L’estate a Ventimiglia è un eterno ritorno, un film di cui si conosce perfettamente il brutto finale: qui si aspetta la nuova ordinanza, magari nuove leggi speciali, a stroncare ogni buona volontà. Qui si aspettano nuove morti, che si aggiungeranno alla ventina di vite già spezzate: altra polvere da buttare sotto al tappeto rosso su cui sfilano i ministri dell’interno e i vertici delle forze dell’ordine.
Luglio sta finendo e agosto, là davanti, promette di essere un ennesimo mese di circo e calvari.
(Parte 1. Qui la seconda parte. Qui la terza parte)
Esatate 2020, un quadro della stuazione:
Al confine di Ventimiglia, come ogni estate dal 2015, la bella stagione ha nuovamente portato un aumento di violenza, repressione, disagio, abbandono, abusi, traffico, e un numero crescente di persone che provano ad attraversare la frontiera. Dai media arrivano notizie frammentarie, che non spiegano i fondamentali di ciò che sta accadendo, ma raccontano solo la punta di un iceberg che, sotto i colpi del sensazionalismo, restituiscono flash sconnessi della vita di frontiera: l’arresto di un trafficante, l’aggressione di un uomo ai danni della polizia, persone che dormono nel mercato chiuso, i siparietti delle istituzioni, qualche grido di pietà o di allarme dell’associazione di turno. A seconda dello scoop del momento, a seconda delle tendenze di interesse dell’opinione pubblica, emergono spizzichi di eventi e narrazioni incomplete.
A Ventimiglia arrivano ancora le persone migranti? Che succede lungo le rotte che attraversano la barriera di Stato sulle strade, sui treni, o sui sentieri di montagna? I giornali hanno parlato di “recrudescenza del fenomeno migratorio”, ma al confine le persone sono sempre arrivate, ininterrottamente, e ininterrottamente subiscono discriminazioni e ingiustizie. D’estate, semplicemente, è più facile viaggiare, con il mare calmo e le strade asciutte.
Quest’anno l’inizio dell’estate è coinciso con la fine delle restrizioni per il lockdown, quindi quando tutto il traffico ferroviario si è sbloccato ed è stato possibile tornare nelle strade, nella città frontaliera hanno iniziato ad arrivare tutte le persone che non avevano potuto proseguire il loro viaggio, durante i due mesi di chiusura totale del paese e dell’Europa intera.
Attualmente a Ventimiglia e nelle zone circostanti (il confine passa a nove chilometri dal centro città) si trovano circa due/trecento persone. Ogni giorno e ogni notte un centinaio di queste prova a sconfinare in Francia, e il novanta per cento di loro finisce catturata dalle reti di pattugliamento della polizia italiana e soprattutto francese, che si avvale anche della collaborazione dei militari della Legione Straniera, assegnati a presidiare i passaggi montani. Diverse decine sono poi le persone che arrivano nuove ogni giorno da altre parti d’Italia, sempre in treno, nonostante stiano aumentando i controlli interni sulle reti ferroviarie.
Proprio come era già accaduto in passato, quando si avvicina l’estate aumentano sia le strategie di controllo delle zone di frontiera, sia le retate e i rastrellamenti nelle stazioni a monte di Ventimiglia. Molti treni da Torino, Milano e Genova vengono controllati alla partenza, bloccando chi ha i documenti non in regola; oppure i convogli sono attesi dalle pattuglie miste di polizia e militari, direttamente ai binari di Ventimiglia, che fermano e controllano tutte le persone che non hanno l’aspetto di essere europee o turisti in vacanza.
Tra coloro che passano il confine, dopo numerosi tentativi, e chi arriva ogni giorno a Ventimiglia, la media dice che ci sono circa duecentocinquanta persone nelle strade della città. Probabilmente nelle prossime settimane arriverà altra gente, come racconta la storia di Ventimiglia. In autunno rallenteranno i viaggi e le presenze scenderanno fino a poche decine durante l’inverno. Nella primavera dell’anno prossimo scriveranno un altro scoop sull’”emergenza clandestini”.
La gente gira per il mondo, qui c’è un confine: arriveranno sempre persone, da ogni parte della Terra con ogni tipo di motivazione. In queste settimane post lockdown si incontrano persone appena arrivate dagli sbarchi in Sicilia, in Sardegna e in generale nel sud Italia (Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Sudan, Eritrea, Somalia, Nigeria, Tunisia, Algeria, Egitto, Marocco, quasi tutte passate dalla Libia); persone appena arrivate dalla rotta balcanica ed entrate dalla frontiera di Trieste (Siria, Iran, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Turchia, Russia, territori curdi); persone dublinate dalla Germania, dall’Austria, dalla Francia; persone che stanno lasciando l’Italia.
Una novità registrata quest’estate è l’aggiunta di un flusso inverso di persone, oltre a quelle che vanno in direzione Italia-Francia: tutte coloro che tentano di tornare in Italia, per cercare di rientrare nella sanatoria. Quindi la polizia italiana ricerca le persone in viaggio dalla Francia all’Italia senza documenti validi, per riconsegnarle in frontiera ai colleghi francesi.
Ci sono diverse persone che rimangono incastrate al confine ventimigliese, e che non stanno riuscendo ad andare avanti e nemmeno a tornare indietro, in nessuna delle due direzioni.
L’emergenza legata al Coronavirus ha peggiorato molto, infatti, il livello dei controlli al confine. Dopo mesi che erano spariti, sono ricominciati i checkpoint lungo le strade della Val Roya, la valle che collega i territori italiani e francesi. Anche i sentieri di montagna rimangono presidiati notte e giorno, aggiungendo gli inseguimenti tra i boschi al già elevato rischio di precipitare a valle a causa del dissesto dei sentieri, che richiederebbero anche manutenzione e una messa in sicurezza costanti. Dieci giorni fa, un uomo è caduto dal sentiero in una cisterna d’acqua sottostante, senza riuscire più a risalire: si è salvato solo grazie a un altro viaggiatore che, sentendo le grida di aiuto, è riuscito o ripescare il compagno offrendogli come appiglio un lungo ramo spezzato.
Per la prima volta dopo cinque anni di rastrellamenti su base etnica, alla stazione di Menton Garavan la polizia francese chiede sempre più spesso i documenti a tutte le persone. Europee, italiane, turiste, migranti, bianche o nere che siano. I controlli a tappeto intercettano anche coloro che “sembrano” persone europee, e che in passato riuscivano invece ad attraversare il confine abbastanza tranquillamente, visto che la selezione si concentrava solo sul profilo razziale.
Si dovrebbe sapere che, quando si accetta che il controllo straordinario diventi abitudine, prima o poi l’eccezione diventa la regola per tutte e tutti: nel 2015 passavano moltissime persone, piuttosto facilmente; negli anni, i criteri di selezione sono diventati sempre più stringenti e le modalità della repressione sempre più cruente. Capita così che arrivi in frontiera, respinta dai francesi, una diciottenne di Genova, spaventata e in lacrime: si era dimenticata a casa la carta d’identità, èd è stata fermata dagli agenti della CRS sul treno, portata agli uffici di frontiera e poi rilasciata in Italia. Stava andando a trovare la nonna a Nizza, per rientrare a Genova in serata.
Questa cosa è sconvolgente solo se si applicano due pesi e due misure, come troppo spesso avviene nella testa di chi ha il privilegio di un documento europeo e commette l’errore di considerarlo un diritto inalienabile: è più terribile che abbiano iniziato a fermare anche cittadini italiani sprovvisti di documento e a trattarli come i temibili “clandestini”, o che da cinque anni ci siano controlli razziali differenziali, effettuati su base etnica, che questa cosa non sia mai interessata pressochè a nessuno – perchè tanto non succedeva a noi -, e nemmeno sia mai scoppiata una rivolta transnazionale per fermare questo schifo?
Pubblichiamo le immagini, registrate da alcune persone detenute nei container e diffuse dal collettivo Kesha Niya, che mostrano le condizioni in cui le persone vengono trattenute dalla polizia di frontiera francese prima di essere respinte in Italia
Sulla propria pagina facebook, il collettivo ha pubblicato due report riferiti alle giornate tra il 20 ottobre e il 2 novembre: ne pubblichiamo la traduzione qui di seguito.
Entrambi i report evidenziano il netto aumento del numero di persone migranti che tentano di lasciare l’Italia dalla frontiera di Ventimiglia. Gli ultimi due resoconti, e i dati raccolti dallo stesso collettivo nella settimana dal 3 al 9 novembre, registrano il respingimento di 1799 persone in sole 3 settimane, mentre in tutto il mese di settembre erano state 1536. Anche le presenze presso il Campo gestito dalla Croce Rossa nel Parco Roya sono evidentemente in crescita: se da oltre un anno il numero delle persone ospitate nella struttura non superava le 250 presenze, al 12 di novembre le persone registrate al campo erano 400.
Ad aggravare la situazione già difficile delle persone in viaggio si aggiungono le reazioni sempre più violente della polizia francese, ormai divenute prassi strutturale nei locali per la detenzione delle persone respinte al confine. Insulti e umiliazioni, spray al peperoncino e percosse si sommano così, con sempre maggior costanza, alle pratiche già normalizzate della privazione di cibo e acqua, della detenzione fino a 24 ore in locali insalubri e non attrezzati, del rifiuto di fornire qualsiasi forma di assistenze medica.
REPORT 20-26 Ottobre
Ciao a tutt*,
nell’ultima settimana abbiamo incontrato 553 persone al confine italo-francese a Grimaldi inferiore, che sono state fermate dalla polizia francese e poi respinte verso l’Italia. E’ il numero più grande da quando raccogliamo i dati. Il numero di persone sta aumentando molto in queste ultime settimane. Sappiamo di un totale di 578 persone respinte, abbiamo infatti visto 18 persone andare a Ventimiglia con l’autobus, la Croce Rossa o la polizia italiana, senza entrare in contatto con noi e 9 minori sono stati riportati in Francia dalla polizia italiana. Questo numero include 13 donne, tre delle quali incinte, 27 minori, 8 bambini e 4 minori accompagnati da un familiare. Non sono incluse in questo numero le circa 20 persone che sono state mandate a Taranto dalla polizia italiana il 24 ottobre.
Minori
7 minori sono stati riportati in Francia dalla polizia italiana prima di arrivare da noi.
Siamo tornati dalla polizia italiana con un quindicenne e un sedicenne che non avevano ancora dato le impronte digitali in Europa perché fossero registrati come minorenni. La polizia ha asserito che i due minori si erano dichiarati maggiorenni, fatto negato dagli interessati. La polizia italiana ha poi detto che il loro sistema di registrazione non funzionava. Ci hanno ordinato di andarcene e di non ritornare.
Questa settimana abbiamo incontrato una minore che viaggiava da sola.
Un sedicenne ci ha raccontato la sua esperienza con la PAF (Police Aux Frontières– Polizia di frontiera francese n.d.t.). Due poliziotte erano in disaccordo sull’accettarlo o meno come minore. Alla fine è stato respinto in Italia, ha dato 4 impronte digitali ed è stato registrato come ventunenne dalla polizia italiana perché questa era l’età indicata sul “refus d’entrée” (rifiuto di ingresso, documento consegnato alle persone respinte in Italia dalla polizia francese n.d.t.).
Violenza
Due quindicenni hanno detto di essere stati minacciati dalla polizia francese che sarebbero stati picchiati se avessero riprovato a passare.
7 persone che hanno attraversato il confine in montagna nella notte tra il 21 ed il 22 ottobre hanno riferito di essere state arrestate dalla Legione Straniera all’una del mattino e che alcuni militari hanno puntato loro contro il fucile. Il refus d’entrée dichiarava che erano stati arrestati a Ponte S.Ludovico (dove ci sono i controlli di confine sulla costa).
5 altre persone avevano sul loro “refus d’entrée” l’indicazione di luoghi errati in cui sono stati fermati. Sono stati fermati al primo casello dell’autostrada (La Turbie) a bordo della vettura di un trafficante. La polizia ha arrestato il conducente ma ha scritto che i passeggeri sono stati fermati mentre si trovavano su un autobus.
Una persona ha perso il controllo durante la detenzione nel container e ha rotto una finestra con la testa e le mani. Ha riferito di essere stato preso a pugni dalla polizia francese. Un’altra persona ha assistito ai fatti e ha visto anche un uomo ferirsi con i frammenti della finestra rotta. La persona ferita ha chiesto aiuto ma la polizia ha detto che non era niente e si è rifiutata di aiutarlo.
Dopo 16 ore di detenzione una persone ha chiesto di essere rilasciata. Ci ha detto che la polizia francese lo ha sollecitato ad avvicinarsi alla porta e quando lui l’ha fatto è stato prima picchiato e poi rilasciato.
Una persona ha riferito di essere stata colpita dalla polizia francese con un manganello su una gamba e sulla schiena. Il poliziotto gli avrebbe detto che lo faceva perché a causa sua non potevano andare in pausa a mangiare.
Alle 18.30 del 26 ottobre abbiamo visto più di 10 persone venire rilasciate dai container mentre la polizia francese urlava loro contro.
Ci è stato raccontato un caso di brutalità della polizia avvenuto nei container 3 mesi fa. Questo reporter ci ha detto di aver visto un poliziotto dare un calcio nei genitali ad una delle persone detenute che ha perso conoscenza per via del dolore. La polizia non ha fornito alcun supporto di primo soccorso.
Ci è stato detto da 32 persone di essere state detenute tra le 11 e le 22 ore dalla PAF.
Abbiamo continuato a incontrare un gran numero di persone con ferite infette, specialmente sulle gambe, e abbiamo praticato il primo soccorso.
REPORT 27/10-2/11
Ciao a tutt*,
questa settimana abbiamo incontrato 565 persone al confine italo-francese a Grimaldi inferiore, che sono state fermate dalla polizia francese e poi respinte verso l’Italia. E’ stato nuovamente superato il numero più alto che abbiamo registrato dall’inizio della raccolta dati. Sappiamo anche di altre 6 persone che sono state respinte ma con le quali non siamo entrati direttamente in contatto. Queste sei persone sono andate a Ventimiglia con l’autobus, la Croce Rossa o la polizia italiana. Ci sono stati quindi almeno 571 respingimenti. Il numero di persone menzionate (565/571) include 14 minori non accompagnati, 18 donne (di cui una in cinta), 5 bambin* e un minore non accompagnato che la polizia italiana ha riportato in Francia senza bisogno del nostro intervento.
Persone fermate dalla polizia di frontiera francese alla stazione di Menton-Garavan.
Minori
Dei 14 minori che abbiamo incontrato questa settimana, 4 casi spiccano in particolare.
Un ragazzo di quattordici anni è stato registrato dalla polizia francese come se ne avesse quaranta (data di nascita 1979 apposta sul suo refuse d’entrée) e la polizia italiana lo ha apparentemente registrato, con quattro impronte digitali, come se avesse quarant’anni. Siamo andati dalla polizia italiana con il ragazzo quattordicenne e abbiamo chiesto come sia stato possibile un errore di registrazione così ovvio. La poliziotta presente ci ha detto che non poteva farci nulla perché in quel momento non c’era la connessione con il data base di Stato. Resta il dubbio se questa informazione fosse vera dal momento che delle impronte erano stato prese un attimo prima e questo è possibile solo se l’accesso al data base è disponibile e il sistema per la registrazione è funzionante. E’ inoltre già successo in passato che, quando ci siamo recati dalla polizia italiana con dei minori, il sistema di registrazione fosse per coincidenza fuori uso.
Il giorno successivo lo stesso adolescente è stato nuovamente respinto dalla Francia ma questa volta come diciannovenne.
Un sedicenne, registrato in Italia come ventenne, aveva con se tutti i suoi documenti ufficiali della Costa d’Avorio che confermavano la sua età ma non li ha mostrati alla polizia per timore che glieli rubassero.
Ci sono stati raccontati due casi di violenza contro minori.
Un minore è stato preso a calci dalla polizia francese
Il 2 di Novembre un diciassettenne è stato colpito al naso dalla polizia francese. Aveva detto di avere vent’anni perché non voleva essere separato dai suoi amici. Durante il suo rilascio, la polizia francese lo ha spruzzato sul volto con spray al peperoncino.
2/11/2019 Ragazzo di 17 anni colpito al naso e fatto bersaglio di spray al peperoncino dalla polizia francese.
Violenza
Il 2 di novembre siamo venuti a conoscenza di almeno 24 casi i cui la polizia francese ha usato spray al peperoncino contro le persone durante il loro rilascio. Una di queste, dopo che la polizia la ha spruzzata con lo spray al peperoncino, ha perso conoscenza, è caduta e si è ferita a un ginocchio. Il suo amico ci ha raccontato che la polizia francese lo ha preso a calci mentre si trovava a terra.
Nell’arco della settimana abbiamo ascoltato altri 17 casi in cui la polizia francese ha usato spray al peperoncino contro le persone durante il loro rilascio.
