzina in stazione si dimena e il poliziotto la tira portandole lo zainetto che per ridarglielo glielo lancia addosso, mentre gli altri poliziotti deridono gli altri migranti. Tutto questo davanti agli occhi di decine di europei, curiosi di vedere che stava succedendo come se stessero al teatro o stessero guardando un film.
Ho provato schifo, vomito per quelle scene ma in quel momento, per S., non dovevo fare nulla, solo stare tranquilla.
Controlli e respingimenti alla frontiera francese
Arriva il treno, salgo; dopo pochi secondi salgono anche i poliziotti francesi per fare la solita pulizia. Io ero tranquilla, perchè agitarmi? Uno dei poliziotti (quello che aveva preso S.) mi chiede il biglietto e mi ordina di scendere dal treno; mi parla solo in francese, provo a parlargli in inglese ed anche in italiano ma lui non so se non capiva, se non voleva capire o se proprio non mi ascoltava. Ho intuito che alcuni suoi colleghi con aria di pena nei miei confronti, gli dicevano di lasciare perdere, ma lui niente, vuole a tutti i costi che io scenda dal treno pur essendo regolare sullo stesso; mi prende lo zaino e me lo porta fuori, ovviamente a quel punto scendo.
Mi chiede il documento, gli do il passaporto e lui mi domanda se ho un altro documento. Non ne ho altri. Arriviamo davanti ad una panchina sul binario, con arroganza mi chiede di togliermi la giacca. So bene che la polizia non puo’ farmi una perquisizione in un luogo pubblico senza motivo, so che non puo’ essere un uomo a farmi una perquisizione del corpo, so che non possono prendermi il telefono senza autorizzazione; tutto questo avviene, invece, mi controllano tutto sperando di trovarmi chissà che cosa. Chiedo spiegazioni; i poliziotti mi guardano con aria strafottente ed incominciano a ridere come per prendermi in giro. Mi dicono che si tratta di un normale controllo e continuano a chiedermi perchè sono li’, perchè sono scesa per poi riprendere il treno dopo un’ora. Hanno capito che ero insieme ad S. evidentemente, e stare con lui significa inceppare un sistema che vuole gli immigrati ghettizzati, emarginati ed esclusi. Mi chiedono perché sono li’ : io rispondo con tranquillità dicendogli che ho aspettato un amico dall’Italia ma stufa di aspettare ho poi deciso di partire senza di lui; non mi credono e continuano a ridermi in faccia con un’arroganza tale da farmi salire una rabbia esagerata: che cazzo te ne frega perchè sono qui? Ho qualcosa di irregolare? Il tuo lavoro è controllare che non ci siano illegalità o controllare e umiliare le persone che per te sono da sopprimere? Nella mia testa c’è solo questo. Arriva un altro poliziotto con il mio documento e dice agli altri: ” è pulita”. Eh già, purtroppo non possono fermarmi per ore ed ore e sono obbligati a rilasciarmi. Mi ridanno il mio documento ma continuano a chiedermi perchè sono stata li’ un’ora, usando un tono della voce molto alto, di nuovo ripeto la storia; a quel punto mi lasciano andare, borbottando tra di loro.
Ovviamente il treno con S. dentro è ormai partito. Aspetto quello dopo e raggiungo S.
Arrivata a Nizza ci rincontriamo e ci abbracciamo. S. mi chiede come sto e cosa è successo. Io provo a raccontarglielo cercando di non farlo preoccupare. Subito dopo cerchiamo di capire come arrivare a Marsiglia, prendiamo il treno e pago un biglietto abbastanza salato per evitare altri problemi.
Durante il viaggio S. si addormenta, io comincio a pensare al viaggio appena fatto: penso a quello che è successo e cerco di ascoltare le mie emozioni; raramente ho provato una paura di quel tipo; di solito quando decido di fare delle cose tengo in considerazione che possono dare fastidio a qualcuno e che quindi posso subire delle conseguenze. Ma stavolta non è stato cosi’, stavolta volevo solo stare con la persona che amo. Stavolta ho avuto paura per S., che la polizia gli mettesse le mani addosso (a Menton Garavan è la routine) e dopo ho avuto paura per me, non potevo stare lì perchè mi avevano vista con un ragazzo nero che avevano fermato.
