Levarsi i sassi dalle scarpe per marciare contro il Regolamento Dublino

Notizie dalla Francia : attorno ai PRAHDA (centri di smistamento dei richiedenti asilo, funzionali ai respingimenti dei cosiddetti “dublinati” verso il primo paese europeo nel quale sono stati identificati), si organizza un movimento di protesta e solidarietà, contro le espulsioni, contro la trasformazione dei dispositivi di accoglienza in strutture semi carcerarie e l’impoverimento dell’istituto del diritto d’asilo, determinati dalle politiche europee e dal regolamento detto “Dublino”.

Un articolo scritto grazie all’aiuto dei partecipanti alla marcia, alla disponibilità dei solidali del Manba e al lavoro delle fotografe Peggy e Delphine e del collettivo Primitivi .

Partenza dal F1 di Vitrolles, Peggy

Domenica 29 ottobre.

Una chiamata delle/gli esiliati/e raggruppate/i nei PRAHDA di Vitrolles e Gémenos.

Da alcuni mesi, lo Stato ha bloccato l’accettazione di domande d’asilo!

Da alcuni mesi, le prefetture francesi attuano in maniera sempre più sistematica le procedure dette “Dublino”, nei confronti dei nuovi arrivati : poichè avrebbero attraversato altri paesi europei prima di arrivare in Francia, le prefetture rifiutano la registrazione delle loro domande d’asilo e programmano la loro espulsione verso i paesi di entrata in Europa (Italia, Grecia, Bulgaria …), ai quali delegano l’esame delle domande d’asilo. Ora, non soltanto le procedure d’asilo non sono più garantite in Italia, in Grecia o in Bulgaria, ma tali Stati hanno effettuato delle espulsioni verso i paesi d’origine, in Sudan, in Tchad, Niger, Guinea … Si tratta di una politica che ha come scopo quello di impedire l’accesso all’asilo per la stragrande maggioranza delle popolazioni migranti in Francia e costituisce un segnale negativo nei confronti delle/i nuovi/e rifugiate/i, provenienti dall’Africa e dall’Asia e intenzionati a raggiungere l’Europa.

Dietro le porte dei “centri d’accoglienza” dello Stato: smistamento degli/lle stranieri/e, isolamento e accelerazione delle espulsioni!

Come altrove in Europa, si moltiplicano le sperimentazioni di nuove formule e non si tratta più soltanto per lo Stato di rispondere ai propri obblighi di accoglienza d’urgenza. Quest’estate, 62 nuovi centri sono spuntati in giro per la Francia sotto l’acronimo di PRAHDA (programma d’accoglienza e ospitalità d’emergenza dei richiedenti asilo), all’interno di hotel Formule 1 dati in gestione all’associazione ADOMA (precedentemente Sonacotra).

Sgomberati da Parigi e Calais, ma accolti da mesi dagli abitanti delle città e dei paesi della nostra regione, centinaia di esiliati/e in procedura “Dublino” sono stati/e brutalmente trasferiti/e in centri situati a Gémenos, Vitrolles et Villeneuve les Maguelone… in attesa dell’espulsione! Lontano da ogni possibilità di contatto con la popolazione, in zone “idealmente” situate in prossimità delle piste degli aeroporti o della prigione (come a Montpelier): le prime espulsioni non hanno tardato a venire.

Con queste 62 anticamere della politica del respingimento di Stato, viene accelerato in Francia l’insieme del meccanismo di espulsione dei/lle “dublinati/e”.

PRAHDA = PRIGIONE

Le tecniche di sorveglianza e repressione nei confronti degli occupanti confermano il carattere repressivo dei PRAHDA. La polizia è sistematicamente presente. Coloro che vi risiedono hanno l’obbligo di dimora. I lavoratori sociali assumono il ruolo di secondini, agitano la minaccia di un regolamento interno particolarmente repressivo e segnalano alla prefettura ogni sgarro. Per quelli che resistono, le sanzioni consistono in una segnalazione come “persona in fuga”, che permette alla prefettura di espellere dal diritto d’asilo e di rendere irregolare nel lungo termine la situazione di chiunque venga segnalato.

Concepito come un’alternativa alla detenzione, questo dispositivo perverso non ha niente da invidiarle: ha come scopo l’efficacia delle espulsioni “volontarie”, agitando la minaccia della clandestinità e della privazione dei diritti che questa significa. I/le“dublinati/e”, d’altra parte, sono invitati a recarsi all’aeroporto autonomamente!

Rifiuto di accesso alle cure e ai diritti di interpretariato, apertura sistematica della corrispondenza amministrativa dei residenti da parte della direttrice locale: tutte pratiche ricorrenti che ricordano la prigione!

Nei PRAHDA e non solo, gli/le esiliati/e si mobilitano contro questi nuovi

dispositivi di repressione:

– contro DUBLINO e lo smantellamento del diritto d’asilo

– contro i centri d’isolamento e detenzione

– contro le espulsioni e i trasferimenti forzati

– contro le frontiere che ci vengono chiuse davanti alla faccia

– contro il razzismo di Stato e il suo mondo

UNITEVI ALLA MARCIA!

MASSIMA SOLIDARIETA!”

Questo il testo dell’appello che invitava ad una grande marcia regionale, domenica 29 ottobre. Una marcia di 27 chilometri all’incirca: quelli che separano il PRAHDA di Vitrolles dalla prefettura di Marsiglia.

I PRAHDA: novità e continuità nella “gestione degli stranieri” in Francia

Se ritrovare Marsiglia su una mappa non darà problemi a nessuno, puntare il dito su Vitrolles, e per la precisione sul luogo dell’appuntamento scelto dagli organizzatori, potrebbe rivelarsi un’impresa piuttosto ardua: l’hôtel Formule 1, all’indirizzo 2, Draille des Tribales, è una struttura ricettiva low cost, costruita in una zona industriale, tra capannoni semi-abbandonati e cantieri, affianco ad una super strada … e a pochi minuti dall’aeroporto Marseille-Provence.

PRAHDA, invece, sta per “programme d’accueil et d’hebergement d’urgence pour demandeurs d’asile”: programma di accoglienza e ospitalità d’emergenza dei richiedenti asilo. Assonanze e significato edulcorano cinicamente quel che rappresenta questa nuova tipologia di centri d’accoglienza francesi, entrati in funzione a partire dal mese di agosto 2017, ma dei quali si sentiva parlare da quasi un anno[1]. Si tratta di dispositivi dedicati ad una tipologia particolare di migrante: colui o colei che è stato identificato, tramite registrazione delle impronte, in un paese che non corrisponde alla Francia. Cioè coloro sui quali ricade la procedura regolamentati dagli accordi europei di Dublino, che stabiliscono che le domande d’asilo possano essere inoltrate esclusivamente nel primo paese di entrata in Europa. Un regolamento i cui effetti perversi sono ormai noti, primo tra tutti la “consuetudine” delle forze dell’ordine di obbligare i migranti, anche con la violenza, a depositare le proprie impronte. Impronte che restano valide per un numero variabile di mesi (al massimo 18), passati i quali si può depositare domanda d’asilo altrove: lo Stato francese si organizza per non sprecare neanche un minuto di questo conto alla rovescia!

A chi entra nel programma PRAHDA viene chiesto di firmare un contratto nel quale è scritto nero su bianco che la permanenza nel centro ha fine al momento del trasferimento verso un altro Stato. Il regolamento interno prevede l’obbligo di residenza nella struttura, ciò che equivale ad un obbligo di firma in commissariato una volta a settimana. Ogni assenza di 24 ore deve essere segnalata, mentre ogni allontanamento di una settimana deve essere sottoposto all’approvazione della direzione. Il firmatario si impegna a presenziare a tutti gli appuntamenti relativi alla prosecuzione della procedura d’asilo e concede alla direzione il diritto di diffondere alle autorità che ne richiedessero visione tutte le informazioni a suo riguardo. Il rispetto dei locali è l’oggetto di un ulteriore punto del regolamento. Si specifica che ogni infrazione darà adito alla rottura del contratto e all’allontanamento senza preavviso.

Nella gara d’appalto per l’assegnazione dei PRAHDA si legge che, oltre alle obbligazioni comuni ai dispositivi di accoglienza – come garantire un alloggio e seguire le procedure giuridiche degli ospiti-, chi si aggiudicherà la gestione dei PRAHDA dovrà anche preparare il trasferimento dei “dublinati” e comunicare a OFII[2] e prefetti ogni defezione al regolamento.

A guadagnarsi l’onore di gestire strutture per più di 5000 posti, dislocati su 12 lotti territoriali corrispondenti alle regioni francesi – Corsica esclusa -, è stata Adoma, una società “di economia mista” pubblica e privata nell’ambito del “logément social”, vecchia conoscenza dei lavoratori stranieri in Francia. Prima di ritracciarne i nobili natali, va notato che la formulazione stessa dell’appalto ha di fato escluso qualunque attore del settore che non fosse un gigante (data la ripartizione in grossi lotti regionali). E di giganti, su una stessa piazza, pare evidente non ce ne possano stare molti: Adoma ha ottenuto la totalità dei lotti!

Adoma nasce nel 1956 come SONACOTRAL: società nazionale di costruzione per i lavoratori algerini. Lo scopo, all’epoca, era quello di far uscire dalle bidonvilles le masse di lavoratori algerini giunti in Francia a seguito di accordi bilaterali tra i due paesi. I campi informali erano di fatto incontrollabili per le autorità e si imponeva la necessità di costruire degli alloggi funzionali. A partire dagli anni ’60, oltre a costruire e manutenere, SONACOTRAL inizia anche a gestire gli alloggi per lavoratori, imponendo regolamenti durissimi e repressivi. Proprio a causa di un suo cavallo di battaglia, il non concedere la residenza a chi viveva nelle proprie strutture, negli anni ’70 SONACOTRA, che nel frattempo ha perso una L guadagnando pero’ il diritto di alloggiare lavoratori di tutte le nazionalità, fu bersaglio di importanti proteste e contestazioni.

Nel 2007 cambia nome, diventa Adoma ed estende le proprie competenze a vari settori dell’alloggio sociale, diventando una filiale della SNI (società nazionale immobiliare, controllata dalla Caisse de Dépots et consignations) ed entrando, quindi, in un’era di gestione orientata al profitto finanziario[3].

Una volta vinto l’appalto, Adoma ha proceduto all’acquisto di 62 hotel, di proprietà del mega gruppo Accor, della tipologia detta “Formule 1”: un’invenzione dei ruggenti anni ’80: strutture prefabbricate situate in zone di transito, nelle vicinanze di aeroporti e autostrade. Stanze minuscole, bagni in comune, assenza di qualsiasi servizio, prezzi assolutamente low cost. Ma negli ultimi anni il mercato della ricettività si è rivoluzionato e i F1 hanno subito un crollo disastroso … e allora perché non collettivizzare le perdite con un bell’acquisto da parte di una società semi-pubblica?[4]

Chi si ritrova a risiedere in questi luoghi lunari, parliamo di un minimo di 40 persone[5], non ha a disposizione alcuno spazio comune e nessuna connessione ad internet. Le cucine sono inesistenti, al massimo delle stanzette con un microonde. A Gémenos e Vitrolles molti dei bagni sono inutilizzabili : sono stati promessi dei lavori, ma non si è ancora visto nulla. La diaria è di circa 200 euro al mese, ma l’erogazione non è regolare. In più, in alcuni centri le spese di trasporto sono a carico del richiedente asilo e non sempre è garantito l’accesso alle cure sanitarie.

La polizia passa costantemente, per far firmare le notifiche di residenza o per effettuare controlli. Ci sono stati casi di fuga, che si sono conclusi con arresti e detenzione nei CRA[6].

I lavoratori sono pochissimi e, nei PRAHDA di provenienza degli organizzatori della marcia, ci sono già stati due licenziamenti per motivi disciplinari (pare che la motivazione avesse a che fare con l’aver dimostrato troppa vicinanza con i migranti). Rimangono uno o due lavoratori per centro, più la direttrice: viene da sé che l’assistenza giuridica sia pressoché inesistente[7].

Gli inizi della mobilitazione contro il regolamento di Dublino.

Quando, agli inizi di agosto, i primi PRAHDA hanno aperto i battenti, a Marsiglia i membri del collettivo El Mamba hanno iniziato a ricevere telefonate dai solidali organizzati attorno ai CAO[8] della regione. Erano telefonate di allarme: vedendo sparire le persone da un giorno all’altro, ci si chiedeva che cosa ne fosse di loro.

La macchina solidale ha, quindi, iniziato il proprio percorso di mobilitazione. Innanzitutto fornendo supporto legale ai molti che iniziavano a ricevere delle convocazioni in prefettura, durante le quali veniva consegnato un biglietto d’aereo, quasi sempre a destinazione Italia.

Una prima azione collettiva ha avuto luogo il 12 settembre, quando un folto gruppo di richiedenti asilo e solidali è andato in prefettura, per depositare domanda d’asilo per i molti per i quali si avvicinava la scadenza dei 18 mesi. Un’azione pensata anche in vista del fatto che, essendo stati trasferiti improvvisamente da altre città, l’avanzamento dei dossier era in panne. Il risultato non è stato quello sperato: qualche domanda d’asilo è stata accettata, ma la maggior parte ha visto allungarsi i tempi della conclusione della procedura Dublino (motivazione addotta: avrebbero fatto registrare 2 assenze ad appuntamenti con la prefettura durante i primi 6 mesi della procedura). Addirittura, una persona è stata incarcerata nel CRA di Marsiglia, con la scusante di un mancato ritiro di corrispondenza a suo nome e la scarcerazione è avvenuta grazie all’azione di alcuni avvocati.

A questo punto la necessità di mobilitarsi si faceva sempre più pressante, anche perché in tantissimi si ritrovavano nella stessa situazione.

L’occasione per concretizzare si è data ad un coordinamento dei collettivi del sud est francese, durante il quale si sono incontrati in molti, persone residenti nei vari PRAHDA e collettivi solidali. Si inizia a concordare e sincronizzare le azioni, a partire dal pranzo davanti al PRAHDA di Montpellier in contemporanea ad un’azione a Briançon, e si inizia anche a parlare di una marcia regionale.

L’intento comune era, ed è, quello di dar vita ad un’azione e, possibilmente, ad un percorso di lotta nei confronti delle direttive europee, sintetizzate negli accordi di Dublino, che impediscono qualsiasi possibilità di autodeterminazione nelle scelte che riguardano il proprio percorso migratorio e i propri iter giuridici. Imponendo logiche burocratiche e coercitive, spesso contraddittorie, l’Europa e gli stati che ne fanno parte, di fatto, impediscono, o comunque compromettono irrimediabilmente, il pieno esercizio del diritto alla protezione internazionale. Giustamente, in molti decidono di non voler sottostare a questo regime, ritrovandosi, costretti in clandestinità, a percorrere e ripercorrere le medesime rotte. Le traiettorie si fanno sempre più contorte e aumentano i casi di persone che hanno subito espulsioni plurime o che, rientrati in Italia, non possono riaprire le procedure d’asilo, a causa delle assenze durante il periodo passato in Francia[9].

Dall’Italia, inoltre, si registrano numerosi casi di persone che si ritrovano con una richiesta d’asilo depositata contro il loro volere : le impronte vengono prese con la forza e, contestualmente, si procede con la redazione di una domanda d’asilo, della quale, però, il diretto interessato non è a conoscenza: spesso non compare la sua firma e non è riportata nessuna testimonianza.

Ulteriore problematica: poiché l’Italia, durante l’estate 2016, ha espulso verso il loro paese d’origine 48 sudanesi[10], come può la Francia, che considera il Sudan “paese non sicuro”, operare in direzione dell’espulsione dei sudanesi verso l’Italia? Un esempio, che però funziona anche rispetto ad altre triangolazioni tra Stati.

La marcia del 29 ottobre

La testa del corteo, Peggy

Avendo come obiettivo l’organizzazione di un appuntamento il più vasto possibile, si era pensato a scadenze più dilatate. Dai residenti nei PRAHDA, però, è stata avanzata la richiesta di non rimandare oltre la fine di ottobre: in molti avevano ricevuto convocazioni in prefettura per i primi di novembre e il timore era che si potesse trattare di consegne di biglietti aerei o anche di deportazioni tout court. Si trattava di timori pienamente giustificati dai fatti: il 24 ottobre, 3 richiedenti asilo residenti nel PRAHDA di Vitrolles, ai quali se ne è poi aggiunto un quarto, sono stati trasportati e trattenuti in una cella del commissariato di Avignone, per essere poi espulsi in Italia il giorno seguente. Il tutto senza alcun preavviso, nessuna notifica e nessun colloquio con un legale, quindi in violazione della normativa. La direzione del PRAHDA è assolutamente collusa con la prefettura : la direttrice dei due centri ha addirittura accompagnato personalmente in commissariato, con il furgone della comunità, le persone che sono poi state espulse[11].

La Grande Marcia Regionale contro il Regolamento Dublino parte dal cortile del PRAHDA di Vitrolles.

Una trentina di persone arrivano da Marsiglia, in treno, altri in macchina, alla spicciolata.

E’ ancora presto : manca all’incirca un’ora all’orario di partenza, previsto per le 9, 30. Il Mistral ha iniziato a farsi sentire e nei dintorni non c’è traccia di vita : qualche casa circondata da muri e inferriate, qualche capannone abbandonato, presidiato da cani alla catena. La strada che porta al PRAHDA, dalla piccola stazione di Vitrolles, è interrotta da cantieri stradali, ai quali si è costretti a passare nel mezzo. Gli ospiti del PRAHDA ci invitano ad entrare e preparano te e caffè. Comunque restiamo nel cortile : gli unici due grandi tavoli del centro sono all’aperto, mentre l’interno della struttura si sviluppa attorno a corridoi contorti e angusti, sui quali affacciano le piccole stanzette, marchio di fabbrica degli Hotel F1, e i gabinetti.

Quando arrivano i furgoni sui quali viaggiano i “dublinati” del PRAHDA di Gémenos – altro centro di questo tipo nella regione Provence-Alpes-Côte d’Azur- ci si mette in strada. Molti nascondo il volto dietro una maschera che riproduce le linee di un’impronta digitale, materializzazione della violenza che, nella freddezza della visione burocratica, cancella le storie che le stanno dietro, i chilometri di strada percorsi.

La strada nazionale, Peggy

Siamo 120 e, una volta imboccata la super strada, iniziamo a camminare a buon ritmo, seguiti da alcuni giornalisti e scortati da qualche macchina della polizia. Cammineremo a questo ritmo per più di 5 ore, decisi ad arrivare in orario, o comunque con un ritardo ragionevole, a Bougainville, nella periferia nord di Marsiglia, dove ci aspettano le compagne e i compagni che si uniranno agli ultimi chilometri del percorso.

Lungo la strada e nei centri abitati che attraversiamo, vengono distribuiti volantini per spiegare le ragioni di questa insolita e ingombrante presenza domenicale: in molti rallentano e abbassano i finestrini, o si affacciano dalle case, per raccoglierli.

A ritmare e sostenere la marcia, slogan e interventi. Si grida, per innumerevoli volte, « Stop Dublin » e « Non aux expulsions ». E poi : « La France à tout le monde, La place à tout le monde ».

Chi parla al microfono si interroga sul perché del rifiuto netto e senza appello che ricevono dalle autorità francesi. Ci si chiede come sia possibile essere rifiutati da un paese che per molti non è affatto sconosciuto : « siamo tutti francesi , in tanti hanno parenti che hanno vissuto qui a lungo, un nonno che ha fatto il soldato per la Francia ». Ed è vero anche il discorso inverso : « per quanto tempo i francesi sono stati nei nostri paesi ? … e ci sono ancora ! Ma noi non li scacciamo ! ». Un rifiuto che non si può comprendere ed accettare, « pensando alla Francia, un paese di diritti, il paese dell’uguaglianza … ma questa uguaglianza non esiste ! Per noi non esiste ! ».

