Estate 2020 al confine: respingimenti e solidarietà. Parte 3

Respingimenti e solidarietà (Parte 3)

Abbiamo detto che, a ben vedere, le persone migranti non hanno mai smesso di attraversare il confine: persino durante il pieno dell’emergenza Covid, su rotte secondarie e a numeri ridotti al minimo, la gente ha continuato ad arrivare. E sono schizzati alle stelle i prezzi per passare una frontiera serrata a doppia mandata, non solo davanti alle migrazioni, ma anche per contrastare la diffusione del virus. Nei mesi di Marzo e Aprile, il normale costo di un passaggio auto coi trafficanti è arrivato a 500 euro a testa, rispetto ai soliti 150/200. Non si sono mai fermati i respingimenti da parte della Francia, e si sono aggiunti i respingimenti inversi della polizia italiana, con la nuova sanatoria.

Il procedimento è rimasto invariato: i rastrellamenti, l’arresto al confine, poi il giro ai container della polizia francese a Ponte san Luigi, dove le persone vengono tenute anche oltre dieci ore. Poi si torna indietro, ripassando dalla polizia italiana. Dentro ai container, che ora sono forni a 40 gradi, così come negli uffici italiani, dove la gente passa forzatamente prima della riammissione su territorio ventimigliese, non viene fornito alcun tipo di servizio. Per loro solo insulti, violenze, prese in giro. Le persone non ricevono quasi mai cibo o acqua, non possono parlare con un avvocato, non gli viene spiegato quello che sta loro accadendo, né cosa c’è scritto sui fogli che la polizia gli ficca in mano. Trattamento uguale per donne, uomini o minori che siano. Anche se sarebbe illegale respingere i minorenni, e anche se sono state fatte diverse battaglie giuridiche per impedire che questo avvenisse, appena le persone sono aumentate e gli sguardi si son girati altrove, la polizia italiana ha ricominciato ad accettare minorenni, facendo finta che vadano bene i dati falsificati dei colleghi francesi.

Un centinaio di metri prima del confine italiano di Ponte San Luigi, sull’Aurelia in direzione Italia, il gruppo di solidarietà Kesha Niya mantiene da un paio di anni una presenza giornaliera di supporto alla gente respinta e di monitoraggio sulla situazione e sui vari abusi, che sono diventati usi quotidiani. Per anni, a Ventimiglia, le istituzioni e le varie forze dell’ordine hanno perseverato nel tentativo di isolare le persone migranti dal supporto della solidarietà. Hanno cercato di spezzare i contatti tra persone europee e persone migranti, a suon di denunce, identificazioni, ordinanze, retate e caccia alle streghe, spingendo la gente in viaggio a nascondersi verso zone sempre più periferiche. Perciò la postazione in frontiera, uno slargo sterrato in cui rifiatare dopo ore e ore di detenzione, è diventata punto di riferimento per tutte le associazioni, ong, chiesa, giornaliste, fotografi, ricercatori, giuriste, documentaristi e via dicendo. Tuttavia il vicinato della zona, benestante frazione ventimigliese di Grimaldi, ha sempre mal sopportato la presenza di solidali e migranti.  E lo ha dimostrato con giri di insulti, telefonate alle forze dell’ordine, raid notturni per buttare nella scarpata rocciosa i tavolini pieghevoli su cui viene appoggiato il cibo, escrementi di sconosciuta provenienza spalmati sui muretti dove siedono le persone a riposare, delazioni e minacce.

Lex spazio di solidarietà in frontiera, recitanto durante il lockdown

Col favore dello stop alle attività durante il lockdown, è stato recintato lo slargo in cui per due anni si è potuto sostare, impedendo quindi alla solidarietà di tornarvi, una volta revocate le misure sanitarie. Mentre il vecchio spazio si sta ripopolando di rovi, è stato individuato un altro slargo, sempre a bordo Aurelia, dove portare avanti una presenza solidale.  Dovendo tuttavia retrocedere di un chilometro circa rispetto agli uffici di frontiera di Italia e Francia, e da quel che lì dentro accade. La nuova postazione è in un tratto di strada privo di abitazioni, lontano dagli occhi della cittadinanza e dai turisti, che, perlopiù, passano da lì solo sfrecciando su un motore verso la Costa Azzurra. Eppure è partito l’attacco incrociato di privati cittadini, polizie e sindaco, già dalla prima settimana di ripresa della presenza di monitoraggio e supporto. Un mantra ripetuto alla noia: “dovete andare via, qui non si può stare”.

La gente che si ferma, sosta il tempo necessario per rifocillarsi, riprendersi dal fallimento del passaggio frontaliero e dalle ore di detenzione, raccogliere informazioni e contatti utili (avvocati, domande su permessi e documenti vari, dubbi sulla propria posizione giuridica, ecc), e medicarsi le ferite (i boschi, le botte della polizia, la Libia, le aggressioni lungo la rotta balcanica…). Quindi le persone aspettano l’autobus locale (sempre Riviera Trasporti) che fa la spola, ogni tot ore, tra Ventimiglia e Ponte San Luigi, per evitare di camminare altri nove chilometri, e risparmiare energie da spendere in un nuovo tentativo contro il confine.