La cosa che più mi è rimasta impressa è l’indifferenza che le persone europee hanno nei confronti di quello che succede intorno a loro, per esempio sul treno a Menton Garavan. Tante persone guardavano i poliziotti chiedere i documenti solo ai neri ma nessuno si opponeva a questo, ognuno continuava il viaggio con estrema tranquillità, come se quello che succedeva fosse una cosa normale e giusta. E tanta gente ha guardato anche la mia perquisizioni con curiosità. Le persone vedono la violenza sui migranti ma non si oppongono, perché ? Hanno paura oppure pensano che sia giusto ? Ci hanno detto tante volte che un’indifferenza simile permise le atrocità compiute dal nazifascismo. Le persone vedono, ma per mantenere i propri privilegi non dicono nulla. L’indifferenza è il motore delle peggiori barbarie.
Il passo successivo è punire chi è amico dei neri, chi prova in qualche modo ad inceppare questo sistema.
Si tratta di un episodio di vita vissuta che ho deciso di raccontare e rendere pubblico perché oggi più che mai è necessario diventare consapevoli: per potersi prendere la responsabilità a cui tutti siamo chiamati di fronte a questa Storia.
Pubblichiamo due articoli, tradotti in italiano, dal blog Passeurs d’Hospitalité [1] , in testimonianza dell’attacco ai diritti fondamentali in atto a Calais. Come a Ventimiglia da parte delle istituzioni italiane, nella zona di confine di Calais lo Stato francese adotta misure per impedire l’accesso all’acqua, ai servizi igienici e a qualsiasi forma di supporto ai/alle migranti. Il primo articolo contiene una petizione promossa da un gruppo di abitanti della cittadina sulla Manica, fortemente polemici nei confronti delle posizioni espresse dalla municipalità; il secondo testimonia delle trasformazioni dei dispositivi di “accoglienza” e di controllo delle persone migranti in Francia.
“Noi, abitanti di Calais, non ci riconosciamo in questa retorica del rifiuto”
(dal Blog Passeurs d’Hospitalité, pubblicato lunedì 24 luglio 2017)
A partire dall’autunno 2016, momento dell’evacuazione della più grande bidonville d’Europa, Calais ha assistito al ritorno di centinaia di persone desiderose, per la maggior parte, di andare in Inghilterra. Bambini, donne e uomini che si trovano in una situazione di precarietà estrema. Quotidianamente braccate/i dalle forze dell’ordine, non hanno accesso ai loro diritti.
Il Difensore dei Diritti ne ha preso atto e, il 14 giugno scorso, con un comunicato ha denunciato “attacchi ai diritti fondamentali” delle persone migranti “di una gravità eccezionale ed inedita” nel litorale Nord Pas-de-Calais.
Il 16 giugno, delle persone esiliate e delle associazioni, stanche di non ricevere dallo Stato alcuna risposta ai loro appelli, hanno interpellato il tribunale amministrativo chiedendo di imporre allo Stato stesso di apprestare dei dispositivi che permettano agli/alle esiliati/e di accedere ai diritti fondamentali. Un’udienza, alla quale ha assistito la sindaca di Calais, si è tenuta al TA di Lille il 21 giugno.
Il 26 giugno, il tribunale ha ordinato la messa in opera di dispositivi quali l’accesso a dei punti d’acqua, docce e latrine, a delle unità di strada per le/i minori, e la sospensione delle misure intralcianti il lavoro delle associazioni (violenze poliziesche, controllo dei volontari). La sindaca di Calais, sostenuta dalla maggioranza del consiglio municipale, ha risposto il giorno stesso annunciando che, per lei, le esigenze formulate erano inaccettabili. Il Comune di Calais e la Prefettura, il 6 luglio 2017 hanno presentato un appello al Consiglio di Stato.