Ingresso a Marsiglia, Peggy

Gli ultimi chilometri prima della tappa intermedia, quelli fatti attraverso le periferie marsigliesi, li trascorriamo in una strana dimensione, tra entusiasmo e stanchezza. Adesso si inizia a gridare « Nous sommes pas fatigués, noi non siamo stanchi ! ». Chiedo ad un ragazzo che mi cammina affianco : « come va ? Sei stanco ? », la risposta : « Dubliné, pas fatigué ! » … e la risata è impossibile da trattenere per entrambi.

Ingresso a Marsiglia, Peggy

Alla stazione della metro di Bougainville ci aspettano in 200. Arriviamo cantando e gridando e l’accoglienza è altrettanto calorosa. Dopo aver mangiato qualcosa, si riparte, rinfoltiti. Siamo circa 400 all’arrivo, davanti allo sfarzoso palazzo della prefettura di Marsiglia[12].

Arrivo a Bougainville, Peggy
Il corteo in città, Delphine
Tramonto al Vieux Port, Peggy

 

«I sassi nelle scarpe»

Ritratti, Primitivi

Sono le 19 circa. Nella piazza della prefettura fa freddo, il Mistral è ancora con noi. Mentre si “imbandisce” la cena, il microfono resta aperto per chi ha voglia di dire qualcosa. Contenti, infreddoliti, stanchi e soddisfatti. C’è un po’ di tempo per parlare con alcune delle persone al fianco delle quali si è camminato per l’intera giornata.

M.[13] è in Francia da un anno. E’ rimasto 9 mesi nel CAO di Barcellonete e poi, quest’estate, il trasferimento al PRAHDA di Gémenos, che definisce un « ghetto per i dublinati ». Racconta di come, attraverso i contatti del collettivo El Manba, hanno incontrato i residenti dell’altro centro, quello di Vitrolles : entrambi sono lontani da tutto, il collegamento con Marsiglia è stato fondamentale per entrare in contatto. Per adesso è riuscito ad evitare di salire sull’aereo, ma un fatto lo preoccupa : circa un mese fa è stato intervistato da un giornalista del giornale locale La Provence : nell’articolo si parla dei PRAHDA e il titolo recita « Nuova prigione per gli esiliati ». Il problema è che il giornalista ha ritenuto opportuno riportare nome e età di M., il quale ora teme ritorsioni e conseguenze, dato che, a seguito dell’uscita dell’articolo, durante un colloquio in prefettura, è stato sequestrato l’originale del documento che attesta la sua condizione di richiedente asilo. Ma le ostilità nei loro confronti vengono anche dal personale e dalla direzione dei PRAHDA : « in teoria dovrebbero lavorare con noi, invece le strutture sono fatiscenti, i bagni non funzionano … e soprattutto il capo è meschino … cioè, è tranquillo, possiamo uscire, rientrare senza troppi problemi di orari … tranquillo, tranquillo e poi : biglietto d’aereo ! Delle persone sono già state espulse ! » M. si dice soddisfatto della marcia, della partecipazione e soprattutto della disponibilità ad ascoltare e leggere i motivi della protesta da parte di tutte le persone incontrate lungo il percorso e che hanno accettato i volantini. Arrivare fino a qui, nel centro di Marsiglia, era importante per rompere l’isolamento nel quale sono costretti e per far sì che si sappia dell’esistenza di questi nuovi centri. Da Gémenos sono venuti tutti quanti.

B. parla delle problematicità del servizio di assistenza giuridica, che dovrebbe essere garantito dalla direzione dei centri : « i PRAHDA sono pensati contro gli interessi dei migranti. Come sempre, cercano continuamente nuove soluzioni per bloccare e appesantire i dossier e le situazioni delle persone ». Come esempio, spiega cosa gli è successo qualche tempo fa : « Avevo fatto domanda di ricorso contro una notifica del prefetto. Adoma la ha consegnata in ritardo e così non è stata presa in conto ! Succede spesso che tengano nascosto quel che potrebbe esserci utile … il loro ruolo è metterci “il sassolino nella scarpa” ».

L’arrivo in prefettura, Peggy

 

Venerdì 10 novembre: a pranzo in prefettura

Pranzo in prefettura, Primitivi

A conferma del fatto che la volontà è quella di dar vita ad un percorso di lotta che non si esaurisca con la data del 29 ottobre, venerdì 10 novembre ci ritroviamo nella piazza della prefettura di Marsiglia per un pranzo collettivo contro le espulsioni[14]. Il morale è alto e le idee per futuri appuntamenti non mancano. Dal microfono F. dice : « Parlo francese, eppure fino a qualche tempo fa non lo parlavo. Se, dopo essere stati espulsi, ritorniamo 2, 3 volte, è perché abbiamo deciso di stare qui ! Stiamo bene qui e non capiamo perché ci respingano in questa maniera ! ». Domenica 29, all’arrivo della marcia, la prefettura era vuota. Adesso sappiamo che, dietro la facciata decorata da decine di bandiere tricolore per l’anniversario della fine della prima guerra mondiale, qualcuno c’è. Prima di andare via, una delegazione porta al prefetto una lettera. Di seguito il testo tradotto in italiano :

« Popoli di Francia, signor prefetto,

Abbiamo scelto la Francia per la sua reputazione mondiale in quanto a diritti dell’essere umano e accoglienza dei rifugiati.

Per raggiungere la Francia, abbiamo attraversato dei paesi dell’Unione Europea dove stiamo stati obbligati a lasciare le impronte digitali. Abbiamo deciso di depositare domanda d’asilo presso la Repubblica francese ma le nostre procedure sono state bloccate a causa del regolamento « Dublino ». Non possiamo tornare nel paese dove siamo stati obbligati a lasciare le impronte per differenti motivi ; tra noi :

– Alcuni hanno ricevuto dei rifiuti, e sono quindi esclusi dal diritto d’asilo nel primo paese coinvolto.

– Alcuni vi hanno subito atti razzisti e indegni.

– Alcuni sono stati lasciati per strada, a causa dell’insufficienza dei dispositivi d’accoglienza.

Contrariamente al motto della Repubblica, il governo ha messo in atto dei metodi per mettere dei sassi nelle scarpe (dei bastoni nelle ruote) alle persone in procedura « Dublino » e facilitare le espulsioni. Prendiamo come esempio il dispositivo detto PRAHDA, gestito da Adoma, che opera contro gli interessi dei richiedenti asilo in procedura « Dublino » :

– Deposizioni di domande di ricorso oltre scadenza.

– Complicità di Adoma e prefettura nell’attuazione di espulsioni forzate, senza preavviso e in violazione dei diritti.

– Privazione delle condizioni di vita degne di un essere umano.

Per questi motivi, signor prefetto, sollecitiamo la vostra attenzione, al fine di :
– Annullare le nostre procedure « Dublino ».

– Fermare le espulsioni.

– Accettare le nostre domande d’asilo.

– Farla finita con il mostro Adoma-Prahda.

– Permettere l’accesso all’educazione, agli studi e alla formazione professionale.

Sollecitiamo la Repubblica francese e il suo popolo ad avere uno sguardo misericordioso sulle nostre situazioni di rifugiati, che hanno lasciato dietro di loro delle nazioni, delle famiglie.

Dei rifugiati stanchi per un viaggio pieno di pericoli.

Dei/Delle « Dublinati/e »

Marsiglia, 10 novembre 2017 »

Al momento dei saluti, M. mi dice : « ho un biglietto per lunedì (13/11, n.d.a.), ma non partirò ! ».

… nella speranza di camminare ancora affianco a M., a tutti gli altri e a tutte le altre.

C.P.

[1] L’apertura dei PRAHDA era prevista per la primavera 2017, quando le strutture ospitanti i CAO (centri d’accoglienza e orientamento), aperti in moltissime località francesi a seguito dello sgombero della Jungle di Calais, avrebbero dovuto ritrovare le loro funzioni abituali, principalmente quelle di colonie estive per ragazzi. https://passeursdhospitalites.wordpress.com/2016/11/26/des-cao-au-prahda/.

[2] Office Français de l’immigration et de l’intégration.

[3] Lo stesso finanziamento dei PRAHDA fa riferimento alla messa in opera di un fondo d’investimento. Per approfondire la storia di ADOMA, anche attraverso filmati d’epoca: http://iaata.info/Adoma-remporte-le-marche-PRAHDA-et-prepare-l-apres-CAO-2034.html.

[4] La possibilità di colmare le perdite, entrando nel mondo dorato dell’allogio sociale, era già stata intuita dai proprietari di questo tipo di strutture, ben prima dell’acquisto da parte di Adoma : http://abonnes.lemonde.fr/m-perso/article/2017/10/02/les-hotels-formule-1-dans-une-voie-de-garage_5195109_4497916.html?xtmc=formule1&xtcr=8.

[5] Per i PRAHDA nelle Bouches du Rhône : 40 persone a Gémenos e una sessantina a Vitrolles.

[6] Centre de rétention administrative.

[7] Un articolo che spiega lo scopo e il funzionamento dei PRAHDA, riportando testimonianze di donne e uomini costretti in dispositivi di questo tipo in varie parti di Francia. Le problematiche sono simili a quel che abbiamo sentito raccontare e visto a Vitrolles e Gémenos. La sostanza è sempre la stessa : isolare, invisibilizzare, espellere. https://blogs.mediapart.fr/agathe-senna/blog/091117/les-prahda-isoler-invisibiliser-expulser?utm_source=facebook&utm_medium=social&utm_campaign=Sharing&xtor=CS3-66.

[8] Centre d’accueil et orientation.

[9] Una nota del colletivo solidale di Marsiglia El Manba, per riportare le vicende di un richiedente asilo « rimbalzato » tra Italia e Francia.

[10] https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/24/migranti-prima-espulsione-di-gruppo-48-presi-a-ventimiglia-e-rispediti-in-sudan-ma-khartoum-viola-diritti-umani/2993664/.

[11] https://mars-infos.org/prahda-de-vitrolles-expulsion-2682.

[12] Un articolo sulla marcia di domenica 29, nel quale si ritrovano anche stralci di interviste audio ad alcuni residenti dei PRAHDA : https://reporterre.net/Un-an-apres-Calais-la-France-traite-toujours-plus-mal-les-migrants.

[13] Le iniziali si riferiscono a nomi d’invenzione.

[14] Una restituzione video del pranzo, da parte del collettivo marsigliese Primitivi, che si occupa di produzioni video “di strada” per documentare lotte e iniziative dal basso: https://player.vimeo.com/video/243157295.

Ventimiglia libera

Partiamo al mattino da Genova per Ventimiglia, portiamo con noi una confezione da 1 kg di anti-scabbia galenico fornitoci gratuitamente da una farmacia di Genova.

Dopo un breve ma caldo incontro con Delia nel suo locale, ci rechiamo in bici presso l’info-point Eufemia, in via Tenda.

Mentre ci accordiamo con loro per eventuali consulti a distanza, rumori e voci dall’esterno dell’info-point ci informano che una manifestazione anti migranti sta percorrendo la via su cui si affaccia.

Il gruppo di manifestanti è composto da una cinquantina di persone prevalentemente di mezza età, espressione di questo territorio assai provato, periferia nella periferia. Urlano improperi e minacce in un forte accento calabrese e fanno gesti volgari nella direzione dei solidali. Gli striscioni recitano “Ventimiglia libera”, “vogliamo indietro la nostra città” e frasi simili. Questo breve video rende l’idea della scena che ci si è parata davanti.

Tentiamo di rispondere alle provocazioni ricordando che siamo tutti un po’ emigrati, ma le nostre parole vengono ignorate.

Dopo questo triste spettacolo, ci rechiamo, come sempre, verso il ponte, accompagnati da un giornalista free-lance e da un’infermiera milanese. Appena discesi nell’area dell’argine del fium,e antistante alla chiesa di San Antonio, incontriamo i primi gruppi di ragazzi. Vediamo una distesa di sacchi a pelo e coperte, saranno almeno duecento. Fa freddo, alcune persone sono coricate lì e cercano di scaldarsi con le coperte. Quasi tutti quelli che visitiamo hanno influenza o bronchite. Ancora diversi casi di scabbia. Forniamo il farmaco e li indirizziamo presso l’info-point per il cambio degli abiti.

Vediamo su un divano un gruppo di uomini e una donna. Cerchiamo di parlarle per capire la sua situazione, ha evidentemente avuto dei traumi al volto. È ipovedente, ci spiega che cade spesso accidentalmente riportando diverse ferite. È incinta al terzo mese, ma non vuole stare al centro della croce rossa perché è troppo lontano. Quando cerchiamo di indagare ulteriormente e si rifiuta di parlare.

Dopo poco, un ragazzo apparentemente sudanese accompagna da noi una giovane ragazza eritrea che presenta dolori all’addome e diarrea per aver bevuto quotidianamente l’acqua del fiume. Le diamo una terapia antibiotica, con difficoltà per la barriera linguistica e cerchiamo, nonostante questa, di indirizzarla verso l’info-point Eufemia, dicendole che ci sono avvocati e persone che possono aiutarla.

Diversi, tra questi gruppi, hanno bottiglie di plastica tagliate a metà, che usano come bicchieri per bere del vino. Ne parlano con noi abbastanza tranquillamente, dicendo che è quel posto che li induce a bere. Uno di loro è un ingegnere, parla diverse lingue ed è molto interessato a partecipare alle nostre visite. Ci racconta di avere una sensazione come di “acqua nell’orecchio”, da quando lo hanno colpito con il calcio di un fucile in Libia. Chiaramente per una cosa del genere possiamo solo dare qualche spiegazione o consiglio.

Mentre continuiamo a visitare gente con influenza, bronchite e scabbia prevalentemente, arriva un ragazzo ghanese. Parla sia italiano che inglese. È appena arrivato da Lecce, dove vive in un centro di accoglienza straordinaria. È molto sorpreso della situazione, ci chiede come sia possibile che tutte queste persone stiano nella strada. Dice che tutti nel suo paese gli hanno detto di andare in Francia, per cui era partito con questa convinzione, che credeva giusta. La vista della situazione di Ventimiglia gli ha fatto immediatamente cambiare idea. Ci racconta che anche nel centro dove vive a Lecce c’erano dei problemi, ma che i ragazzi residenti si erano organizzati, avevano manifestato, ottenendo come risultato un importante miglioramento delle condizioni di vita.
Parliamo del problema delle impronte digitali e dell’imposizione del regolamento di Dublino. Scherza dicendo che un africano dovrebbe lasciare le mani in Africa e venire in Europa senza.

Dice, che differenza c’è tra questo posto e l’Africa?

Quindi ci lascia dicendo che Lecce è una bella e grande città e che ci sono molti migranti, sarebbe tornato subito alla stazione a prendere il treno.

Per fortuna, dopo questa giornata angosciante, possiamo andare a rifugiarci a casa di persone solidali e amiche che ci ospitano spesso.

Il giorno dopo, insieme a queste persone solidali, ci rechiamo nuovamente a Eufemia e da li, ancora con l’infermiera, ricominciamo il giro. Ci sono da fare molte medicazioni, il solito problema dei chilometri percorsi con scarpe di taglia sbagliata.

Percorriamo anche tutto il corso del fiume e re-incontriamo la ragazza eritrea con il gruppo degli uomini con cui era il giorno prima. Sembra stare meglio. Preparano tutti insieme da mangiare con una padella su un piccolo fuoco.

Pensiamo di chiedere aiuto telefonicamente a una persona eritrea che conosciamo, per capire se la ragazza si senta in pericolo o sia accompagnata da qualcuno di sua fiducia. Mandiamo dei messaggi a questa persona amica spiegando la situazione della ragazza.

Passano molto tempo al telefono, la ragazza si allontana, poi ci chiama. Riusciamo a capire che è con suo marito, che chiaramente non vorrebbe rimanere in quel posto, ma non può andare via da sola. Ha avuto un forte trauma alla testa, per cui è preoccupata, durante il naufragio e l’incendio della barca con cui ha attraversato il mare. Riconfermiamo la terapia e che stia meglio dopo averla iniziata, e le raccomandiamo nuovamente di cercare le persone solidali in caso di bisogno.

Come spesso accade in questa zona, le persone presenti ci offrono il poco che hanno da mangiare. Anche se gli siamo molto grati per la proposta, dobbiamo continuare il nostro giro lungo il fiume.

Ritornando nel piazzale del cimitero, visitiamo un gruppo di afghani, anche loro con problemi respiratori e gastrici.

Amelia Chiara Trombetta
Antonio Gerardo Curotto

Pubblicato anche su http://effimera.org/ventimiglia-libera-amelia-chiara-trombetta-antonio-g-curotto/

Parco Roya – Ventimiglia, una minaccia per la sicurezza

3 km e mezzo è la distanza che i migranti in transito a Ventimiglia devono percorrere a piedi per raggiungere la città di frontiera dal Campo gestito dalla Croce Rossa Italiana.

Il percorso si snoda su una superstrada in cui le macchine procedono a grande velocità e lo spazio per il camminamento risulta insufficiente se non addirittura assente per lunghi tratti.

La decisione di allontanare i migranti spostandoli dalla città di confine verso l’interno, è stata fortemente voluta dalle istituzioni e pubblicizzata come essenziale per garantire la sicurezza dei residenti. L’imperativo è diventato decongestionare la città da cartolina, oggi diventata tristemente nota per essere vetrina dello scontro tra gli sbandierati ideali europei ed il vero volto di un Unione fasulla.

Il Campo della Croce Rossa sorge nel Parco ferroviario Roja nella frazione di Bevera.

Nel luglio 2016 tutti i migranti ospitati alla Parrocchia di Sant’Antonio nel quartiere delle Gianchette, a eccezione di donne, minori e famiglie, sono stati trasferiti all’interno del campo e ogni nuovo arrivo è stato qui indirizzato.

Ad agosto 2017, nonostante le rimostranze e le criticità sollevate dalle volontarie delle Gianchette (1) e dal personale delle ONG presenti sul territorio, la Prefettura ha avviato il trasferimento al Parco Roja anche di donne e bambini (2).

L’accesso al campo è subordinato alla registrazione delle impronte digitali che vincola i migranti alla richiesta d’asilo in Italia. Questo fattore, unito alla lontananza del campo dai servizi della città e alla mancanza di sicurezza sul percorso necessario per raggiungerla, hanno determinato un incremento delle persone che decidono di trovare riparo sotto alla superstrada, in condizioni igienico sanitarie critiche(3).

Nel corso del 2017 lungo il percorso dal campo alla città di confine sono state investite 3 persone e 2 hanno perso la vita, un giovane di 27 anni e il conducente dello scooter che lo ha investito, un uomo di 66 anni.

                                                                                                                                                                                                                               Grage

1 https://www.riviera24.it/2017/08/ventimiglia-lacrime-e-rabbia-il-difficile-addio-delle-famiglie-di-migranti-ai-volontari-delle-gianchette-262300/
2 https://www.riviera24.it/2017/08/ventimiglia-rabbia-e-frustrazione-alle-gianchette-per-il-primo-trasferimento-di-donne-e-bambini-al-parco-roja-262285/
3 https://parolesulconfine.com/violazioni-diritto-alla-salute-confine

Viaggio in Pelle Scura

La foto qui sopra cattura uno dei quotidiani episodi di  respingimento di ragazzi giovanissimi – i quali si dichiarano minori – alla stazione di Menton Garavan.
Pubblichiamo il racconto di un viaggio, il cui tragitto a molti risulterà noto per averlo compiuto tante volte senza problemi ma che in questo caso diventa un’epopea che mostra cosa stia accadendo nelle nuove zone di confine interne all’Europa.