Lo spazio curato dai Kesha Niya è un presidio basilare di solidarietà, dalle nove del mattino alle venti circa di sera, quando escono le ultime persone detenute dai francesi e la polizia italiana chiude i battenti. Qualche ora di respiro tra persone che si danno una mano: un oltraggio al regime di intolleranza che si è instaurato in tutta la zona di frontiera, e quindi deve essere spazzato via.

Nelle ultime due settimane, pattuglie, auto in borghese e digos, si sono presentati decretando che lo spazio, “attrezzato” con due taniche d’acqua, frutta, pane, biscotti, cerotti e powerbank (ogni sera ripulito e lasciato vuoto), rappresenta occupazione di suolo pubblico. Hanno detto che è vietato “dare da mangiare agli stranieri” -letteralmente-, che è in vigore un’ordinanza che vieta la distribuzione di cibo in strada, che ci sono altri luoghi dove “fare volontariato coi migranti, come la Croce Rossa”, che la distribuzione di cibo è autorizzata solo nel parcheggio cittadino di fronte al cimitero di Ventimiglia, che o si sgombera tutto o arrivano le denunce, che o si sgombra tutto o buttano tutto giù per la scarpata, che portano tutti in commissariato, che il sindaco stesso ha chiamato le forze dell’ordine per far sloggiare la gente da lì, che lì non ci si può stare perchè non serve che lo dica una legge, ma basta il verbo di un signore in divisa che dice “non serve nessun papier che dimostri che state occupando, il papier sono io che vi dico di andarvene!”.

Per capire meglio la tragicomicità della situazione, bisogna spulciare oltre all’ipse dixit della polizia. Nell’agosto del 2015, poi rinnovata nel 2016, l’allora sindaco Ioculano firmò un’ordinanza che vietava la somministrazione di cibo ai “profughi” per “mero spirito di solidarietà”. L’associazionismo informale ingaggiò una battaglia di resistenza a oltranza, senza interrompere le distribuzioni di cibo in giro per la città, e impugnando denunce e multe (fino a 2.000 euro). Ioculano fece la figura del razzista affamatore (si raccoglie quello che si semina) e nei mesi, l’ordinanza fu criticata da avvocati, associazioni umanitarie, dalla chiesa. La polemica si propagò, fino alla mobilitazione di certi personaggi dello spettacolo, noti intellettuali e compagnia, che promossero una raccolta firme per chiederne la revoca. Per scongiurare l’assalto di una protesta nazionale, l’ordinanza fu revocata nell’aprile 2017.

Da allora né Ioculano, né il nuovo sindaco Scullino, hanno più avuto la faccia di firmare una nuova ordinanza che vieti il cibo a chi ha fame.

Eppure secondo la polizia, che visita regolarmente lo spiazzo solidale in frontiera, è vietato farlo perchè lo dice l’ordinanza: quale, non si sa. E ovviamente non ci sono altri luoghi per le persone respinte, dal momento che il centro della Croce Rossa è chiuso, anche se gli operatori dell’ordine suggeriscono il contrario. L’unico punto di riferimento per recuperare qualche vestito, cibo e due informazioni, sarebbe la Caritas, che però apre solo due ore al mattino, risultando già chiusa quando la gente rilasciata dai francesi raggiunge di nuovo Ventimiglia.

Dalla Francia arrivano giornalmente almeno un centinaio di persone respinte, e nello spiazzo solidale dei Keshaniya vengono messe a disposizione mascherine, guanti e gel disinfettante. Nonostante questo, nonostante non esista nessuna ordinanza, nessun altro punto di appoggio per la gente che esce barcollando dai container, nonostante non ci sia alcun condominio né alcuna villetta che si affacci in quel pezzo di strada e a cui possa storcersi il naso davanti alle genti straniere, quella postazione è perennemente sotto attacco e minaccia. Con argomentazioni più o meno sconclusionate, quando non proprio false. E se la polizia dice, in frontiera alta, che la distribuzione di cibo è autorizzata solo nel parcheggio del cimitero; al parcheggio, durante la cena, si è recentemente presentato il sindaco in persona, a dire che lì la distribuzione non si può più fare, perchè lo dice lui.  Tutti dicono la propria, insomma. Cercando intanto di fare un po’ d’effetto, presentandosi col blindato in un’aiuola dove una ventina di persone mangia crackers e aspetta il bus.