Un uomo ci ha spiegato che che alle nove di sera del 27 ottobre si trovava vicino a una galleria sulla A8, sulle montagne sopra Mentone. Era sul percorso che porta a Mentone e si è avvicinato ad una proprietà privata. Il momento dopo ha sentito qualcuno gridare “Stop”. Si è voltato ed ha iniziato a correre verso l’Italia. Durante la fuga ha sentito esplodere un colpo di pistola. E’ riuscito a tornare in Italia senza essere arrestato. Prima che accadesse tutto questo aveva visto un gruppo di cinque persone che cercavano anch’esse di attraversare il confine a piedi. Il gruppo è stato arrestato sulle montagne dai militari francese e ci ha incontrati il giorno dopo, confermando di aver sentito degli spari alle nove della sera prima.
Due persone hanno riferito di essere state picchiate dalla polizia francese dopo essere stati arrestati nella toilette del treno.
Un uomo ha detto di essere stato picchiato da cinque poliziotti francesi sul binario 1 della stazione di Menton Garavan alle 18.12 del 31 Ottobre quando è stato arrestato. Ricordava chi fossero gli aggressori ma dal momento che durante l’attacco si è protetto il capo con le mani non ha potuto darci altri dettagli.
A una persona che era detenuta nel container sono stati chiesti i documenti attraverso la porta dalla polizia francese. L’uomo ha passato i documenti attraverso la porta socchiusa e in quel momento il poliziotto l’ha sbattuta sulla mano dell’uomo. L’uomo ha riportato una ferita grave.
Un attivista per i diritti umani in Marocco è stato arrestato dalla polizia francese e detenuto nei container. Durante la detenzione ha registrato un video con il suo telefono cellulare. In questo video, ora in nostro possesso, sono registrate diverse violazioni dei diritti umani e comportamenti discutibili della polizia francese. L’uomo ha chiesto ai poliziotti francesi di presentare domanda di asilo politico, come risposta lo hanno preso in giro. Nel video si vede una persona incosciente sul pavimento. Questo è accaduto dopo che la polizia ha usato contro le persone detenute lo spray al peperoncino. Nel video si vede anche un uomo che chiede cibo alla polizia francese e si sente la polizia rispondere che non ce n’è. Il video mostra chiaramente anche la pessima condizione igienica all’interno dei container, si vede lo scarico della toilette che perde sul pavimento. L’attivista per i diritti umani ci ha detto che lui ed il suo amico hanno dovuto firmare il loro rifiuto d’ingresso prima che questo fosse compilato con i loro dati dalla polizie. Ha anche riferito che in questo giorno (29/10) la polizia è entrata nel container all’una di pomeriggio e ha usato lo spray al peperoncino su molte persone. In un altro video registrato da lui si vede un uomo incosciente che viene portato fuori dalla polizia e da alcune persone detenute in quel momento.
A due persone è stata negata assistenza medica dalla polizia francese nonostante avessero con sé documentazione medica ufficiale e l’avessero mostrata alla polizia.
Il primo caso riguarda una persona con una patologia polmonare, confermata da un medico tedesco di Colonia. La persona in questione ha chiesto medicine e acqua alla polizia francese. Sono state negate entrambe.
Il secondo caso riguarda una persone con problemi dentali confermati da un medico spagnolo . La richiesta di cure mediche fatte da questa persona sono state anch’esse negate.
In un’altra situazione un poliziotto francese ha picchiato un uomo del Mali. L’uomo ci ha raccontato che lo stesso poliziotto gli ha rubato il bankomat un momento dopo.
Una persona ci ha detto che la polizia francese gli ha sottratto il suo permesso scaduto.
Sappiamo di 10 persone detenute tra le 12 e le 23 ore dalla polizia francese. Possiamo presumere che il numero di casi sia molto più alto dal momento che ci sono persone che vengono detenute per tutta la notte ogni notte ed alcune di loro non sono le prime ad essere rilasciate e spesso neanche le ultime.
Il collettivo Kesha Niya è impegnato a Ventimiglia nella preparazione e distribuzione serale di pasti dalla primavera del 2017. Dall’estate del 2018 porta cibo e bibite calde sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia.
Nell’articolo che segue, presentiamo un’intervista al collettivo R-esistiamo, attivo da un paio di anni nella lotta contro le politiche migratorie svizzere e, in particolare, contro la reclusione delle persone cosiddette migranti all’interno dell’ex bunker militare di Camorino. Parliamo quindi della frontiera tra Svizzera e Italia, e delle dinamiche repressive operate dal paese elvetico contro chi cerca di raggiungere l’Europa svalicando dai confini italiani a nord, anziché dall’estremo ponente ligure. Eppure parliamo sempre delle stesse politiche discriminatorie ed escludenti, che condannano le persone provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente a progetti esistenziali precari e spezzati, sospesi nel vuoto dei continui dinieghi, della privazione di dignità e libertà, intrappolandole negli infiniti “giochi dell’oca” disseminati di pericoli, minacce, violenze, ricatti e non-sensi.
Che sia la frontiera all’altezza di Ventimiglia, Mentone e Val Roya; che sia quella più a nord, da Bardonecchia, Claviere e Oulx; o quella ancora più in su, che attraversa le città di Como e Chiasso, il progetto della Fortezza Europa non cambia. Non cambiano gli effetti che gli ingranaggi di controllo e gestione delle persone in viaggio hanno sulle vite di migliaia di esseri umani. A Ventimiglia è comune incontrare persone che abbiano tentato già altrove di raggiungere la propria meta, prima di finire rinchiuse e gasate nei container a Mentone. Sono comuni le storie di respingimenti dalla Svizzera, soprattutto per chi proveniva dalle frontiere est della rotta balcanica: queste storie raccontano sempre degli stessi dispositivi, degli stessi attori e degli stessi abusi. Che si parli di Francia, Germania, Svizzera o Italia, più che le insignificanti differenze tra i meccanismi punitivi, sono gli elementi ricorrenti ad essere rivelatori della logica del dominio delle frontiere: la retorica della sicurezza, il lucroso business dei respingimenti e la corsa all’armamento dei confini. I responsabili sono i vari governi ed i loro esecutori: polizie, eserciti, Croce Rossa, agenzie di security e ditte private che vincono appalti milionari per gestire le gabbie dei reclusi e delle recluse.
Ringraziamo il collettivo R-esistiamo per aver condiviso la loro esperienza di lotta.
L’intervista
Cominciamo dalla cornice generale: in quale situazione si trovano le persone migranti in Canton Ticino? Com’è organizzata, a livello federale e cantonale, la politica migratoria della Svizzera?
Partiamo dal presupposto che, in Svizzera, è piuttosto difficile avere accesso a informazioni puntuali e veritiere circa decisioni e leggi riguardanti le politiche migratorie. Non si trovano documenti scritti ufficiali e si parla il meno possibile di migranti e frontiere. Per le istituzioni, l’obiettivo è mantenere la quiete sociale e insabbiare ogni testimonianza e notizia di abusi e ingiustizie. Per il governo federale, l’unico aspetto importante è non concedere affatto permessi alle persone, concentrandosi completamente su respingimenti e rimpatri.
Il Collettivo R-esistiamo è nato nella primavera del 2018: il nostro obiettivo è anzitutto rompere questo isolamento informativo, far circolare la verità sui fatti e sui maltrattamenti a cui sono sottoposte le persone, e chiedere la chiusura dei bunker militari in cui vengono messe per mesi e, talvolta, per anni. Le informazioni che riusciamo a raccogliere sono frutto della conoscenza diretta con loro, nonostante l’incontro e la comunicazione tra i e le migranti e persone attiviste e solidali sia scoraggiato in ogni modo dalle istituzioni. In questo senso, anche l’uso dei bunker è strategico: luoghi isolati, sotto terra, il cui accesso è vietato ai civili.
La politica migratoria, in Svizzera, è infatti una macchina ben organizzata, il cui unico scopo è non ammettere per nulla le persone e non dare la possibilità di ottenere permessi sul territorio. È inaccettabile l’ostinazione con la quale i vari responsabili dei percorsi per la richiesta d’asilo e per l’accoglienza, la Segreteria di Stato della Migrazione (SEM), i Cantoni, la Croce Rossa Svizzera, la ORS2 (ditta privata che si occupa della logistica nei centri per migranti, ndr) non riconoscano l’umanità e l’individualità di ciascuna Persona. Non vengono mai presi in considerazione i loro bisogni, la volontà, le competenze, e vengono invece viste solo come un peso, un problema da espellere il più velocemente possibile.
Da sempre, a tutela del proprio sistema economico, la Svizzera porta avanti una politica di selezione differenziale tra chi può restare per contribuire all’incremento delle ricchezze, e chi viene spinto a lasciare il paese o addirittura viene espulso coattamente. Questo vale sia per gli immigrati di ieri, come spagnoli, italiani, portoghesi, e tanto più per le nuove immigrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente. Eppure, a livello di opinione pubblica mondiale, si sente parlare di “Svizzera umanitaria”, basti pensare alla retorica sulla nascita della Croce Rossa proprio in questo paese.
Nell’ultimo anno, è partito un progetto di costruzione di sette centri federali per la raccolta e l’identificazione delle persone migranti. Nonostante sia in ancora in fase di rodaggio e potrebbe volerci ancora qualche tempo, l’idea è quella di accentrare il controllo delle persone in questi luoghi, per poi smistarle nei vari centri cantonali, metterle nei bunker, o, ancora, per respingerle nei primi paesi d’ingresso (soprattutto l’Italia) o direttamente destinarle a un volo di rimpatrio. È stato anche proposto di organizzare delle scuole differenziali per i figli delle persone che si trovano stoccate nei centri federali: si vuole negare l’inserimento nei percorsi scolastici svizzeri a bambini e bambine le cui famiglie vengono spinte con forza a lasciare il paese e vengono, spesso, infine rimpatriate coattivamente.
In Canton Ticino, al momento, abbiamo tre centri federali: Stabio (distretto di Mendrisio), Biasca e Chiasso, che probabilmente saranno però sostituiti da un unico centro federale dei sette in costruzione su tutto il territorio elvetico. A Rancate, sempre nel Ticino, è stato allestito un centro respingimenti, dove le persone passano la notte in attesa che, il mattino successivo, riapra la dogana italiana1 e possa completarsi il respingimento. Il costo per mantenere il centro si aggira sui 670.000 franchi all’anno: a quante persone si potrebbe offrire una chance di vita dignitosa, se questi soldi fossero usati diversamente? Ci sono inoltre, ancora operativi, i centri a gestione cantonale: Paradiso, Cadro, Castione e Camorino
Veniamo quindi allo specifico del’impegno del collettivo R-esistiamo: la lotta per la chiusura del bunker di Camorino. Che cos’è questa struttura? Come viene utilizzata?
Durante la Guerra Fredda, per paura di un possibile attacco atomico, vennero costruiti dei bunker a scopo militare e di protezione civile. Rimasti inutilizzati, salvo che per alcune esercitazioni militari, questi luoghi sono stati “presi in prestito” negli ultimi anni dalla SEM, la Segreteria di Stato della Migrazione, che ha pensato di destinarli alla gestione delle persone migranti. Il bunker di Camorino (Bellinzona), che è aperto dal 2014, si trova fuori dal centro abitato, in un luogo isolato tra l’ingresso autostradale e la centrale di polizia. Per la gente costretta a vivere lì è impossibile allontanarsi, non avendo un abbonamento ai trasporti né soldi sufficienti a comprare un biglietto.
I locali in cemento armato sono sottoterra e privi di un’adeguata areazione, gelidi d’inverno e oltre i trenta gradi d’estate; l’acqua dai rubinetti esce sporca, durante la scorsa estate ci sono state gravi infestazioni da cimici nei materassi, non vi sono spazi adeguati nè possibilità di privacy. Da agosto 2019, per il cibo, che in passato era comunque insufficiente e di scarsa qualità, i vestiti, scarpe, le necessità personali di qualsiasi genere, le persone ricevono 10 franchi svizzeri al giorno, denaro insufficiente per coprire tutti i propri bisogni, visto il costo molto alto della vita nel paese. Il coprifuoco serale, l’obbligo di pernottamento, le perquisizioni, i ricatti e il controllo costante della polizia cantonale unito alle ronde della Securitas (ditta privata di vigilanza) rendono il luogo paragonabile a una prigione più che a un centro di accoglienza.
Per chi si trova nel centro, gestito prima dalla dalla Croce Rossa, che ha rinunciato dopo lo sciopero di luglio, e attualmente dal Dipartimento Sanità e Socialità del Cantone, viene ostacolato l’accesso alle cure mediche (salvo iperdosaggi di antidolorifici e psicofarmaci) e alla tutela legale; non vi è alcun programma di attività, corsi di lingua o percorsi di inserimento: decine di persone, semplicemente, sono costrette a restare lì mesi, aspettando il proprio turno di rimpatrio, quando la polizia viene a prenderli in piena notte per caricarli su un aereo.
Non si vuole riconoscere di chi sia la responsabilità di questo posto e di quello che vi accade: se si chiede al Cantone, dicono che la responsabilità è della SEM e quindi federale. Se chiedi alla SEM, rispondono che il referente è il Cantone, in un gioco di rimpalli dove non esiste nessun tipo di trasparenza rispetto alla struttura.
Il bunker è, a tutti gli effetti, l’ultima spiaggia delle persone indesiderate, quelle per le quali non c’è altra via di uscita né alcuna volontà del governo di concedere dei permessi. È un posto talmente malsano e abbrutente che la minaccia di un trasferimento a Camorino viene utilizzata come avvertimento per coloro che fanno problemi negli altri centri, e per scoraggiare qualsiasi protesta o rivendicazione di istanze.
Alcune delle persone che sono a Camorino non possono nemmeno essere espulse, sebbene il governo non abbia in ogni caso intenzione di rilasciare loro un documento: si tratta, per esempio, di uomini con lo status di apolidi, oppure il cui paese che sarebbe meta del rimpatrio non ne riconosce l’identità. È il caso di un uomo che si identifica come tibetano e a cui la Cina rifiuta la possibilità di rimpatrio. O, ancora, sono persone il cui paese di provenienza non ha firmato accordi di rimpatrio con la Svizzera, come l’Algeria, che accetta solamente rimpatri volontari. La maggior parte della gente rinchiusa a Camorino si trova in un limbo, senza possibilità di sbloccare la propria condizione. Tra l’altro, il sistema di rilascio dei permessi è assai controverso: non ci sono leggi precise in proposito alla valutazione dello status dei richiedenti asilo. Non esiste nemmeno una lista ufficiale di paesi d’origine considerati “sicuri”, così che la decisione spetta di volta in volta all’arbitrio della Segreteria di Stato della Migrazione.
Una parte delle politiche viene decisa a livello federale a Berna, ma una parte delle decisioni è presa a livello cantonale: la situazione è così nebulosa, che è molto difficile anche per gli stessi avvocati capire come agire. A pagine e pagine di ricorsi, spesso, viene semplicemente risposto un “non entriamo nel merito della questione del ricorso”: un no e basta insomma, senza ulteriori spiegazioni.
Come siete riusciti, visto il contesto ostile, ad entrare in contatto con le persone nel bunker? Com’è adesso la situazione a Camorino e quante persone vi sono rinchiuse?
Momenti di protesta al bunker di Camorino (fonte immagine)
L’incontro è cominciato nella primavera del 2018, grazie ad una prima conoscenza avviata con alcune di queste persone, che banalmente provavano a seguire un percorso di inserimento nel tessuto sociale, per esempio durante partite di calcio in cui partecipavano anche dei solidali (in seguito la Croce Rossa ha smesso di accompagnarle per sport e visite mediche, sostenendo di non avere personale sufficiente). Dai primi racconti sulle difficoltà che vivevano, è nata la voglia di conoscersi meglio, di capire che cosa stava succedendo e cosa fossero questi bunker in cui veniva messa la gente. Sono troppe le persone che aspettano in Svizzera come fantasmi, senza diritti e senza speranze di ottene davvero un regolare permesso, depositate nei centri per anni e infine espulse.
La nostra linea d’azione è quindi diventata la volontà di rompere l’isolamento, di informarci e di informare. Di costruire delle relazioni che possano portare un po’ di sollievo: parlare con qualcuno che ti considera una persona, e che prova a darti una mano per quanto possibile.
Abbiamo organizzato delle “merende” fuori dal bunker di Camorino, costruendo dei momenti e degli spazi per incontrare e conoscere chi stava lì dentro. L’intenzione dei presidi era anzitutto quella di far sentire meno sole le persone, raccogliere i loro racconti e le testimonianze di quello che subiscono. Ma, appena qualcuno si dimostrava interessato e partecipava, il giorno dopo veniva spostato lontanissimo, facendoci perdere il contatto reciproco.