Delle/i cittadine/i di Calais hanno deciso di rispondere…
“Siamo abitanti di Calais, siamo indignati/e dalle dichiarazioni della Signora Bouchart, che pretende di parlare a nome di tutti/e gli/le abitanti di Calais. La sua retorica non è intrisa d’altro che disprezzo per l’umano. Noi non ci riconosciamo in questa retorica di separazione e rifiuto.
Mercoledì 21 giugno, anche alcuni/e di noi erano presenti all’udienza del Tribunale amministrativo, per testimoniare dei traumatismi ricorrenti subiti dalle persone in esilio nella nostra città.
Non accettiamo di vedere queste persone, che hanno fuggito la guerra o la misera, in una tale situazione indegna di precarietà e maltrattamento. Abbiamo un cuore e una coscienza. Non accettiamo che dormano per strada, nei boschi. Vogliamo che questa caccia all’Uomo termini. Vogliamo che queste persone possano essere informate dei loro diritti, che chi lo desidera possa essere preso in carico, possa passare legalmente la Manica, allorché questo sia il loro obiettivo, o possa chiedere l’asilo. Vogliamo che l’articolo 13 della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e i diritti fondamentali siano rispettati.
Pensiamo agli/alle abitanti che devono, anche loro, subire la violenza delle politiche di non-accoglienza messe in pratica negli ultimi 20 anni, e che obbligano migliaia di persone a sopportare l’insopportabile e gli/le abitanti di Calais a esserne testimoni.
Invocando il traumatismo vissuto dagli/dalle abitanti di Calais e l’economia in difficoltà, Natacha Bouchart punta il dito sui danni che essa stessa ha causato, scegliendo una politica non ospitale.
La causa reale del declino dell’economia e dell’immaginario negativo che condizionano Calais, è la disinformazione: Calais non è in guerra, malgrado quel che la municipalità, il governo e certi media provano a farvi credere.
La Giustizia ha deciso che lo Stato e il Comune debbano mettere in campo misure minime per gli/le esiliati/e presenti nella zona di Calais: dei punti d’acqua, l’accesso alle docce, a dei servizi igienici. Ha chiesto alle autorità di non ostacolare il lavoro delle associazioni. Adesso, la Signora Bouchart afferma che non rispetterà questa decisione, che giudica “inaccettabile”! Che bell’esempio dato ai/alle cittadini/e di Calais e d’altrove!
Quel che è inaccettabile, è la violenza creata da questa frontiera, le barriere e il filo spinato, l’onnipresenza poliziesca.
Pensiamo anche ai morti, troppo numerosi, e agli incidenti, compresi tutti quelli provocati dalla chiusura della frontiera sulla tangenziale autostradale.
La Signora Bouchart lo sa, Calais rappresenta un luogo strategico, data la sua posizione geografica. Calais sarà sempre un punto di passaggio, nessuno può spostarla. Questo significa che le persone che vogliono andare in Inghilterra, con o senza documenti che siano, arriveranno sempre a Calais, ignorarlo è un non-sens.
Chiediamo che il diritto alla libertà di circolazione per tutti e tutte, garantito dall’articolo 13 della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, sia finalmente applicato.
Vogliamo che il governo e la municipalità trovino delle soluzioni, affinché Calais non sia più un’impasse, per eliminare quelle reti che deturpano la città, per smettere di spendere invano centinaia di milioni di Euro in forze di polizia, barriere, telecamere, riflettori, droni, elicotteri, vigili, reti, per consacrarli, invece, all’accoglienza e alle spese utili alla città di Calais e ai/alle suoi/e cittadini/e.”
Verso un’accelerazione dello “smistamento” delle persone
(dal Blog Passeurs d’Hospitalité, pubblicato venerdì 1 settembre 2017)
Il sole è tornato. Asciuga gli indumenti fradici, quelli che non sono stati gettati dalla ruspa municipale mercoledì 31 Agosto, al momento dell’operazione sotto il ponte Mollien. La sera stessa, alcuni esiliati erano già tornati dal luogo dove erano stati condotti: una destinazione a loro sconosciuta, a 2 ore da Calais. Dicono: “non è una città, è un luogo in mezzo al niente”.