Nelle due foto: polizia di scorta all’autobus di Riviera Trasporti

E siccome i tentativi di far sloggiare la gente sfoderando ordinanze inesistenti e minacce non è andato a buon fine, si escogitano innovative misure di stalking e fantasiose dimostrazioni di forza.  Come seguire con un’auto in borghese, per un’intera mattinata e a meno di un metro di distanza, l’automobile delle persone solidali, impedendogli di parcheggiare lungo l’Aurelia, poi di scaricare cibo e acqua, e persino alle persone dentro la macchina di scendere prendendo almeno il proprio zaino con gli effetti personali. Oppure presentandosi con un blitz alla fermata dell’autobus, per controllare -la polizia, non il personale di Riviera Trasporti- che tutte le persone abbiano il biglietto del bus.  Poichè tutte hanno sia biglietto che mascherine, si passa di grado nel bullismo: da una settimana l’autobus gira scortato da una volante a lampeggianti accesi, talvolta saltando pure a piè pari la fermata a cui aspettano le persone respinte. Quando invece il bus ferma, un poliziotto della scorta si piazza alle porte d’ingresso, stile body-guards, supervisionando che tutte le persone siano docili e mascherinate, quindi strappa i biglietti mano a mano che salgono.  Non si capisce perchè alle persone classificate come “non dei nostri“, come dice qualche autista, non viene permesso di obliterare il biglietto, così da poter usufruire della normale validità di 100 minuti del ticket. Le genti migranti, parrebbe, non sono in grado di timbrare un pezzo di carta. Sia la polizia che gli autisti stessi, che usano la stessa procedura quando qualche volta salta la scorta, assicurano che non sono razzisti e che riservano anche alle persone italiane lo stesso servizio.

Biglietti dell’autobus strappati dalla polizia: le persone “non nostre” non possono obliterare

La gente migrante non ha diritto a farsi nove chilometri in bus in santa pace, nemmeno pagando quell’euro e mezzo di biglietto (per un guadagno giornaliero dell’RT di oltre cento euro, considerati i numeri di persone) alla stessa compagnia di trasporti che pure la deporta al sud da anni, stavolta a carico dello Stato.

Per tutto luglio sono arrivate dai respingimenti decine di donne, molti minori, bambini e bambine sotto ai cinque anni, intere famiglie, gente ferita o malata; più volte si è dovuta chiamare l’ambulanza, e infinite volte, vista la collaborazione degli autobus, si è fatta la spola tra la frontiera e la città, per accompagnare giù chi non era in grado di camminare. Come le persone recuperate in elicottero dal Passo della Morte, rimaste aggrappate solo per le braccia a un tronco d’albero sospeso nel vuoto per tutta la notte, quindi smollate sul lato italiano che ancora non riuscivano a muovere gli arti o usare le mani, per lo sforzo prolungato nel tentativo di salvarsi la vita.

Rifocillare le persone, regalare biglietti del bus a chi non può permetterseli, accompagnare gente in ospedale e cercare un riparo per la notte alle tante ragazze in gravidanza; litigare con turisti razzisti e proprietarie di ville a picco sul mare, indignati per lo sconcio spettacolo della povertà; monitorare i rastrellamenti nelle due stazioni di frontiera; tradurre alla gente papiri inutili di espulsioni su espulsioni su espulsioni: quello che si fa, è ancora troppo poco.

È insufficiente remare contro il vento dell’intolleranza e della persecuzione razziale, mettendo qualche pezza ai danni e agli sfregi inflitti alla gente. Questo posto è insopportabile, ed è insopportabile provare a renderlo un po’ migliore, anziché farne deflagrare tutti gli orrori che cova, lasciando che accada quel che deve accadere. E lasciando che coloro che sono responsabili di tutto ciò, paghino un prezzo senza sconti per il palcoscenico che hanno voluto approntare: è troppo comodo lasciare che sia il volontariato (a patto che sia mansueto e invisibile) a non far morire le persone di fame, incidenti, malattie e indifferenza.

Non importa se l’autobus si ferma o no, alla fine: le persone dormiranno comunque in mezzo ai rifiuti, in qualche angolo nascosto della città di frontiera. Non c’è un posto sicuro da raggiungere. La polizia continuerà ad ammassare decine di persone in una fetida scatola di metallo, in barba a qualsiasi emergenza virus, a falsificare dati, a brutalizzare le persone solo perchè senza documenti validi. I trafficanti continueranno a ingrassare le proprie tasche e quelle della ‘ndrangheta locale. Il confine continuerà a seminare disagio e violenza, a raccogliere corpi feriti e cadaveri.

Nonostante l’impegno e il cuore che vengono messi, le energie nel tempo si consumano, la gente si dimentica dell’orrore incontrato, magari stando qui in visita una settimana per scoprire cos’è sto fantomatico confine, e colpo dopo colpo ci si abitua a qualsiasi cosa. A pensare persino che sia normale, che sia in ogni caso inevitabile, quello che succede, e che si stia facendo comunque tutto il possibile per combattere questa palude di miseria e cattiveria umana. Ci si abitua a giocare al ribasso, arrivando, ogni anno, al punto di rimpiangere la situazione dell’anno precedente: col senno di poi, la baraccopoli della Croce Rossa, luogo ambiguo e pericoloso, sembra un lusso d’altri tempi; la chiesa delle Gianchette un rifugio meraviglioso; la condivisione quotidiana della vita sotto al ponte di via Tenda, appartiene a un mondo che non è più permesso nemmeno immaginare.

Si dovrebbe fare molto di più. Si potrebbe fare molto altro.