Mi sveglio per andare in bagno. Il giorno prima eravamo andati a dormire presto perchè la mattina dopo ci attendeva una sveglia quasi all’alba per prendere un bus diretto in Francia. Guardo l’ora nell’orologio analogico: sono le 6:35, “Cazzo!”, mi dico, “è tardi, abbiamo perso il bus”. In realtà sono le 5:35, non avevo spostato le lancette indietro (quella notte era cambiata l’ora).

Corro in camera per svegliare S.: “Presto vestiamoci e corriamo, forse ce la facciamo a prendere il bus”. Arriviamo di corsa in una piazza vicino a casa, mancano due minuti esatti alla partenza del bus, ma per fortuna siamo molto vicini al luogo della partenza. Prendiamo un taxi; arriviamo alla stazione dei bus, chiedo ai pochi presenti se il pullman per la nostra destinazione è già partito, mi rispondono di no. Io ed S. siamo tutti contenti. Arriva il bus, gli autisti sono italiani, lombardi, frettolosi per il ritardo. Gli mostro i due biglietti, ci chiedono il documento: io gli do il passaporto, S. l’unico foglio che ha (da un anno ormai) che attesta la sua richiesta d’asilo in Francia, in attesa di ricevere documento vero e proprio. Il conducente afferma che quel documento non è valido per entrare in Francia. Io provo a spiegargli che quel pezzo di carta legittima S. ad entrare in Francia perchè lui ha chiesto l’asilo proprio li’. Niente da fare, continua a dire di no con aria scocciata e mi chiede: “che fa signorina? Lei sale con noi o no?” ed io ovviamente rispondo che non sarei salita.

Ce ne andiamo verso la stazione dei treni. S. silenzioso, io con le lacrime agli occhi per il nervoso. Sono allibita ed incazzata da quello che io considero il razzismo incistato nella mente della gente. Il conducente continuava a dire che non poteva accettare quel foglio per legge, e fin qui tutto ok, ma aggiungeva che « gli dispiaceva » non farci salire. E qui sta il problema, cosa vuol dire che « ti dispiace »? O per te la legge è la stessa cosa della giustizia, e allora non dovresti dispiacerti di applicarla, oppure se ti dispiace vuol dire che sai che c’è qualcosa che non va in quel comportamento.. Ma eviti di chiederti quanto e soprattutto cosa non va… Un meccanismo che Hannah Arendt ha posto alla base della mostruosa « banalità del male ». Molti diranno : « sì però, il lavoro è il lavoro », ma quando il lavoro consiste nel bloccare delle persone negandogli un diritto solo perché si trovano in una situazione di debolezza, allora in ballo c’è altro, si parla di accettare silenziosamente un sistema marcio e razzista.  Questo’esempio puo’ sembrare esagerato ma spiega bene il mio pensiero: è come il ferroviere che ai tempi del nazismo si è trovato a guidare i treni che trasportavano le persone nei campi di sterminio e si è detto: “è il mio lavoro, non posso rifiutare”. Si capisce il problema? Se davvero si prova dispiacere per una determinata situazione o si fa qualcosa per cambiarla o è meglio lasciare perdere e non far trapelare il proprio disagio.

Arriviamo in stazione per prendere il treno, aspettiamo un’ora ed ovviamente paghiamo il biglietto: il mio umore peggiora, visto che dobbiamo pagare nuovamente dopo aver perso due biglietti del bus. Mentre attendiamo l’arrivo del treno sento di essere molto dispiaciuta per S.

Lui deve subire numerose ingiustizie per il semplice fatto di essere nero, sì perché non c’è altra spiegazione; lui non è un criminale, lui viene da un Paese nel quale c’è una dittatura da circa 40 anni o forse più, quale è la sua colpa? Più ci rifletto e più capisco che adesso ci sono in mezzo anche io. Amo un africano e lui ama me. Ma questo non importa; le istituzioni, le leggi, il sistema, il fascismo non guarda in faccia nessuno. Colpevolizzano S. per essere nero in Europa, colpevolizzano me perché amo un nero in Europa.

Sto provando sulla mia pelle, attraverso l’amore che mi lega ad S., le ingiustizie che subiscono i migranti.

Non riesco a stare in silenzio, sento che devo fare qualcosa.

Ma cosa posso fare? Non lo so. Ci ragiono. Ma qualcosa devo pur fare.

Non è facile fare i conti con questa constatazione : non posso liberamente vedere la persona che amo, non posso liberamente stare con lui e muovermi con lui, aspetto insieme a lui il responso di persone che quotidianamente decidono sulla sua vita e sulla vita dei tanti uomini e donne nella sua stessa situazione; già, proprio sulla vita, perchè se tu non hai un documento, dopo aver rischiato la vita in un viaggio tremendo spendendo tutto quello che avevi, rischi di venire deportato di nuovo nel tuo Paese da cui sei fuggito perché non avevi garantito il diritto alla sopravvivenza. Eh si’, l’Europa dei diritti e delle libertà!

Ed io , ragazza-bianca -con documenti (perchè è con questi termini che il potere ragiona), pur avendo da anni lottato contro queste ingiustizie, capisco solo ora pienamente cosa vuol dire. Non riesco a stare in silenzio, sento che devo fare qualcosa; se vedo, agisco; non riesco a girarmi dall’altra parte, non posso farlo, perché ho la consapevolezza che significa non dare adito al fascismo dilagante. Ma che posso fare? Non lo so, ci devo ragionare.

Nel frattempo arriva il treno per Ventimiglia. Ovviamente dobbiamo dribblare la polizia sul binario che chiede i documenti solo ai neri. Dico ad S. di stare vicino a me; spero sempre che il mio essere bianca possa aiutare chi ha la pelle nera.

Saliamo sul treno, destinazione Ventimiglia.

Stazione di Ventimiglia – Foto di redazione

Arriviamo a Bordighera, so che scesi dal treno ci può essere il rischio che la polizia fermi S. con il rischio dell’espulsione dall’Italia per tre anni. Ci dividiamo per non dare nell’occhio. Io vado a fare i biglietti per Nizza. Saliamo sul treno francese ed è tutto tranquillo finchè arriviamo alla prima fermata, la prima stazione oltre confine : Menton Garavan. Io la chiamo la stazione dell’inferno per i migranti; qui la PAF (Polizia di frontiera francese) fa un vero lavoro di pulizia dei treni che si dirigono in Francia, chiede i documenti solo ai neri ed anche chi possiede una carta valida per stare in Francia deve scendere dal treno per “ulteriori controlli” (li chiamano cosi’ ma in realtà per loro è solo un gioco, mettere ansia e fare violenza psicologica). Ok, siamo a Menton Garavan, sul treno salgono una decina di poliziotti francesi con guanti di pelle e manganelli.

Non ero troppo preoccupata per S. perchè sapevo che lui possedeva un documento per stare in Francia. Mantenevamo le distanze per stare più tranquilli, non so bene perchè ma eravamo convinti di questo.

La polizia arriva da S., lui gli da i documenti ma loro decidono comunque di farlo scendere. S. scende dal treno scortato da tre poliziotti. Io scendo poco dopo. Vviene portato nell’ufficio della polizia senza dargli la possibilità di controbattere. Insieme a lui hanno fatto scendere anche una ragazzina forse di 15 anni, incinta, tirandola.

Io ovviamente rimango fuori e vado alla ricerca di un tabaccaio per comprare cartine ed accendino. la ricerca fallisce ma un passante mi offre quello che mi manca.

Mentre fumo una sigaretta aspetto e mi chiedo cosa sarebbe successo; mi sale l’ansia, l’angoscia e la paura per S. che in quel momento si trovava nell’ufficio della polizia di frontiera francese.

Dopo una mezz’oretta S. mi chiama dicendomi che era tutto ok, di non destare nell’occhio, di prendere il treno e che anche lui l’avrebbe preso e che ci saremmo rincontrati giunti a destinazione. Mentre attendo il treno vedo S. mettersi dall’altra parte del binario; nel frattempo la polizia francese effettua le espulsioni verso l’Italia con il treno. Tra gli espulsi ci sono tanti minori, tutti sanno che gli Stati non possono per legge espellere i minori. Ma qui, in Francia, lo fanno e nessuno apre bocca. Tante associazioni e gruppi di attivisti hanno denunciato questo, ma la polizia continua ad agire cosi’.

La ragazzina in stazione si dimena e il poliziotto la tira portandole lo zainetto che per ridarglielo glielo lancia addosso, mentre gli altri poliziotti deridono gli altri migranti. Tutto questo davanti agli occhi di decine di europei, curiosi di vedere che stava succedendo come se stessero al teatro o stessero guardando un film.

Ho provato schifo, vomito per quelle scene ma in quel momento, per S., non dovevo fare nulla, solo stare tranquilla.

Controlli e respingimenti alla frontiera francese

Arriva il treno, salgo; dopo pochi secondi salgono anche i poliziotti francesi per fare la solita pulizia. Io ero tranquilla, perchè agitarmi? Uno dei poliziotti (quello che aveva preso S.) mi chiede il biglietto e mi ordina di scendere dal treno; mi parla solo in francese, provo a parlargli in inglese ed anche in italiano ma lui non so se non capiva, se non voleva capire o se proprio non mi ascoltava. Ho intuito che alcuni suoi colleghi con aria di pena nei miei confronti, gli dicevano di lasciare perdere, ma lui niente, vuole a tutti i costi che io scenda dal treno pur essendo regolare sullo stesso; mi prende lo zaino e me lo porta fuori, ovviamente a quel punto scendo.

Mi chiede il documento, gli do il passaporto e lui mi domanda  se ho un altro documento. Non ne ho  altri. Arriviamo davanti ad una panchina sul binario, con arroganza mi chiede di togliermi la giacca. So bene che la polizia non puo’ farmi una perquisizione in un luogo pubblico senza motivo, so che non puo’ essere un uomo a farmi una perquisizione del corpo, so che non possono prendermi il telefono senza autorizzazione; tutto questo avviene, invece, mi controllano tutto sperando di trovarmi chissà che cosa. Chiedo spiegazioni; i poliziotti mi guardano con aria strafottente ed incominciano a ridere come per prendermi in giro. Mi dicono che si tratta di un normale controllo e continuano a chiedermi perchè sono li’, perchè sono scesa per poi riprendere il treno dopo un’ora. Hanno capito che ero insieme ad S. evidentemente, e stare con lui significa inceppare un sistema che vuole gli immigrati ghettizzati, emarginati ed esclusi. Mi chiedono perché sono li’ : io rispondo con tranquillità dicendogli che ho aspettato un amico dall’Italia ma stufa di aspettare ho poi deciso di partire senza di lui;  non mi credono e continuano a ridermi in faccia con un’arroganza tale da farmi salire una rabbia esagerata: che cazzo te ne frega perchè sono qui? Ho qualcosa di irregolare? Il tuo lavoro è controllare che non ci siano illegalità o controllare e umiliare le persone che per te sono da sopprimere? Nella mia testa c’è solo questo. Arriva un altro poliziotto con il mio documento e dice agli altri: ” è pulita”. Eh già, purtroppo non possono fermarmi per ore ed ore e sono obbligati a rilasciarmi. Mi ridanno il mio documento ma continuano a chiedermi perchè sono stata li’ un’ora, usando un tono della voce molto alto, di nuovo ripeto la storia; a quel punto mi lasciano andare, borbottando tra di loro.

Ovviamente il treno con S. dentro è ormai partito. Aspetto quello dopo e raggiungo S.

 Arrivata a Nizza ci rincontriamo e ci  abbracciamo. S. mi chiede come sto e cosa è successo. Io provo a raccontarglielo cercando di non farlo preoccupare. Subito dopo cerchiamo di capire come arrivare a Marsiglia, prendiamo il treno e pago un biglietto abbastanza salato per evitare altri problemi.

Durante il viaggio S. si addormenta, io comincio a pensare al viaggio appena fatto: penso a quello che è successo e cerco di ascoltare le mie emozioni; raramente ho provato una paura di quel tipo; di solito quando decido di fare delle cose tengo in considerazione che possono dare fastidio a qualcuno e che quindi posso subire delle conseguenze. Ma stavolta non è stato cosi’, stavolta volevo solo stare con la persona che amo. Stavolta ho avuto paura per S., che la polizia gli mettesse le mani addosso (a Menton Garavan è la routine) e dopo ho avuto paura per me, non potevo stare lì perchè mi avevano vista con un ragazzo nero che avevano fermato.

La cosa che più mi è rimasta impressa è l’indifferenza che le persone europee hanno nei confronti di quello che succede intorno a loro, per esempio sul treno a Menton Garavan. Tante persone guardavano i poliziotti chiedere i documenti solo ai neri ma nessuno si opponeva a questo, ognuno continuava il viaggio con estrema tranquillità, come se quello che succedeva fosse una cosa normale e giusta. E tanta gente ha guardato anche la mia perquisizioni con curiosità. Le persone vedono la violenza sui migranti ma non si oppongono, perché ? Hanno paura oppure pensano che sia giusto ? Ci hanno detto tante volte che un’indifferenza simile permise le atrocità compiute dal nazifascismo. Le persone vedono, ma per mantenere i propri privilegi non dicono nulla. L’indifferenza è il motore delle peggiori barbarie.

Il passo successivo è punire chi è amico dei neri, chi prova in qualche modo ad inceppare questo sistema.

Si tratta di un episodio di vita vissuta che ho deciso di raccontare e rendere pubblico perché oggi più che mai è necessario diventare consapevoli:  per potersi  prendere la responsabilità  a cui tutti siamo  chiamati di fronte a questa Storia.

Cati

Oltre le paure: il progetto della Scuola Media di Dolceacqua

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il video racconto del progetto di arteterapia “Oltre le paure” nato dall’unione delle competenze e creatività di due insegnanti della Scuola Media di Dolceacqua, 9 chilometri da Ventimiglia.

Progetti dal basso come questo, in grado di interagire e mettere in comunicazione tra loro coloro che abitano i territori, costituiscono importanti strumenti per combattere la xenofobia e il dilagare del consenso alle politiche razziste. La loro importanza è inoltre fondamentale in una zona come quella intorno a Ventimiglia, fortemente segnata dalla violenza del confine.

Oltre le paure… si può andare, (se si vuole!)

Alle Medie di Dolceacqua il mondo entra nella scuola e la scuola nel mondo. Come? Vi domanderete! Attraverso l’incontro dei ragazzi con alcuni migranti ospiti del Seminario di Bordighera. Da questa straordinaria esperienza è nato il video Oltre le paure.

Non inganni la breve durata del filmato; la sua realizzazione ha richiesto mesi di lavoro sia a scuola, con ore di riprese, sia da parte del video-maker Diego Diaz Morales, già autore di Una vita, cortometraggio su un richiedente asilo diffuso dalla rivista Internazionale, che ha distillato con un sapiente montaggio il materiale girato.

Tutto è iniziato a novembre quando 4 giovani migranti hanno varcato la soglia della scuola media per incontrare i ragazzi e lavorare insieme sulle paure rappresentandole graficamente, stimolati dall’osservazione dell’Urlo di Munch. Per i migranti, tali paure, si sono dimostrate più legate al rischio di morire o di essere costretti a tornare indietro, per i ragazzi si sono invece rivelate più fondate sulla scarsa conoscenza dell’altro e dei pericoli di cui può essere portatore.

Disegnare le proprie paure senza doverle necessariamente esprimere a parole ha favorito il processo di presa di coscienza e di incontro senza pregiudizi. Ousmanou, camerunense, a tal proposito, ha affermato “Attraverso il disegno abbiamo preso contatto con i ragazzi, ho potuto far capire loro che in Africa ci sono molte ricchezze (Oro, Cacao, Caffè, Uranio ecc) ed il motivo per il quale siamo stati costretti a scappare”. Visto il felice esito dell’esperienza si è pensato di girare un video, non solo per documentare il lavoro fatto ma anche, e soprattutto, per ampliare il processo di sensibilizzazione.

Le paure, che a novembre erano state rappresentate individualmente, sono state condivise su un grande lenzuolo dove sono diventate foglie di un Baobab. Ma ogni paura può essere superata e infatti, grazie alla sagoma di un bellissimo ulivo disegnato da Marius Soffiotti, le paure si sono trasformate in opportunità, in foglie di pace.

Grazie a questo percorso gli studenti hanno potuto capire le dinamiche del fenomeno migrazione, cambiare criticamente opinione sui migranti e scoprire che l’ignoranza e il pregiudizio sono la vera fonte di ogni paura.

Il progetto, nato dalla collaborazione delle insegnanti Monica Di Rocco, arteterapeuta e docente di Arte e Immagine, e Maddalena Vernia, docente di sostegno, ha ricevuto il supporto dei colleghi della scuola e il sostegno di Caritas Intemelia, Arci Imperia e della Diocesi di Ventimiglia Sanremo, che hanno contribuito alle spese.

Immigrazione: degrado sono le strade pulite e l’umanità ridotta a rifiuto

Pensa alla chiave che gira nella toppa, al familiare profumo di casa tua. Al frigo pieno, alla facilità con cui apri un’anta e scegli cosa cucinare questa sera. Al riscaldamento che accidenti se va acceso, l’inverno sta arrivando e ci sono solo 25 gradi, non so se mi spiego.

Pensa alla tua camera. Al mobile con i tuoi libri, ai ricordi, a quegli oggettini inutili che non riesci mai ad abbandonare perchè in un modo o nell’altro raccontano tutta la tua vita. Pensa al tuo armadio, alle ore passate a scegliere quale tonalità di blu si intoni meglio con i tuoi occhi e mi sta meglio il cardigan o quel vestito a tubino che dove cavolo è in mezzo a tutta questa roba?

Pensa al letto morbido che ti accoglie ogni sera, in cui puoi sprofondare nel sonno, al caldo, per poi ricominciare daccapo le tue giornate.

E adesso, se hai bene a mente queste piccole routine quotidiane di cui a malapena ti accorgi perchè nessuno ti ha mai impedito di viverle, immagina di perderle.

Immagina di non avere più niente, nessuna casa, niente abiti, niente cose a cui tenere, nessun oggetto che ti riporti al passato, nessuna traccia che ti possa far sperare di costruire un futuro.

Immagina di avere solo i vestiti che indossi: qualcuno ti donerà una giacca, un paio di calze, indumenti di ottava mano che tanto non potrai tenere, dopotutto dove posso metterli se con me non ho nemmeno uno zaino?, una coperta che in poche ore cambierà colore, imbrattandosi della terra e della spazzatura su cui sei costretto a dormire, sotto un ponte, al freddo.

Immagina che per ogni sguardo traboccante di solidarietà e gentilezza ce ne siano almeno mille di odio e diffidenza, che poi cos’hai fatto per meritare questo disprezzo ancora non lo sai.

Immagina di non avere più la libertà di fare una passeggiata, un’escursione con gli amici, un semplice giro dove vuoi tu. Di essere trattato come un criminale. Sei solo un numero e una provenienza geografica e, soprattutto, un problema.

Non possiedi più niente, nemmeno la tua vita.