Ovviamente per le istituzioni il punto è ostacolare la creazione di relazioni e spaccare i legami che nascono. Alle persone solidali sono state fatte pressioni sul posto di lavoro da parte delle autorità, diffondendo informazioni e articoli diffamanti. Per chi invece sta nel bunker, la strategia è quella di esercitare continuamente pressioni psicologiche e minacce. Alcuni funzionari cantonali, in visita a Camorino, avrebbero detto agli uomini che si trovano lì che è meglio se stanno zitti, che se stanno buoni prima o poi le cose cambiano, e che è meglio che non diano ascolto a noi e che non si uniscano ai momenti di manifestazione e ai presìdi.
Le persone, nel tempo, hanno comunque capito che gli vengono date solo false illusioni: anche se la loro situazione è sempre difficile, talvolta scoppiano delle proteste.
Quest’estate, il 2 luglio, i circa trenta uomini che stavano a Camorino hanno fatto uno sciopero della fame, per protestare contro la terribile situazione in cui vivono e perché, con la motivazione di dover areare le stanze, la direzione del bunker li obbligava ad uscire dai locali il mattino e a non potervi far ritorno fino alla sera. Questo senza soldi per potersi spostare, senza nulla da fare, senza un riparo dalla canicola estiva, con un panino e una bottiglietta d’acqua per tutto il giorno. La reazione immediata è stata quella di silenziare la protesta: nel giro di 24 ore, coloro che avevano un permesso anche solo provvisorio sono stati spostati. Sostenendo tra l’altro che i trasferimenti fossero già decisi da tempo e che la protesta non c’entrasse nulla.
A nessuno dei responsabili del bunker, dalla SEM, alla polizia, alla Croce Rossa, conviene che si parli della situazione a Camorino, quindi ogni voce di dissenso deve prontamente essere scoraggiata. Per tenere buone le persone si fa vedere che vengono concessi piccoli miglioramenti, o si promettono vantaggi in futuro (che poi vengono comunque disattesi) per i migranti che si comportano “bene”, seguendo la strategia di dividere le persone tra buone e cattive, con lo scopo di sedare gli animi e fiaccare le resistenze.
Dopo le proteste, nel bunker di Camorino sono rimaste al momento una decina di persone, prive di qualsiasi permesso e in attesa di espulsione o di finire in prigione.
Molti di loro, infatti, hanno già subito anche periodi di detenzione amministrativa (che prevede fino a 18 mesi di reclusione), con la sola accusa di non possedere documenti “utili”. Principalmente gli arrestati vengono messi nel carcere di Realta, nel Canton Grigioni, dove un intero piano del carcere è dedicato proprio ai sans papiers, che hanno minori diritti dei detenuti comuni. Un ragazzo ci ha raccontato che per un mese di fila non gli è stato concesso di uscire dalla sua cella, e, per questo motivo, ha cominciato a praticare gesti di autolesionismo. Adesso è tornato proprio a Camorino e sta peggio che mai. Un’altra ragione per essere imprigionati è se il governo federale pensa che tu possa allontanarti prima dell’esecuzione di espulsione: un uomo si è recato a trovare il fratello in un cantone della Svizzera interna, pur non avendo un permesso per spostarsi, è finito in un controllo di polizia (che si basano sempre sul racial profiling, visto che vengono fermate le persone in base al colore della carnagione) e, solo per questo, è stato imprigionato.
Alla luce di questo stato di cose, quali sono le richieste e gli obiettivi di lotta che portate avanti come collettivo R-esistiamo?
Quello che chiediamo è che luoghi come questo, e in particolare il bunker di Camorino, vengano definitivamente chiusi.
Siamo consapevoli che, quando cala l’attenzione, ricominciano invece a portare lì le persone. Vogliamo che il bunker venga chiuso e che venga data una possibilità di vita a queste persone, condannate ad un’esistenza sotto terra senza nessuna prospettiva.
Nel 2014 uscì un rapporto ufficiale della Commissione Federale Contro la Tortura, in cui si affermava che le persone non possono essere tenute nei bunker per oltre tre settimane, per ragioni igienico sanitarie. Nonostante non sia cambiata la loro situazione, nel report del 2018 della stessa Commissione non si fa più nessuna menzione a questo ammonimento, e nessun ente ufficiale federale si è più espresso in merito al fatto che, alcune persone, siano sottoterra da anni.
Da Marzo 2019 è entrata in vigore una nuova legge sulla migrazione, che avrebbe dovuto evitare alle persone di rimanere in attesa per anni, e velocizzare l’iter di valutazione delle richieste di asilo. Dopo pochi mesi, vediamo già come questa legge non funzioni affatto: la gente non riceve mai assistenza legale, la polizia cambia a proprio piacimento, sui moduli, dati, età e provenienza delle persone, per metterle nella condizione di poter essere espulse o respinte.
Nonostante le immense risorse di uno dei paesi più ricchi del mondo, che potrebbe con estrema facilità assorbire il numero esiguo di persone che arrivano in Svizzera, a prevalere sono in ogni caso gli interessi economici, che preferiscono nutrirsi del fruttuoso business legato alla repressione, alla militarizzazione delle frontiere, alle deportazioni e allo sfruttamento della manodopera in nero delle persone senza documenti giusti.
Sappiamo che sarà molto difficile farsi ascoltare e che abbiamo a che fare con il muro di gomma delle istituzioni, ma non si può proprio mollare.
1 Sembra che nel 2020 il centro di Rancate verrà chiuso: gli arrivi in Svizzera nell’ultimo anno, a fronte di un’ingente spesa di mantenimento della struttura, sono andati diminuendo in maniera consistente. La proposta del consigliere leghista Norman Gobbi, tuttavia, non è di eliminare un punto di riferimento per i respingimenti, ma semplicemente quella di spostarlo a Stabio o a Chiasso, sul confine con l’Italia, dove alcuni magazzini delle ferrovie FFS sarebbero già stati allestiti da tempo come dormitori, senza tuttavia mai essere utilizzati.
2 La ORS Service AG è una società privata svizzera che gestisce alloggi per l’asilo per conto del governo federale, ed è uno dei maggiori attori in questo campo. In seguito alla diminuzione degli arrivi in Svizzera, la società è entrata in una fase di crisi che l’ha portato a cercare di espandere il proprio mercato nei paesi sul Mediterraneo, in primis l’Italia. Nel luglio 2018 è stata fondata quindi a Roma la nuova filiale ORS Italia S.r.l., che mira ad aggiudicarsi la cospicua fetta di investimenti piovuti sul settore degli hotspot e dei centri di detenzione e rimpatrio, grazie ai decreti legge Salvini e all’imminente apertura dei nuovi CPR, come il Corelli di Milano.
Pubblichiamo l’ultimo resoconto estivo del collettivo Kesha Niya sugli episodi di violenza e abuso di potere commessi dalla polizia francese alla frontiera tra Ventimiglia e Mentone. Dopo i report e le testimonianze pubblicate a maggio, giugno e luglio, anche ad agosto non si sono visti miglioramenti rispetto all’esercizio arbitrario di ferocia gratuita che le guardie di frontiera infliggono alle persone non desiderate sul suolo francese. Anzi, a seguito di un modesto incremento, nell’ultimo mese, del numero di persone che prova a raggiungere il nord Europa (400 sono quelle respinte in Italia solo nella prima settimana di settembre, secondo i dati rilevati da associazioni e ong), il trattamento riservato alle persone non europee è diventato ancora più brutale: quotidiane sono le testimonianze di calci e pugni ricevuti dalla gente, di uso di gas e spray urticanti, di retate aggressive contro uomini, donne e minori, di insulti, bugie, minacce, furti e privazioni.
Le persone incassano, ma non si rassegnano: sempre più spesso decidono di raccontare, per poi tentare ancora di superare questo maledetto confine.
Il collettivo Kesha Niya mantiene quotidianamente un presidio per le “colazioni” al confine, nonostante i controlli e le continue pressioni da parte delle autorità nostrane affinché vadano via anche loro, testimoni scomodi di quello che avviene negli uffici di frontiera, lontano dagli occhi della città.
Nel mese di agosto circa 1072 persone sono passate dal presidio solidale in frontiera, dopo la detenzione nei containers della polizia francese e la successiva riammissione in Italia. Due sono i pullman di Riviera Trasporti partiti alla volta di Taranto: le deportazioni avvengono ora con cadenza bisettimanale.
Sono di nuovo in aumento le persone appena arrivate in Italia, dagli sbarchi attraverso il mediterraneo, o, per la maggioranza, arrivate a piedi lungo la rotta balcanica. A causa di questi lunghi viaggi molte persone riportano ferite e gravi infezioni alle gambe.
Un elemento molto preoccupante, testimoniato dai racconti di diverse persone catturate, è la prosecuzione di azioni illecite e vessatorie da parte della polizia francese: telefoni cellulari e documenti sottratti arbitrariamente e non restituiti (di fatto, rubati), reiterate falsificazioni dei dati anagrafici delle persone respinte, retate violente sui treni diretti in Francia, con assalti fisici alle persone che oppongono resistenza e che, più volte, sono state costrette ad abbandonare i propri bagagli (con dentro tutti i soldi, i documenti e gli averi personali) sul treno che ripartiva.
Vediamo, nel dettaglio, i casi di abusi e torture fisiche e psicologiche che le persone catturate nel tentativo di attraversare la frontiera sono state costrette a subire.
ATTENZIONE! A SEGUIRE, I RACCONTI CHE CI SONO STATI RIFERITI SULLA VIOLENZA DELLA POLIZIA!
2019/03/08:
– 2 algerini erano sul treno e hanno incontrato un francese amichevole che parlava con loro e che voleva dare un aiuto. A Menton Garavan sono stati tutti fatti scendere dal treno e il ragazzo francese è stato afferrato e stretto alla gola dalla polizia francese, prima che lo lasciassero libero di andare.
– Un giovane tunisino è stato picchiato e respinto illegalmente [in Italia], abbiamo inviato la sua storia a un avvocato, così che possano sporgere denuncia.
M. è in Francia da 20 giorni, ha lasciato l’Italia perché è stato costretto a farlo, dopo una pena detentiva. Stava camminando al mercato di Nizza con un amico quando è stato fermato dalla polizia locale per un controllo di documenti e hashish. L’amico di M . aveva i documenti, e si è potuto allontanare liberamente. M. non aveva droghe con sé ma nemmeno i documenti, quindi è stato portato alla stazione di polizia. Lì ha dovuto dare le sue generalità e spogliarsi completamente in modo che potessero controllare se avesse droghe. Quindi è stato messo in cella per 2 ore.
Il poliziotto è tornato e ha detto a M. che sarebbe stato riportato in Italia. M. si è rifiutato, ha domandato le motivazioni, ha alzato la voce e chiesto di parlare con un avvocato. Il poliziotto lo ha ignorato e gli ha solo detto che lì era ricercato. M. è stato quindi ammanettato e spinto in una macchina. È stato portato agli uffici della PAF con i lampeggianti blu accesi.
Poiché M. non beveva nulla dalla mattina, diverse volte ha domandato dell’acqua, ma gli è solo stato risposto di aspettare. Una volta alla PAF è stato portato in ufficio e ha nuovamente domandato dell’acqua. Il poliziotto gli ha chiesto di guardarlo negli occhi. M. non ha obbedito e ha rivolto a terra lo sguardo. Il poliziotto l’ha colpito con un pungo molto forte sotto al mento per farlo guardare su. M. è stato preso a calci e pugni più volte alla schiena e alla nuca. È caduto a terra mentre ancora era ammanettato e sputava sangue sul pavimento. Una poliziotta gli ha calpestato la gamba destra e gli ha ordinato di guardarla in faccia. M. è stato lasciato lì, sdraiato a terra per 15 – 20 minuti finché non si è sentito meglio e ha aperto di nuovo gli occhi. È stato respinto in Italia.
Quando lo abbiamo incontrato aveva una piccola ferita sul labbro, segni rossi delle manette sui polsi e dolore al cranio, dietro l’orecchio sinistro e sulla schiena.
Il suo ‘refus d’entree’ diceva che era stato catturato su un pullman proveniente dall’Italia. Non era ricercato in Italia, la polizia italiana lo ha identificato con le impronte digitali e gli ha solo dato il normale invito ad andare in questura [per “regolarizzare la sua posizione in Italia”].
2019/11/08:
Un uomo si è sentito male nei container. Ha vomitato e ha chiesto alla polizia di aiutarlo. L’unica risposta che ha ottenuto sono stati 2 pugni in faccia.
19/08/2019:
Un ragazzo ha cercato di recarsi a Parigi per fare il suo passaporto perché la sua ambasciata, in Italia, ha rifiutato di rilasciarglielo e perché lo stato italiano non ha mai risposto alla sua richiesta di permesso di viaggio, che aveva presentato 6 mesi fa. Ha spiegato questo alla polizia francese e ha mostrato il suo certificato di nascita e il certificato di nazionalità che gli servono per andare all’ambasciata. La polizia ha preso i documenti e ha detto che avrebbero inviato loro stessi i documenti all’ambasciata in Francia. Il ragazzo ha rifiutato e ha detto che non se ne voleva andare senza i suoi documenti. La polizia gli ha restituito i documenti e [gli ha spruzzato] spray al peperoncino su tutta la faccia.
23/08/2019:
Un gruppo di 8 persone era nascosto nei servizi igienici del treno. La polizia ha usato spray al peperoncino per farli uscire.
– in questo gruppo un giovane ha detto alla polizia che non sono autorizzati a trattare le persone in questo modo. È stato ammanettato e spinto a terra. Il suo telefono è stato rubato.
– nello stesso gruppo c’era una donna incinta di 3 mesi. Dopo lo spray al peperoncino non riusciva più a respirare, aveva molto dolore al grembo e ha iniziato ad avere contrazioni. È stata portata in ospedale a Nizza.
Abbiamo incontrato suo marito che era davvero preoccupato e non aveva modo di contattarla perché tutte le sue cose, incluso il telefono, erano con lui. Abbiamo raggiunto l’ospedale, che ha accettato di trasmetterle il numero di suo marito e ci ha anche detto che non sarebbe stata riportata alla polizia. Più tardi abbiamo avuto l’informazione che non le avevano mai dato il numero e che avevano chiamato la polizia affinché la riprendessero al termine degli esami. L’abbiamo incontrata nel pomeriggio.
24/08/2019:
La polizia si è presa gioco di un ragazzo, gli ha scattato diverse volte delle fotografie e lo ha gasato nei containers.
25/08/2019:
– A molte persone viene spruzzato spray al peperoncino mentre si trovano sul treno o dentro ai container.
– un uomo è stato colpito in faccia e gasato su tutto il corpo.
– Altri 2 sono stati colpiti al ventre, sono stati ammanettati molto stretti e colpiti alla testa. Uno di loro perdeva sangue dal naso.
– un uomo è stato spruzzato con spray al peperoncino sul treno e davanti ai container. È stato picchiato con i manganelli e preso a calci con gli stivali, così forte che sanguinava molto e ha perso conoscenza. La polizia lo ha poi trascinato a terra fin dentro ai container. Le persone all’interno hanno iniziato a urlare quando lo hanno visto e quando la polizia lo ha riportato fuori trascinandolo di nuovo sul pavimento. È stato portato all’ospedale di Mentone.
Non abbiamo incontrato questa persona, abbiamo ricevuto questo resoconto dei fatti da un suo amico, che è stato anche lui picchiato e arrestato sullo stesso treno. Questa versione è stata confermata da diverse persone che hanno visto la scena.
Abbiamo chiamato l’ospedale per avere sue notizie, ma a quel punto era già stato restituito alla polizia. Non l’abbiamo mai incontrato, nè il giorno in cui questo è successo e nemmeno il giorno seguente. Deve essere stato respinto [in Italia] per qualche altra via.
29/08/2019:
Un uomo è stato arrestato mentre saliva su un treno in Francia, dopo aver attraversato il confine in altro modo. Sul suo ‘refus d’entrée’ è stato scritto che è stato arrestato mentre camminava sull’autostrada. La polizia ha preso il telefono per controllare il suo profilo Facebook e gli ha detto che stava mentendo sulla sua età (anche se questo non era importante, perché comunque non si trattava di un minore) e per tre volte è stato preso a schiaffi. È stato accusato di aver rilasciato false dichiarazioni.
La situazione al confine è nuovamente peggiorata e questo ci ha dato molte volte motivo di preoccuparci. Ci addolora e ci fa rabbia il fatto che la polizia possa liberamente abusare del proprio potere in questo modo. Nessuno dovrebbe mai affrontare questo trattamento e trovarsi in una tale situazione. Vogliamo diffondere le informazioni per mostrare alle persone il vero volto dei confini.
Vi invitiamo a condividere e parlare di ciò che sta accadendo per creare consapevolezza.
Innesca il cambiamento e continua a combattere le autorità!
Riceviamo e pubblichiamo il seguente contributo, che racconta gli eventi di una normale giornata d’agosto: una violenta routine diventata la prassi dell’estate in frontiera.