 

(Per leggere la prima parte, vedi qui, per la seconda qui

Per leggere gli altri report del gruppo Kesha Niya, sui comportamenti delle polizie al confine: gennaio 2020; novembre 2019; ottobre/novembre 2019; ottobre 2019; Giugno 2019; Maggio 2019)

Presso lo spazio solidale in frontiera, sorprese al mattino: panchina e muretti spalmati di escrementi come azione intimidatoria.

 

Estate 2020 al confine: il campo e le persone. Parte2

Il campo e le persone (Parte 2)

Le persone nella città di frontiera oscillano quindi intorno alle due/trecento teste, considerando chi poi riesce nella notte a varcare il confine e chi arriva il giorno dopo a rimpiazzare il numero di presenze. Ad aprile, il campo gestito dalla Croce Rossa, finanziato e diretto dalla prefettura di Imperia, è stato messo in quarantena a causa della positività di un ospite al Covid. In quel momento, vi erano ospitate circa 120 persone. L’uomo è stato ricoverato all’ospedale di Sanremo, è guarito e non si sono registrati altri casi. Coloro che erano già dentro al campo, per un mese non han potuto uscire, mentre sono stati sospesi i nuovi accessi. Quando la quarantena è terminata e il lockdown è stato revocato, chi era già dentro al campo ha potuto ricominciare ad entrare e uscire dalla struttura, ma il campo ha continuato a non accettare nuove registrazioni. Le persone ancora nei container della CRI sono state riassegnate altrove in Italia, e nel giro di poche settimane ne sono rimaste appena una trentina, in attesa, anche loro, di essere trasferite a breve.

Il campo della Croce Rossa, nell’ex scalo ferroviario ventimigliese del parco Roja, a 4 km dal centro cittadino, era stato approntato d’urgenza nell’estate del 2016. Nel giro di poche settimane, arrivarono al confine oltre seicento persone: il campo venne aperto in fretta e furia, per contrastare gli accampamenti informali che spuntavano ovunque, disturbando il business del turismo dalla Costa Azzurra. Il campo ha una capacità di accoglienza fino a 500/600 persone, e non ha mai avuto uno status giuridico definito, non essendo una struttura d’accoglienza ufficiale, né un cara, né un hotspot, né uno sprar. È stato sempre chiamato “campo di transito”. Vi si fermavano per periodi più lunghi le persone che facevano richiesta d’asilo, da un paio di notti a qualche settimana le persone che volevano proseguire il viaggio, a seconda del tempo necessario per organizzarsi.

Campo Roya

Sebbene fosse (e sia ancora: la chiusura ufficiale della struttura dovrebbe essere ridiscussa in settembre) un luogo isolato tra i raccordi autostradali, attrezzato con una sessantina di container e tensostrutture, fantasmi metallici nel deserto della periferia suburbana, presidiato da forze dell’ordine di ogni tipo, poco accogliente e molto umiliante per chi vi transitava, ha rappresentato per tre anni l’unica forma di “accoglienza” tollerata dalle istituzioni.

Quest’estate qualcosa è cambiato nella volontà delle istituzioni: la quarantena è finita, ma il campo non verrà riaperto. Si attende che escano le ultime persone che ancora vi si appoggiano, per andare verso uno smantellamento definitivo della struttura.

Come ogni stagione estiva ventimigliese che si rispetti, dinnanzi alle trombe dell’emergenzialismo che squillano scoprendo l’uovo di pasqua – la gente migra!- non poteva mancare la passerella di politici “esperti”, a fare il giro di proclami elettorali dichiarando “soluzioni radicali”, e invocando “interventi definitivi” al terribile problema che affligge Ventimiglia da anni: il fatto che esseri umani transitino su questo territorio col desiderio di muoversi liberamente sul globo terrestre. La città “ostaggio dei migranti”, i treni transfrontalieri che accumulano ritardi a causa dei controlli della polizia d’oltralpe, tutti i cittadini arrabbiati, tutte le istituzioni indignate, tutti i politicanti sbalorditi dal fatto che, ancora, la gente si permette di arrivare e pure di dormire, mangiare e camminare in giro per la città, non potendo trovare alcun altro appoggio.

Sono poche le associazioni ancora operative a Ventimiglia: anche le varie ong, dopo il boom del passato, hanno progressivamente chiuso i progetti legati alla frontiera e si sono dileguate. Prima fiaccate e depauperate dalla continua criminalizzazione nei loro confronti, operata dallo scorso governo gialloverde, e infine riassorbite nel processo di normalizzazione che ha finito per spegnere ogni accento di sgomento dinnanzi all’abominio, fino a trasformare Ventimiglia in una macchina scientifica di classificazione e squalificazione umana. Della decina di ong che erano attive, ne sono rimaste appena un paio, oltre alla solidarietà informale, che si arrabatta per sopravvivere tra menefreghismo e crociate repressive.