Novembre 2017, Ventimiglia: le condizioni di vita dei migranti non sono migliorate, ancora oggi centinaia di persone vivono accampate sul letto del fiume Roja, nonostante le temperature sempre più basse e l’intensificarsi delle piogge. Alimentata dalle dichiarazioni cariche d’odio dei politicanti vari e da un giornalismo d’accatto e irresponsabile, crescono in una parte della cittadinanza italiana l’indifferenza, il cinismo e l’insofferenza verso il “degrado lasciato dai migranti”. Ma cos’è davvero il degrado? E’ nei resti di un accampamento di fortuna, nei pochi averi abbandonati sul ciglio della strada mentre si tenta la salvezza oltre confine, in questa miseria che spinge migliaia di esseri umani a rischiare (e spesso perdere) la vita… Oppure nelle politiche di accoglienza e negli interessi senza scrupoli di pochi, che di umano non hanno nulla? Il degrado non è forse nei cuori e nelle teste di chi tratta una parte di umanità come un rifiuto gettato ai bordi della strada?

parolesulconfine immigrazione e degrado (1)

fotografie: Francesca Ricciardi
vedi anche: le immagini di luglio dal fiume Roja

Sentieri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un intenso contributo, ricevuto da un camminatore solidale che ha percorso i sentieri montani che dalla Liguria portano in Francia. La montagna è meraviglia, sfida, impegno per chi può camminarla liberamente. Ma mostra un altro volto quando ad attraversarla è chi deve conquistarsi la libertà rischiando la vita. Una linea di confine che non si può e non si deve dimenticare. Sfidarla è possibile, come raccontato da questo testo, rifiutando di considerare la libertà un privilegio. Accettando di rischiare la propria, per conquistare insieme l’unica libertà che valga la pena sognare.

Foto di Francesca Ricciardi

Un sacco a pelo blu arrotolato a spirale. Erba gialla tutt’intorno, le pietre grigie del sentiero. Dietro quel sacco a pelo ci sono mille immagini. Mille storie. Basta uno sguardo e ti entrano dentro. Chi l’ha usato, perché. Da dove veniva. L’odore denso di marcio e sudore. L’erba gialla, così gialla in questa giornata di sole. Ma è un attimo. Basta chiudere gli occhi per sentire in bocca il sapore della sua paura. La tensione che sale e un cielo stellato.

Stellato senza luna. Piedi che scivolano sulla terra e un silenzio assoluto. Arrivare di là l’unico obiettivo. Un focus che non riesce ad alleviare una dolce brezza notturna e gli sguardi del suo compagno. Tra le pupille una sola domanda. Ce la faremo? Il termine di un viaggio che termine non è.

E’ solo all’inizio.

Un inizio di frustrazione, di tempi prolungati, di attese infinite. Meno pericoloso del resto del viaggio, di sicuro, ma più subdolo. Più sfiancante. Il cielo stellato senza luna. Non è poi così difficile morire in questa seconda parte di viaggio. Basta il buio. Bastano migliaia di stelle e una scarpata. Sessanta metri di parete verticale. Roccia bianca illuminata dai riflessi della notte. Basta la deviazione sul sentiero sbagliato.

Bastano quelle luci, laggiù. Mentone la parte di un sogno. Eppure è giorno. C’è il sole e tu quella linea la attraversi quante volte vuoi.

Avanti e indietro. Francia Italia e poi ancora Francia. Incontri uomini in divisa da entrambe i lati e il più che fanno è guardarti.

Foto di redazione

Male, può essere, ma solo ti guardano. Qual è la differenza. Il colore. E’ stagione di caccia. Fortini costruiti con i rami. Uomini in mimetica spuntano dal nulla e abbattono stormi di uccelli. Fucilate, scoppi, sflappio di ali e pallini che ti rotolano accanto alle scarpe.

Sopra il saccopelo blu rimbalzando tra le pietre. Non è notte.

E’ giorno e qui tra le montagne di Ventimiglia- Mentone sembra un giorno qualunque. Tra passeggiate della domenica e cacciatori che giocano ai militari tanto per fare sport. Qui non è mai un giorno qualunque.

Cento, mille, diecimila passi su questi sentieri. Sulla terra nuda, sull’erba tra i rovi e i rampicanti. Per la vita, per un sogno per la libertà personale. Senz’acqua senza vestiti adatti, senza aver mangiato e a volte senza scarpe. Perché questo confine è niente. Questo confine non esiste.

Foto di redazione

E’ una linea immaginaria tracciata da menti perverse sulla roccia e sull’erba. Quello che esiste sono soltanto i passi, i piedi. Uno dopo l’altro. Avanti più in su. Oltre il confine, oltre i rami, le pietre, la polvere. Quello che esiste è la montagna e la sua dura via di salvezza. Un passo dopo l’altro col fiato corto e le stelle sul capo.

Nulla può fermare il vento e c’è chi il vento lo aiuta. In un soffio di umanità e di speranza. Segui la stella. Segui il sole. Non ti prenderanno. Forse non lo sai. Siamo con te. Con i tuoi passi che solcano le montagne.

Testimonianza di Tepepa

Foto di redazione

Report 21-22/10/17 – Ferite Infette

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Questa volta siamo arrivati a Ventimiglia a ora di pranzo il 21/10/17.

Avevamo già avuto qualche notizia relativa alla presenza di un gran numero di persone sul fiume (230-240 persone in tutto, circa 50-60 arrivi a notte) da solidali presenti sul campo. Il cambiamento delle rotte ha fatto sì che molte persone provengano ora da paesi diversi dal solito, come la Tunisia. La presenza del centro della croce rossa rende possibile che chiunque in Italia si trovi in una situazione più o meno disperata, pensi di andare a dormire lì per qualche giorno.

Ci avevano anche avvisato che molti sono affetti da scabbia e che diverse persone presentavano ferite infette ai piedi e non avevano nessun accesso ad alcun genere di terapia.

Era per noi anche molto importante verificare se ancora fosse presente l’accesso di fortuna all’acqua potabile installato solo grazie a persone solidali.

Riusciamo ancora una volta a sostenere le spese per il viaggio e per l’acquisto di farmaci d’urgenza grazie all’aiuto dei volontari dell’associazione ambulatorio città aperta e del collettivo genovese AUTAUT.

Giunti alla stazione, vediamo che permane un gran numero di persone all’esterno della stessa, anche donne e bambini. Ci rechiamo al bar di Delia dove in numero delle persone che sono sedute dentro è diminuito, ma persiste un certo via-vai. Richiedono il suo aiuto per caricare la batteria del cellulare o per usare il bagno. La sua ferma disponibilità non cambia, nonostante le molte vicissitudini che ha attraversato da quando la conosciamo. Multe, lutti, malattie. Continua ad essere anche disponibile per aiutarci nel nostro lavoro in diversi modi e interessata a come stiano le persone che visitiamo. Inoltre è evidentemente turbata dall’assenza di un centro per madri e bambini che continuano comunque a passare dal suo locale.

Una ragazza nigeriana da sola, molto giovane, si guarda intorno come se aspettasse qualcuno.

Salutandola e chiedendole come stia ci rendiamo conto che parla italiano e inglese. Dice che si recherà in Francia da suo marito, che andrà in treno. Dopo alcune raccomandazioni, le diciamo che resteremo da quelle parti per due giorni e di contattarci se avesse bisogno di aiuto.

Raggiungiamo il fiume, sul cui greto evidentemente soggiornano molte più persone di quelle presenti quando arriviamo. C’è una distesa quasi continua di coperte. I primi che incontriamo sono un gruppo di sudanesi, alcuni di loro sono stesi e quando ci vedono arrivare ci offrono dei panni per coprirci, poiché dicono che fa molto freddo. Molti sembravano avere delle infezioni delle vie respiratorie, qualche gastroenterite, scabbia. Alcuni hanno camminato per molti giorni con scarpe troppo piccole e hanno degli ascessi delle dita dei piedi.

Un ragazzo dice di avere molto dolore alla schiena da quando ha subito torture in Libia, dove lo hanno bastonato ripetutamente. Ha molte cicatrici lungo la colonna vertebrale.

Un altro ragazzo con una gamba più gonfia dice di avere difficoltà quando cammina. In Libia gli hanno sparato in una coscia e il proiettile è fuoriuscito posteriormente. Visitandolo si sente chiaramente che a quel livello c’è un alterato flusso di sangue, come se dei vasi fossero stati interrotti e si fossero poi ripristinati in maniera anomala. Gli spieghiamo che dovrebbe fare delle visite approfondite e diversi esami diagnostici al più presto per capire cosa è successo. Come tutti vuole partire al più presto, teme anche che avere un documento proveniente dall’Italia potrebbe comportargli dei problemi in futuro, per cui si allontana.

Verso sera raggiungiamo un’altra zona del fiume, dove si trovano giovani ragazzi provenienti dall’Afghanistan. Molti di loro hanno vissuto in Italia e parlano italiano molto bene. Solidali presenti sul territorio ci dicono che temono di uscire dall’area del fiume perché pensano che potrebbero essere portati via dalla polizia. Per questo motivo non si recano nemmeno in ospedale e sono in una situazione peggiore degli altri. Quasi tutti hanno la scabbia e sovra-infezioni batteriche. Noi abbiamo comprato altri antibiotici ma naturalmente non bastano per tutti. Inoltre non basterebbe comunque avere solo gli antibiotici per migliorare realmente la situazione di queste persone e nemmeno per curarle. Lo stato in cui vivono rende praticamente impossibile la guarigione anche per una semplice infezione cutanea. Non possono lavare adeguatamente se stessi o i propri abiti, ne dormono in luoghi idonei o puliti, continuano a lavarsi utilizzando solo l’acqua del fiume. Fortunatamente in qualche modo riescono ad avere accesso all’acqua potabile, nonostante continui ad essergli negata dalle istituzioni.

Quando è già completamente buio, incontriamo due ragazze solidali del collettivo internazionake Kesha Niya che, oltre a portare pasti quotidianamente da Aprile 2017, ora cercano di portare anche un minimo di assistenza alle persone sul fiume data la scarsezza di personale sanitario, solo pulendo le ferite e facendo qualche medicazione. Dicono che hanno dei farmaci provenienti da donazioni, ma che non avendo medici non li usano. Ci scambiamo i contatti poiché potrebbero darli a noi, ma la prossima volta, essendo ormai sera inoltrata.

Andiamo a cercare se sono rimasti altri farmaci all’info-point Eufemia. Gli operatori legali e i solidali sono ancora al lavoro.

Andiamo a riposare da solidali a noi molto vicini.

La mattina dopo andiamo a fare un lungo giro sulla riva del fiume per capire che tipo di persone vi soggiornino e se ci siano donne e bambini.

Incontriamo due giovani sudanesi che parlano molto bene inglese e ci dicono che presto andranno uno in Francia e uno in Inghilterra. Dicono di essere stati accompagnati già da qualcuno per sessanta euro solo fino alla vicina montagna e di essere stati poi lasciati lì con vaghe indicazioni sul percorso. Dicono quindi che la prossima volta pagheranno di più per andare in macchina.

Giunti al parcheggio davanti al cimitero notiamo subito una famiglia con un bambino molto piccolo. Sono Sudanesi appena arrivati da Milano. Il bambino sta per prendere in mano una lametta abbandonata su un muro e il padre per fortuna se ne accorge subito e la butta via. Sembrano aver incontrato persone che li conoscevano e comunque tutti i ragazzi presenti sembrano felici di giocare e di aiutarli col bambino. Il bambino (D.) ha un anno e mezzo e mostra inizialmente un evidente diffidenza nei confronti delle persone bianche.

Esprimono il desiderio di partire al più presto. Non vogliono assolutamente andare al campo della croce rossa, né dormire all’esterno perché sarebbe pericoloso per il bambino. La madre è molto giovane ma anche evidentemente una persona molto brillante. Viaggiando tre settimane in Italia ha già imparato un po’ di Italiano e parla bene inglese. Hanno evidentemente bisogno tutti e tre di vestiti puliti. Li accompagniamo all’info-point Eufemia dove rimarranno molto a parlare con l’operatrice legale. Purtroppo hanno una procedura di asilo iniziata in Italia e la notizia che quasi sicuramente saranno rimandati indietro dalla Francia provoca in loro un grande dispiacere.

Nel frattempo D. ha perso gran parte del suo timore e gioca con qualsiasi cosa sia presente all’ingresso dell’info-point, riuscendo a comunicare con tutti i presenti in maniera straordinariamente efficace.

Amelia Chiara Trombetta e Antonio Curotto

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“Je m’appelle Ahmed. J’ai seize ans…”

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa testimonianza che racconta uno dei tanti incontri e delle tante storie di vita che si incrociano per le strade di Ventimiglia e vengono attraversate e segnate duramente dal dispositivo del confine.
Un racconto che ci viene inviato dal Progetto 20K [1], un progetto messo in piedi nel 2016 da un gruppo di attivisti di Bergamo, che ormai da un anno e mezzo svolge un’intensa e generosa attività nell’area di confine di Ventimiglia, fornendo supporto materiale, informativo, logistico e umano ai migranti in viaggio. Nonostante questa testimonianza fosse già stata pubblicata sulla rivista Pequod [2] e non si tratti quindi di un inedito, ci sembra importante ripubblicarla per darle diffusione. Sono storie che come sassolini nel mare si perdono velocemente nell’oscurità e nella profondità delle acque di una Storia sempre più feroce e concitata ma allo stesso tempo producono sulla superificie una catena di cerchi concentrici in grado di trasformare l’immagine e la nostra idea di società e delle identità culturali che la sostengono.

“Domani ci riprovo!” – Storia di Ahmed

Siamo seduti in tranquillità attorno a un tavolino e Ahmed decide di raccontarci per filo e per segno la sua storia. Viene dal sud della Somalia, e la sua città di origine si trova a una manciata di kilometri da Etiopia e Kenya. La sua famiglia –padre e madre, due sorelle e un fratellino – è ancora lì e sta aspettando che Ahmed riesca a raggiungere il suo obiettivo. Lui è il figlio maggiore, e ha sedici anni. Parla sollevando gli occhi grandi e scandendo le frasi con un inglese tagliente. Indossa il suo nuovo cappellino rosso, quello dei momenti speciali, quello che non metti quando dormi la notte sul pavimento di una stazione in attesa di andare oltre il confine.

Ascoltiamo un flebile sottofondo musicale dal telefono, mentre Ahmed si immerge nei suoi ricordi. Prima andava a scuola in Kenya, poi il confine è stato chiuso e militarizzato, e così gli è stata preclusa la possibilità d’istruirsi. Ha quindi frequentato per due-tre anni una scuola non regolamentare – peraltro non condivisa dalla maggior parte della sua comunità (“ma un giorno i miei amici per strada mi hanno detto: Vieni a lezione, il maestro è bravo, molto bravo!”) – creata da un uomo che pagava personalmente l’affitto delle aule utilizzate per le lezioni.

Le aule scolastiche erano dislocate in diversi punti della città per non essere rintracciate, ma almeno garantivano l’accessibilità allo studio. Questa persona, che credeva fortemente nell’educazione per poter strappare i ragazzi alla guerra, è diventata il suo insegnante: c’erano due classi in base al livello di scolarizzazione di partenza (“piccoli” e “grandi”) e venivano spiegate varie materie (inglese, arabo, matematica, chimica, informatica…).

Ogni tanto Ahmed dava una mano all’insegnante, facendo lezione agli allievi di livello inferiore, nonostante alcuni fossero d’età più grandi di lui.

Da tempo però i terroristi del gruppo jihadista Al-Shabaab minacciavano il professore perché, oltre ad insegnare ai ragazzi discipline “inammissibili” (come ad esempio la lingua Inglese), li strappava al loro addestramento militare. Ad un certo punto l’insegnante ha scelto di condividere con Ahmed le sue preoccupazioni, l’ha messo in guardia rispetto al pericolo che stava correndo, e la situazione è andata avanti così per circa un anno: telefonate minatorie, messaggi di morte, intimidazioni sempre più serie. Come Ahmed ci racconta, la principale difficoltà nella sua cittadina sta nel fatto che i terroristi sono ovunque ma non sono riconoscibili. “Sono parte integrante della popolazione. Capitava che tu stessi parlando con una donna, e questa cadeva uccisa davanti a te senza che si capisse come né da per mano di chi. Spesso c’erano proiettili vaganti e sassaiole improvvise”.

Un giorno il professore ha chiesto ad Ahmed di tenere la classe di livello inferiore, mentre lui sarebbe andato a insegnare in un’altra aula. La sera prima i terroristi l’avevano minacciato al telefono per l’ennesima volta.

Ahmed ha portato a termine ciò che l’insegnante gli aveva chiesto, d’altronde l’aveva già fatto in passato. Questa volta però i terroristi sono entrati nell’aula del professore e l’hanno ucciso a sangue freddo davanti ai suoi allievi. “Sapevo che il prossimo sarei stato io… Ero nel mirino, e sarebbero venuti a prendere anche me”. Ahmed, appena ricevuta la notizia, si è organizzato grazie al pieno supporto di parenti e amici, e nel giro di tre giorni ha raccolto 3000$. E’ scappato dalla sua comunità dirigendosi verso il confine. Ha aggirato un posto di blocco e, dopo aver evitato i soldati, si è trovato in Kenya. Tutto ciò avveniva nel marzo 2016.

“Arrivato in Kenya ho solo dovuto cercare un trafficante che mi avrebbe garantito una serie di passaggi attraverso tutti i confini africani fino all’arrivo in Libia. Ci sono volute poche ore per trovarlo, ho mostrato di avere i soldi e lui mi ha detto che avrei dovuto pagare alla fine del viaggio”.

Ha quindi attraversato l’Uganda come unico passeggero a bordo di un pick-up Toyota.“Ad ogni confine cambiavamo autista e aumentavamo di numero”. Nel Sud-Sudan sono infatti ripartiti in sei, in Sudan si sono aggiunte altre persone e poi si sono diretti verso il deserto del Sahara.

Il viaggio nel deserto è durato otto giorni: erano in 24 e solamente il quarto giorno hanno fatto una vera e propria pausa. “E’ stata molto dura. Faceva caldissimo e solo ogni tanto ci davano un goccio d’acqua da spartirci; a volte ci fermavamo qualche ora a dormire sul ciglio della strada.”

In seguito ad altri cinque giorni di cammino – era ormai maggio – è arrivato in Libia, dove è stato subito portato in una prigione alla periferia di una città non ben specificata. “Mi hanno introdotto insieme a tante e tanti in un corridoio.. Mi hanno detto <<Sei somalo, sono 6000 dollari. Hai i soldi?>> Ho risposto che avevo solo 3000 dollari, ma loro insistevano e io:  <<Non ho 6000 dollari>> e allora mi hanno detto <<Chiedili alla tua famiglia! Abbiamo un uomo di fiducia vicino a loro e potrebbero consegnarci i soldi per salvarti dalle carceri>>. E io ho risposto <<Conosco la mia famiglia, non li hanno. Fai ciò che vuoi, picchiami, uccidimi, ma io né loro abbiamo quei soldi>>. Ci riporta questo discorso agghiacciante con una naturalezza incredibile.

Le condizioni erano durissime e l’acqua davvero poca (“ce ne davano una volta al mattino e una alla sera, perché dicevano che altrimenti pisciavamo troppo e le guardie avrebbero perso tempo a controllarci”). Lì è rimasto per quattro mesi subendo vessazioni continue (“venivano ogni giorno a chiederci i soldi e io ogni giorno gli rispondevo che non li avevo”), finché non è stato rilasciato senza spiegazioni. Ahmed ci spiega che in Libia esistono moltissimi campi per rifugiati controllati dalle diverse milizie armate locali, in base a chi appartiene il controllo territoriale. Lui in un campo di quel tipo ci è rimasto per alcuni mesi, appena uscito dalla prigione. Sicuramente si stava meglio, ma anche qui le guardie minacciavano i rifugiati con le pistole. “C’erano tanta gente, ragazzi, uomini e anche donne incinte o con i bambini piccoli.”