UN’ESTATE AL MALE
una mattinata in frontiera
(Ventimiglia, 9 agosto 2019)
“Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso.”
[Hannah Arendt, La banalità del male]
Questo scritto è frutto di tre sguardi che hanno esperienze e conoscenze differenti rispetto alla frontiera fra Ventimiglia e Mentone. Per qualcuna è luogo quotidiano di presenza e resistenza, qualcun’altra ha potuto attraversare più volte a distanza di tempo gli spazi segnati dal dispositivo di controllo del confine, per qualcuna altra ancora questo è stato invece il primo incontro diretto con la frontiera alta di ponte S.Luigi e con il meccanismo di respingimento delle persone indesiderate dalla Francia.
Il pullman che ci porta in frontiera è dell’RT (Compagnia Riviera Trasporti) la stessa che portava le persone negli aereoporti per essere deportate, e che continua a portarle negli hotspot del Meridione. Ma questa è una piccola navetta carica di “onestx cittadinx” che sale nella ridente località di Grimaldi, ultimo paesino prima della frontiera alta, a cui siamo dirette.
Neanche il tempo di attraversare il lato francese che veniamo fermate per un “ordinario controllo di documenti”. Probabilmente ci stavamo guardando intorno in modo stra-ordinario.
Ci ritroviamo nell’ufficio di polizia della P.A.F.(Police Aux Frontiéres), vediamo il desk dove ci sono un sacco di guardie, da quella minacciosa, all’ultimo arrivato, passando per l’umorista, il poliglotta,il graduato ecc. Un clima da gita, grandi battute, saluti e scherzi. Dietro di loro una lavagna sulla quale sono scritte tre categorie: internatx, uscitx e trattenutx. Le persone in questa tabella sono numeri fluttuanti, cancellati e aggiornati continuamente man mano che le persone vengono respinte al confine italiano, lasciando il posto a quelle che nel frattempo vengono trattenute quotidianamente nelle retate sui treni. Ad un certo punto arriva uno sbirro che ci dà un caloroso Bonjour. Si risente del fatto che non rispondiamo al saluto. Ci dice di sorridere, mostrare i denti. Ci dicono di sorridere perchè siamo carine, noi non veniamo gasate con gli spray, non ci sequestrano e rompono i cellulari, non ci rubano i documenti nè ci tagliano le suole delle scarpe. Solo una molestia da bar, niente di diverso da quello a cui anche compagni di scuola, autobus e squat ci hanno abituate a reagire. Nulla in confronto alle molestie e violenze che chi detiene l’autorità e tutela l'”ordine” mette in atto continuamente con chi viaggia o comunque con qualsiasi persona abbia la possibilità di soverchiare. Dopo le 10 arriva un’operatrice di un’O.N.G. che si porta via quelli che sembrano dei minori, gli unici che riusciranno a restare sul suolo francese. Finalmente ci ridanno i documenti e, mentre rilasciano noi, cominciano a cacciare le persone recluse, i numeri sulla lavagna vengono cambiati e gli internati scendono da 24 a 19: gli sbirri cambiano modo di fare, indossano guanti di pelle e aria da duri.
Tornando verso la dogana italiana incontriamo una persona, ci dice che nel carcere di Solicciano ha conosciuto un amico, ci dice ridendo che i nostri compas hanno fatto un macello lì. Si ricorda il rumore, le grida, i saluti sotto quella galera. Giusto il tempo di una sigaretta, poi lo lasciamo tristemente alle ore che dovrà passare coi doganieri italiani.
Poco oltre al confine c’è una postazione con un po’ di ombra, cibo, acqua e pannelli solari per caricare i telefoni tenuta da qualche solidale. Lì ci fermiamo per due chiacchiere. Qualcuno racconta che è in italia da pochi mesi ed è alla terza notte nei container, qualcuno ha il permesso regolare, ma in corso di rinnovo, ci può volere anche un anno e nel frattempo è in un limbo burocratico. Ci parlano di una donna con tre bambinx che ha passato la nottata nel container, di tre persone che hanno provato a non farsi sbattere fuori dal bagno del treno, sono state gasate con spray al peperoncino. Poco dopo le vediamo arrivare, sembrano in forze, pare che da queste parti non sia niente di speciale. Ci raccontano quello che da anni succede nei container: non gli viene spiegato quello che sta succedendo, non gli vengono dati cibo e acqua, il pavimento viene bagnato impedendo che occupino troppo spazio sedendosi o sdraiandosi, e questo per un periodo di tempo variabile, spesso la nottata intera, a volte anche di più. Sappiamo che i soprusi non si limitano a questo, che non risparmiano l’uso di taser, calci, violenza fisica e psicologica.(2)
Per andarcene noi, con i nostri documenti comunitari, scendiamo di nuovo in Francia, andiamo alla stazione di Menton Garavan. Nel parcheggio, due camionette di C.R.S. (antisommossa francese) e un pullmino grigio per deportare chi viene presx. Arriva il treno da Ventimiglia. Salgono almeno in sei, palestrati, perlustrano i vagoni, e alla fine sbattono giù un uomo e una donna con due bambinx. Gli controllano i documenti nella sala d’aspetto della stazione, mentre uno sbirro troppo spiritoso mima ridacchiando ai colleghi la scena di aver stanato qualcunx con aria spaventata dal proprio nascondiglio.
Saliamo sul nostro treno, arriviamo a Ventimiglia. Sbirri ufficiali e sedicenti scandagliano la stazione: affianco alla pol.fer le pattuglie della Vigile-guardia privata di imperia, incaricata dalla SNCF (Société Nationalle de Chemins de fer Français) per controllare che non salga sui loro convogli chi non ha documenti validi per entrare in Francia. Andiamo via giusto in tempo per non assistere alla retata coordinata fra una squadra della mobile di Torino e agenti e digos del commissariato di Ventimiglia (1).
L’unico punto di vista che spiega i fatti della retata, che ha portato 15 persone a un fermo in commissariato, è il comunicato della P.S. ventimigliese, da loro girato alle varie testate online e ripubblicato tale e quale. Niente di insolito nel panorama mediatico, abituato a ricevere le veline dei commissariati talvolta addirittura in anticipo rispetto alle loro operazioni, come successo poche settimane fa in occasione del tentativo di far sloggiare il presidio che distribuisce colazioni in frontiera: quella volta la municipale arrivò mezz’ora dopo che il successo dello sgombero era già stato pubblicato dalla testata di Sanremonews. Questa volta non c’erano testimoni scomodx durante la retata e il vanaglorioso racconto dell’operazione è l’unica voce che ci arriva. “Le operazioni si sono protratte per tutta la giornata”: la polizia ferma gente per strada a mucchi in base a caratteristiche cromatiche, arresta, emette espulsioni, rincorre persone nel fiume.Tutto questo viene spacciato per “attività di vigilanza” per “tutelare le vittime”, ovvero le persone definite “in stato di vulnerabilità e bisogno”, tradite dagli stessi “compagni di viaggio”, come se il “viaggio” fosse una piacevole scampagnata e non un dispositivo a ostacoli in cui finire gasatx, picchiatx, perquisitx, detenutx per ore e rimbalzatx decine di volte dalla frontiera presidiata. Le risse per il prezzo dei passaggi in francia, gli accordi saltati con i trafficanti, la lotta per la sopravvivenza quotidiana tra fughe e rastrellamenti sono la diretta conseguenza dei continui controlli razziali di cui questa retata è, per, ora, l’ultimo inglorioso atto. Due fogli di via, otto espulsioni, aggravamenti di misure per violazione di divieto di dimora, denunce per invasione di terreno sono il collaudato repertorio per far sparire le persone sprovviste del giusto pezzo di carta.
Ma la verità è uno schifo troppo difficile da abbellire: la velina degli sbirri è infarcita di termini quali “caccia”, “mirino”, “retata”. La chiamano “prevenzione”, mentre si dedicano alla persecuzione.
Traduciamo il comunicato con cui il collettivo Kesha Niya – che da quasi due anni opera sulla frontiera di Ventimiglia fornendo quotidianamente pasti e sostegno alle persone migranti che tentano di attraversarla – racconta i fatti dell’ultima settimana.
Le autorità, in particolare con l’interessamento del nuovo sindaco Scullino, hanno deciso di spostare ancora l’asticella della criminalizzazione della solidarietà alle persone in viaggio. Del tutto in linea, va detto, con le decisioni del governo centrale e con le azioni della precedente amministrazione comunale (tristemente nota per le ordinanze del sindacolo Ioculano di divieto di distribuzione del cibo in città alle persone migranti). Il presidio di accoglienza delle persone rilasciate dopo le detenzioni in frontiera è evidentemente diventato scomodo, probabilmente anche a seguito delle denunce della violenza della polizia di frontiera fatte sulla pagina dei Kesha e tradotte suquesto blog. In maniera, a dire il vero abbastanza goffa e assai poco avveduta, le forze dell’ordine intervengono per sgomeberare un telone per proteggersi dal sole (posto sul ciglio della strada, su di un pezzo di terra di proprietà del demanio) e poche vettovaglie utili a fornire qualche genere di conforto a chi ha passato ore e ore recluso nei container della frontiera, molto spesso subendo abusi e violenze da parte della polizia di frontiera.
Il collettivo Kesha Niya, con le e i solidali rimasti sul territorio di Ventimiglia, come in questi due anni passati, intende resistere e continuare a fare quello che non solo è giusto ma non può essere vietato da nessuna legge e seppure lo fosse, continuerebbe ad essere giusto fare.
La resistenza è vita. Grazie Kesha Niya, grazie Carola Rackete, grazie a tutte e tutti, le e i resistenti che continuano a dimostrarlo con i fatti.
Martedì 25 giugno: municipale, polizia di stato e digos, con tre volanti e operatore della scientifica per le riprese, salgono al punto ristoro a poche centinaia di metri dalla frontiera, intimando alle persone solidali di allontanarsi
Negli ultimi tre giorni, la polizia è venuta ogni giorno alla colazione a ridosso del confine per sgomberarci.
La prima mattina abbiamo ricevuto la visita di un uomo vestito di blu. Prima ci ha chiesto cosa stessimo facendo, per poi dirci che non possiamo distribuire cibo senza autorizzazione. Abbiamo provato a spiegare che la polizia era già venuta diverse volte e che non era mai stato un problema, a patto che avessimo portato via ogni cosa finita la distribuzione. Ma l’uomo in blu ha chiamato qualcuno e se n’è andato. Qualche minuto più tardi, è arrivata la polizia dicendo che non eravamo autorizzati ad essere lì, accusandoci di occupare lo spazio in maniera abusiva. Ci hanno detto di andarcene, altrimenti ci avrebbero portato in commissariato. Mentre, lentamente, impacchettavamo tutto, sono arrivati i carabinieri. Ci siamo seduti vicino alla macchina per fare qualche telefonata e avvisare di diffondere la notizia. Ma la polizia ci ha raggiunti, dicendoci che non potevamo stare neanche lì, perché era un’area adibita a parcheggio.
Lo stesso giorno è apparso un articolo sui giornali locali, nel quale si diceva che il sindaco era molto contento del lavoro della polizia e che avevamo installato una vera e propria cucina da campo. Ha aggiunto che con l’estate il problema degli attivisti che cercano di aiutare i migranti sarebbe riapparso.
Il giorno seguente, la polizia locale è venuta nel pomeriggio e ci ha detto si togliere tutto. Quando abbiamo chiesto perché, hanno detto “perché siamo la legge e vi diciamo di fare così”. Quindi, abbiamo chiamato un avvocato per un consiglio e abbiamo discusso sul da farsi. Dopo qualche tempo, la polizia ci ha detto che avevamo due minuti per portare via tutto, altrimenti ci avrebbero portati al posto di polizia. Abbiamo lentamente iniziato a impacchetare tutto, tranne il telo che ci protegge dal sole. Qualche minuto ancora e la polizia ci chiede di levare il telo. Quando abbiamo chiesto spiegazioni e se valesse lo stesso per gli ombrelloni dei turisti sulla spiaggia, ci hanno risposto che il telo non è autorizzato, mentre gli ombrelloni lo sono. Mentre spostavamo le cose della colazione, un poliziotto ha aggiunto che se non ci muovevamo ci denunciava. Abbiamo cercato di capire con quale motivo ci stavano “sgomberando” e se c’è una legge che motivi le loro azioni, ma di nuovo hanno risposto: “Non ti deve interessare la legge, lo fai perché ti dico di farlo” . Poi ci hanno chiesto di mostrare i nostri documenti. Uno dei poliziotti ha aggiunto che se non ci davamo una mossa ci denunciava. Abbiamo chiesto per quale motivo e lui ha risposto “Non sono affari tuoi, intanto ti io ti denuncio e poi lo scoprirai il perché”. Quando hanno chiamato il commissariato, abbiamo lentamente rimosso il telo e poi mostrato i nostri documenti di cui hanno fatto delle foto.
Nello stesso giorno, sul giornale locale appariva una dichiarazione del sindaco che annunciava che sarebbero venuti a controllare ogni giorno e che nessuno può fare certe cose senza autorizzazioni. Aggiungendo: “questi attivisti non saranno autorizzati a stare lì”.
Il giorno seguente, una donna facente parte di Amnesty International è venuta da noi. Ci ha spiegato che aveva chiamato la polizia di frontiera a Ventimiglia e che questi avevano detto che quel che stavamo facendo non era vietato. Più tardi, 10 poliziotti sono venuti a dirci che quel che stavamo facendo non era permesso, dandoci spiegazioni differenti (presidio illegale, campeggio, occupazione abusiva…), ma dicendo anche che il giorno dopo saremmo potuti tornare: non sapevano cosa sarebbe successo il giorno dopo, non dipende da loro.
Non smetteremo di andare alla frontiera a preparare la colazione. Restiamo e resistiamo.
NO NATION. NO BORDER. FIGHT LAW AND ORDER!
(contro le nazioni e le frontiere, combatti la legge e l’ordine costituito)
Pubblichiamo di seguito la traduzione del terzo report del gruppo Kesha Niya postato su facebook il 14/06/2019.
Il resoconto oltre a denunciare il proseguimento della violenza della polizia francese nei confronti delle persone migranti che cercano di lasciare l’Italia, mette in luce anche un incremento della violenza della polizia italiana nei confronti delle persone respinte dalla Francia affinché registrino le loro impronte digitali In Italia. Secondo il regolamento di Dublino le persone migranti sono vincolate a chiedere asilo nel paese in cui vengono registrate per la prima volta le loro impronte digitali.
Immagine tratta dal resoconto di Kesha Niya del 26 gennaio 2019
Attenzione! Questo è un altro post contenente resoconti sulla violenza della polizia!
03/06/2019 – un uomo è stato colpito diverse volte con un manganello da una poliziotta italiana dopo che si è rifiutato di dare le impronte digitali che non aveva ancora dato in Italia. L’uomo aveva dei lividi sulla testa e sulle mani.
04/06/2019 – Un uomo che si trovava in mare è stato inseguito dalla polizia francese verso l’Italia. Lo hanno inseguito, quando si trovava già in acque italiane, senza portarlo a bordo. Quando ci hanno visto guardare e filmare la situazione dall’alto, hanno detto: “Stop! Non facciamo niente per il momento, stanno filmando!”. Abbiamo chiesto loro cosa stessero facendo e perché non lo aiutassero. Senza rispondere hanno continuato a seguire l’uomo che ha nuotato fino ai Balzi Rossi dove la polizia italiana ha usato una barca a remi per portarlo fuori. La polizia francese se n’è andata poco dopo. La polizia italiana lo ha ammanettato e lo ha portato al confine. Dal momento che abbiamo assistito alla scena, ci hanno detto: “non avete visto e non sapete niente”, gli abbiamo spiegato che abbiamo visto tutto.
Su un giornale locale è stato pubblicato un articolo sul fatto, contenente anche una dichiarazione della polizia in cui si sostiene che l’uomo era “irregolare” in Italia ed era stato rimandato in Francia dove è scappato saltando in acqua per tornare in Italia. L’uomo avrebbe “raggiunto” a nuoto i Balzi Rossi e sarebbe stato tratto a riva grazie all’aiuto di un bagnino e di un carabiniere.
DIVERSE ONG, e anche il nostro gruppo, credono che l’articolo non sia molto accurato, perché non abbiamo mai visto un caso di persone irregolari che vengono mandate in Francia. In realtà, nella nostra esperienza è altamente improbabile che le persone siano respinte in Francia, anche quando ce ne sarebbe un valido motivo, come per esempio l’essere minorenni. Se l’uomo voleva tornare in Italia, avrebbe potuto semplicemente fare la strada a ritroso, la polizia francese sta infatti fermando le persone che entrano nel paese molto più di quanto faccia la polizia italiana.