Le associazioni hanno chiesto più volte che il campo fosse riaperto, pur con tutti i limiti che presentava, segnalando l’incremento di persone in città. Poi, il 2 luglio, lo show della visita di una delegazione del ministero dell’interno, assieme ai vertici della polizia e delle istituzioni provinciali e regionali, ha chiarito bene quali intenzioni si profilano sull’orizzonte frontaliero di Ventimiglia. Il prefetto Di Bari (capo dipartimento delle Libertà Civili e dell’Immigrazione) ha decretato quale sarà il nuovo modello gestionale da applicare a questa frontiera: “L’obiettivo è di individuare non tanto una struttura ma un modulo flessibile di transitorietà per evitare bivacchi a Ventimiglia” un “modulo transitorio, molto provvisorio”!

L’ultimo modello di protocollo repressivo, rimasto in vigore in tutti questi anni, fu la strategia della decompressione messa a punto dal ministro dell’interno Alfano, assieme al capo di polizia Gabrielli, nella primavera 2016: fare arrivare meno gente in città, serrando i controlli sui treni; aprire il campo nell’ex scalo ferroviario, costringendo le persone a spostarsi dal centro cittadino per renderle invisibili; aumentare i pattugliamenti nelle zone turistiche; porre termine all’accoglienza nella chiesa delle Gianchette, troppo vicina al centro città e agli occhi dell’elettorato ventimigliese. Il colpo da maestri fu l’istituzione delle deportazioni interne da Ventimiglia al sud Italia, con i pullman turistici della locale compagnia di trasporti, la Riviera Trasporti. Uno stratagemma dal costo di decine di migliaia di euro,elaborato col solo scopo di sparpagliare le persone sul territorio nazionale, per contenere il numero di quelle che si accalcano a Ventimiglia. La strategia di “alleggerimento del confine” degli scorsi anni, non sembra perciò molto diversa dalle attuali proposte, che prevedono, in sintesi, di mantenere le persone in un costante moto perpetuo di angoscia e non riconoscimento. Alfano dichiarò: “queste persone devono capire che qui non ci possono stare, più vengono al nord, più noi le rimanderemo al sud, perchè non possono essere i migranti a scegliere dove vogliono vivere”. La pratica delle deportazioni interne a mezzo pullman ha continuato ad essere in vigore ancora nelle ultime settimane pre lockdown.

Adesso le traiettorie dell’intolleranza stanno quindi tracciando nuove “soluzioni radicali”, che sanno già di vecchio e di campagna elettorale: “metteremo in campo soluzioni alternative che devono necessariamente passare attraverso un’attività multipla”, dichiara il prefetto Di Bari, lasciando una scia sinistra di interpretazioni possibili su cosa siano le attività multiple che colpiranno ulteriormente le persone in viaggio.

(qui la prima parte; qui la terza parte)

Estate 2020 al confine: un quadro della situazione. Parte1

L’estate a Ventimiglia è un eterno ritorno, un film di cui si conosce perfettamente il brutto finale: qui si aspetta la nuova ordinanza, magari nuove leggi speciali, a stroncare ogni buona volontà. Qui si aspettano nuove morti, che si aggiungeranno alla ventina di vite già spezzate: altra polvere da buttare sotto al tappeto rosso su cui sfilano i ministri dell’interno e i vertici delle forze dell’ordine.

Luglio sta finendo e agosto, là davanti, promette di essere un ennesimo mese di circo e calvari.

(Parte 1. Qui la seconda parte. Qui la terza parte)

 

Esatate 2020, un quadro della stuazione:

Al confine di Ventimiglia, come ogni estate dal 2015, la bella stagione ha nuovamente portato un aumento di violenza, repressione, disagio, abbandono, abusi, traffico, e un numero crescente di persone che provano ad attraversare la frontiera. Dai media arrivano notizie frammentarie, che non spiegano i fondamentali di ciò che sta accadendo, ma raccontano solo la punta di un iceberg che, sotto i colpi del sensazionalismo, restituiscono flash sconnessi della vita di frontiera: l’arresto di un trafficante, l’aggressione di un uomo ai danni della polizia, persone che dormono nel mercato chiuso, i siparietti delle istituzioni, qualche grido di pietà o di allarme dell’associazione di turno. A seconda dello scoop del momento, a seconda delle tendenze di interesse dell’opinione pubblica, emergono spizzichi di eventi e narrazioni incomplete.

A Ventimiglia arrivano ancora le persone migranti? Che succede lungo le rotte che attraversano la barriera di Stato sulle strade, sui treni, o sui sentieri di montagna? I giornali hanno parlato di “recrudescenza del fenomeno migratorio”, ma al confine le persone sono sempre arrivate, ininterrottamente, e ininterrottamente subiscono discriminazioni e ingiustizie. D’estate, semplicemente, è più facile viaggiare, con il mare calmo e le strade asciutte.

Quest’anno l’inizio dell’estate è coinciso con la fine delle restrizioni per il lockdown, quindi quando tutto il traffico ferroviario si è sbloccato ed è stato possibile tornare nelle strade, nella città frontaliera hanno iniziato ad arrivare tutte le persone che non avevano potuto proseguire il loro viaggio, durante i due mesi di chiusura totale del paese e dell’Europa intera.