In effetti si tratta di un CAES: un Centro d’Accoglienza e Studio delle Situazioni amministrative, alla periferia di Bailleul o di Belval. Questo nuovo dispositivo di Stato costituisce una prima tappa nello “smistamento”degli esiliati con esame accelerato della loro situazione amministrativa. Un soggiorno dalla durata limitata, prima di un trasferimento verso un CAO o un PRAHDA. Lo Stato non è chiaro sui motivi che condizionano l’attribuzione negli uni o negli altri.
Attorno ai CAO esistevano già delle mobilitazioni. Attorno ai PRAHDA si stanno formando numerose inquietudini: dei centri semi-aperti destinati ai dublinati che potrebbero esservi assegnati in residenza con controllo coatto degli spostamenti, facilitando così i rinvii verso altri paesi europei o verso i loro paesi d’origine. [2]
In continuità con il presidente Macron, il Prefetto di Calais ha annunciato venerdì 25 agosto che non ci saranno più esiliati per strada quest’inverno. A settembre, lo Stato sembra pronto a sfoderare qualche sorpresa.
Ci si può quindi aspettare un’accelerazione delle retate e delle procedure di “smistamento”.
E pensare che agli esiliati catturati durante le retate era stata offerta la scelta tra i CAES e il centro di detenzione. L’altro ieri sera, erano almeno una decina ad aver lasciato il dispositivo, per tornare a dormire per strada, senza neanche un sacco a pelo, essendogli stati confiscati dalla polizia.
Sembra chiaro che non sia la prospettiva di depositare una domanda d’asilo in Francia che motiva i nostri viaggiatori, ma piuttosto il fatto di poter prendere una doccia a #Calais. #Douchespourtous #appeldair
[2] Per approfondire riguardo ai CAO e ai PRAHDA, diverse forme di centri di transito e accoglienza per persone migranti in Francia, si vedano questi due articoli rispettivamente dal blog Passeurs d’hospitalites e dal sito La Cimade:
Proponiamo la testimonianza di un episodio di razzismo recentemente avvenuto nella zona di confine tra il ponente ligure e la Francia del sud. Il fatto, non certo episodico ma purtroppo assai comune, descrive il dispositivo di filtraggio su base razziale messo in opera nella definizione di questa nuova zona di frontiera interna all’Europa [1]. Sempre più spesso veniamo a conoscenza di episodi simili che si consumano sui treni [2]. Non si tratta di coincidenze. Colpire la libertà e l’uguaglianza del diritto alla mobilità ha un significato ben preciso: stabilisce un confine netto tra chi ha diritto di viaggiare – cioè di conoscere, sperimentare, cambiare, sognare, incontrare, cercare il nuovo, scappare, tornare – e chi questo diritto non lo ha. Tra chi è libero e chi si vorrebbe ridurre a schiavo. Tra coloro ai quali sono garantite opportunità e coloro che vanno resi docili allo sfruttamento.
Qualche giorno fa ho lasciato la Provenza, dove sono stata una decina di giorni con amici che, a causa del loro colore della pelle e della loro situazione economica, non possono entrare in Italia. Mi spiego meglio: i miei amici sono africani, sono scappati da un regime violento, hanno fatto richiesta di asilo in Francia. Attendono da ormai un anno la risposta alla loro richiesta e i documenti. Senza di questi non possono viaggiare fuori dalla Francia.
Arrivata a casa esausta dopo il lungo viaggio, decido di chiamare i miei amici per sapere se anche loro sono riusciti a rientrare a casa (abitano in una città francese distante qualche ora dalla Provenza). Quando riesco a mettermi in contatto con loro, scopro che “No”, non sono riusciti a tornare, perché fatti scendere dal treno regionale Nizza – Marsiglia in quanto privi di biglietto. Non faccio fatica a immaginare cosa potrebbero pensare alcuni lettori di questo racconto: “Beh se non paghi il biglietto te lo meriti!”. Seguendo un’ottica strettamente legalitaria, le cose starebbero effettivamente così.