A questo punto ha aspettato che gli dicessero quando partire per attraversare il mare (“<<Tu! Alzati. E’ ora di andare>>. E io, con un fucile puntato addosso, mi sono alzato e sono andato così com’ero.”). Era il mese di novembre.

In circa 200 hanno raggiunto il pontile, per poi aumentare enormemente di numero e arrivare ad essere tra le 600 e le 800 persone. I trafficanti hanno stipato tutti e tre i piani dell’imbarcazione, indicando ai “passeggeri” dove e come sedersi. “Eravamo impacchettati come biscotti in una scatola. Uno perfettamente accanto all’altro, in modo che non ci potessimo muovere. Io ero seduto con le ginocchia tra le braccia. Come biscotti in una scatola.”. Ripete più volte questa metafora, mimando con le mani questo particolare incastro, e ci assicura che sono rimasti tutti nella stessa posizione per più di sei ore. Ahmed era nella zona posteriore della barca, al livello inferiore, in uno dei punti più rischiosi. Racconta dell’inquietudine, delle preghiere sottovoce e dei pianti sommessi. Questo stato di cose è durato fino all’arrivo della squadra di Medici Senza Frontiere, quando sono esplose le grida di gioia, dopo un lungo ed assordante silenzio: “We are safe! We are safe!”. Quando il primo soccorritore è sceso al suo livello, Ahmed ha scoperto dove si trovavano e quale fosse la loro direzione: “Non sapevamo dove fossimo diretti, tantomeno la città. In quel momento ho capito che la meta era l’Italia, e che stavo per arrivare a Trapani”. Il viaggio sulla nave di MSF è durato due giorni e mezzo, durante i quali i migranti hanno ricevuto assistenza medico-legale e supporto psicologico, oltre all’avviso che una volta sbarcati il personale di accoglienza avrebbe inevitabilmente richiesto loro le impronte digitali, in base alla Convenzione di Dublino.

Così è stato: trasferito in una struttura di accoglienza a Trapani, Ahmed ha dato le impronte ed è stato foto-segnalato. Lì è rimasto una sola notte e il giorno seguente è stato portato a Chianciano Terme, nel senese. Ha scoperto di avere la scabbia sulle mani e, dopo essere stato visitato da un medico, gli è stato somministrato un trattamento consistente soprattutto in creme e pomate.

Una volta guarito è stato inserito in una comunità, ma dopo due settimane ha ricominciato il suo viaggio: dopo varie peripezie è arrivato a Ventimiglia. Dice di avere un amico in Francia, non sa precisamente dove perché non sono più in contatto, e spera di ritrovarlo, presto o tardi che sia “Per me arrivare in Francia è importante. Avete sentito del sistema educativo che danno ai ragazzi rifugiati? Me ne hanno parlato molto bene. […] Il lavoro dei miei sogni è fare l’informatico.. o il programmatore.. oppure l’ingegnere informatico, insomma, qualsiasi cosa riguardi la tecnologia!”.

Da quando si trova qui, Ahmed ha cercato di passare la frontiera per ben due volte: è minorenne e sarebbe suo diritto chiedere protezione umanitaria in Francia. Non sono di quest’opinione i poliziotti francesi, che la seconda volta l’hanno rimandato indietro addirittura con un decreto di espulsione infarcito di dati falsi. “Hanno scritto un nome diverso dal mio, io insistevo dicendo loro che non erano quelle le mie generalità ma non hanno voluto sentire ragioni e mi hanno rispedito a Ventimiglia. Uno dei poliziotti mi ha detto che se mi avesse rivisto, che se anche solo ci avessi riprovato, mi avrebbe gonfiato di botte. Un altro invece mi ha suggerito a bassa voce come provare a farcela”. Dorme alla stazione, quando lo incontriamo per la prima volta. Gli lasciamo qualche coperta e il nostro contatto telefonico, con la promessa di risentirci.

Ragazzi migranti dormono in stazione a Ventimiglia. Foto di redazione

 

Il giorno dopo ci vediamo lungo la spiaggia, fa piuttosto caldo per essere dicembre inoltrato.

Parliamo della sua storia, di come è appassionato di informatica e di lingue (infatti ne parla sette in maniera fluida). Mangiamo assieme e scherziamo un po’ lanciando sassolini in acqua. Ahmed è convinto, vuole tentare nuovamente di varcare la frontiera. Scriviamo con lui qualche riga in francese: “Je m’appelle Ahmed. J’ai seize ans et j’ai le droit de demander asile en France”: benché probabilmente inutile, almeno potrà mostrare qualcosa di cartaceo la prossima volta che proveranno a fermare lui e il suo desiderio di attraversare una linea immaginaria.

Decidiamo di farlo restare da noi perché si rimetta in forze, prepariamo un super risotto e ridiamo, cantiamo. Ci rilassiamo un po’ in modo che possa affrontare tranquillo il viaggio che vuole intraprendere il giorno dopo. Gli spieghiamo che la tratta verso Parigi è parecchio rischiosa: con lo sgombero della “Jungle” di Calais migliaia di migranti si sono riversati per le strade della capitale e la repressione è altissima. E’ proprio quella tratta che vuole tentare. “Il poliziotto francese mi ha detto nell’orecchio: Prendi un autobus! ed è quello che farò. Ho un paio di contatti, posso farmi venire a prendere alla stazione”. Acquistiamo quindi un biglietto del pullman, visto che ad Ahmed sono rimasti in tasca solo 20€.

Controlli in frontiera. Foto di redazione

Al momento di partire sembra raggiante con il suo cappellino rosso in testa, lascia in casa tutte le cose che potrebbero appesantirlo durante il viaggio e riparte. Aspettiamo trepidanti che ci faccia sapere qualcosa. Ci chiama alla sera, dopo molte ore, ma purtroppo non si tratta di buone notizie. Anche questa volta non ce l’ha fatta: a Nizza, lungo l’autostrada, c’era un posto di blocco ed è stato scoperto subito. Ha mostrato il foglietto in francese ai poliziotti ma non è stato minimamente considerato e l’hanno rispedito di nuovo a Ventimiglia. Quando ci telefona è alla stazione, e dandogli indicazioni al cellulare riusciamo ad indirizzarlo verso un posto accogliente: anche per questa notte non dormirà all’addiaccio, ma è stanco di aspettare e afferma sicuro:

“Domani ci riprovo!”.

[Al quarto tentativo Ahmed è finalmente riuscito nel suo intento: ora si trova in una città della Francia, dove ha avviato le pratiche per fare richiesta di asilo politico. Ha raggiunto il suo obiettivo, e ora sta cercando di rintracciare il suo amico, mentre stringe nuove relazioni. Di storie simili alla sua ne abbiamo sentite a decine, e tutte hanno in comune ricordi grotteschi, dinamiche coercitive, situazioni rischiose dalle quali allontanarsi il più in fretta possibile. Non possiamo che augurarti il meglio, Ahmed, convinti che condividere con te una piccola parte del viaggio sia stata un’importante occasione di crescita personale e collettiva. Buona strada!]

 

I/le solidali di Progetto20k

Dicembre 2016

 

[1] Sul Progetto20K rimandiamo alle informazioni presenti sulla loro pagina facebook https://www.facebook.com/pg/progetto20k/about/?ref=page_internal e all’intervista ad uno dei suoi fondatori qui: http://www.pequodrivista.com/2017/02/13/progetto-20k-diritto-alla-solidarieta/

[2] http://www.pequodrivista.com/2017/02/09/domani-ci-riprovo-la-storia-di-ahmed/

CasaPound Not Welcome. I fascisti scortati a Ventimiglia

Ventimiglia, sabato 14 ottobre 2017. Casapound installa un gazebo informativo in Via Roma per “presentare il movimento e parlare di immigrazione”(1).
Un gruppo di donne e uomini europei ha provato ad avvicinarsi con striscioni e strumenti musicali.
Immediatamente bloccati dai poliziotti che presidiavano il gazebo, sono stati identificati, trasferiti alla stazione di polizia e tenuti in stato di fermo per 5 ore senza che fosse fornito loro un interprete né tradotto il contenuto dei documenti che gli è stato chiesto di firmare.
Di seguito la testimonianza di una delle donne presenti. Al più presto seguirà anche un video.

Alle 2.45 circa nove di noi sono arrivati con alcuni cartelli e strumenti musicali. I militanti di Casapound era ancora alle prese con il montaggio del gazebo e c’erano più di una decina di poliziotti nella loro tenuta migliore.

Abbiamo aspettato che si sistemassero poi alcuni di noi sono andati a fare delle domande a quelli di Casapound. I poliziotti si sono mostrati subito insospettiti.

Quando abbiamo iniziato a muoverci per andare tutti insieme, i poliziotti ci hanno subito fermato, ci hanno confiscato gli striscioni e ci hanno chiesto i documenti.

Nonostante ci avessero preso gli striscioni e ci fosse impossibile manifestare, ci è stato detto ripetutamente “siete solo in cerca di guai”, “dovete parlare in Italiano perché siete in Italia” e che stavamo resistendo all’arresto (l’accusa era di aver manifestato illegalmente, cosa che in realtà non siamo riusciti a fare).

Tutti tranne me hanno consegnato i propri documenti (quello che li ha chiesti a me era clandestino (2) e non voleva mostrarmi i suoi prima). Per tutto il tempo ho detto ad alta voce in Italiano e Inglese che avevamo diritto di parlare e che stavano bloccando il nostro diritto alla libertà di parola mentre proteggevano i fascisti. Abbiamo anche cantato “ siamo tutti antifascisti” accompagnati da tamburo.

Sia quelli di Casapound che i poliziotti ci filmavano così io ed un’altra persona abbiamo tirato fuori i nostri telefoni per fare altrettanto. La polizia ci ha vietato di filmare (3) è ha cercato di prenderci i telefoni (non ci sono riusciti). Nel frattempo Marc ha cercato di uscire in modo nonviolento dal cerchio di poliziotti che si era chiuso intorno a noi, gli anno torto il polso dietro la schiena e lo hanno spinto nell’androne della banca, lontano dalla vista del pubblico, poi contro un muro e infine in una macchina della polizia.

Dopo hanno preso Elle, nonostante avesse seguito le loro istruzioni e non avesse fatto nulla di male. Ho cercato di afferrarla ma poco dopo venivo spinta anch’io in una macchina. Avevo gli strumenti sulla schiena e intorno al collo, all’inizio hanno cercato stupidamente di strapparli via, ma essendo ben fissati non ci sono riusciti e alla fine hanno dovuto farmi uscire di nuovo dalla macchia per togliermeli.
Sulla stessa macchina c’era anche Michelle. La macchina della polizia con la quale hanno portata via Elle è partita ad alta velocità per la stazione di polizia che si trova a un chilometro e mezzo e ha fatto un’incidente con un’altra vettura.
Una volta alla stazione le donne sono state separate dagli uomini. Le donne sono state sottoposte a perquisizione personale. Ci hanno preso le impronte digitali, ci hanno fotografato e hanno preso tutti i nostri effetti personali.
Due tedeschi sono stati accusati di essere nazisti durante la perquisizione. Si sono sentiti chiedere se “gli piace gasare le persone”, atti immotivati di aggressione e violenza.

Abbiamo atteso cinque ore mentre loro non facevano nulla (letteralmente nulla, dove potevamo vederli). Quando alla fine ci hanno dato i fogli da firmare non ci hanno fornito un vero traduttore, solo un tizio della Croce Rossa che appariva molto confuso e non sapeva parlare né Inglese né Italiano. Il mio italiano era meglio del suo, walla.

Alla fine abbiamo firmato tutti anche se sapevamo che erano solo cavolate.

Hanno cercato di far firmare a Vincent un foglio solo in Italiano con accuse di traffico di persone risalenti a giugno senza spiegargli nulla del suo contenuto, per fortuna è stato sufficientemente intelligente da non firmare.

Hanno separato i francesi fra noi da tutti gli altri e hanno detto che la polizia doveva scortarli al confine. Sono stati scortati da una macchina della polizia fino a Mentone.

Poi ci hanno rilasciato restituendoci le nostre cose e senza più conferire parola.

Sembra che, a un certo punto, potremmo ricevere posta da un tribunale.

Secondo i giornali italiani siamo lo staff di una cucina “no border”.

Testo originale:

9 of us with some banners and musical instruments arrived around 2.45 p.m. Casapound was still struggling to put up their gazebo and there were many police in their finest costumes, maybe 10 or 15.
We waited until they were set up then a few of us went to ask Casapound some questions. Already i poliziotti were suspicious of them.In the end we all started to move together.

I poliziotti stopped us subito before we could do anything, and they confiscated our banners and demanded documents. Even after they had taken our banners and there was no way we could “manifest” in any case, they told us repeatedly just to shut up, that we were “just looking for trouble”, that we “need to speak Italian because we’re in Italy” and that we were resisting arrest (based on ‘illegal manifestation’ which we never accomplished in the first place.)

Everyone except me gave documents (because the one asking for mine was clandestino and wouldn’t show me his documents first). This whole time I was screaming in Italian and English that we had the right to speak and that they were blocking our right to speak freely while protecting fascists, and we were also chanting ‘siamo tutti antifascisti’ with the drum.

Both people from Casapound and poliziotti were filming us so I and another took out our phones to film, but the police told us we weren’ t allowed to film police and tried to take our phones (they did not succeed). Meanwhile, one of us Marc tried to nonviolently walk out of a circle of cops and they twisted his wrist behind his back and dragged him into a bank, out of sight of the public, and shoved him against a wall, then put him in a police car. After they took Elle (though she complied completely and did nothing wrong). I tried to grab but soon they were also shoving me into a car (with instruments on my back and around my neck which they stupidly tried to tear off me even though they were strapped to me so in the end they had to take me back out of the car to take them off, cretini). In my car was also Michelle.

In the car Elle was taken they smashed another car speeding to the station that was a kilometer and a half away. Once there the women and men were separated, strip searched the women, our finger prints and pictures were taken along with all our possessions. Two of our German comrades during the perquisizione were accused of being nazis and asked if they “like to gas people”, unmotivated acts of aggression to illicit violence.
We were there waiting for about five hours while they did nothing (literally, where we could see them.) When they finally gave us the papers to sign, they provided no real translator, just some guy from Red cross who seemed very confused and could not speak English nor italian. My italian was better than his.

We all signed in the end, even though we all knew it was bullshit.

They tried to get Vincent to sign a paper on smuggling charges from June (which he was clever enough not to sign even though of course they explained nothing of what the papers said.)

They separated the French from everyone else and said the police had to escort them to the border. We tried to convince our french not to comply with this but they were just told it was the procedure, wouldn’t say anything about what the procedure was for foreigners, and we just told to “shut up if they can’t speak italian” they did it anyway and drove to Menton with poliziotti following. Then they released us and returned our stuff without another word.

Apparently we will receive some post about a tribunale at some point.

According to local newspaper we are of “no borders” kitchen.

 

1 http://www.sanremonews.it/2017/10/12/leggi-notizia/argomenti/politica-1/articolo/ventimiglia-sabato-pomeriggio-gazebo-di-casapound-in-via-roma-presenteremo-il-movimento-e-parle.html
2 Ndr si trattava di un poliziotto in borghese. I diritti nel caso di controllo documenti,
identificazione e fermo di accompagnamento (ART. 11 L. 191/1978 E ART. 349 C.P.P.) “Nel caso in cui tu sia fermato da un ufficiale-agente in borghese: hai diritto a chiedergli di identificarsi ovvero a chiedere il corpo di appartenenza e a mostrare il tesserino di riconoscimento.Qualora l’ufficiale-agente in borghese si rifiuti a dare le sue generalità in modo corretto: non sei tenuto a eseguire i suoi ordini.”  Know Your Rights, breve guida ai tuoi diritti di fronte alle forze di polizia. Associazione Antigone http://www.associazioneantigone.it/news/antigone-news/3051-know-your-rights-breve-guida-ai-tuoi-diritti-davanti-alle-forze-di-polizia
3 https://www.laleggepertutti.it/48722_e-lecito-fotografare-o-filmare-la-polizia-e-gli-altri-pubblici-ufficiali

Verso la militarizzazione del Mediterraneo

Dalla “securizzazione” delle città come Ventimiglia, allo spiegamento di forze militari in mare. Italia, UE e Nato affrontano con mezzi militari “la crisi dei rifugiati”, prendendo il controllo del Mediterraneo.

 

Fonte: Sito web Parlamento del Regno Unito, Rapporto su Operation Sophia del maggio 2016 https://publications.parliament.uk/pa/ld201516/ldselect/ldeucom/144/14407.html

Il 28 luglio 2017, con delibera del Consiglio dei ministri, il governo italiano ha dato il via ad una nuova missione militare nel sud del Mediterraneo, questa volta all’interno delle acque territoriali libiche.

L’Italia è infatti già militarmente presente nel Mediterraneo. E’ alla guida dell’operazione europea EUNAVFOR MED dal 2015, partecipa alla missione Nato Operation Sea Guardian dal 2011 (prima con il nome di Operation Active Endeavour) ed è attualmente impegnata nelle operazioni Frontex Triton, Poseidon (mar Egeo) e Indalo.

La nuova missione, che si basa su di un accordo tra il primo ministro italiano Gentiloni e Fayez al Sarraj, premier del Governo di Accordo Nazionale (GNA), voluto dalle Nazioni Unite, consente alle navi italiane di entrare nelle acque territoriali libiche. Il fatto che Al Serraj, dopo aver smentito che accordi prevedessero tanto (2) , sia stato contraddetto dal suo stesso ministro degli esteri (3) e infine superato dal generale Haftar che il 2 agosto ha ordinato alla guardia costiera di attaccare qualsiasi nave militare entrasse nelle acque nazionali senza l’autorizzazione dell’esercito (4) , è solo un indizio di quello che è già stato denominato “il pantano libico”.

Il governo di Al Serraj, con sede a Tripoli, controlla solo un terzo del territorio libico, l’altro governo, con sede a Tobruk sostiene il generale Khalifa Haftar, capo del Esercito Nazionale Libico (LNA) che controlla la Libia orientale. Oltre ai governi di Tripoli e Tobruk sul territorio libico operano Daesh, le milizie islamiche, Fajr, la Brigata Battar, gli Islamici di Ansar al Sharia, gli uomini del Consiglio rivoluzionario, Ali Qiem Al Garga’i, emissari di al-Baghdadi, i Fratelli musulmani di Al Sahib, gli ex membri del Gruppo combattente libico pro al Qaeda, Omar al Hassi, i mujaheddin del Wilayat Trabulus, le milizie di Zintan, 200 altre organizzazioni e oltre un centinaio tribù.(5)

Fonte: Al Jazeera English

Gli obbiettivi della missione navale e le similitudini con EUNAVFOR MED

“La missione ha l’obiettivo di fornire supporto per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani, con compiti che si aggiungono a quelli già svolti per la sorveglianza e la sicurezza nell’area del Mediterraneo centrale” (6), è quanto si legge nel Comunicato stampa relativo alla riunione del Consiglio dei ministri del 28 luglio.