Attualmente a Ventimiglia e nelle zone circostanti (il confine passa a nove chilometri dal centro città) si trovano circa due/trecento persone. Ogni giorno e ogni notte un centinaio di queste prova a sconfinare in Francia, e il novanta per cento di loro finisce catturata dalle reti di pattugliamento della polizia italiana e soprattutto francese, che si avvale anche della collaborazione dei militari della Legione Straniera, assegnati a presidiare i passaggi montani. Diverse decine sono poi le persone che arrivano nuove ogni giorno da altre parti d’Italia, sempre in treno, nonostante stiano aumentando i controlli interni sulle reti ferroviarie.

Proprio come era già accaduto in passato, quando si avvicina l’estate aumentano sia le strategie di controllo delle zone di frontiera, sia le retate e i rastrellamenti nelle stazioni a monte di Ventimiglia. Molti treni da Torino, Milano e Genova vengono controllati alla partenza, bloccando chi ha i documenti non in regola; oppure i convogli sono attesi dalle pattuglie miste di polizia e militari, direttamente ai binari di Ventimiglia, che fermano e controllano tutte le persone che non hanno l’aspetto di essere europee o turisti in vacanza.

Tra coloro che passano il confine, dopo numerosi tentativi, e chi arriva ogni giorno a Ventimiglia, la media dice che ci sono circa duecentocinquanta persone nelle strade della città. Probabilmente nelle prossime settimane arriverà altra gente, come racconta la storia di Ventimiglia. In autunno rallenteranno i viaggi e le presenze scenderanno fino a poche decine durante l’inverno. Nella primavera dell’anno prossimo scriveranno un altro scoop sull’”emergenza clandestini”.

La gente gira per il mondo, qui c’è un confine: arriveranno sempre persone, da ogni parte della Terra con ogni tipo di motivazione. In queste settimane post lockdown si incontrano persone appena arrivate dagli sbarchi in Sicilia, in Sardegna e in generale nel sud Italia (Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Sudan, Eritrea, Somalia, Nigeria, Tunisia, Algeria, Egitto, Marocco, quasi tutte passate dalla Libia); persone appena arrivate dalla rotta balcanica ed entrate dalla frontiera di Trieste (Siria, Iran, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Turchia, Russia, territori curdi); persone dublinate dalla Germania, dall’Austria, dalla Francia; persone che stanno lasciando l’Italia.

Una novità registrata quest’estate è l’aggiunta di un flusso inverso di persone, oltre a quelle che vanno in direzione Italia-Francia: tutte coloro che tentano di tornare in Italia, per cercare di rientrare nella sanatoria. Quindi la polizia italiana ricerca le persone in viaggio dalla Francia all’Italia senza documenti validi, per riconsegnarle in frontiera ai colleghi francesi.
Ci sono diverse persone che rimangono incastrate al confine ventimigliese, e che non stanno riuscendo ad andare avanti e nemmeno a tornare indietro, in nessuna delle due direzioni.

L’emergenza legata al Coronavirus ha peggiorato molto, infatti, il livello dei controlli al confine. Dopo mesi che erano spariti, sono ricominciati i checkpoint lungo le strade della Val Roya, la valle che collega i territori italiani e francesi. Anche i sentieri di montagna rimangono presidiati notte e giorno, aggiungendo gli inseguimenti tra i boschi al già elevato rischio di precipitare a valle a causa del dissesto dei sentieri, che richiederebbero anche manutenzione e una messa in sicurezza costanti. Dieci giorni fa, un uomo è caduto dal sentiero in una cisterna d’acqua sottostante, senza riuscire più a risalire: si è salvato solo grazie a un altro viaggiatore che, sentendo le grida di aiuto, è riuscito o ripescare il compagno offrendogli come appiglio un lungo ramo spezzato.

Per la prima volta dopo cinque anni di rastrellamenti su base etnica, alla stazione di Menton Garavan la polizia francese chiede sempre più spesso i documenti a tutte le persone. Europee, italiane, turiste, migranti, bianche o nere che siano. I controlli a tappeto intercettano anche coloro che “sembrano” persone europee, e che in passato riuscivano invece ad attraversare il confine abbastanza tranquillamente, visto che la selezione si concentrava solo sul profilo razziale.

Si dovrebbe sapere che, quando si accetta che il controllo straordinario diventi abitudine, prima o poi l’eccezione diventa la regola per tutte e tutti: nel 2015 passavano moltissime persone, piuttosto facilmente; negli anni, i criteri di selezione sono diventati sempre più stringenti e le modalità della repressione sempre più cruente. Capita così che arrivi in frontiera, respinta dai francesi, una diciottenne di Genova, spaventata e in lacrime: si era dimenticata a casa la carta d’identità, èd è stata fermata dagli agenti della CRS sul treno, portata agli uffici di frontiera e poi rilasciata in Italia. Stava andando a trovare la nonna a Nizza, per rientrare a Genova in serata.