Eppure le motivazioni di certe scelte e comportamenti, spesso, hanno radici più complesse di quanto un giudizio superficiale possa evidenziare. Radici affondate in terreni di profonda ingiustizia: il problema è che i miei amici, come moltissime altre persone nella loro situazione, stanno aspettando da molti mesi il rilascio dei documenti, senza sapere né il motivo di questa attesa né la sua durata. Senza documento non si può lavorare e quindi non si può guadagnare qualche soldo per vivere, se non accettando, quando va bene, di essere sfruttati e sottopagati nel mercato del lavoro in nero. Lo Stato francese effettivamente eroga loro un sussidio, ma con questo ci pagano a malapena l’affitto di una casa e il vitto. Ecco che allora mi metto nei loro panni e mi chiedo: “perchè dovrei anche pagare il biglietto ad uno Stato che mi sta trattando come un oggetto, una cosa dalla quale frutta soldi, mentre mi fa aspettare, aspettare, aspettare fino a rendermi una persona depressa, abbrutita, sottomessa a tutto questo?” Non prendo nemmeno in considerazione l’obiezione di chi pensa: “queste persone sono qui a spese nostre e vogliono pure viaggiare!”. Un’obiezione irricevibile in quanto enormemente razzista e intrisa di un pensiero profondamente colonialista: tutti i benefici, le libertà, i comfort e le opportunità di cui una parte non esigua della popolazione occidentale gode, non sono frutto di una sua presunta superiorità intellettuale e culturale, ma delle rapine compiute per centinaia di anni ai danni delle altre popolazioni…. Non riconoscere questo dato storico significa cullarsi in una visione disonesta della Storia, ideologicamente utile a giustificare i propri privilegi e misconoscere le miserie degli altri esseri umani, su cui gli stessi privilegi sono fondati!
Ma torniamo all’episodio in questione: sul treno sul quale viaggiavano i miei amici i passeggeri senza biglietto erano molti. Bianchi e neri. Ma solo loro, i neri, sono stati fatti scendere dal treno. Perché? Perché erano neri. Altre spiegazioni plausibili non si riescono ad evincere. I bianchi sono stati lasciati comodamente seduti sul treno con in mano una multa; i neri fatti scendere e minacciati dal controllore di far intervenire la polizia se avessero provato a ribellarsi. Ecco: questo si chiama razzismo. Nessuno sul treno, hanno detto i miei amici, ha battuto ciglio. Questa è la cosa per me più sconvolgente: che la gente europea permetta tutto questo, permetta che un controllore razzista faccia scendere delle persone solo per il loro colore della pelle, permetta ad altre persone di comportarsi violentemente e senza alcun rispetto nei confronti degli immigrati, come nel caso del controllore di Brescia che ha sequestrato la carta di credito ad un uomo di colore e alla sua domanda “Perchè l’hai fatto?”, ha risposto urlando “Perchè sei un negro di merda!”. [3]
In mezzo all’indifferenza generale o proprio per questa indifferenza, a quei pochi che provano ad intervenire facendo notare come atti del genere siano atti razzisti e fascisti, spesso succede di essere presi di mira dalla polizia e di essere identificati, senza nessun motivo se non quello di rappresentare un elemento scomodo perché si denuncia il razzismo ormai dilagante in Europa. La gente europea permette tutto questo. Alcuni perché condividono, altri forse per paura o per ignoranza, molti perché “non sono affari miei”. Ma succede, quotidianamente. E la gente tace. Hannah Arendt la chiamerebbe “La banalità del male”. Questo silenzio è estremamente pericoloso. Quest’Europa non mi appartiene, mi fa paura e rabbia che la gente abbia dimenticato il passato, mi disgusta che ogni anno il 27 Gennaio le istituzioni (nelle quali per questo non ripongo nessuna fiducia) e buona parte della società civile europea ricordino l’Olocausto e le violenze naziste senza vedere, o facendo finta di non vedere, quanto quelle pratiche siano ancora attuali… come ad esempio pagare la Libia per rinchiudere i migranti in campi di detenzione nei quali vengono torturati, fatti lavorare, venduti come schiavi, stuprati ed uccisi donne, uomini, bambini perché migranti e quindi senza diritti; mi spaventa che solo pochi si accorgano di questa deriva fascista dell’Europa;mi preoccupa che le persone non reagiscano davanti ad un atto razzista, anche solo facendo notare che quello è proprio razzismo e portando così solidarietà a chi ogni giorno subisce aggressioni e ingiustizie da parte tanto delle istituzioni quanto della società.