08/06/2019 – mentre un uomo era in stato di fermo, gli è stato chiesto se parlasse inglese e se sapesse scrivere il suo nome. Dal momento che non sapeva parlare in inglese e non sapeva scrivere in lettere latine il poliziotto ha iniziato a colpirlo fino a quando il suo collega non gli ha detto di fermarsi. Più tardi, l’uomo ha provato a usare qualche parola stentata di inglese per paura di essere colpito di nuovo. Lo stesso poliziotto gli ha detto che prima stava evidentemente mentendo perché in realtà sapeva parlare inglese e lo ha colpito di nuovo.
09/06/2019 – un uomo che di solito vive e lavora in Italia è andato a Mentone in giornata. Quando aspettava il suo treno di ritorno in Italia, la polizia francese lo ha controllato. Gli hanno detto che doveva tornare in Italia ma invece di fargli prendere il treno lo hanno preso, controllato brutalmente e gli hanno detto che doveva andare con loro. Lo hanno spinto in macchina e quando ha chiesto perché erano così aggressivi, hanno detto soltanto: ” entra in macchina, testa di cazzo!” e lo hanno schiaffeggiato più volte. Alla Paf (Police Aux Frontières) è stato controllato molto velocemente e gli è stato detto di camminare fino a Ventimiglia. Ha chiesto se poteva prendere il treno ma gli hanno detto di stare zitto e che doveva farsi i 10 km a piedi. Ha chiesto di nuovo perché tutta questa aggressività ed è stato nuovamente schiaffeggiato. La polizia francese gli ha poi detto di correre verso l’Italia ma l’uomo ha continuato a camminare e ha risposto: “non sono un animale e non siamo a Libia”. La polizia ha usato il taser per due volte sulla sua schiena, dicendo che due persone francesi sono morte in Francia, il mese scorso.Lo hanno poi inseguito in direzione dell’Italia per farlo correre. Quando è arrivato alla colazione era in condizioni pessime e aveva una guancia gonfia.
Lo stesso giorno un minore di 15 anni è stato spruzzato con lo spray al peperoncino mentre si trovava sul treno e portato alla Paf. Nonostante non abbia opposto resistenza, per farlo entrare nel container lo hanno preso a calci nella schiena. Sul refus d’entree hanno dichiarato che aveva 19 anni.
Immagine tratta dal resoconto di Kesha Niya del 29 maggio 2019
Il gruppo Kesha Niya è impegnato dalla primavera del 2017 a Ventimiglia dove si occupa della preparazione e distribuzione serale di pasti. Dall’estate del 2018 porta cibo e bibite calde sul lato italiano della frontiera di Ponte S.Luigi, dove le persone migranti respinte dalla Francia transitano per rientrare a Ventimiglia.
Kesha Niya ha pubblicato altri due resoconti a gennaio e maggio di quest’anno denunciando la violenza della polizia francese sulle persone migranti.
La settimana appena trascorsa a Ventimiglia si è aperta e si è chiusa con due eventi che sembrerebbero non collegati tra loro, ma che ci parlano invece della situazione sociale e politica nella cittadina di frontiera se osservati nell’interezza della cornice in cui si sono verificati.
Lunedì 3 giugno viene trovato il cadavere di un giovane di origine nigeriana.
Da giovedì 6 e fino al sabato si è discusso della notizia della probabile rimozione di un’installazione artistica che è ora collocata alla frontiera.
Due uomini di origine nigeriana…
– pregresso –
Il 29 maggio 2019, durante una rissa scoppiata in spiaggia tra alcune persone di origine non europea, un uomo finisce in mare nei pressi della foce del fiume Roya. In quel tratto di litorale, dove le onde incontrano le acque dolci del fiume, si generano mulinelli e forti correnti: restare a galla è un tentativo disperato. L’uomo è sparito tra i flutti e nonostante le ricerche durate due giorni non è stato ripescato vivo né è stato ritrovato il corpo: si pensava che le correnti lo avessero trascinato in Francia.
Il 31 maggio i giornali riportano la notizia del fermo in zona stazione di un diciannovenne di origine nigeriana: un poliziotto lo riconosce come una delle tre persone avvistate sulla spiaggia durante la rissa che ha causato l’incidente. Non si sa se abbia fornito ulteriori informazioni per dare un nome e un pezzo di storia all’uomo trascinato via dal mare. Veniamo però a sapere che il diciannovenne fermato è un migrante con richiesta d’asilo in Francia e con espulsione dall’Italia, che è stato fermato come uno dei responsabili della rissa, che è stato processato per direttissima per inottemperanza all’ordine di espulsione del questore di Imperia, che è stato trasferito in Francia e che da qui dovrebbe essere infine espulso (cioè rimpatriato? Sulla base della presunta responsabilità per l’incidente? Sulla base di qualcosa che ha commesso in Francia? Sulla base degli accordi di rimpatrio con la Nigeria? Interrogativi senza risposta). Game-over, anche per lui. E game-over anche per l’altro uomo di 24 anni di origine siriana di cui, nello stesso articolo di giornale, apprendiamo di sfuggita che gli tocca la medesima sorte: espulsione.
Il corpo di Osakpolor Morogie, 25 anni, viene ritrovato sulla riva all’altezza della foce del Roya.
– Lunedì 3 giugno –
Poi, nella mattinata di lunedì, il cadavere dell’uomo caduto in acqua viene infine restituito dal mare, che lo deposita sulla spiaggia nella stessa zona in cui si era inabissato: il corpo doveva essersi incagliato da qualche parte sul fondale lì intorno. Nelle tasche dei vestiti che ancora coprono il corpo senza vita vengono trovati i suoi documenti, che dicono che lui era Osakpolor Morogie, uomo di 25 anni di origine nigeriana, residente in Italia nella frazione ventimigliese di Bevera assieme al fratello con cui si era ricongiunto.
Quindi a voler essere in regola con la lingua italiana l’uomo non era uno straniero o un migrante, come descritto negli articoli di giornale, ma al massimo un immigrato regolarmente residente in città. Ma le etichette classificatorie, che non restituiscono la completezza della realtà ed anzi la stravolgono e la viziano, restano lo strumento più facile per pensare in modi semplici e riduttivi a un mondo complesso e pieno di sfumature. Per tradurci un mondo che meno capiamo e più ci spaventa; che più ci spaventa e meno lo capiamo.
Dalla chiusura delle frontiere francesi nel giugno 2015 a Ventimiglia si è fatta l’abitudine alla morte di persone non europee arrivate qui per attraversare il confine. Oltre venti le persone decedute a causa delle difficoltà nel passare la frontiera o per i disagi e gli stenti che devono patire nell’attesa dell’impresa: qui è morta così tanta gente in viaggio che, alla quinta persona che ha perso la vita tra il fiume Roya e il mare, l’equazione nero/migrante era già lì pronta all’uso. (22 novembre 2016; 13 giugno 2017; 22 giugno 2018; 10 settembre 2018)
Uno straniero (con un pezzo di famiglia e residenza italiane) dunque è morto. E un altro straniero, forse coinvolto nell’incidente e forse no (le indagini ancora erano in corso e non sono stati resi noti i risultati dell’autopsia sul cadavere ripescato), è stato deportato in Francia e verrà espulso. Non sappiamo nulla delle vite e dei progetti di queste due persone. Non sappiamo le cause e le esperienze che hanno portato a un epilogo così negativo della loro presenza a Ventimiglia. Tutto quello che interessa sapere: due stranieri fuori dai giochi.
… un’opera d’arte di origine europea
12 Aprile 2017, inaugurazione dell’installazione artisticha Terzo Paradiso presso il valico di frontiera di Ponte San Ludovico, Ventimiglia_fonte Sanremonews
– pregresso –
Il 12 Aprile 2017 a Ventimiglia fu inaugurata in pompa magna l’opera Terzo Paradiso dell’artista Michelangelo Pistoletto. Il simbolo rappresenta un infinito a tre cerchi: nelle intenzioni di Pistoletto il cerchio centrale costituirebbe il punto di incontro, di armonia e congiunzione tra i poli avversi, i due cerchi opposti che sono il tu e l’io e che trovano al centro la sintesi nella scoperta del noi. Vuole essere un simbolo di pace. L’inizio di una nuova civiltà formulata in 50 pietroni che l’amministrazione dell’ex sindaco Ioculano (PD) decise di far “installare” nell’aiuola che si affaccia sul confine di Ponte San Ludovico.
Nello stesso luogo, due anni prima, centinaia di persone che avevano provato ad entrare in Francia ed erano state respinte (colore sbagliato, pezzo di carta sbagliato) avevano deciso di accamparsi ed iniziare una protesta, durata cento giorni, contro le frontiere e le discriminazioni, chiedendo il rispetto dei propri diritti e la libertà di poter realizzare le proprie aspettative di vita.
Ioculano era sindaco quando sgomberarono a ruspate quello spazio di lotta, resistenza, incontro e sperimentazione collettiva che fu il campo dei Balzi Rossi. Due anni dopo annuiva convinto accanto all’artista Pistoletto, uomo bianco di origine europea, che spiegava con vibranti parole il significato della sua opera e la sua personale interpretazione della Storia recente di quelle aiuole:
“A me pare quasi un sogno veder realizzato questo simbolo dell’armonia, della pace e dell’incontro qui, in questo luogo di scontro e divisione. In questo spazio specifico (…) di forte tensione tra i due paesi, momenti di tensione inutile, anche provocata… io credo che non è sulla provocazione che dobbiamo muoverci, non è sulla critica e sull’aggressione, ma sulla proposta. (…) Se veramente si ha qualcosa da proporre, si sa cosa fare dopo la rivoluzione, non c’è nemmeno più bisogno di fare la rivoluzione. (…) Noi dobbiamo dimostrare in questa zona simbolica di essere capaci di fare proposte di unione, di connessione, di condivisione.”
I giornali rincararono il condimento di entusiasmo per l’arrivo del Terzo Paradiso : “Un modo per dare un calcio, con l’arte, ai confini geografici e soprattutto sociali, che spesso emergono con più intensità al confine con la Francia”.
Veduta di Ponte San Ludovico: l’installazione artistica simbolo dell’incontro si affaccia sulla barriera delle dogane francese e italiana.
– Giovedì 6 giugno –
Dall’inaugurazione dell’opera sono passati nuovamente due anni: Giovedì 6 giugno i quotidiani on line riportano dell’incontro, voluto dalla destrorsa giunta comunale appena eletta, tra Anas e il neo sindaco Scullino, che si propone si riqualificare la zona stradale innanzi alla frontiera. Sintesi: nella zona del confine si fanno i soldi, non spettacolini per allodole, quindi al posto dei 50 pietroni artistici ci si metteranno 50 parcheggi.
Parafrasando i giornali di allora: un modo per dare un calcio, con gli affari, all’arte e alla retorica sul buonismo sociale e sull’abbattimento dei confini. Proprio qui, di fronte alla barriera con la Francia.
La settimana si chiude nelle polemiche di routine del PD circa lo smantellamento della profetica opera d’arte che tanto fu lodata dall’allora sindaco ruspaiolo dello stesso partito. Eppure guardando le cose con un’onesta prospettiva non è affatto strabiliante che si voglia sostituire un simulacro della retorica europea sull’accoglienza con cinquanta parcheggi per far girare macchine e soldi. (Anche) dalle parti delle frontiere funziona così e chi non lo sa è in malafede: le merci hanno la precedenza e per il denaro tutto fila liscio. L’unico inconveniente lungo il confine erano e restano gli esseri umani ai quali, sulla base di criteri etnici, si deve impedirne l’attraversamento.
A poche centinaia di metri dall’installazione Terzo Paradiso, in linea d’aria sulle alture dell’Aurelia, c’è l’altro valico di confine, ponte san Luigi, dove la frontiera esercita quotidianamente il suo potere sulla vita della gente che ha un documento di poco valore e una pigmentazione troppo scura.
Là sotto, adagiato su un prato abbandonato, riposa coi giorni contati quell’infinito fatto di macigni giganti e muti innanzi ai controlli frontalieri ed al setaccio razziale. Sulla destra dell’installazione artistica, ad altezza mediana tra le due frontiere, corrono le rotaie che portano in Francia: troppe persone sono rimaste gravemente ferite o sono morte sfidando la frontiera ferrata e i suoi treni proibiti.
Sulla sinistra del Terzo Paradiso corrono invece gli scogli che nel 2015 furono casa di una lunga battaglia internazionale contro le chiusure dei confini. Poco oltre le rocce ondeggia il Mediterraneo che unisce e divide le terre. Un po’ come il centro dell’infinito di Pistoletto, che voleva ricongiungere gli opposti e portare la pace, ma che finirà smantellato in nome del profitto.
I tentacoli della frontiera sono potenti e pervasivi: Ventimiglia regala ogni settimana folgoranti accadimenti, bug di un sistema catastrofico che causa cortocircuiti di senso di fronte alla presenza e alle conseguenze del confine.
Vinceranno i 50 parcheggi. Proprio lì dove 50 pietroni si vantavano di aver inaugurato una proposta di unione e armonia: game-over anche per loro. Dalla posa di quei sassi, che sarebbero stati più sinceri se fossero state lapidi, sono morte -almeno- altre undici persone non europee che volevano attraversare la barriera per l’Europa. A Ventimiglia (in tutto lo stivale) le persone non-bianche resteranno comunque straniere, qualsiasi pezzo di carta abbiano in tasca. Qualcuno di origine europea suggeriva che non serve una rivoluzione…
Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo “Polifonia estiva dalla Frontiera di Ventimiglia” contenente un insieme di interviste volte a indagare e restituire uno sguardo polifonico sulla situazione nella zona di confine di Ventimiglia durante i passati mesi estivi.
Rimandiamo all’introduzione pubblicata con la prima parte di questo articolo per chiarimenti relativi agli obiettivi, alla metodologia seguita e alla presentazione delle e degli intervistati.
Dopo aver posto domande ai nostri interlocutori circa il tipo di presenza avuto sul territorio di confine di Ventimiglia e sulle caratteristiche e le trasformazioni notate nel paesaggio sociale che caratterizza la zona di frontiera, in questa seconda parte abbiamo provato insieme ai nostri intervistati a delineare in che modo gli avvenimenti e le situazioni che hanno caratterizzato questa zona di frontiera interna all’Europa raccontino qualcosa circa le politiche e lo scenario internazionale.
Per concludere, abbiamo posto la domanda cruciale: cioè quella che riguarda le possibilità e le modalità con cui agire polticamente per contrastare i dispositivi di confinamento e le politiche razziste sperimentate in modo sempre più violento lungo le linee di confine interne ed esterne all’Europa.
Con la speranza che queste riflessioni, maturate a partire dall’esperienza di attiviste/i e militant* impegnati sul campo, possano fornire strumenti critici utili per pensare forme di azione collettive capaci di incidere contro la violenza dei confini,
vi auguriamo un buona lettura.
La redazione
Lungo il confine, si materializzano, in maniera forse più evidente che altrove, anche le conseguenze di scelte prese altrove e di disposizioni di portata nazionale e internazionale. Ci chiediamo, quindi, che ricadute abbiano avuto, a Ventimiglia, i numerosi eventi e provvedimenti che, durante l’estate, hanno influito sulle dimensioni e la gestione dei flussi migratori.
Per Antonio, innanzitutto, è fondamentale tenere in considerazione le politiche di esternalizzazione dei confini: «Quello che si è cercato di fare, sia in Italia che in Europa, è stata l’extraterritorializzazione del confine, impedendo a tutti di vedere cosa succede. Anche se possiamo definire come un canto del cigno la manifestazione della scorsa estate, per diversi anni il confine è stato di fatto un presenza almeno nel pensiero sociale. Far si che il confine diventi invisibile, permette di non avere più in casa il problema. La favola continuamente ripetuta dal sistema è che si stia combattendo il traffico di esseri umani, in realtà lo si mantiene e questo è particolarmente evidente in una realtà molto piccola come Ventimiglia». Nel dettaglio, la questione libica viene riconosciuta da tutti come direttamente determinante la realtà vissuta al confine franco-italiano: «Il governo italiano continua a mantenere i contatti come se ci fossero degli accordi internazionali e come se potesse controllare qualcosa. Che non ci sia effettivamente un controllo è evidente dal fatto che, anche se in un numero minore, le persone continuano ad arrivare e continuano ad essere persone che sono state torturate, che hanno sul loro corpo i segni delle violenze che noi abbiamo visto e fotografato con il loro consenso. Hanno voluto raccontare le torture a scopo di estorsione che hanno subito in Libia. L’interesse nei loro confronti da parte dei carcerieri libici terminava quando ricevevano un certo quantitativo di denaro» (Lia).