Questa cosa è sconvolgente solo se si applicano due pesi e due misure, come troppo spesso avviene nella testa di chi ha il privilegio di un documento europeo e commette l’errore di considerarlo un diritto inalienabile: è più terribile che abbiano iniziato a fermare anche cittadini italiani sprovvisti di documento e a trattarli come i temibili “clandestini”, o che da cinque anni ci siano controlli razziali differenziali, effettuati su base etnica, che questa cosa non sia mai interessata pressochè a nessuno – perchè tanto non succedeva a noi -, e nemmeno sia mai scoppiata una rivolta transnazionale per fermare questo schifo?

 

 

Ventimiglia confinamento ai tempi del Covid19

Torniamo a Ventimiglia dopo il “confinamento Covid19” da subito anglicizzato nel suggestivo concetto di “lockdown” e quasi sempre trattato con un linguaggio militare evocativo come “emergenza” e “guerra”, addirittura c’è chi l’ha chiamato “la nuova Pearl Harbour”.

In ogni modo abbiano chiamato il periodo di confinamento domiciliare, qui, nel nostro occidente, ci ha fatto sentire e sperimentare, anche se in modo assai modesto e privilegiato, il senso della precarietà, la paura di morire, la separazione dai nostri affetti (non per forza “congiunti”), il disciplinamento sociale, la sorveglianza, la limitazione della libertà individuale e collettiva e la reclusione forzata. Condizioni usuali e assai più intense e definitive nelle persone in viaggio, a Ventimiglia ma non solo, a causa di emergenze appunto, guerre spesso, disastri ambientali sempre più sovente e, talvolta, l’indicibile desiderio di emigrare.

Tale situazione di “lockdown” ha peggiorato la vita delle persone in condizioni di fragilità mentre l’esposizione ai rischi si è mostrata, chiaramente, distribuita in base alla classe e alla razzializzazione di stato.

Sapevamo che il campo Roja della Croce Rossa, nel Parco Roja, era chiuso da oltre un mese, a partire dal 18 aprile, per “confinamento Covid”: circa 200 persone sono finite in quarantena, all’interno della struttura, in container della Croce Rossa, poiché un uomo all’interno del campo era risultato positivo al Covid19. Pur con tutti i limiti più volte sottolineati, per molti mesi questo luogo ha rappresentato l’unico dispositivo dov’è stato possibile per alcune persone avere un tetto, del cibo e dove potersi lavare in condizioni di relativa sicurezza. Sapevamo che il campo non avesse più riaperto e che al momento si parla piuttosto di chiusura definitiva della struttura.

Sapevamo che l’unico presidio che ha resistito a Ventimiglia fino a febbraio 2020, lo spazio dove Kesha Niya garantivano un sostegno alle persone respinte alla frontiera francese, come anche quelle fuoriuscite dal campo Roja (per forza o per scelta), fosse stato “sfrattato” da una recinzione. Lo slargo sterrato lungo l’Aurelia, tre metri per due di belvedere con una panchina in pietra, attraversato per un breve momento di ristoro dalle persone rilasciate dalla detenzione e dalle retate, è stato recintato durante l’ultimo mese di “lockdown”. Come tante volte è successo a Ventimiglia, per precludere uno spazio alle persone ritenute indesiderate, è stato tracciato l’ennesimo confine.

Sapevamo che, nuovamente, le persone per strada stavano diventando numerose, spesso in prossimità del campo CRI, nella speranza di potervi entrare.

Con queste testimonianze dei due mesi di impedimento a spostamenti entro i 200 metri da casa, per chi vive in Liguria è stato immediato, appena sospeso il confinamento, guardarsi negli occhi e decidere di partire.

Quello che non sapevamo è che al nostro arrivo a Ventimiglia, dopo una breve sosta nel bar  Hobbit di Delia (fisicamente condizionato dalle misure anti covid, igienizzanti ovunque e tavolini dimezzati), avremmo subito incontrato solidali, amiche e amici, viaggiatori ormai autoctoni che, come noi, aspettavano la possibilità di muoversi per raggiungere Ventimiglia.

Ci siamo diretti alla spiaggia, alla foce del fiume Roja. Qui si notano lungo il percorso i giacigli della notte. Pochi gruppi di persone in prossimità della foce e sulla spiaggia. Ci avviciniamo per chiedere se hanno bisogno di un aiuto sanitario. Visitiamo alcune persone provenienti dalla rotta balcanica: problemi modesti in condizioni di normalità e tutela (come ascessi dentali e problemi dermatologici, soprattuto ai piedi) ma che diventano importanti in una situazione che non prevede – come ormai accade a Ventimiglia dal 2015 – presidi sanitari costanti e soprattuto adeguati alla situazione.

Facciamo un giro lungo ambedue le rive del fiume. Incontriamo luoghi con segni evidenti del passaggio frettoloso delle persone. Rifiuti abbandonati all’improvviso: cartocci del latte, gusci di uova, abiti da donna, occhiali da vista, i resti di un piccolo falò notturno. Altri luoghi più protetti fanno invece pensare a una permanenza, volente o nolente, più “stabile”.

Rifugi, alcuni segnati da scritte in arabo, altri in francese, a seconda di chi li abita, in cui puoi entrare solo inginocchiandoti prestando attenzione a non tagliarti mani e ginocchia con i vetri rotti.