Che cosa vogliamo fare? Reagire o continuare a fare finta che tutto questo non esista?
[1] Non è possibile indicare una linea che demarchi un confine ben definito. Infatti questo è piuttosto una zona territoriale in perenne espansione rispetto al mero tracciato geografico. Il confine oggi si presenta come un dispositivo mobile, elastico e dinamico, i cui contorni sono soggetti a continue ridefinizioni a seconda delle convenienze politiche ed economiche e delle sue applicazioni strategiche.
E un lager, cos’è un lager? Il fenomeno ci fu. E’ finito! Li commemoriamo, il resto è un mito! l’hanno confermato ieri giù al partito, chi lo afferma è un qualunquista cane! Cos’è un lager? E’ una cosa sporca, cosa dei padroni, cosa vergognosa di certe nazioni, noi ammazziamo solo per motivi buoni… quando sono buoni? Sta a noi giudicare! Cos’è un lager? E’ una fede certa e salverà la gente, l’ utopia che un giorno si farà presente millenaria idea, gran purga d’ occidente, chi si oppone è un giuda e lo dovrai schiacciare! Cos’è un lager? … E un lager… E’ una cosa stata, cosa che sarà, può essere in un ghetto, fabbrica, città, contro queste cose o chi non lo vorrà, contro chi va contro o le difenderà, prima per chi perde e poi chi vincerà, uno ne finisce ed uno sorgerà sempre per il bene dell’umanità, chi fra voi kapò, chi vittima sarà in un lager? da Lager – Francesco Guccini
I migranti negli hotel a 5 stelle e gli italiani per strada
Nelle foto, un classico esempio dei servizi extralusso ricevuti dalle persone migranti che raggiungono il confine a Ventimiglia. I migranti si accampano sul letto del fiume, esponendosi a diversi rischi, tra cui le conseguenze dei problemi idrogeologici che caratterizzano la Liguria (alluvioni, piene improvvise) e il contagio di malattie dovute all’acqua inquinata del Roja e alle pessime condizioni in cui “alloggiano”. Per leggere anche la testimonianza di un giovane migrante sudanese, clicca qui.
Ventimiglia, la città dice “stop” a nuovi centri di accoglienza per migranti – da Riviera24
Il 9/8/2017, il 12/8/2017 e infine il 19/8/2017, a Ventimiglia, si sono svolte tre manifestazioni contro la presenza dei migranti.
Ecco una cronaca ragionata dei fatti.
9/8/2017 – Si è tenuta a Ventimiglia una manifestazione con circa 200 partecipanti contro l’apertura di un centro d’accoglienza per minori stranieri non accompagnati. I manifestanti marciavano per le vie della città di confine rivendicando il diritto di decidere in merito alla non apertura del centro perchè “esiste già il Parco Roja (centro gestito dalla Croce Rossa) come centro di accoglienza”.
Il Parco Roja è solo un nome per i molti cittadini che non l’hanno mai visto, essendo situato in un luogo isolato e lontano da ogni insediamento abitativo. Per chiarezza informativa, va detto che il centro della CRI è stato spostato più di un anno fa dal centro cittadino all’estrema periferia della città, seguendo un’ottica meramente securitaria e di controllo sociale. All’ingresso del campo del Parco Roja sono presenti camionette della Polizia; al suo interno, dentro container e tende forniti di brande, vengono alloggiati centinaia di migranti, uomini donne e bambini, che vi sostano con la speranza di riuscire ad oltrepassare il confine.