L’obiettivo risulta molto simile al principale mandato di EUNAVFOR MED, alias Operation Sophia, la missione navale europea a guida italiana attiva nel Sud del Mediterraneo dal 22 giugno 2015. Questo consiste infatti nell’ “intraprendere sforzi sistematici per identificare, acquisire e disporre delle imbarcazioni e dei mezzi utilizzati, o sospettati di esserlo, dai contrabbandieri o trafficanti di migranti, al fine di contribuire ai più ampi sforzi dell’UE per interrompere il modello di business delle reti di contrabbando e tratta di esseri umani nell’area centro-meridionale del Mediterraneo e prevenire l’ulteriore perdita di vite umane in mare.” (7)

Secondo diverse analisi (8) tuttavia EUNAVFOR MED non si è neppure avvicinata al suo obiettivo e questo nonostante dal settembre 2016 sia impegnata anche in operazioni all’interno delle acque territoriali libiche per l’addestramento di Guardia costiera e marina militare.

Due diversi report del parlamento del Regno Unito, che partecipa alla missione. hanno messo in luce le criticità legate all’operazione militare. Nel resoconto del maggio 2016 si legge “gli arresti effettuati riguardano target di basso livello e la distruzione delle imbarcazioni ha semplicemente spinto i trafficanti a utilizzare canotti di gomma, che sono ancora più insicuri delle imbarcazioni di legno.” (9) A questo proposito vale la pena notare come l’adozione di imbarcazioni meno sicure da parte dei trafficanti sia stata addebitata in Italia al “pull factor” (fattore di attrazione) che avrebbero costituito le operazioni di ricerca e soccorso effettuate da diverse ONG nel Mediterraneo (10).

Il nuovo report del 12 luglio 2017 infine definisce Operation Sophia una missione fallita e individua tra le cause la mancanza di un governo unificato con cui contrastare il traffico di essere umani che avviene in territorio libico (11) . Secondo il resoconto la missione non dovrebbe essere rinnovata dal momento che “il traffico comincia sulla terra ferma, una missione navale rappresenta quindi lo strumento sbagliato per affrontare questo business pericoloso, inumano e senza scrupoli. Nel momento in cui le navi iniziano la navigazione è troppo tardi.” Sono infatti ormai anni che i trafficanti non si trovano più a bordo delle imbarcazioni che trasportano i migranti e nessuno dei punti di partenza delle stesse, Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzue, Tagiura e Tarabuli, si trova sotto il controllo del governo di Serraj (12).

Anche la marina militare libica ha mosso pesanti accuse alla missione europea. Nel maggio 2016 il suo portavoce Ayoub Qasim, ha dichiarato che essa non aveva ancora aiutato la guardia costiera libica nel controllo delle acque territoriali, denunciandone anche la passività nei casi di traffico di petrolio da parte di imbarcazioni che poi facevano rotta verso l’Europa (13). Nell’agosto dello stesso anno, Qasim ha poi accusato Operation Sophia di essere mera propaganda e di consentire il traffico di carburante e delle altre risorse libiche, oltre a non fermare i trafficanti (14).

Nonostante questo il 25 luglio 2017 il Consiglio Europeo ha esteso il mandato di EUNAVFOR MED al 31 dicembre 2018.

Sia la missione europea che quella italiana condividono l’obbiettivo del contrasto al traffico di esseri umani, così come le scarse possibilità di realizzarlo. Entrambe scaturiscono inoltre dall’approccio che sta andando per la maggiore tra i governi europei: la migrazione è una minaccia alla sicurezza e va affrontata con mezzi militari  (15).

A livello dei singoli stati, questa politica si è concretizzata in muri, blocchi delle frontiere, militarizzazione delle città e trasferimenti coatti, mentre a livello sovranazionale si è tradotta nel rafforzamento delle operazioni di Frontex, con l’aumento delle risorse finanziarie e l’estensione della loro area d’intervento (16), e nell’istituzione della missione navale europea EUNAVFOR MED.

Perfettamente coerente con questa logica risulta anche la criminalizzazione delle ONG impegnate in azioni di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo (17), che hanno svolto nel 2017, il 35% delle azioni di soccorso in mare. L’imposizione del codice di condotta, volto a limitarne l’operatività, è stato infatti imposto indiscriminatamente a tutte le organizzazioni, nonostante la maggioranza di esse non destasse sospetti riguardo a contatti con i trafficanti o all’ingresso nelle acque libiche.

Il contrasto dell’immigrazione illegale, che la missione navale italiana antepone al traffico di essere umani, ha come unico target realizzabile i migranti stessi. Per quanto cerchi di trovare legittimazione nel nobile scopo di salvare vite umane dalla morte in mare, appare sorda e cieca se quelle stesse vite si perdono in centri di detenzione in Libia, lontano dagli occhi di testimoni diretti e miopi giornalisti nostrani.

L’area coperta dalle missioni militari a cui si aggiunge quella italiana e l’interdizione de facto all’ingresso delle organizzazione non governative nelle zone limitrofe alle acque territoriali libiche, delinea uno scenario, o meglio un teatro delle operazioni, esclusivamente militare in cui, se si escludono i mercantili di passaggio, gli unici civili sono i migranti.

Ma nel Mar Mediterraneo, ufficialmente, non c’è nessuna guerra.

Grage

 

 

1 http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/07/28/cdm-vara-missione-italiana-in-libia-navi-aerei-700-militari-_82cfdb5f-f546-4cd0-91f1-315fcee5b703.html
2 http://www.corriere.it/politica/17_luglio_28/missione-libia-maggioranza-variabile-si-fi-dubbi-mdp-b6dbdb68-7304-11e7-be4a-3ab7f672a608.shtml
3 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-28/si-cdm-missione-libia-gentiloni-e-supporto-non-enorme-invio-flotte-e-aerei–131931.shtml?uuid=AEWZOK5B
4 http://www.bbc.com/news/world-africa-40812304
5 http://www.huffingtonpost.it/2017/07/28/tutti-i-rischi-delle-navi-italiane-nel-pantano-libico_a_23054388/
6 Comunicato stampa del Consiglio dei ministri n°40 del 28/07/2017 http://www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-40/7891
7 https://eeas.europa.eu/csdp-missions-operations/eunavfor-med/36/about-eunavfor-med-operation-sophia_en
8 Centre for European Political Studies: https://www.ceps.eu/system/files/Thrust%20to%20CSDP%20S%20Blockmans%20CEPS%20Special%20Report.pdf
State Watch: http://www.statewatch.org/analyses/no-302-operation-sophia-deterrent-effect.pdf
9 https://publications.parliament.uk/pa/ld201516/ldselect/ldeucom
/144/14402.htm
10 http://www.valigiablu.it/ong-migranti-trafficanti-inchieste/
11 https://www.parliament.uk/business/committees/committees-a-z/lords-select/eu-external-affairs-subcommittee/news-parliament-2017/operation-sophia-follow-up-publication/
12 http://www.huffingtonpost.it/2017/07/28/tutti-i-rischi-delle-navi-italiane-nel-pantano-libico_a_23054388/
13 http://www.libyanexpress.com/libyan-navy-force-eu-naval-mission-looks-away-from-oil-smuggling-ships/
14 http://www.libyaobserver.ly/news/navy-spokesman-operation-sophia-propaganda-italy-wants-have-more-time-continue-stealing-libya%E2%80%99s
15 https://www.iss.europa.eu/content/operation-sophia-tackling-refugee-crisis-military-means
16 http://europa.eu/rapid/press-release_IP-15-4813_en.htm
17 http://www.a-dif.org/2017/03/09/perche-danno-fastidio-le-ong-che-salvano-i-migranti-in-mare/

Da Ventimiglia a Calais: notizie dall’Europa dei confini

 

Pubblichiamo due articoli, tradotti in italiano, dal blog Passeurs d’Hospitalité [1] , in testimonianza dell’attacco ai diritti fondamentali in atto a Calais. Come a Ventimiglia da parte delle istituzioni italiane, nella zona di confine di Calais lo Stato francese adotta misure per impedire l’accesso all’acqua, ai servizi igienici e a qualsiasi forma di supporto ai/alle migranti. Il primo articolo contiene una petizione promossa da un gruppo di abitanti della cittadina sulla Manica, fortemente polemici nei confronti delle posizioni espresse dalla municipalità; il secondo testimonia delle trasformazioni dei dispositivi di “accoglienza” e di controllo delle persone migranti  in Francia.

 

“Noi, abitanti di Calais, non ci riconosciamo in questa retorica del rifiuto”

(dal Blog Passeurs d’Hospitalité, pubblicato lunedì 24 luglio 2017)

A partire dall’autunno 2016, momento dell’evacuazione della più grande bidonville d’Europa, Calais ha assistito al ritorno di centinaia di persone desiderose, per la maggior parte, di andare in Inghilterra. Bambini, donne e uomini che si trovano in una situazione di precarietà estrema. Quotidianamente braccate/i dalle forze dell’ordine, non hanno accesso ai loro diritti.

Il Difensore dei Diritti ne ha preso atto e, il 14 giugno scorso, con un comunicato ha denunciato “attacchi ai diritti fondamentali” delle persone migranti “di una gravità eccezionale ed inedita” nel litorale Nord Pas-de-Calais.

Il 16 giugno, delle persone esiliate e delle associazioni, stanche di non ricevere dallo Stato alcuna risposta ai loro appelli, hanno interpellato il tribunale amministrativo chiedendo di imporre allo Stato stesso di apprestare dei dispositivi che permettano agli/alle esiliati/e di accedere ai diritti fondamentali. Un’udienza, alla quale ha assistito la sindaca di Calais, si è tenuta al TA di Lille il 21 giugno.

Il 26 giugno, il tribunale ha ordinato la messa in opera di dispositivi quali l’accesso a dei punti d’acqua, docce e latrine, a delle unità di strada per le/i minori, e la sospensione delle misure intralcianti il lavoro delle associazioni (violenze poliziesche, controllo dei volontari). La sindaca di Calais, sostenuta dalla maggioranza del consiglio municipale, ha risposto il giorno stesso annunciando che, per lei, le esigenze formulate erano inaccettabili. Il Comune di Calais e la Prefettura, il 6 luglio 2017 hanno presentato un appello al Consiglio di Stato.

Delle/i cittadine/i di Calais hanno deciso di rispondere…

“Siamo abitanti di Calais, siamo indignati/e dalle dichiarazioni della Signora Bouchart, che pretende di parlare a nome di tutti/e gli/le abitanti di Calais. La sua retorica non è intrisa d’altro che disprezzo per l’umano. Noi non ci riconosciamo in questa retorica di separazione e rifiuto.

Mercoledì 21 giugno, anche alcuni/e di noi erano presenti all’udienza del Tribunale amministrativo, per testimoniare dei traumatismi ricorrenti subiti dalle persone in esilio nella nostra città.

Non accettiamo di vedere queste persone, che hanno fuggito la guerra o la misera, in una tale situazione indegna di precarietà e maltrattamento. Abbiamo un cuore e una coscienza. Non accettiamo che dormano per strada, nei boschi. Vogliamo che questa caccia all’Uomo termini. Vogliamo che queste persone possano essere informate dei loro diritti, che chi lo desidera possa essere preso in carico, possa passare legalmente la Manica, allorché questo sia il loro obiettivo, o possa chiedere l’asilo. Vogliamo che l’articolo 13 della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e i diritti fondamentali siano rispettati.

Pensiamo agli/alle abitanti che devono, anche loro, subire la violenza delle politiche di non-accoglienza messe in pratica negli ultimi 20 anni, e che obbligano migliaia di persone a sopportare l’insopportabile e gli/le abitanti di Calais a esserne testimoni.

Invocando il traumatismo vissuto dagli/dalle abitanti di Calais e l’economia in difficoltà, Natacha Bouchart punta il dito sui danni che essa stessa ha causato, scegliendo una politica non ospitale.

La causa reale del declino dell’economia e dell’immaginario negativo che condizionano Calais, è la disinformazione: Calais non è in guerra, malgrado quel che la municipalità, il governo e certi media provano a farvi credere.

La Giustizia ha deciso che lo Stato e il Comune debbano mettere in campo misure minime per gli/le esiliati/e presenti nella zona di Calais: dei punti d’acqua, l’accesso alle docce, a dei servizi igienici. Ha chiesto alle autorità di non ostacolare il lavoro delle associazioni. Adesso, la Signora Bouchart afferma che non rispetterà questa decisione, che giudica “inaccettabile”! Che bell’esempio dato ai/alle cittadini/e di Calais e d’altrove!

Quel che è inaccettabile, è la violenza creata da questa frontiera, le barriere e il filo spinato, l’onnipresenza poliziesca.

Pensiamo anche ai morti, troppo numerosi, e agli incidenti, compresi tutti quelli provocati dalla chiusura della frontiera sulla tangenziale autostradale.

La Signora Bouchart lo sa, Calais rappresenta un luogo strategico, data la sua posizione geografica. Calais sarà sempre un punto di passaggio, nessuno può spostarla. Questo significa che le persone che vogliono andare in Inghilterra, con o senza documenti che siano, arriveranno sempre a Calais, ignorarlo è un non-sens.

Chiediamo che il diritto alla libertà di circolazione per tutti e tutte, garantito dall’articolo 13 della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, sia finalmente applicato.

Vogliamo che il governo e la municipalità trovino delle soluzioni, affinché Calais non sia più un’impasse, per eliminare quelle reti che deturpano la città, per smettere di spendere invano centinaia di milioni di Euro in forze di polizia, barriere, telecamere, riflettori, droni, elicotteri, vigili, reti, per consacrarli, invece, all’accoglienza e alle spese utili alla città di Calais e ai/alle suoi/e cittadini/e.”

 

Verso un’accelerazione dello “smistamento” delle persone

(dal Blog Passeurs d’Hospitalité, pubblicato venerdì 1 settembre 2017)

Il sole è tornato. Asciuga gli indumenti fradici, quelli che non sono stati gettati dalla ruspa municipale mercoledì 31 Agosto, al momento dell’operazione sotto il ponte Mollien. La sera stessa, alcuni esiliati erano già tornati dal luogo dove erano stati condotti: una destinazione a loro sconosciuta, a 2 ore da Calais. Dicono: “non è una città, è un luogo in mezzo al niente”.

In effetti si tratta di un CAES: un Centro d’Accoglienza e Studio delle Situazioni amministrative, alla periferia di Bailleul o di Belval. Questo nuovo dispositivo di Stato costituisce una prima tappa nello “smistamento”degli esiliati con esame accelerato della loro situazione amministrativa. Un soggiorno dalla durata limitata, prima di un trasferimento verso un CAO o un PRAHDA. Lo Stato non è chiaro sui motivi che condizionano l’attribuzione negli uni o negli altri.

Attorno ai CAO esistevano già delle mobilitazioni. Attorno ai PRAHDA si stanno formando numerose inquietudini: dei centri semi-aperti destinati ai dublinati che potrebbero esservi assegnati in residenza con controllo coatto degli spostamenti, facilitando così i rinvii verso altri paesi europei o verso i loro paesi d’origine. [2]

In continuità con il presidente Macron, il Prefetto di Calais ha annunciato venerdì 25 agosto che non ci saranno più esiliati per strada quest’inverno. A settembre, lo Stato sembra pronto a sfoderare qualche sorpresa.

Ci si può quindi aspettare un’accelerazione delle retate e delle procedure di “smistamento”.

E pensare che agli esiliati catturati durante le retate era stata offerta la scelta tra i CAES e il centro di detenzione. L’altro ieri sera, erano almeno una decina ad aver lasciato il dispositivo, per tornare a dormire per strada, senza neanche un sacco a pelo, essendogli stati confiscati dalla polizia.

Sembra chiaro che non sia la prospettiva di depositare una domanda d’asilo in Francia che motiva i nostri viaggiatori, ma piuttosto il fatto di poter prendere una doccia a #Calais. #Douchespourtous #appeldair

[1] https://passeursdhospitalites.wordpress.com/

[2] Per approfondire riguardo ai CAO e ai PRAHDA, diverse forme di centri di transito e accoglienza per persone migranti in Francia, si vedano questi due articoli rispettivamente dal blog Passeurs d’hospitalites e dal sito La Cimade:

https://passeursdhospitalites.wordpress.com/2016/11/26/des-cao-au-prahda/ ; http://www.lacimade.org/dublin-vers-un-durcissement/

Poesie dal confine: coriandoli di mondo

 

Poesie dal confine: coriandoli di mondo

Riceviamo da un lettore e volentieri pubblichiamo.

 

Coriandoli di mondo

Come pastore in transumanza
scollino su un ennesimo sentiero
nella mano destra un sacchetto di nostalgia
nella sinistra il coraggio
ben stretto dentro il pugno

Ho imparato a temere il mare
la sua bellezza la lascio allo sguardo dei pescatori
alle sfumature dell’acquamarina
all’ossido sui vostri passamano

Scivolando verso i lussureggianti giardini di Mentone
mi imbatto in scogli affioranti
scogli di plexiglas e manganelli

Rinchiuso e respinto.
Barca alla deriva
torturata dalla risacca
stuprata dal maestrale
soffocata d’olio di ricino

Rigettato a sud.
Rifiuto tossico
pronto ad essere interrato dal caporalato
più a Sud della terra dei fuochi
al riparo dagli occhi dell’italica brava gente

Ritornerò
ritorneremo
come il poeta aspetta la sua musa
noi aspetteremo la prossima fase lunare
saliremo con l’alta marea

Nuoterete nelle nostre anime
vi specchierete nelle nostre coscienze
ci asciugheremo lacrime a vicenda.

Quando la marea cesserà d’abbracciarci
resteremo soltanto noi
coriandoli di mondo
ballerini di carta innamorati del vento

 

Alessandro Fanari

I treni del razzismo

Proponiamo la testimonianza di un episodio di razzismo recentemente avvenuto nella zona di confine tra il ponente ligure e la Francia del sud. Il fatto, non certo episodico ma purtroppo assai comune, descrive il dispositivo di filtraggio su base razziale messo in opera nella definizione di questa nuova zona di frontiera interna all’Europa [1]. Sempre più spesso veniamo a conoscenza di episodi simili che si consumano sui treni [2]. Non si tratta di coincidenze. Colpire la libertà e l’uguaglianza del diritto alla mobilità ha un significato ben preciso: stabilisce un confine netto tra chi ha diritto di viaggiare – cioè di conoscere, sperimentare, cambiare, sognare, incontrare, cercare il nuovo, scappare, tornare – e chi questo diritto non lo ha. Tra chi è libero e chi si vorrebbe ridurre a schiavo. Tra coloro ai quali sono garantite opportunità e coloro che vanno resi docili allo sfruttamento.

Qualche giorno fa ho lasciato la Provenza, dove sono stata una decina di giorni con amici che, a causa del loro colore della pelle e della loro situazione economica, non possono entrare in Italia. Mi spiego meglio: i miei amici sono africani, sono scappati da un regime violento, hanno fatto richiesta di asilo in Francia. Attendono da ormai un anno la risposta alla loro richiesta e i documenti. Senza di questi non possono viaggiare fuori dalla Francia.
Arrivata a casa esausta dopo il lungo viaggio, decido di chiamare i miei amici per sapere se anche loro sono riusciti a rientrare a casa (abitano in una città francese distante qualche ora dalla Provenza). Quando riesco a mettermi in contatto con loro, scopro che “No”, non sono riusciti a tornare, perché fatti scendere dal treno regionale Nizza – Marsiglia in quanto privi di biglietto. Non faccio fatica a immaginare cosa potrebbero pensare alcuni lettori di questo racconto: “Beh se non paghi il biglietto te lo meriti!”. Seguendo un’ottica strettamente legalitaria, le cose starebbero effettivamente così.