Incontriamo persone algerine, afghane.. Dublin ci dicono.. comprendiamo che sono state deportate, anche dopo anni, nel paese dove erano state registrate le impronte per la prima volta, in questo caso l’Italia limbo senza speranza…E poi? Please go back ci rispondono con quel sorriso che ogni volta ti lasciano increduli che possa ancora trovare forma nei loro visi, nei loro ricordi, nei loro vissuti..

Le parole e le visite ci raccontano di corpi offesi dalle violenze da cui fuggono e da quelle che incontrano lungo la fuga: ferite di arma da fuoco che si sovrappongono a ferite di coltello; i piedi segnati, una parte del corpo che mostrano quasi subito, spesso unico mezzo di trasporto; traumi da cadute per scappare, spesso dalla polizia europea, probabili fratture di costole, scabbia fin troppo fedele compagna di viaggio. Difatti, finiamo ben presto la scorta di creme antiscabbia, diamo indicazione per visite ulteriori al Centro Caritas, augurandoci che riapra il presidio sanitario, per ora sospeso, che faceva servizio alcune ore nella settimana e che permetteva, tra altre cose, di avere un cambio di abiti, che è fondamentale per debellarla.

Qualcuno ci racconta anche di viaggi verso il sud Italia per andare a lavorare nei campi per la raccolta di frutta e verdura, due euro all’ora dice uno di loro, altri dicono 5 euro a cassetta per le arance. Una storia che conosciamo da almeno 20 anni ma che sembra interessi solo alle mafie. Che poi siano quelle dei campi o quelle di Stato, fa poco la differenza. Questi racconti si intrecciano alle parole di chi dice di aver saputo che, durante il confinamento, alcune persone migranti bloccate a Ventimiglia, dai confini nazionali e dal Covid19, siano state “accompagnate” al Sud per raccogliere frutta e verdura con la promessa di far ritorno al punto di partenza, quindi Ventimiglia, terminato il “lockdown”.

Raggiungiamo il luogo, alla ”frontiera alta” di Ponte San Luigi, dove era presente il presidio Kesha Niya: è sigillato, con una sorta di sgombero preventivo, da una recinzione in metallo con cartelli di proprietà privata. Quel tratto di Aurelia rientra sotto la tutela dei beni paesaggistici e archeologici,  ma questo non ha impedito al presunto proprietario dello slargo sterrato di issare metrate di rete metallica verde; così come giù, a Ventimiglia, la sete delle persone non aveva impedito di stabilire la chiusura delle  fontanelle di acqua potabile in centro città. L’unica trovata ancora attiva è di fronte alla caserma della finanza.

Attraversiamo “Ponte San Luigi”:  nessun controllo, nessuna pistola misura temperatura puntata alle tempie. Ci dirigiamo alla stazione di Menton Garavan: due camionette della polizia stazionano in attesa del treno proveniente da Ventimiglia e diretto in Francia. Sono le 17.55, il prossimo treno è previsto alle 18.10. Il treno arriva alle 18.00, i gendarmi si preparano, sono in 6: due si dirigono dal capotreno, due salgono in fondo e due in centro – i vagoni sono tre. Il tempo dei controlli, nessuno viene fatto scendere, alle 18.10 il treno, in perfetto orario, parte. Da parecchio tempo ormai gli orari dei treni Sncf, la compagnia francese, sono stati riorganizzati, includendo le tempistiche imposte dalla polizia per poter effettuare i controlli: in media è di dieci minuti lo scarto di ripartenza di un treno dalle stazioni oggetto di retate. Riattraversiamo il confine di stato, direzione Balzi Rossi: mitra in mano all’esercito e polizia di confine, di nuovo, nessuno ci punta alle tempie la pistola misura temperatura, nessuno ci controlla i documenti.

La sera parliamo di Ventimiglia, della crisi pre e post Covid, dei piccoli locali non utilizzabili in periodo di distanziamento destinati al probabile affare per il riciclo del denaro sporco delle mafie in un luogo cosi notoriamente contaminato. Voci ci informano che presto ci sarà un cambio importante di vertice alla Caritas di Imperia, tra i nomi viene fuori che uno dei possibili responsabili sarà il parroco della Chiesa delle Ginachette..non Don Rito, che è stato mandato via in montagna dalla primavera del 2018, ma il suo sostituto, quello che appena istituito ha deciso di transennare l’ingresso della chiesa..

Domenica mattina sulla spiaggia incontriamo altre persone, provenienti anche dall’Africa sub sahariana, altra scabbia, altri traumi.

Ripartiamo e ritorneremo con la consapevolezza che dobbiamo continuare a lottare per abbattere non solo le frontiere – sicuramente a noi nemiche – ma l’intero sistema di meccanismi giuridici, politici e sociali che assicurano il perpetuarsi di dispositivi che confinano, sentenziano, gestiscono e stabiliscono chi e come far vivere e far morire.

“Perché gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone. Ci possono permettere di batterlo temporaneamente al suo stesso gioco, ma non ci metteranno mai in condizione di attuare un vero cambiamento.” (A.Lorde)

La Redazione