Riprendendo dalla manifestazione: in apertura vi era uno striscione con su scritto “L’accoglienza sia sostenibile! NO ad altri centri migranti in città”, con dietro un gruppetto di consapevoli manifestanti: otto bambini con un’età che andava dai 9 ai 13 anni. Una scena che mostra lo sdoganamento di un modello educativo razzista volto ad insegnare fin da bambini a non accogliere nemmeno i propri coetanei, giustificandosi dietro alla logora litania: “non sono razzista ma….”. La manifestazione è arrivata fin sotto al Comune dove i partecipanti al corteo hanno urlato slogan quali “Vergogna! Vergogna!” e “Fuori! Fuori”: cori indirizzati al Sindaco Ioculano.
Continuava così la rappresentazione di piazza: con gli adulti a dare il la, i bambini in prima fila che li seguivano, accennando un sorriso divertito ma anche perplesso, guardandosi tra loro e intorno per cercare di capire la situazione. Passati pochi minuti, usciva il Sindaco del PD, Enrico Ioculano, scortato dalla digos ed applaudito dalla folla, affrettandosi ad affermare di essere contro l’apertura di nuovi centri d’accoglienza, precisando più volte come la sua posizione fosse già stata espressa ai giornali. Concludeva il comizio consigliando ai partecipanti di recarsi tutti insieme a parlare con la prefetta di Imperia, Silvana Tizzano, per ribadire la posizione della “cittadinanza” intemelia. All’affermazione del sindaco di non aver nessun potere sulla decisione, la folla iniziava a scalpitare, rivendicando il fatto che il popolo debba decidere sull’accoglienza o sul rifiuto di persone che arrivano da altri continenti. Una posizione che esprime chiaramente come una certa accezione di popolo – e dunque di populismo – oggi, in un mondo dove le geografie politiche e sociali sono totalmente trasformate, non contengano più una carica di trasformazione sociale, bensì vengano usate in chiave reazionaria.
Il sindaco, con gesto che suggeriva autocommiserazione, concludeva allargando le braccia dichiarando che la gestione del problema dei migranti “è un casino”. La manifestazione finiva con esternazioni tipiche del razzismo di pancia, inquietanti per chi rifiuta la discriminazione, l’intolleranza, la guerra tra poveri e la violenza sui più deboli.
12/8/2017 – Nuova protesta a Ventimiglia contro i migranti; circa 100 persone hanno manifestato davanti al Comune per richiedere l’allontanamento dei migranti dal centro città ed anche dal Parco Roja dove sorge il Centro della CRI. All’interno della manifestazione c’erano anche esponenti della Lega Nord e di Forza Nuova. Lo striscione di inizio del corteo recitava: “ I candelotti sul Roja non sono esplosi ma i ventimigliesi sì”, riferendosi all’ordigno inesploso trovato lungo il fiume di Ventimiglia qualche giorno prima della manifestazione. In questo corteo i partecipanti hanno minacciato nuove azioni contro i migranti nel caso non venissero ascoltati dalle istituzioni.
19/8/2017 – Si svolge ancora un corteo a Ventimiglia, stavolta contro il degrado. Ma anche stavolta vengono chiamati in causa i migranti: il loro stazionare per medio e lungo tempo lungo le strade della città causerebbe una “pessima situazione igienico-sanitaria”. Il corteo arriva fin sotto al Comune chiedendo al Sindaco nuove ordinanze contro chi bivacca e consuma alcolici. Alcuni manifestanti urlano al Sindaco Ioculano di dimettersi ed inneggiano al ritorno del vecchio Sindaco appartenente a Forza Italia, Gaetano Scullino (curioso perchè durante il suo mandato il Ministro degli Interni aveva commissariato il comune di Ventimiglia per infiltrazioni mafiose, ma evidentemente questo elemento, per quei cittadini, non rientra nella categoria del “degrado”).