Eppure le motivazioni di certe scelte e comportamenti, spesso, hanno radici più complesse di quanto un giudizio superficiale possa evidenziare. Radici affondate in terreni di profonda ingiustizia: il problema è che i miei amici, come moltissime altre persone nella loro situazione, stanno aspettando da molti mesi il rilascio dei documenti, senza sapere né il motivo di questa attesa né la sua durata. Senza documento non si può lavorare e quindi non si può guadagnare qualche soldo per vivere, se non accettando, quando va bene, di essere sfruttati e sottopagati nel mercato del lavoro in nero. Lo Stato francese effettivamente eroga loro un sussidio, ma con questo ci pagano a malapena l’affitto di una casa e il vitto. Ecco che allora mi metto nei loro panni e mi chiedo: “perchè dovrei anche pagare il biglietto ad uno Stato che mi sta trattando come un oggetto, una cosa dalla quale frutta soldi, mentre mi fa aspettare, aspettare, aspettare fino a rendermi una persona depressa, abbrutita, sottomessa a tutto questo?” Non prendo nemmeno in considerazione l’obiezione di chi pensa: “queste persone sono qui a spese nostre e vogliono pure viaggiare!”. Un’obiezione irricevibile in quanto enormemente razzista e intrisa di un pensiero profondamente colonialista: tutti i benefici, le libertà, i comfort e le opportunità di cui una parte non esigua della popolazione occidentale gode, non sono frutto di una sua presunta superiorità intellettuale e culturale, ma delle rapine compiute per centinaia di anni ai danni delle altre popolazioni…. Non riconoscere questo dato storico significa cullarsi in una visione disonesta della Storia, ideologicamente utile a giustificare i propri privilegi e misconoscere le miserie degli altri esseri umani, su cui gli stessi privilegi sono fondati!

Ma torniamo all’episodio in questione: sul treno sul quale viaggiavano i miei amici i passeggeri senza biglietto erano molti. Bianchi e neri. Ma solo loro, i neri, sono stati fatti scendere dal treno. Perché? Perché erano neri. Altre spiegazioni plausibili non si riescono ad evincere. I bianchi sono stati lasciati comodamente seduti sul treno con in mano una multa; i neri fatti scendere e minacciati dal controllore di far intervenire la polizia se avessero provato a ribellarsi. Ecco: questo si chiama razzismo. Nessuno sul treno, hanno detto i miei amici, ha battuto ciglio. Questa è la cosa per me più sconvolgente: che la gente europea permetta tutto questo, permetta che un controllore razzista faccia scendere delle persone solo per il loro colore della pelle, permetta ad altre persone di comportarsi violentemente e senza alcun rispetto nei confronti degli immigrati, come nel caso del controllore di Brescia che ha sequestrato la carta di credito ad un uomo di colore e alla sua domanda “Perchè l’hai fatto?”, ha risposto urlando “Perchè sei un negro di merda!”. [3]

In mezzo all’indifferenza generale o proprio per questa indifferenza, a quei pochi che provano ad intervenire facendo notare come atti del genere siano atti razzisti e fascisti, spesso succede di essere presi di mira dalla polizia e di essere identificati, senza nessun motivo se non quello di rappresentare un elemento scomodo perché si denuncia il razzismo ormai dilagante in Europa. La gente europea permette tutto questo. Alcuni perché condividono, altri forse per paura o per ignoranza, molti perché “non sono affari miei”. Ma succede, quotidianamente. E la gente tace. Hannah Arendt la chiamerebbe “La banalità del male”. Questo silenzio è estremamente pericoloso. Quest’Europa non mi appartiene, mi fa paura e rabbia che la gente abbia dimenticato il passato, mi disgusta che ogni anno il 27 Gennaio le istituzioni (nelle quali per questo non ripongo nessuna fiducia) e buona parte della società civile europea ricordino l’Olocausto e le violenze naziste senza vedere, o facendo finta di non vedere, quanto quelle pratiche siano ancora attuali… come ad esempio pagare la Libia per rinchiudere i migranti in campi di detenzione nei quali vengono torturati, fatti lavorare, venduti come schiavi, stuprati ed uccisi donne, uomini, bambini perché migranti e quindi senza diritti; mi spaventa che solo pochi si accorgano di questa deriva fascista dell’Europa; mi preoccupa che le persone non reagiscano davanti ad un atto razzista, anche solo facendo notare che quello è proprio razzismo e portando così solidarietà a chi ogni giorno subisce aggressioni e ingiustizie da parte tanto delle istituzioni quanto della società.

Che cosa vogliamo fare? Reagire o continuare a fare finta che tutto questo non esista?

[1] Non è possibile indicare una linea che demarchi un confine ben definito. Infatti questo è piuttosto una zona territoriale in perenne espansione rispetto al mero tracciato geografico. Il confine oggi si presenta come un dispositivo mobile, elastico e dinamico, i cui contorni sono soggetti a continue ridefinizioni a seconda delle convenienze politiche ed economiche e delle sue applicazioni strategiche.

[2] http://www.radiondadurto.org/2017/09/27/ho-buttato-la-tua-carta-di-credito-perche-sei-un-negro-di-merda-la-verita-sul-video-migrante-controllore/

[3] http://www.bresciatoday.it/cronaca/aggressione-rapina-capotreno-bagnolo.html

Cati

 

E un lager, cos’è un lager?
Il fenomeno ci fu. E’ finito! Li commemoriamo, il resto è un mito!
l’hanno confermato ieri giù al partito, chi lo afferma è un qualunquista cane!
Cos’è un lager?
E’ una cosa sporca, cosa dei padroni, cosa vergognosa di certe nazioni,
noi ammazziamo solo per motivi buoni… quando sono buoni? Sta a noi giudicare!
Cos’è un lager?
E’ una fede certa e salverà la gente, l’ utopia che un giorno si farà presente
millenaria idea, gran purga d’ occidente, chi si oppone è un giuda e lo dovrai schiacciare!
Cos’è un lager?

E un lager…
E’ una cosa stata, cosa che sarà, può essere in un ghetto, fabbrica, città,
contro queste cose o chi non lo vorrà, contro chi va contro o le difenderà,
prima per chi perde e poi chi vincerà, uno ne finisce ed uno sorgerà
sempre per il bene dell’umanità, chi fra voi kapò, chi vittima sarà
in un lager?
da Lager – Francesco Guccini

Deportazione dei migranti da Ventimiglia: come “alleggerire il confine”

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Deportazione dei migranti da Ventimiglia: come “alleggerire il confine”

 Retate, pullman e trasferimenti di massa: la strategia di controllo nel territorio di frontiera

 

deportare: v. tr. [dal lat. Deportare (…). – Condannare alla pena della deportazione; più com., trasportare, accompagnare il condannato nel luogo stabilito per la deportazione (…) trasferire coattivamente in campi di lavoro o di concentramento (talora anche di sterminio) lontani dalla madrepatria gruppi o masse di cittadini, perché invisi o sospetti, o come misura di carattere politico o militare, in periodo bellico o d’occupazione”. 1

 

12 Maggio 2016 – giornata di rastrellamenti per le strade di Ventimiglia: per la prima volta cinquanta persone migranti vengono catturate e, senza alcuna accusa formale, sono costrette a salire su un pullman della locale Riviera Trasporti, verso ignota destinazione (solo il giorno seguente si scoprirà che il pullman era diretto a Trapani ). 2

L’obiettivo è “alleggerire” la città dalla presenza indesiderata delle persone che tentano di varcare il confine, attraverso quotidiani trasferimenti di massa diretti prevalentemente al sud Italia. 3

Settembre 2017: dal 12 maggio 2016 non si è più arrestata la pratica degradante dei trasferimenti di massa, con la sua portata di violenza e umiliazioni inflitte alle persone migranti. Oggi, dopo 16 mesi di pullman e identificazioni coatte, nemmeno le principali testate giornalistiche si fanno più scrupolo a sollevare il tabù, chiamando queste procedure così come attivisti e solidali le chiamano da oltre un anno: “deportazioni”. 4

Le persone destinate alla deportazione devono essere “sottoposte al trattamento” (così definito dalle forze dell’ordine): identificazione, anche imposta con l’uso di violenza in caso di resistenza; screening medico; perquisizione; video-ripresa integrale del corpo del condannato; imbarco coatto; trasferimento. 5

Nei mesi, la pratica si è raffinata: l’hotspot di Taranto è diventato la principale meta dei trasferimenti forzati; è stato raddoppiato su ogni convoglio il numero di deportati, dimezzandone la scorta; i sedili dei pullman vengono adesso fasciati con sacchi di plastica, mentre le FF.OO. sono state munite di guanti e mascherine anti-contagio. Le operazioni di rastrellamento in città vengono ormai effettuate principalmente nelle ore serali, notturne e all’alba, così da renderle meno evidenti allo sguardo di cittadini e turisti. Sono stati ampliati gli uffici di frontiera a Ponte san Luigi, per poter meglio gestire l’aumento di persone migranti catturate in Italia o respinte dalla Francia e in attesa del “trattamento”.

Sono passati sedici mesi dal primo pullman e ancora c’è chi si preoccupa di redarguire i toni, sventolando il famoso dito che indica la luna: caccia al nero e deportazione di massa? Assolutamente no: solo questione di obbedire agli ordini; solo ordinaria amministrazione.

Owl

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Acqua potabile: un diritto negato

Partiamo da Genova con il treno delle 7.20. Nonostante il tempo piuttosto autunnale ci sono ancora donne e uomini che portano con borse e sacchi merce da vendere lungo la riviera di ponente. Noi abbiamo una busta con i farmaci che, con varie iniziative, sono stati recuperati da compagni genovesi.

Giunti alla stazione di XX miglia, notiamo l’assenza di forze dell’ordine e pochi migranti in attesa davanti al piazzale. Raggiungiamo il bar Hobbit di Delia, dove permane inalterata l’accoglienza. Anche il numero di persone presenti qui è stabile e, come sempre, ci sono numerosi cellulari in carica. Mentre prendiamo un caffè, si avvicina un ragazzo sudanese che abbiamo più volte incontrato nei mesi scorsi, parla bene la nostra lingua. Dapprima ha vissuto lungo il fiume, poi ha fatto diversi altri lavori adesso ci dice, a nostra domanda, che lavora per una non precisata organizzazione (il tono si fa meno sicuro) che si occupa di persone senza documenti. Chiediamo a lui com’è la situazione lungo il fiume, ci dice che le persone sono circa 200, che presso il campo della croce rossa i numeri sono analoghi e che le famiglie costrette in ambienti limitati dove i bambini non hanno spazio sufficiente stanno male, che preferiscono stare fuori.

Ci dirigiamo verso via tenda, il via vai dei migranti non sembra cambiato, incontriamo un piccolo stand di testimoni di geova che cercano di fare proseliti tra loro. L’info-point Eufemia originato dalla collaborazione tra diversi gruppi solidali, dove dovevamo prendere altri farmaci, è ancora chiuso.

Proseguiamo, sotto il ponte della ferrovia le arcate sono state chiuse con cartoni, per rendere più stabili e protette queste abitazioni di fortuna. Giovani migranti scendono lungo il fiume. La chiesa di San Antonio appare vuota e silenziosa. Proseguiamo per via tenda fino all’altezza del piazzale di fronte all’entrata del cimitero e raggiungiamo il fiume. Sotto il cavalcavia persiste apparentemente senza cambiamenti di numeri e di disagio l’accampamento con gruppi di persone sdraiate su giacigli di fortuna, cartoni o materassi. Chiediamo se hanno problemi di salute, informando loro che siamo medici e con l’aiuto di mediatori e traduttori improvvisati ma efficaci, prestiamo la nostra opera. Medichiamo alcuni traumi, piedi, ginocchia, gomiti. Ci sono persone con dermatiti, infestazioni da scabbia (purtroppo siamo ancora privi del farmaco), gastroenteriti con il tipico corredo di sintomi: nausea vomito, diarrea. Dopo brevi domande ci rendiamo conto che sono costretti ad utilizzare l’acqua del fiume oltre che per lavarsi anche per dissetarsi.

Passando sotto il cavalcavia verso il piazzale della chiesa incontriamo, informiamo dei pericoli e visitiamo numerose persone. Ci colpiscono in particolare un ragazzo sudanese che ci parla della durezza della vita in queste condizioni e ci ringrazia del nostro operato. Ogni tanto, mentre racconta del viaggio in mare, ripete che era finito il carburante con lo sguardo perso, parla anche delle difficoltà in Sudan, sembra a tratti delirare. Incontriamo poi una famiglia allargata di etiopi, 4 donne e 4 uomini, che preferiscono stare sul fiume invece che nel campo della croce rossa, per via della distanza dal centro della città, temono per le donne. Per comunicare con loro ci aiuta un ragazzo eritreo che parla inglese molto bene.

Raggiungiamo il piazzale di fronte alla chiesa dove incontriamo una piccola delegazione di persone di Genova. Anche con loro ci chiediamo che fare per il problema dell’accesso all’acqua potabile. Torniamo al punto di origine dei rubinetti sulla strada, che un solidale aveva messo in funzione dopo l’identificazione delle tubature. Purtroppo la ferocia acefala razzista non ha fine. Dopo aver chiuso la valvola principale la manopola è stata rotta per non permetterne più l’apertura.

In questo territorio, l’accesso all’acqua potabile, come ogni altro fattore che anche lievemente potrebbe renderlo più vivibile, viene ancora negato, contravvenendo alle leggi internazionali e nazionali sulla tutela della salute.

Raggiungiamo di nuovo l’info-point Eufemia e parliamo di nuovo della necessità di trovare insieme una soluzione. Raccogliamo alcuni farmaci e, dopo un breve pranzo da Delia, torniamo verso il fiume. Passiamo davanti alla chiesa e, quasi a sottolineare l’incongruenza della situazione, troviamo un contenitore in latta già vuoto di circa 30 litri di capienza assicurato ad 1 catena, come risposta alla mancanza di acqua potabile.

Nel piazzale davanti all’entrata del cimitero erano giunti per l’ora di pranzo alcuni abitanti della Val Roya, per portare cibo e abiti. Hanno portato dei tavoli e delle sedie di plastica per permettere a tutti di non mangiare seduti sull’asfalto. Intorno ai tavoli le persone discutono, giocano a domino, a carte e a dama. Chiediamo loro se hanno bisogno di medici, visitiamo e medichiamo alcune persone.

In altre zone più distanti ci sono insediamenti più strutturati, taluni abbandonati, o dove le persone non desiderano evidentemente il nostro aiuto.

Tornati al piazzale, vediamo che la polizia in divisa e in borghese ferma e identifica le persone francesi che escono con le auto.

Amelia Chiara Trombetta, Antonio Curotto

Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti e il rispetto dei diritti umani dei migranti

Genova 8 settembre 2017. Il Ministro della Difesa Roberta Pinotti è alla Festa dell’Unità per un incontro pubblico, che non prevede domande da parte dell’audience.

L’intervista, condotta da Carlo Rognoni è iniziata con il resoconto del ritratto che di lei ha fatto il Giornale, chiosato poi dalla compiaciuta constatazione che questo non sia certo un giornale di sinistra. Svariati poi i temi toccati dal Ministro, dal rilancio della città tramite accordi tra Ministero della Difesa, Facoltà di Ingegneria navale e Fincantieri per la costruzioni di navi (militari, ma non è bello dirlo), al nuovo modello di difesa europeo, passando velocemente anche per la Libia e la questione dei migranti. A questo proposito il Ministro ha sottolineato il buon risultato prodotto dall’esecutivo, l’86% in meno di sbarchi a luglio, ed ha tenuto a precisare che la difesa dei diritti umani dei migranti è una priorità per il governo.

Grage

Per approfondimenti: 

L’inchiesta dell’Associated Press,  alcune delle testate che l’hanno ripresa o ne hanno condotto di simili

www.apnews.com/9e808574a4d04eb38fa8c688d110a23d

www.nytimes.com/2017/09/17/world/europe/italy-libya-migrant-crisis.html

www.reuters.com/article/us-europe-migrants-libya-italy-exclusive/exclusive-armed-group-stopping-migrant-boats-leaving-libya-idUSKCN1B11XC

www.businessinsider.com/ap-the-latest-italy-makes-deals-in-libya-to-halt-trafficking-2017-9?IR=T

www.apnews.com/9e808574a4d04eb38fa8c688d110a23d

www.dailystar.com.lb/News/Middle-East/2017/Aug-30/417673-backed-by-italy-libya-enlists-militias-to-stop-migrants.ashx

Le dichiarazioni della Farnesina in merito alla denuncia dell’AP. 

www.ansa.it/english/news/2017/08/30/italy-does-not-deal-with-libya-traffickers-foreign-min-2_a610d5d2-adb7-4883-9c27-5fdc3dbe9d12.html

www.ansa.it/english/news/politics/2017/08/30/italy-does-not-deal-with-traffickers-2_ec96fd82-9361-4daa-8199-feda46df9040.html

Aumento delle missioni militari

www.difesa.it/OperazioniMilitari/Pagine/RiepilogoMissioni.aspx

Luglio 2016. L’Italia è impegnata in 25 missioni militari. 

Ottobre 2017. Le missioni italiane sono aumentate del 52% salendo a 38 mentre  i paesi in cui siamo presenti militarmente solo saliti a 23.

Hotel a 5 stelle per i migranti

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I migranti negli hotel a 5 stelle e gli italiani per strada

Nelle foto, un classico esempio dei servizi extralusso ricevuti dalle persone migranti che raggiungono il confine a Ventimiglia. I migranti si accampano sul letto del fiume, esponendosi a diversi rischi, tra cui le conseguenze dei problemi idrogeologici che caratterizzano la Liguria (alluvioni, piene improvvise) e il contagio di malattie dovute all’acqua inquinata del Roja e alle pessime condizioni in cui “alloggiano”. Per leggere anche la testimonianza di un giovane migrante sudanese, clicca qui.

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fotografie: Francesca Ricciardi

 

migranti italia[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

La Tratta delle donne al confine di Ventimiglia – Trafficking e mafia

Come si è permesso al trafficking di creare la rete di sfruttamento a Ventimiglia.

La Tratta e la Mafia, la Tratta è Mafia.

Quello a cui stiamo assistendo oggi a Ventimiglia è il consolidamento della rete del trafficking dedito alla tratta e allo sfruttamento di donne che ha iniziato a ramificarsi, intrecciandosi con la mafia locale, nell’inverno del 2016.

Proveremo in questo articolo a fornire elementi d’osservazione e alcuni spunti utili a chi legge per comprendere come, quando si agisce sul contenimento e non sulla prevenzione, quando la repressione diventa strumento della governance per eliminare gli indesiderati, quando la percezione della sicurezza si fonda sulle “categorie” che lo Stato impone come reali ma da esso stesso costruite, si lascino volutamente spazi di azione alle mafie che inspiegabilmente agiscono indisturbate. Rosarno ne è un esempio: se ripercorriamo le tappe della prima denuncia(1) grazie alla quale uscì la prima inchiesta(2) e arriviamo all’ultima morte(3) sono passati circa 10 anni. Pare incredibile vero? Non così agli occhi di chi da tempo ha chiaro che che la “distrazione di massa” sia propedeutica alla logica del pensiero di Stato come già svelato dal sociologo algerino A. Sayad che definiva il “pensée d’Etat” come «una forma di pensiero che riflette, mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello stato, che così prendono corpo».

Ripercorrendo le tappe della prima denuncia di una possibile gestione del traffico delle donne transitanti per Ventimiglia, da parte di alcune solidali presenti da tempo sul territorio, emergono dati allarmanti risalenti all’inverno del 2016.