Scritta in prossimità del campo di accoglienza gestito da Croce Rossa Italiana
Senza dimenticare che «il caos in Libia è stato in un certo senso costruito e determinato da certi tipi di logiche e di azioni, partendo dall’azione francese per eliminare Ghedafi, passando per gli interessi delle compagnie petrolifere» (Gabriele). Da Ventimiglia si coglie, quindi, la complessità di un quadro nel quale risulta estremamente difficile prevedere tutte le conseguenze delle misure messe in campo: «Un peso poi lo ha la situazione al confine est dell’Europa, in Turchia dove l’Europa ha negoziato con Erdogan un accordo per il controllo dei flussi. La rotta balcanica riattivatasi con la chiusura voluta da Salvini della rotta libica, ha determinato l’arrivo nell’ultimo periodo di persone provenienti dall’Asia più che dall’Africa sub sahariana a Ventimiglia, nonché un’evidentissima diminuzione degli arrivi» (Gabriele).
Dalle riflessioni dei nostri interlocutori emerge poi il ruolo delle politiche europee, nello specifico delle conseguenze degli accordi di Dublino, nel produrre erranza e clandestinità: «Molti che si incontrano a Ventimiglia sono stati respinti dagli altri paesi, la Francia in primis. Hanno finito il loro viaggio in situazioni di estremo disagio, di abbandono, di disperazione, a Ventimiglia, e continuano a vagare intorno a questo territorio, magari deportati qualche volta al Sud. Per loro una soluzione non è stata trovata, né nel bene, né nel male. Ci sono alcuni, per esempio, che avevano iniziato una vita in un’altra parte d’Europa e a seguito del Regolamento di Dublino sono stati riportati in Italia e non hanno una via d’uscita se non quella di avere una vita estremamente disagiata come senza fissa dimora, aspettando il nulla. Di persone in questa situazione ne abbiamo incontrate tante, qualcuno si ferma, qualcuno vorrebbe tornare a casa, altri impazziscono, diventano alcolizzati, altri spariscono e alcuni muoiono» (Lia).
Il valico di Ponte S. Ludovico e la costa francese visti dal valico di Ponte S.Luigi
Le persone con cui abbiamo parlato concordano nel rifiutare una lettura che attribuisca all’attuale governo italiano, insediatosi in primavera, tutte le responsabilità della tragedia umana che è oggi la migrazione verso l’Italia, così come il transito e la permanenza nel Bel Paese: «Dal punto di vista nazionale la repressione verso le persone in viaggio è iniziata prima di quest’estate, non direi quindi che il problema sia dovuto dall’attuale governo. La situazione non è chiaramente migliorata, ma tutte le metodiche utilizzate, sono sempre state ideate e attuate precedentemente. Sappiamo che c’è stato interesse da parte dell’attuale governo nel ricevere fascicoli su Ventimiglia per poi prendere delle decisioni in merito, ma al di là della chiusura di qualsiasi campo informale, che era già stata messa in atto precedentemente, non vedo una modifica reale della politica nazionale nella situazione attuale. Gli accordi con la Libia sono proseguiti e hanno fatto sì che le persone arrivassero in quantità sempre inferiori perché bloccate prima, detenute, rinchiuse in veri e propri campi di concentramento, morti in mare, probabilmente detenuti anche in altre parti d’Italia» (Lia).
Quindi, come riporta Lucio, «il primo grande cambiamento è di un anno fa quando c’è stato il decreto Minniti, bloccando i flussi grazie agli accordi con i criminali libici. Durante l’inverno c’è stato un allentamento delle maglie, a causa della rottura di alcuni equilibri, se così si possono chiamare, in Libia e l’apertura di alcune delle prigioni denunciate anche dall’Onu e ci si è ritrovati con persone che partivano anche in una stagione nella quale il clima è peggiore e le condizioni più difficili. Quindi c’è stata l’emergenza freddo e dei momenti davvero difficilissimi quest’inverno. La rottura parziale di quel dispositivo ha fatto sì che si fosse come levato un tappo ad una diga, con la conseguente ondata. Quest’estate, con l’apparente stabilità durata fino a qualche settimana fa in Libia, la situazione è tornata quella del calo di presenze e di arrivi. Adesso si vedrà perché comunque in Libia gli scontri riprendono e la situazione non è per nulla stabile. Sul piano nazionale, a mio avviso, tutto è figlio di quelle politiche, e l’Italia intera deve essere considerata una frontiera, perché chi arriva per la maggior parte non vuole rimanere e subisce quindi le disposizioni dei patti di Dublino…insomma per quanto i vari ministri e governanti attuali vogliano fare campagna elettorale, prima e dopo il voto, la situazione è figlia del decreto Minniti. E’ chiaro che se continui a non offrire un’accoglienza degna, se continui a perseguitare il reato di clandestinità, fai in modo anche che la gente cerchi di perseguire i propri desideri il più velocemente possibile e di andare in un altro Stato, con delle presenze che si riversano a ridosso di ogni confine. Poi il caso della Diciotti è l’ultimo e più eclatante : sono arrivate 177 persone, dopo giorni le porti in provincia di Roma e dopo qualche altro giorno ne ritrovi molte a Ventimiglia. E’ abbastanza chiaro : sono arrivati, ma non per restare in Italia, e se in più non offri nessun’altra possibilità di arrivo se non il barcone, li trovi a ridosso della frontiera dopo poco … e se poi li metterai in un altro centro, la cosa si ripeterà».
Comprendere la continuità è una delle preoccupazioni di Gabriele, al fine di rendere visibili quei meccanismi che strutturano, ad esempio, il mercato del lavoro europeo e la persecuzione di imponenti interessi economici: dei meccanismi che si celano dietro all’approccio emergenziale alla questione migratoria: «c’è una continuità che arriva da Minniti e quindi dal Pd per la gestione di quella che loro definiscono “emergenza migranti”, che però ha le sue radici ancora più indietro: la legge Turco Napolitano. In termini temporali la costruzione di un confine dipende sia dalle forme normative che hanno contraddistinto il contesto nazionale e internazionale, sia dal raffinamento del dispositivo biopolitico come meccanismo per espellere dei corpi e includerne in maniera differenziale altri. I corpi che vengono usati nel bracciantato, trattati, prostituiti, quei corpi che costituiscono un’ampia parte del mercato italiano e europeo del lavoro. Non è una questione di legalità e illegalità ma di sfruttamento, questo è evidente sia nel mercato del lavoro legale che illegale. La lotta all’illegalità rispetto alla questione migrazione è un palliativo per legittimare in termini normativi lo sfruttamento. Il confine funziona come dispositivo in questo senso. Vi è dunque una continuità che arriva se vogliamo da come gli sbarchi sono stati controllati, dalle politiche in termini di esclusione di certi tipi di corpi, della mancata riforma della cittadinanza (sebbene io credo che la cittadinanza dovrebbe essere data a tutti coloro che passano e vivono per un certo tempo su un territorio), della gestione delle frontiere esterne dell’Europa. L’archivio della costruzione delle norme sulle migrazioni non riguarda solo la sedimentazione di leggi, ma è costituito anche da pratiche di segregazione, razzismo, xenofobia e sessismo. Questo archivio continuamente aggiornato e in cui c’è una continuità temporale non è importante solo per leggere la questione immigrazione e lavoro, ma per rendersi conto che esiste una continuità d’egemonia: soggetti che sono poteri forti in questo paese utilizzano i partiti sia per mantenere un controllo del consenso politico (non solo elettorale perché il potere non sta più solamente lì) ma soprattutto un controllo su certi tipi di business e di interessi economici. C’è chiaramente una continuità anche nei termini di classe dirigenziale tra il Pd e la Lega, e questo è evidente analizzando l’archivio di cui parlavamo».
In questo quadro, tra queste reti, trova spazio «la forza dei migranti che riescono ad organizzarsi per passare i confini» (Gabriele).
Quali possono essere, allora, oggi, le strade da percorrere, in quanto solidali e militanti contro le frontiere? Quali possibilità e che senso dare all’impegnarsi in percorsi politici a Ventimiglia? A questi interrogativi, le risposte che abbiamo raccolto possono talvolta mostrare punti di vista differenti, alla luce di esperienze diverse, frequentazioni più o meno lunghe della frontiera, sensibilità individuali. Crediamo sia particolarmente interessante cercare di fare dialogare queste voci, nel tentativo di contribuire a una riflessione comune sulle prospettive di una presenza solidale e militante a Ventimiglia, sugli spazi politici e di lotta da alimentare o inventare.
Inizia Antonio, difendendo il dovere e il senso del testimoniare: «Nel primo agire dell’attivismo a mio avviso c’è anche il raccontare il territorio, mantenere una memoria di quello che avviene. Fai una cosa e la puoi rivendicare, quello che vedi lo puoi denunciare. Secondo me questa è una forma di attività politica che lì si può e si deve continuare a fare andare avanti». Nel proseguo del ragionamento, Liae Antonio ci offrono delle osservazioni riflessive, rispetto alla loro attività di visite e diffusione di report degli ultimi anni: «La comunità coesa dei Balzi Rossi, o anche dei campi informali del 2016, rispondeva agli avvenimenti in modo chiaro: può aver risposto in modo sbagliato in alcune occasioni, ma rispondeva. Almeno una collettività esisteva. Questo non ha niente a che vedere con me che vado da sola ad esplorare un territorio per capire cosa si può fare e scrivo da sola in merito. Adesso faccio questo perché manca quello che auspicherei: un gruppo di persone che partecipa con il maggior tempo e impegno possibile, che prenda decisioni che mettano insieme chi viaggia e chi è stanziale, perché la differenza tra queste/i non è poi così grande. Attualmente i solidali sono troppo pochi per avere un vero e proprio successo politico e modificare qualcosa realmente. È più probabile che si diano delle risposte simboliche sperando poi che queste attivino qualcosa. E’ un grande insuccesso a mio parere quando, in una situazione di tale gravità, un singolo evento simbolico come una manifestazione, viene considerata una risposta congrua. O è una risposta simbolica o si attende almeno che vi consegua qualcos’altro» (Lia).
Un momento della manifestazione “Ventimiglia città aperta” del 14 luglio 2018
Una visione leggermente diversa, rispetto al lascito della manifestazione del 14 luglio, viene da Giulia. Una visione che, comunque, non manca di esprimere alcune considerazioni rispetto alle difficoltà di un contesto “ostile”: «Secondo me l’agibilità è un pochino mutata dopo il corteo, nel senso che migliaia di persone per strada hanno lasciato qualcosa…qualcosa che ancora potrebbe essere raccolto, nel senso che non tutto è stato raccolto e c’è la possibilità che ci sia ancora qualcosa che possa svilupparsi. L’agibilità politica comunque è quello che è, nel senso che rimane una cittadina che va a destra in una regione che va a destra in un paese che va a destra, quindi le possibilità restano risicate. Probabilmente, pur non essendo fan degli scout, mi ha stupito quanti ragazzi giovani siano passati di lì, volendosi rendere utili, poi sempre magari in un’ottica estemporanea e assistenzialista, però c’è ancora una parte degna di questo paese che vuole metterci le mani dentro. Quindi lo spazio secondo me è questo: continuare a provare a dedicarsi a ciò che c’è di buono, perché c’è e c’è anche in quel territorio e non stancarsi di parlare con la gente perché , magari un po’ timidi, ma ci sono delle persone, anche ragazzi e ragazze giovani della zona, che vivono lì, magari anche seconde generazioni, che vorrebbero partecipare e provare a dire qualcosa. Chiaro che si parla di cose molto piccole, considerando la violenza della situazione, con l’ennesima chiusura dell’acqua, le reti … la direzione è molto chiara, però credo che qualcosa si possa provare a raccoglierlo ancora. Secondo me a Ventimiglia, nei paesi limitrofi e nelle valli … io sono un’inguaribile ottimista, alle volte, ma non credo che si sia alla totale barbarie… che poi sono paesini, cioè banalmente ad Eufemia scade il contratto a dicembre e si deve trovare il modo di posticipare o trovare altro e il problema è che il proprietario non vuole che quello spazio sia aperto al pubblico e non è il fascismo è quella roba tipo “non voglio che vengano rotti i coglioni a me, che ci sia attenzione su quello spazio per colpa vostra”. E’ lì che sta quel margine per far capire il vecchio discorso che non è che se chiedo diritti, è perché ne siano negati a te, però viviamo andando contro il vento costantemente». In linea con quel che dice Giulia, Lucio continua indicando quali potrebbero essere, a suo parere, le potenzialità di un lavoro politico che parta da Ventimiglia come luogo di presa di coscienza e comprensione di fenomeni più ampi, che, sulla frontiera, assumono caratteri di violenza ed evidenza più marcati che altrove: «partendo dai vari gruppi scout mi viene in mente questo aneddoto : alcuni di loro ci hanno raccontato le ragioni che li hanno spinti a venire a Ventimiglia con tutto il loro gruppo: tra di loro, alcuni neo-elettori avevano votato per la Lega e si ponevano il problema del come far capire a quei ragazzi, che frequentano tutto l’anno, che il problema non sono i migranti che ci invadono, quanto piuttosto le politiche che dall’alto generano delle discriminazioni… ecco l’aneddoto degli scout può dare il quadro di quello che è possibile fare a Ventimiglia : intanto arrivare e capire cosa succede su un territorio piccolo in seguito a questi grandi fenomeni e decisioni politiche prese a livello internazionale e, d’altra parte, banalmente provare a trovare momenti di relazione con delle persone bloccate alla frontiera, prendere il tempo di conoscerle e mettere in piedi attività che a volte possono anche semplicemente permettergli di evadere dalla noia quotidiana, che poi è una condizione che accomuna diversi contesti, come quelli delle molte periferie italiane e d’Europa. Qualsiasi attività che possa portare ad una maggiore coscienza di sé o alla socializzazione può essere utile. L’esistente va mantenuto, in più andrebbe implementato qualsiasi tipo di proposta, dalle iniziative estemporanee culturali, come proiezioni di film e spettacoli, magari momenti per socializzare, ma che aiutino anche a conoscere la realtà del momento…Sarebbe forse il momento di fare un invito a chi fa queste queste cose, di andare a fare concerti, spettacoli ecc a Ventimiglia».
Giuliae Luciopropongono un ragionamento a scala territoriale, nel quale il fatto di nutrire spazi di condivisione e arricchimento culturale diventi l’occasione per far incontrare tutti i soggetti che vivono il territorio Giulia, nel lungo o nel breve termine: «Abbiamo anche provato a ragionare sul fatto che manchi una proposta culturale su quel territorio. Una proposta che sia anche il dar luogo a situazioni nelle quali ci si possa incontrare tra persone diverse, cose banali e che però non si danno» (Giulia). A questo proposito, viene evocato un momento, una serata del mese d’agosto, durante la quale un concerto ha offerto la possibilità di confondere tra il pubblico le persone alloggiate nel campo della Croce Rossa e i giovani della zona, permettendo anche una, seppur breve, presa di parola dal palco: «Per il concerto dei Modena City Ramblers, insistendo, essendo una settimana dopo il corteo e avendo un altro tipo di reputazione sul territorio, si è riusciti a spingere sul campo della Croce Rossa per far sì che i ragazzi dal campo potessero andare al concerto, che potessero rientrare più tardi: in quell’occasione hai portato i ragazzi che stanno alla Croce Rossa ad un evento che succede in città, assieme alla cittadinanza e assieme ai giovani locali. Il passo oltre dovrebbe essere riuscire ad organizzare cose tutti assieme» (Lucio).
Incidere almeno sulla dimensione sociale locale, per rendere meno duro il territorio di confine, quindi, come un primo obiettivo possibile: «Si parte anche dall’assunto basic che il razzismo è ignoranza. Poi è evidente che tutto il resto dipende dalla geopolitica, nel senso che non abbiamo parlato del dispositivo frontiera, che evidentemente è il dramma, ma è vero che se, nel tempo che passano a Ventimiglia, potessero camminare per strada senza essere additati o insultati, allora forse anche il dispositivo frontiera potrebbe avere una minore violenza intrinseca, senza riuscire ad annullare tutta la violenza del dispositivo, chiaramente» (Giulia). Quella sui territori di confine è una riflessione condivisa anche da Gabriele: «Mi mette molto in difficoltà dare una risposta in merito all’agibilità politica a Ventimiglia e alle prospettive. Inizialmente arrivato a Ventimiglia pensavo si potesse mettere insieme l’azione politica con quella culturale. Ho visto che è molto più difficile di quello che pensavo. Gli stimoli che potrei dare in questo senso sono essenzialmente due. Il primo parte dall’idea che sia possibile spostare il piano dell’azione politica su Ventimiglia oltre la questione dell’immigrazione. Il confine, visto non solo come frontiera, ma come, al tempo stesso, dispositivo e risultato di una società: reinterpretare il confine in quest’ottica duplice, senza togliere lo sguardo sugli attraversamenti, può forse permettere di ripartire dal territorio di Ventimiglia in termini di lotte con un raggio geografico e di soggettività coinvolte ben più ampio della sola frontiera. Sia in una direzione culturale: rispetto a cosa sia questo confine, a come funzioni, a quali siano le dinamiche di sfruttamento e di esclusione e di soggettivazione dei corpi; sia in un’ottica politica: comprendere e potenziare le capacità di resistenza e di sovversione di certi tipi di logiche. L’altro stimolo che mi sento di suggerire è quello di leggere questo confine in confronto ad altri confini, osservando se vi siano similitudini, differenze con altri dispositivi di confine e con altre società di confine. Riflettendo sulla particolarità dei territori di confine, dovute al fatto che in questi territori sono racchiuse tutte le contraddizioni delle società nazionali, si osserva che questi territori permettono di vedere più chiaramente e distintamente come queste contraddizioni possano essere affrontate in maniera conflittuale».