Dopo queste tre manifestazioni è stato girato un video dagli abitanti di Grimaldi Superiore, ultima frazione italiana prima del confine, per mostrare la spazzatura che i migranti lascerebbero quando passando dal paese per poter raggiungere la Francia.
“Tanto per chiarire subito questo video NON è contro gli immigrati” spiega un abitante di Grimaldi Superiore e continua dicendo che ci sono organizzazioni internazionali che contattano i migranti e, facendosi pagare, portano i migranti in Francia, la quale però spesso poi li rimanda in Italia; le persone che fanno parte di queste organizzazioni intimerebbero di lasciare tutti gli effetti personali e i vestiti per strada prima di raggiungere la frontiera. Per gli abitanti di Grimaldi la colpa non è quindi dei migranti in transito ma delle istituzioni che non ripuliscono l’aerea di transito. Colpisce però l’elaborazione di un discorso pubblico in cui manca qualsiasi riferimento alla dimensione politica della migrazione, introiettata e considerata come mero problema di ordine pubblico.
In questo panorama i presagi di linciaggi e il clima da caccia alle streghe si fanno sempre più palpabili: le vittime sacrificali sono i migranti e i solidali. I fatti di Ventimiglia confermano quanto si sta verificando sempre più spesso e sempre più diffusamente in giro per l’Italia. L’alleanza istituzionale tra le forze governative, trainate dal PD, e i movimenti di estrema destra, segnano l’affermazione e lo sdoganamento di pratiche, discorsi e ordini normativi di stampo fascista.
Stiamo assistendo al crescere del numero dei cittadini italiani che accettano, senza porsi domande né muovere dito, di far parte di un sistema sempre più razzista ed esclusivo. Una parte di cittadinanza scende in piazza reclamando l’esclusività dei propri diritti di cittadinanza contro chi migra nel tentativo di trovare e costruire spazi di libertà in questa Europa. I solidali e gli attivisti politici sono sempre più presi di mira da parte delle autorità con l’avallo dei cittadini catturati dalle retoriche xenofobe e fasciste: su questo Ventimiglia è emblematica. Una delle ultime uscite mediatiche del sindaco Ioculano è stata quella per cui nella città di frontiera “la vera sciagura non sono i migranti ma i No Borders”.
Ora che il movimento politico, identificato con il nome No borders, è stato disgregato, principalmente a causa delle misure repressive, e che in città restano gruppi di attivisti che praticano la solidarietà diretta ma non riescono ad organizzarsi politicamente insieme ai migranti, le istituzioni hanno buon gioco a mettere definitivamente all’indice l’idea del conflitto e della rivendicazione politica dell’uguaglianza, dei diritti di cittadinanza per tutti, della libertà di circolazione, della dignità di tutti e dei privilegi per nessuno. Il movimento No Borders, per oltre un anno, è stato capace di aprire, insieme alla frontiera, nuovi immaginari e creare nuovi linguaggi, riuscendo anche a mobilitare e coinvolgere quella parte di cittadinanza che oggi, impaurita, resta in silenzio. Si è trattato di una parte di cittadinanza non esigua, che ha dato il suo contributo nell’accoglienza ai migranti durante questi due anni, con tanti progetti e tentativi di accoglienza dal basso. Tra tutti, va ricordato per importanza l’accoglienza offerta dai volontari nella Chiesa delle Gianchette. Per più di un anno donne, bambini, uomini sono stati accolti, curati, sfamati in un campo informale, dove la cittadinanza locale ha dato vita ad una forma di accoglienza popolare e inclusiva. Le istituzioni hanno ritenuto che tale forma di accoglienza non fosse adeguata probabilmente, pensiamo, perché sfuggiva alle maglie del controllo poliziesco, che con le sue quotidiane violenze viene esercitato sui migranti. Così, dopo mesi di trattative, il centro di accoglienza della Chiesa è stato chiuso, e tutte le persone migranti sono state inviate nel campo della Croce Rossa, lontano e isolato dalle zone abitate.
Parallelamente a questi fatti, è cominciata a montare la marea razzista di una Ventimiglia chiusa, impaurita e intollerante…