Ricordiamo che la “presenza” dei migranti a Ventimiglia è iniziata a rendersi “visibile” a seguito della sospensione da parte della Francia del Trattato di Schengen nel giugno del 2015. Da allora, fino alla primavera del 2016 i migranti, passando da presidi, sgomberi e autorganizzazioni sono riusciti a trovare spazi di autogestione dove avere il tempo per pensare in autonomia il proprio percorso migratorio. Dall’ultimo sgombero del campo informale nelle ex stalle del “parco ferroviario” (agosto 2016) all’istituzione del Campo della Croce Rossa (luglio 2016) le condizioni per i migranti e soprattutto le migranti in transito sono cambiate vorticosamente. L’impossibilità di avere uno spazio di agibilità sociale e politica, le continue deportazioni dalla città rivierasca agli hotspots del sud Italia(4) hanno costretto uomini e donne a rivolgersi ai trafficanti che, come alligatori, aspettavano sulla riva del fiume le loro prede. Questi continui spostamenti al sud hanno sfiancato i migranti, non solo da un punto di vista psicologico e fisico ma anche economico, portando molti di loro a terminare le economie messe da parte per gestirsi in autonomia il viaggio verso i paesi per loro considerati più sicuri o dove già avevano una rete famigliare e/o amicale in grado di sostenere il loro percorso migratorio. Questa vulnerabilità ha permesso al racket di avere molta più agibilità e forza nell’intercettare soprattutto donne alle quali “proporre” prestiti e viaggi da rimborsare attraverso la prostituzione e lo sfruttamento. Così il trafficking si è alimentato; le donne vendute, trafficate e sfruttate; gli uomini deportati al sud e i minori respinti in Italia dalla Francia.

Da un’osservazione degli snodi più significativi del territorio, iniziata nell’inverno del 2016 fino alla data di pubblicazione di questo articolo, si percepisce una connivenza molto stretta tra alcuni uomini stranieri e alcuni personaggi noti della malavita locale.

Davanti alla stazione i passeurs agiscono indisturbati agli occhi dei militari che presidiano la “zona sensibile” e lo stesso i trafficanti che gestiscono l’arrivo delle donne in stazione. Quest’ultimi rispettano una procedura metodica e quindi facilmente osservabile nella gestione del trafficking: prelevano le donne alla stazione, le portano prima in un bar dove attendono alcune ore, poi si allontanano per dirigersi in un kebab poco distante, scelto con dovizia perché dotato di una sala superiore con bagno al piano. I trafficanti tornano in stazione, recuperano altre donne e quando hanno raggiunto un gruppo di tre/quattro di loro le trasferiscono nell’altro esercizio commerciale. Salgono al piano superiore dove nel frattempo sopraggiunge una donna nigeriana adulta, quella che in gergo si direbbe una “madam“.

E’ difficile scrivere ciò a cui si assiste. Incomincia la contrattazione: la madam sceglie le ragazze e la consapevolezza che si legge nelle “prescelte” gela il sangue: pochi minuti e il loro destino è chiaro, la destinazione la scopriranno pochi giorni a seguire. La madam e il trafficante se ne vanno via per primi, poco dopo il gruppo di giovani donne incomincia ad incamminarsi verso il Parco Roja accompagnate da altri uomini. A metà strada si fermano ed incontrano uno degli italiani di cui sopra nei pressi di un’abitazione posta in una posizione strategica perché a metà strada tra la stazione, il campo Roja e la chiesa delle gianchette che fino al 14 agosto del 2017 ospitava donne, famiglie e minori. Le donne venivano indirizzate verso la chiesa come parte del “pacchetto tratta” dove staranno giusto il tempo perché la madam organizzi il viaggio per “inserirle” nel mercato dello sfruttamento sessuale, solitamente due o tre giorni. Nei giorni di attesa le donne di giorno uscivano per incontrare i trafficanti che, all’altezza della sbarra del passaggio a livello le attendevano con dei sacchetti contenenti degli abiti che dopo qualche ora le stesse donne, prima di rientrare in chiesa, gli riconsegnavano. Neanche da dire che le donne trascorrevano le ore pomeridiane nell’appartamento descritto precedentemente.

E’ abbastanza chiaro che una parte delle donne che raggiungono Ventimiglia sono gestite dal trafficking per essere “scelte” dalle madam per lo sfruttamento sessuale in Italia o in Francia; alcune di queste vengono già fatte prostituire in loco a prezzi molto bassi per i migranti in transito – motivo della posizione strategica tra il fiume e il parco, altre negli appartamenti per la prostituzione al chiuso. Chiacchierando con alcune donne incontrate alla stazione di Ventimiglia prima che i trafficanti le intercettassero si scopre che alcune di loro sono fuoriuscite dai Cas (Napoli, Bologna, Roma) dove il racket le sfruttava. Si sono quindi affidate ad altri uomini che tramite dei contatti via Facebook le hanno indirizzate a Ventimiglia sostenendo che poteva essere un luogo sicuro.

Parlare con loro in stazione e accompagnarle fisicamente nei pressi della Chiesa chiedendo ai volontari di prestare attenzione alla loro vulnerabilità ha permesso in alcuni casi di accompagnarle nella presa di consapevolezza circa il percorso di denuncia dello sfruttamento e della tratta(5). Il rischio che si corre in questi casi è molto alto. Non solo per la presenza dei trafficanti ai quali si sottrae la “merce” ma anche per la repressione che nel territorio di Ventimiglia i solidali “ricevono” dalle forze dell’ordine.

Nell’agosto del 2017 l’ospitalità presso la chiesa è stata sospesa: tutte le famiglie, i minori e le donne sono state trasferite nel Campo Roja a gestione della Croce Rossa Italiana. Lì le donne non hanno la possibilità di chiudere la zona a loro “dedicata”, ne consegue che trascorrono la notte sveglie per timore che loro stesse o le loro figlie possano subire violenze. Il livello di promiscuità e l’assenza di misure di tutela per le donne e i minori (maschi e femmine) sono talmente evidenti da risultare impossibile che un’amministrazione possa averla solo che pensata come soluzione preferibile alla presenza dei migranti a Ventimiglia(6) al pari di chiudere un rubinetto per l’acqua potabile costringendo i migranti ad “abbeverarsi al fiume” come bestiame(7) o come l’ordinanza emessa dal sindaco Ioculano che vietava la “somministrazione” di cibo ai migranti(8).

Va da se che da agosto ad oggi non si vedono più donne uscire dal Campo Roja per dirigersi nell’appartamento posto nel crocevia tra la chiesa, il Campo e la stazione. E’ plausibile ipotizzare che lo sfruttamento avvenga direttamente all’interno del campo. La denuncia di questo crimine – perchè questo sì che che è un crimine e non è una percezione – non sarà oggetto di nessuna “distrazione”. Continueremo a monitorare, denunciare e raccontare quello che lo stato vuole occultare.

Non c’è più nulla da dire ma solo da mostrare – annotava Benjamin sulla Parigi di Boudelaire – nella città in cui “si raccolgono tutte le fibre della storia europea” (Engels), emerge una massa infinita di oggetti, luoghi e figure sociali in cui si iscrive misteriosamente il percorso futuro della modernità“.

C.J.Barbis

(1) http://www.repubblica.it/cronaca/2010/01/08/news/rivolta_dei_diseredati_a_rosarno-1873836/?ref=search
(2) http://www.youreporter.it/video_Viaggio_a_Rosarno_RC_nell_inferno_degli_immigrati_1?refresh_ce-cp
http://www.ilsussidiario.net/News/Cinema-Televisione-e-Media/2016/2/2/ROSARNO-La-rivolta-degli-immigrati-sei-anni-dopo-tutto-come-prima-Le-Iene-oggi-2-febbraio-2016-/675645/
(3) https://www.internazionale.it/opinione/alessandro-leogrande/2017/03/08/braccianti-rignano-caporalato
(4) http://openmigration.org/analisi/il-giro-delloca-dei-trasferimenti-coatti-dal-nord-italia-a-taranto/
(5) http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08/11/ventimiglia-la-prefettura-chiude-la-chiesa-simbolo-dellaccoglienza-prete-migliaia-di-migranti-ospitati-senza-soldi-pubblici/3789831/
(6) http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/20/ventimiglia-bimbi-stranieri-costretti-a-vivere-per-strada-oltre-alla-chiesa-per-loro-non-esiste-un-centro-daccoglienza/3667941/
(7) https://www.asgi.it/notizia/accoglienza-difficile-ventimiglia/
(8) http://www.sanremonews.it/2017/03/26/leggi-notizia/argomenti/politica-1/articolo/ventimiglia-divieto-di-cibo-ai-migranti-il-comitato-per-gli-immigrati-e-contro-ogni-forma-di-disc.html

foto in copertina: Piccoli Schiavi Invisibili

Violazioni del diritto alla salute al confine con la Francia

Considerazioni sulla situazione sanitaria al confine di Ventimiglia

a cura dei medici volontari dell’ambulatorio Città Aperta di Genova che da più di un anno prestano servizio sul campo

Da due anni alla frontiera con la Francia si trovano centinaia di persone bloccate per le ripetute decisioni dei governi degli Stati della UE che, di fatto, in quest’ambito, negano diritti e doveri sulla carta fondanti l’Unione Europea.

La salute delle persone in viaggio ivi giunte, è stata gravemente condizionata, oltre che dalla deprivazione di libertà di movimento e personale e dalla mancanza di autodeterminazione, anche dalle carenze igienico sanitarie nei luoghi di transito e di stazionamento in cui queste donne, questi bambini e questi uomini sono costretti.

Dal 2015 ad oggi, diversi sono gli insediamenti informali dove più o meno temporaneamente le persone stazionano prima di tentare di proseguire il proprio viaggio e dove, come medici volontari e solidali, abbiamo tentato, con scarsi mezzi di visitarle e di curarle. Spesso attraverso l’ascolto e l’attenzione e fornendo indicazioni semplici di igiene, come quella di non bere l’acqua del fiume.

Da un campo informale all’altro, durante questi due anni (2015/2017) si è passati attraverso sgomberi successivi, effettuati appunto con motivazioni igienico sanitarie, ma che, non prevedendo una soluzione radicale del problema, hanno comportato, invece, un’ulteriore precarizzazione delle condizioni di vita.

La maggior parte delle persone migranti hanno vissuto e vivono all’aperto su scogli, in ex stalle, sulle rive del fiume, in parcheggi, in assenza di accesso all’acqua potabile, servizi igienici, alimentazione sufficiente ed adeguata.

Le moltissime persone da noi visitate, donne e uomini di ogni età, avevano iniziato il loro viaggio in ottima salute, rappresentando spesso un investimento per le famiglie di origine. In prevalenza si è trattato di persone provenienti da Sudan e dall’Eritrea, ma anche persone di altre nazioni africane, afghani e siriani. Il passaggio attraverso paesi come il Sudan e la Libia aveva comportato praticamente per tutte e tutti carcerazione, violenza e tortura a scopo di estorsione, le cui conseguenze sulla salute fisica e psichica erano ancora evidenti al momento della nostra visita.

Il viaggio e la vita condotti in Italia, aveva determinato un ulteriore deterioramento dello stato di salute. Dopo una superficiale visita di controllo allo sbarco, nonostante l’esistenza teorica di diritti, nessuna tutela e continuità viene assicurata a potenziali richiedenti asilo che tentano di sopravvivere basandosi unicamente sulle proprie risorse.

Mancanza di informazioni, assenza di mediazione culturale, orientamento legale e socio-sanitario sono le cause determinanti dello stato di abbandono in cui versavano coloro che abbiamo visitato.

Nelle centinaia di visite eseguite tra le sponde del fiume, campi informali e la chiesa di Sant’ Antonio, dove siamo stati assai presenti, soprattutto nella fase di maggior affluenza, le malattie prevalenti sono state quelle dovute al disagio delle condizioni di vita. Epidemie di scabbia, malattie esantematiche, infezioni soprattutto delle alte vie respiratorie o delle vie urinarie, patologie gastrointestinali e traumi infatti sono le conseguenze più banali di questo accidentato percorso. Le patologie gravi che abbiamo potuto osservare, di più raro riscontro ma presenti, dato il numero di persone visitate, costituivano ovviamente un pericolo di vita, in tali situazioni.

Il nostro lavoro sarebbe stato impossibile senza l’esistenza e la resistenza di una rete di persone solidali a cui spesso ci siamo riferiti per il supporto al nostro lavoro.

Solidali, provenienti dall’Italia ma anche da altre nazioni, sono stati presenti da sempre su questo territorio. La condivisione del progetto politico per la libertà di movimento e l’autodeterminazione e della quotidianità del campo, è stata a nostro parere la risposta lucida di una parte consapevole della società civile e del variegato mondo dell’attivismo politico: essa ha contribuito a ridurre la condizione di abbandono e invisibilità in cui versavano le vite delle e dei migranti.

Purtroppo la repressione delle istituzioni ha gradualmente determinato una frammentazione tra i gruppi presenti sul territorio e l’allontanamento di molti solidali, fino alla consegna di numerosi fogli di via, ritenuti illegittimi a distanza di mesi.

E’ bene ricordare in questo periodo, in cui la memoria storica è spesso derisa ed umiliata, che questa  situazione, che sembra far ammalare chiunque viva da migrante su quel territorio, contravviene non solo ad istintivi sentimenti di umanità, uguaglianza e partecipazione sociale, ma a ben chiare legislazioni internazionali. La salute infatti è stata definita dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 1946, durante la Conferenza Internazionale della Sanità, come uno “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”.

E’considerata un diritto inalienabile dell’individuo, appartenente all’uomo in quanto tale, derivando dall’affermazione del più universale diritto alla vita e all’integrità fisica, di cui rappresenta una delle declinazioni principali. In linea con questa dichiarazione, le principali normative internazionali a tutela della salute come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo (1948) sanciscono questo come uno dei diritti fondamentali dell’individuo e delle collettività e la sua tutela uno dei doveri degli Stati.

E’inoltre da ricordare il Commento generale n. 14 del Comitato per i diritti economici sociali e culturali delle Nazioni Unite (2000), in cui vengono riconosciuti i concetti di disponibilità, accessibilità, accettabilità e qualità dei servizi per la salute e i concetti di determinanti sociali della salute.

I determinanti sociali della salute consistono in condizioni indispensabili perché la salute sia garantita: l’accesso all’acqua potabile sicura, a servizi igienici adeguati, la disponibilità di cibo e nutrimento sufficiente, la  sicurezza e la qualità dell’abitazione, la salubrità dell’ambiente di vita e di lavoro, l’accesso alle informazioni relative alla salute, il divieto di discriminazione.

L’articolo 35 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, sotto il titolo “Protezione della Salute” afferma che “ogni individuo ha diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche e che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche e attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”.

Infine, secondo la Carta Costituzionale Italiana (1948) il diritto alla salute è compreso nel nucleo irriducibile dei diritti della persona umana.  Il testo di riferimento generale rimane il Decreto Legislativo n. 286 del 1998, che in ambito sanitario sancisce l’inclusione ordinaria nel sistema di tutela sanitaria dei cittadini stranieri, presenti regolarmente o non regolarmente sul territorio nazionale (sentenze 252/2001, 299/2010).

La Corte Costituzionale ha affermato nel 2008 che lo straniero è “titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona” sentenza 248/2008.

Ancora dopo due anni centinaia di persone, si trovano nelle condizioni descritte e la situazione di Ventimiglia viene definita come emergenziale, mentre anche semplici interventi, quali potrebbero essere la fornitura di un accesso all’acqua potabile e servizi igienici, richiesti da singoli, associazioni, ONG, vengono rifiutati perché potrebbero costituire dei fattori che favoriscano la presenza di persone migranti sul territorio. Tale presenza, come già detto, è resa inevitabile, da due anni, a causa della chiusura della frontiera franco-italiana per i soli migranti. E’ oltremodo evidente come l’atteggiamento delle istituzioni, che utilizzano  spesso, per definire i propri atteggiamenti, parole proprie di una neo-lingua di orwelliana memoria come: decompressione, hotspot, decoro e degrado ecc, sia in contrasto con i concetti espressi dalla nostra Costituzione e dai quadri legislativi internazionali.

A Ventimiglia, per quanto sia a nostra conoscenza, a parte le ordinanze di sgombero sommario e di divieto di somministrazione di cibo in luoghi pubblici, non vi sono state proposte innovative da parte delle istituzioni. Le persone presenti sul territorio (abitanti e migranti, che continuiamo a considerare come un unico gruppo abitante un territorio ostile), si rendono conto della scarsità delle risposte istituzionali e questo provoca rabbia, frustrazione e la nascita di opposti schieramenti.

A nostro avviso, per rispondere al progressivo deterioramento, occorre superare l’aspetto emergenziale e proporre soluzioni coraggiose, dal breve al lungo termine. La scelta più difficile, sarebbe ovviamente quella del farsi fautori del diritto all’autodeterminazione e alla libera circolazione per tutti, in Europa.

Nell’immediato tuttavia, scelte almeno oculate delle istituzioni, avrebbero dovuto considerare a nostro parere l’ampliamento dell’offerta dei servizi pubblici nei territori di frontiera, soprattutto per tutto ciò che concerne il diritto alla salute delle persone presenti (migranti in transito, richiedenti asilo, locali) e delle attività e strutture per la prevenzione e protezione a prescindere dall’identificazione degli aventi bisogno:

– luoghi abitativi degni non gestiti in forma poliziesca, ma in accordo con i solidali, per non indurre il timore di abitarvi, l’isolamento e la frattura sociale. Abitazioni non poste a chilometri dal centro abitato e raggiungibili con strade non pericolose, dotate servizi igienici ed acqua calda, cibo a sufficienza per tutte le persone presenti.

– l’interruzione delle deportazioni sommarie e ingiustificate che a volte hanno anche separato famiglie (spesso i migranti temono di spostarsi di giorno nella città poiché sanno che possono essere deportati anche se in possesso della tessera del centro della Croce Rossa o se si spostano per raggiungere ospedali o fonti di acqua pubblica) e che inducono disagio anche psichico per la ripetizione infinita del viaggio verso Ventimiglia.

– Implementare i servizi offerti dal poli-ambulatorio di Ventimiglia o dal punto di primo intervento di Bordighera (già quasi smantellato dal 2011 e minacciato di privatizzazione, poiché tra la popolazione presente non vengono considerati le migliaia di persone che transitano sul territorio: a tal proposito è interessante leggere  le dichiarazioni di un medico a un giornale locale http://www.riviera24.it/2017/01/bordighera-ospedale-saint-charles-verso-la-privatizzazione-le-riflessioni-del-dottor-francesco-longo-245904/.

– Implementare i trasporti pubblici locali da Ventimiglia a Bordighera per evitare che gli spostamenti dei codici bianchi avvengano attraverso ambulanze quando non vi sono operatori che spontaneamente si offrono per l’accompagnamento.

Ventimiglia è probabilmente un punto di osservazione facilitato per valutare fenomeni esistenti a livello nazionale e soprattutto in territori dove poteri contrapposti e illegalità diffusa convivono e dove la mancanza di programmazione e la sperimentazione di risposte frammentarie e discontinue senza un obiettivo di lungo termine prevalgono.

Riteniamo sia giusto ampliare il più possibile la consapevolezza su ciò che accade nel nostro territorio, ritenendo che ciò aumenti la libertà di tutti, consentendo la possibilità di informarsi sulle lotte delle persone che lo attraversano, sostenerle e denunciare le violazioni dei diritti fondamentali.

Per i compagni, per le persone della socierà civile, per le nostre e i nostri colleghi medici, infermiere/i, psicologhe/i che abbiano voglia di uscire dai loro ambulatori e che condividano con noi l’idea che spesso l’accesso ai servizi sanitari è negato a chi ne ha più bisogno, siamo disponibili a spiegare più nello specifico le nostre esperienze e a condividere ciò che in questi anni abbiamo appreso da quel territorio.

 

Amelia Chiara Trombetta; Antonio Curotto