Un rapporto, quello tra ciò che succede a ridosso della frontiera e le dinamiche che permeano le nostre società, evocato anche da Lia. In questo senso, il rarefarsi della partecipazione politica su scala locale e il trasferimento di una gran parte del dibattito pubblico nella sfera mediatica, diventano i principali ostacoli alla nascita di movimenti trasversali e radicati, e, allo stesso tempo, determinano una minore capacità di risposta a livello di comunità : « Un’altra ripercussione importante che c’è stata sia a livello nazionale che internazionale è la mancanza di compattezza dei movimenti, di risposta e di partecipazione politica sul territorio. Ciò determina a livello locale che non si riescano ad inventare delle strategie, a metterci dell’energia, a partecipare a un reale conflitto nei confronti di questa situazione assurda e che viola la nostra idea di vita e di convivenza. Non possiamo pensare che questo sia solo un problema di Ventimiglia, avviene in maniera disorganizzata, non corale, avviene in una popolazione che non vive più un minimo di collettività al suo interno e di conseguenza con qualcuno che può passare per lo stesso territorio. Mi capita di parlare con compagne/i che si trovano in altre parti d’Europa, non ultimo oggi un’amica in Austria e i discorsi sono gli stessi, rispetto a tutti quei fatti che qualche tempo fa ci sarebbero sembrati assurdi e li avremmo paragonati alla Shoah: a fatti che abbiamo considerato come aberranti, ad oggi non rispondiamo. Non credo che sia un problema solo italiano, c’erano territori che aborrivano fenomeni che sapevano di razzismo, di neonazismo e fascismo e la risposta è veramente carente oggi rispetto ad una situazione del genere» (Lia). Il rischio che si corre è quindi quello di ritrovarsi a rispondere solo su un piano che non ha la possibilità di innescare processi reali di lotta e cambiamento: «Questo è un problema sociale dato anche dal fatto che la verifica di quello che avviene è sempre delegata ad altri. In grande lo possiamo vedere nell’informazione data dalla televisione per cui se non mostrano una cosa, questa non esiste. Anche tra le persone a noi più affini la definizione il più possibile oggettiva di una situazione viene spesso delegata e non viene assunta con il contatto diretto, questa è una considerazione legata anche alle valutazioni della situazione di Ventimiglia. I risultati ottenuti da grandi incontri sono importanti, ma il pericolo è che esauriscano questa voglia di fare ed intervenire attraverso un atto simbolico ed unico. Già da tempo ma ancora più evidentemente adesso, hanno perso grandemente il loro significato» (Antonio).
Il fatto che emergano punti di vista talvolta distanti tra loro è, per Gabriele, sintomatico della densità che caratterizza i territori di confine: «Sul confine, non è un caso, che appaiano diversi modi di fare politica e di leggere la situazione. Che appaiano diversi posizionamenti politici nei confronti di quelli che sono i soggetti delle misure di controllo, le persone migranti e rispetto ai dispositivi confinari. L’approccio intersezionale è molto importante in questo caso, permette di comprendere come il confine sia un oggetto di studio interessantissimo: è sia il prodotto di una società, la società cioè produce il confine, ma anche il confine segmenta gli spazi della società. Il confine è il dispositivo che produce i rapporti di forza e posizionamento nella società. Quindi è assolutamente normale ci siano molti percorsi e posizioni politiche differenti sul confine. Questi percorsi si incontrano, ma al momento paiono non riuscire a intrecciarsi e solidificarsi».
A distanza di qualche tempo dallo svolgersi delle conversazioni di cui abbiamo riportato gran parte dei contenuti, rileggiamo la trama che ne abbiamo tessuto, dicendoci che il confronto permette di consolidare e problematizzare le analisi, aggiungendo osservazioni, dando profondità e permettendo di riconsiderare alcuni assunti. Ben lontane dalla pretesa di indicare linee più sensate di altre, ci diciamo che stare a Ventimiglia, fare esperienza della realtà e della quotidianità del confine, oggi, ha un senso ben preciso, in un momento storico nel quale riprendono piede i nazionalismi e nello stesso tempo il neoliberismo conquista spazi: lo consideriamo un punto di partenza, forse scontato, ma che prende forza proprio nel momento in cui si articolano e si confrontano le analisi che lo sostengono. Rileggiamo il risultato dell’incrocio di voci diverse e abbiamo più chiaro perché Ventimiglia sia un luogo da cui guardare al mondo, perché da Ventimiglia si debba anche saper ripartire.
Ieri il tribunale di Gap, nelle Hautes-Alpes francesi, ha emesso giudizi pesanti nei confronti di sette persone, accusate di aver favorito l’ingresso illegale in Francia di una ventina di migranti. Si è scelto di non considerare il contesto dell’episodio: una manifestazione, il 22 aprile scorso, che arrivava dopo un intero inverno di drammi e interventi in montagna, per soccorrere chi, totalmente privo di equipaggiamento, si trova ad attraversare valichi alpini innevati, braccato dalla polizia francese. Si è scelto di non dare peso alle condizioni materiali e politiche delle valli franco-italiane: nessuna menzione per la carenza di infrastrutture e sostegno ai migranti dalla parte italiana, nessun accenno alle sortite dei neofascisti, che, proprio in quei giorni, manifestavano pubblicamente la volontà di costituirsi in pattuglie di frontiera autonome e illegali (nessuno di loro è stato inquisito, nessuna inchiesta è stata aperta). Si è scelto di non guardare ai percorsi dei militanti, da anni impegnati nel soccorso in montagna e nella solidarietà attiva. Tutto ciò succede ad un giorno dall’annullamento di un’altra sentenza per “delitto di solidarietà”, caduta su altri militanti, di altre valli frontaliere. Non è semplice esprimere giudizi su tale disparità di trattamento. A caldo, prevale un sentimento di ingiustizia, prevale la rabbia verso una società che accetta di scagionare un eroe, ma che sia uno! Il messaggio sottinteso sembra dire: non osate ripetere le sue gesta, che la solidarietà non diventi appannaggio di tutti, soprattutto se praticata collettivamente e alla luce del sole.
Ci sembra chiaro che, ad essere sanzionata, sia prima di tutto la linea politica che ha animato una manifestazione che, in maniera chiara e radicale, avulsa da qualsiasi velleità umanitaria e assistenzialista, esprime una lotta orizzontale contro i dispositivi di confine, per la libertà di tutt*.
Il tribunale correzionale di Gap (Hautes-Alpes) giovedì ha emesso dei verdetti che vanno fino a quattro mesi di prigione nei confronti di sette militanti, il cui capo d’imputazione è quello di aver aiutato dei migranti a entrare in Francia la primavera scorsa. Due degli imputati, francesi, già condannati in passato e inquisiti in questo stesso dossier giudiziario anche per ribellione, sono stati condannati a dodici mesi di prigione, di cui 4 da scontare in carcere.
Per uno di loro, M. B., 35 anni, la pena prevede anche una ‘messa alla prova’ di due anni e una multa di 4.000 euro. «Erano due le scelte possibili oggi, si trattava di scegliere tra la solidarietà e la morte. Il tribunale di Gap ha scelto la morte per gli esiliati» – ha dichiarato quest’ultimo all’uscita dal tribunale (https://www.ledauphine.com/hautes-alpes/2018/12/13/7-de-briancon-les-reactions-apres-les-condamnations-hautes-alpes-gap). In effetti, l’allarme ha suonato in quel di Briançon: le associazioni di aiuto ai migranti (Anafé, Amnesty, Cimade, Médecins du monde, Médecins sans frontières, Secours catholique…) hanno lanciato l’allerta «sull’insufficienza della presa in carico e il respingimento sistematico di uomini, donne e bambini che cercano di oltrepassare la frontiera franco-italiana (…) mentre inizia la fredda stagione invernale». Si temono altri drammi, considerando che le temperature scendono a -10° in montagna.
Gli altri cinque, due francesi, un’italiana, uno svizzero e un belga-svizzero, dalla fedina penale intonsa, sono stati condannati a sei mesi di prigione con la condizionale. Hanno dieci giorni per ricorrere in appello. Un centinaio di militanti della causa dei rifugiati si sono radunati giovedì pomeriggio sotto le finestre del palazzo di giustizia per sostenere i ‘sette di Briançon, come vengono chiamati. Il tribunale ha seguito le richieste del procuratore di Gap Raphael Balland, che durante il processo dell’8 novembre non aveva invocato l’aggravante di ‘banda organizzata’.
«Sono un po’ basito davanti a una decisione così severa, per dei fatti che sono quantomeno discutibili (…). I gilets jaunes ne hanno fatte di ben più gravi» – si è lamentato Christophe Deltombe, présidente della Cimade, associazione di difesa dei diritti dei migranti. «Ero convito che sarebbero stati rilasciati. Non vedevo dove potessero essere individuati gli elementi materiali e intenzionali dell’infrazione penale. Siamo in pieno in quel che viene chiamato ‘crimine di solidarietà’: sono condannati perché sono stati solidali a delle altre personé» – ha aggiunto.
«Siamo tutti un po’ colpiti da questa decisione. E’ una pena estremamente severa. La motivazione del tribunale non ci ha convinto» – ha reagito da parte sua Maeva Binimelis, uno dei sei avvocati dei militanti. «Questa decisione è un colpo di freno alla direzione presa in favore di una maggiore umanizzazione e individualizzazione delle condanne per delitto di solidarietà, nell’attesa della sua soppressione», critica da parte sua un altro dei difensori, Vincent Brengarth.
L’accusa imputava ai sette militanti, le cui età vanno dai 22 ai 52 anni, di aver facilitato, il 22 aprile, l’entrata in Francia di una ventina di migranti confusi ai manifestanti forzando una barriera eretta dalle forze dell’ordine. Durante l’udienza, gli imputati avevano contestato il fatto di aver coscientemente aiutati i rifugiati a passare la frontiera nel corso della manifestazione. Partita da Clavière, in Italia, questa si era conclusa a Briançon.
Il processo iniziale, previsto in maggio, era stato rapidamente rimandato, per concedere il tempo al Consiglio costituzionale di esprimersi sul ‘delitto di solidarietà’. In luglio, i ‘Saggi’ hanno considerato che, in nome del ‘principio di fraternità’, un aiuto disinteressato al soggiorno irregolare non sarebbe passibile di condanna, l’aiuto all’entrata resterebbe però illegale.
Mercoledì, la Corte di cassazione –la più alta giurisdizione dell’ordine giudiziario in Francia – ha annullato la condanna di Cédric Herrou, diventato un volto noto dell’aiuto ai migranti, e di un altro militante della Valle Roya, condannati in appello per aver assistito dei migranti.
Tra gli obiettivi che ci hanno spint* alla creazione di questo blog, c’è la volontà di documentare Ventimiglia e la frontiera. Il nostro impegno è farlo a partire dalle nostre stesse esperienze o da quelle di chi, in forme e modalità differenti, vive quel territorio, puntualmente o nel lungo termine. Pensiamo si tratti di un approccio fondamentale, nell’ottica di mettere in discussione e decostruire tutte quelle narrazioni che tengono in conto solamente le voci ”forti” : quelle voci che si alzano esclusivamente nei momenti mediaticamente salienti, che non parlano, ma piuttosto gridano, nell’intento di raccogliere facili (e spaventati) consensi, di trarre un qualche tornaconto dall’esporsi sul palcoscenico dell’emergenza. Numeri – in calo, in aumento… -, minacce – di chiusure, di sgomberi…– e voyeurismo – il degrado, la disperazione…– : questi gli ingredienti principali, in proporzioni variabili, del discorso a reti unificate.
Tv abbandonata presso gli scogli dei Balzi Rossi, Ventimiglia
Pensiamo che comprendere il materializzarsi di un confine interno all’Unione Europea, nel 2018, e misurare il peso e la portata delle politiche istituzionali in materia migratoria, comporti un esercizio attento di articolazione tra quelle che sono le dinamiche a più larga scala – tra esplosione e perdurare di conflitti o dittature, configurazioni economiche neocoloniali, accordi internazionali e politiche nazionali – e la quotidianità della frontiera. Un’articolazione da interrogare costantemente, per cogliere la misura dei mutamenti e delle costanti, e facendo appello alla pluralità di soggettività che vivono e osservano la frontiera.
Nel testo che segue, cerchiamo di raccontare i mesi estivi a Ventimiglia, incrociando i punti di vista e le opinioni di alcune persone che li hanno vissuti da vicino, convint* che capire meglio la frontiera, questa frontiera, sia anche un modo per capire configurazioni socio-politiche di vasta portata, per rendersi conto di quel che, come società, più o meno tacitamente decidiamo di ritenere accettabile.
I punti di vista di cui cerchiamo di rendere conto, infine, esprimono talvolta giudizi e analisi diversificate: ci auguriamo che questa polifonia, oltre a problematizzare i racconti superficiali che invadono lo spazio del dibattito pubblico, possa stimolare l’incrociarsi di prospettive ma anche la voglia di comprendere e agire per l’abbattimento di un sistema fondato sul razzismo e lo sfruttamento.
Abbiamo intervistato persone a noi vicine che durante questa scorsa estate sono state in forme, modalità e tempi diversi nella zona di confine di Ventimiglia. Nonostante le differenze, evidenti nelle risposte che seguiranno, tutt* gli e le intervistat* hanno scelto di stare in questa zona di confine in quanto solidal* con le persone migranti e convint* che la libertà di movimento debba essere garantita a tutti e tutte, così come il diritto a una vita libera e felice. Tutt* color* che parleranno, seppur in maniera diversa conducono una lotta contro il regime confinario europeo e le sue conseguenze sulla vita delle persone migranti.
In sede di redazione dei testi delle interviste, ci è sembrato opportuno dividere il lungo testo in due post differenti, sia per renderne più scorrevole la lettura, sia perché la mole di informazioni e di analisi è considerevole e merita di avere il giusto spazio per essere eleborata. Pubblicheremo, alla fine, anche il testo integrale in un unico dossier. Ringraziamo caldamente le e i solidal*, che hanno voluto rispondere alle nostre domande, mettendo a disposizione cuore, testa e tempo:
Gabriele Proglio – storico culturale orale, lavora presso il Centre for Social Studies dell’università di Coimbra con un progetto che nei prossimi cinque anni intende studiare i confini del Mediterraneo.
Lia Trombetta – medico e ricercatrice presso l’Università di Lisbona
Antonio Curotto – medico ospedaliero
Giulia Iuvara – femminista del movimento Non una di meno, attivista del progetto 20k ed educatrice
Lucio Maccarone – attivista dell’AutAut357 di Genova, partecipa al progetto 20k dal 2017, nella vita vorrebbe insegnare a scuola
La redazione
La prima domanda che abbiamo posto ai nostri interlocutori riguarda la loro presenza, a Ventimiglia, durante questa estate 2018.
Liae Antoniospiegano che, rispetto ai mesi passati, per loro si è trattato di continuare il lavoro di monitoraggio e visite mediche ai migranti bloccati alla frontiera: «Siamo stati a Ventimiglia almeno due volte al mese per la durata dell’intero fine settimana. Abbiamo fatto il solito lavoro, sia di sostegno al transito che di raccolta di notizie dal territorio per cercare di capire come evolvesse la situazione » (Lia).
Per altri, l’estate ha invece coinciso con l’occasione per impegnarsi maggiormente, e in loco, in progetti ai quali si erano già interessate e interessati nei mesi invernali e primaverili. Così Giulia: « Ho iniziato a lavorare un po’ più seriamente su Ventimiglia solo da qualche mese. Ho iniziato, come Non Una di Meno, a seguire un po’ il sister group, che è partito da dicembre scorso, però non ho avuto la possibilità scendere molto, quindi in realtà l’ho seguito tanto in remoto e meno sul campo. Quest’estate sono stata una settimana con il progetto 20 k e ho fatto la volontaria con loro, stando sia ad Eufemia che fuori, e ho seguito più strutturalmente il sister group, attraverso NUDM » ; e Lucio : « è un anno che seguo più attivamente il progetto 20 k svolgendo un lavoro più ”dalle retrovie”, quindi da qui, da Genova : cercare di raccogliere i beni di prima necessità che a seconda delle stagioni sono stati necessari da portare giù. Abbiamo fatto vari eventi, raccolte fondi e beni di prima necessità e medicine. Dalla primavera mi sono concentrato molto sulla creazione del campeggio di 20k. Il campeggio sta chiudendo in queste settimane ed era necessario per poter garantire una maggior presenza di volontari a Ventimiglia durante tutto l’arco estivo. Per cui è partito durante la settimana del corteo e ha ospitato stabilmente almeno 15 – 20 persone, se non più, garantendo un buon livello di disposizione sul territorio per i monitoraggi e le aperture dell’infopoint, più altre attività di indagine e rapporti sul territorio. Oltre a questo, fino al corteo sono stato qui a Genova assieme ad altri ed altre per organizzare la manifestazione e il 14 ero lì per partecipare alla gestione della manifestazione. Dopodiché sono tornato nella stessa settimana di Giulia ».
Un ragazzo arrivato nella zona di confine per passare la frontiera guarda la costa francese seduto sul litorale italiano a Ventimiglia. Ventimiglia, 2018
La quarta persona con cui abbiamo discusso, Gabriele, ha svolto un lavoro di ricerca sul campo, nell’intento di comprendere il confine, in quanto dispositivo, in una prospettiva calata nella realtà locale e nelle vicende storiche e politiche di lungo corso : «Il mio lavoro quest’estate a Ventimiglia è stato caratterizzato da due tipi di azioni: la raccolta delle memorie non solo dei migranti ma anche degli italiani sulla questione del confine e degli sconfinamenti a Ventimiglia, dalle lotte del 2011, con la cosiddetta emergenza tunisini, fino al 2015, con la lotta dei Balzi rossi, fino alle recenti mobilitazioni; e poi un lavoro più classico, di archivio, basato sull’indagine negli archivi di stato di Ventimiglia e di Imperia, rispetto ai processi penali per immigrazione clandestina durante il fascismo. Il dispositivo di confine ha delle ricadute nel definire e selezionare i corpi secondo un meccanismo di esclusione ed inclusione differenziale. Anche questo meccanismo è legato a uno statuto epistemologico, da una sorta di “archivio”, che si configura nel passato attraverso specifiche strategie del controllo, fondate sul corpo, in particolare sul genere e sulla razza. Durante il fascismo questo controllo è stato esteso ad altre categorie, per esempio quelle politiche che identificavano chi andava in Francia per la fare la Resistenza, ma anche a chi scappava dall’Italia perché non trovava una risposta nel fascismo, persone di ceti molto bassi, che con la loro fuoriuscita esercitavano una critica dal basso al regime, come si evince dalla loro storia. Una critica non solo a quella che era l’organizzazione fascista del lavoro ma anche alle sue politiche patriarcali, autoritarie, gerarchiche». Le due linee di ricerca, quella sul campo e quella d’archivio, acquisiscono spessore e potenziale analitico, accostate l’una all’altra : «Queste due ricerche tessono un rapporto e una connessione tra quello che è stato il passato del fascismo e il presente. Connessioni che sono importanti sia rispetto al meccanismo di inclusione differenziale, sia per l’utilizzo di alcuni metodi repressivi, come nel caso del foglio di via, già utilizzato in epoca fascista. Emerge il ruolo del confine non solo come frontiera, ma anche come strumento per rinegoziare le forme, le strutture e l’organizzazione della società, come dispositivo di controllo biopolitico della società».
Quindi, assieme ai nostri interlocutori, abbiamo cercato di definire il paesaggio sociale ventimigliese degli ultimi mesi : Quali presenze permeano lo spazio pubblico cittadino ? Quali attori sociali sembrano avere un ruolo nel definire le dinamiche socio-economiche a cavallo del confine ?
Per Lia, la risposta non può che iniziare da una costatazione durissima : « l’attore rimasto più importante e che tutto permea sono le mafie. Non è una situazione evidente che si può riconoscere andando a Ventimiglia qualche fine settimana, ma nel corso degli anni la consapevolezza è aumentata e appare evidente che i principali attori sociali siano influenzati da accordi che coinvolgono più forme di associazione a delinquere ».
Antonio aggiunge profondità a questa lettura: « Con il rarefarsi delle persone solidali, la percezione della presenza delle mafie, che ci sono sempre state, si è amplificata attraverso la conoscenza diretta ma anche in maniera indiretta, anche nei racconti di chi e più presente sul territorio. Un altro attore sociale rimasto e da sempre costante sul territorio di Ventimiglia, è costituito dalle forze dell’ordine. L’attività repressiva si esplica in maniere differenti ma prevalentemente tramite il trasferimento coatto, con frequenza settimanale, e la deportazione verso il Sud ».
Una lettura condivisa anche da Giulia, che sottolinea come anche la minor presenza di migranti contribuisca a rendere evidenti certi meccanismi : « forse anche perché c’è meno flusso, si vede più chiaramente quale sia il traffico : davanti alla stazione c’è sempre il gruppo che sta lì e chi scende dal treno sa già dove andare oppure loro lo vanno a prendere… poi, probabilmente tanti di loro sono anche poracci che cercano di svoltarsi la vita come possibile … è anche difficile dare un giudizio univoco : cioè, c’è chi è ‘ndraghetista o al soldo dell’ndraghetista e fa la tratta degli esseri umani ; altri, che magari sono lì da qualche mese e hanno visto lo spiraglio di possibilità per vivere ».
Luciocompleta l’analisi, dando spazio a preoccupazioni che hanno a che fare con la complessità del fenomeno e la necessità di non cadere in giudizi univoci : « diciamo che, come diceva Giulia, vengono più allo scoperto e poi si nota di più la presenza di chi resta per qualche mese. Il problema è quanto questo faccia parte di un sistema. E’ una cosa che andrebbe analizzata e di cui bisognerebbe parlare cautamente, perché non si è certi di tutto, ma quel che immagino è che la ‘ndrangheta ventimigliese abbia trovato questo metodo per sfruttare gli ultimi, come al solito, come sullo spaccio e sul mettere in strada a vendere gli ultimi arrivati e più sacrificabili : la stessa cosa vale qui per i passaggi, per cui ci metto l’ultimo che è arrivato, che non ha un soldo per passare e gli dico « se tu mi garantisci dieci passaggi, poi quando ti trovi di là ti ritrovi pure qualche soldo in tasca ». Soldi che non sappiamo assolutamente quantificare. Vuol dire che criminalizzare un passeur oggi è più difficile rispetto al passato, perché è probabile che sia proprio quello con minor mezzi a finire a fare il passeur per racimolare qualcosa ».
La polizia porta al confine le persone catturate nelle retate in città, destinate ad essere deportate coi pullman RT verso Taranto. Ventimiglia, 2018
Lucio conclude dicendo che sicuramente la quotidianità della frontiera è in parte determinata da queste presenze, ma che tutto ciò si definisce all’interno di fenomeni più vasti. Fenomeni il cui impatto sulle vite delle persone sembra assolutamente differenziale, come osserva Giulia: « questo tipo di presenze e dinamiche per alcuni sono determinanti, per altri quasi invisibili ».
Il tema dell’invisibilizzazione apre il discorso alla presenza migrante, sempre più marginalizzata : « per il turista o il frontaliero che viene a comprare alcol e sigarette, in questo momento, la presenza migrante credo non incida in nulla nel suo passaggio a Ventimiglia » (Lucio). Per Giulia, l’ambiente sembrava molto diverso rispetto alle altre volte che era passata da Ventimiglia, « nel senso che, con la chiusura del campo informale, lo spazio pubblico era molto poco attraversato dai migranti, che stavano per lo più nel campo o comunque sempre nella zona di via Tenda ». Antonio, facendo riferimento a fasi attraversate negli ultimi anni, afferma : « Sono ritornati a rendersi meno visibili. L’invisibilità, probabilmente indotta dall’aumento dalla repressione, è aumentata. Pochi giorni fa, abbiamo visto i segni della presenza anche recente delle persone lungo il fiume, ma ne abbiamo incontrate poche. Dai racconti e dalle informazioni sembrerebbe che il passaggio attraverso la città sia molto più rapido. Non c’è più un luogo stanziale, a parte la Croce Rossa, dove le persone in viaggio possano fermarsi e organizzarsi. Ci sono dei gruppi di persone che sono in Italia già da tempo e si spostano da un confine all’altro alla ricerca di “lavoro”, per esempio legato al transito. In una situazione come questa i branchi di lupi che attaccano il gregge sono molto più evidenti ».
Ci chiediamo, quindi, cosa abbia contribuito a questa mutazione.
Il parere di Lia è che « in merito al cambiamento degli attori sociali è stata determinante la repressione sui solidali, il fatto che siano stati allontanati e la carenza di partecipazione, non solo politica ma affettiva, elementare. Dalle persone che volevano l’abbattimento delle frontiera, alla Caritas, sono state tutte eliminate. Questo ha fatto sì che i vari tipi di sfruttamento, il traffico di esseri umani in genere, dal piccolo trafficante a quello che usa le donne per guadagnare, ad altri tipi di commercio di cui noi possiamo solo intuire le dimensioni, agiscano a nostro parere incontrastati, perché il territorio fondamentalmente non viene vissuto anche da altre persone. Se l’interesse umano è venuto meno, se anche l’interesse politico è venuto a mancare, l’interesse economico è quello che resta, o se ne va per ultimo. Per i piccoli trafficanti il passaggio di persone può costituire l’unica fonte di sopravvivenza. Ciò che spesso si sente ripetere è che noi abbiamo perso. Con “Noi” si intende le persone che hanno partecipato ai balzi rossi, che hanno partecipato ai campi informali del 2016 e che hanno continuato a rimanere sempre in minor numero anche nel 2017, fino a trovarsi oggi inermi di fronte a questa situazione pericolosa. E’ chiaramente pericoloso il fatto di non avere persone ben intenzionate per la strada, di non avere gruppi che possano aiutarsi, una presenza di compagni, di individui che vivano il territorio allo scopo di comprendere questo fenomeno, accompagnarlo, tentare di sviluppare delle strategie contro una situazione assurda e violenta, che non avrei immaginato di vedere sviluppata a questo livello. Questo è l’apice dell’iceberg di una situazione agghiacciante e ovviamente ci si chiede come ciò possa continuare a verificarsi sotto gli occhi di chiunque ». La repressione attuata sugli spazi di stanziamento autonomi è continuata anche dopo la manifestazione, con la chiusura con delle grate di quello che rimaneva del campo informale, facendo sì che il campo della Croce Rossa resti l’unica opzione praticabile per chi transita da Ventimiglia. Praticabile ma certamente non sicura: per Antonio si tratta di « un campo sperimentale, con alcune delle caratteristiche tipiche dei campi di concentramento, lontano dalla città, difficile da raggiungere, permettendo, almeno teoricamente, un controllo dall’esterno. Ci è stato raccontato da più persone che i rastrellamenti vengono effettuati anche nella zona immediatamente antistante alla Croce Rossa ». Le condizioni del viaggio fino all’Italia, e poi della permanenza nei luoghi in cui questo viaggio trova le sue strozzature, si sono fatte, se possibile, ancor più complicate e dure negli ultimi tempi. Una costatazione, questa, che genera interrogativi importanti in chi, da anni, è a contatto con persone che decidono di partire: «Non sono attori sociali immediatamente comprensibili, perché, per quanto si cerchi di entrare in contatto con loro, non si capisce bene come questo fenomeno continui, nonostante la violenza e la repressione, quale sia esattamente la loro ricerca. Certamente c’è la sfida ad un ordine precostituito che impedisce di viaggiare liberamente, che non permette di chiedere un visto e andare dove si vuole. A parte chi ha avuto la famiglia sterminata dai Janjaweed in Sud Sudan e coloro che raccontano di un immediato rischio di vita, a volte cerchiamo di comprendere questo attore sociale, cercare di capire chiaramente come nasce l’idea del viaggio. Per esempio quando una ragazzina eritrea che va a scuola a un certo punto si mette d’accordo con le sue compagne. Si domandano e decidono «prima che ci mettano a fare il servizio militare a vita, perché non andiamo in Europa?». Le singolarità sono determinanti, abbiamo visto persone che lavoravano in Libia e non volevano andare via, ma per i casini successi lì sono dovuti scappare e partire verso l’Italia, perché era il primo paese disponibile, per poi andare ovunque, al di fuori di esso. Le situazioni sono singole, le ricerche sono varie e molto spesso la ricerca non è sovradeterminata dalla provenienza da un paese, è tutto molto complesso e la comprensione di questo fenomeno è qualcosa di importante, anche per noi» (Lia).
Ingresso a campo CRI nel Parco Roja: al container di polizia vengono controllate impronte e generalità delle persone che chiedono ospitalità. Ventimiglia, 2018
Il quadro ha decisamente delle tinte fosche, ma, nonostante le difficoltà, i solidali non sono scomparsi. Alcune presenze sono individuate unanimemente come particolarmente importanti, perché individuate come punti di riferimento, avendo, negli anni, assicurato la continuità di alcuni percorsi e azioni politiche. Delia in primis. Si parla anche di quei solidali che sono sopraggiunti in loco proprio per motivi politici e la cui presenza si consolida nel corso del tempo. Tra questi, il Progetto 20k, che, con l’apertura dell’Infopont Eufemia, garantisce un luogo d’incontro e anche di avvicinamento per persone, o gruppi di persone, che arrivano a Ventimiglia con l’intenzione di attivarsi : un esempio, i vari gruppi scout che hanno iniziato a frequentare la zona.
Tutti d’accordo anche sul ruolo importantissimo di Kesha Niya, il collettivo internazionale che si occupa di distribuire pasti e viveri.
Antonio riassume le loro traiettorie : «un ruolo essenziale dal punto di vista del supporto al transito e dell’assistenza l’ha svolto Kesha Niya. Finché hanno potuto sono stati nei pressi dei campi informali sotto il ponte. Poi a causa del peggioramento della repressione e dell’arrivo del nuovo prete (che ha mostrato un’immediata avversione per il loro gruppo), si sono dovuti spostare. Al momento, dalle notizie che ci arrivano, sembra che siano al confine, dove alle persone che vengono respinte non vengono forniti cibo e acqua anche per molto tempo ».
Da oltre frontiera, vengono citati gli abitanti della Val Roya, riuniti nell’associazione Roya Citoyenne, e altri cittadini francesi, riuniti intorno a gruppi islamici che effettuano sostegno al transito tramite fornitura di beni di prima necessità ormai da anni. Proprio nel riannodarsi di un confronto con Roya Citoyenne, Luciovede un segnale positivo: «anche se vessati e costretti a vivere in un territorio militarizzato tutto l’anno, partecipano a degli incontri per discutere di un’azione solidale congiunta. Anche perché poi si è visto che dopo il corteo del 14 luglio uno spiraglio politico, una considerazione in più anche da parte di questi attori sociali c’è: diciamo che l’impressione è che oltre ad essere per la prima volta considerati come un soggetto politico dagli attori istituzionali, anche con gli altri solidali c’è stato una nuova spinta al confronto e per fare progetti assieme». Infine, vengono nominate quelle persone che, singolarmente o in piccoli gruppi, si impegnano per sostenere il transito delle donne e gli avvocati che, senza riuscire a garantire una grande continuità, cercano di contribuire con le loro competenze professionali.
Gabriele, attento alle relazioni tra i diversi attori sociali per finalità di ricerca, ha un’opinione leggermente differente e osserva che le numerose realtà ancora presenti restano piuttosto «divise, lontane una dall’altra, senza coordinamento. In realtà so che c’è un tavolo di coordinamento, ma la dispersione rimane comunque grande su questo territorio di confine, un confine che è il limes tra gli stati ma anche un dispositivo potentissimo che rimette in discussione tutti i significati».
Chi sembra uscito di scena, o comunque molto meno presente che in passato, sono le ONG. Per Lia: «Il tempo delle ONG è un po’ passato. Non ci sono più i medici che avevano tentato di fare l’ambulatorio anche all’esterno, nel campo informale del fiume Roya. Credo ora facciano alcune ore di ambulatorio al giorno nella sede della Caritas. Tutto quello che girava intorno alla Chiesa delle Gianchette. come l’alimentazione e l’assistenza medica, ora credo si svolga presso la Caritas». Una presenza, quindi, valutata come discontinua e poco incisiva:
«Poi le ONG hanno dei pezzetti che si pigliano, con alcuni di noi hanno collaborato, ci sono delle individualità positive, ma anche le ONG non è che facciano un lavoro strutturale e strutturante, fanno raccolta dati quando va bene e quando ci sono, però non è cambiata rispetto agli anni scorsi : continuano a non esserci i medici …»(Giulia) . «Poi è chiaro, se non ci investono dei fondi….loro sono persone che lavorano e se sono in uno due… non possono fare molto altro che monitorare…» (Lucio). Vengono menzionate altre associazioni, che non hanno mai smesso di partecipare al sostegno alle persone in viaggio, come Popoli in Arte, che collabora all’esistenza dello spazio Info point gestito dai 20k.
Un’osservazione di Antonio obbliga a considerare il ruolo degli attori economici ufficiali e delle istituzioni: «secondo me uno degli attori sociali è anche il servizio di trasporto locale (la Riviera Trasporti) che ha appianato il proprio debito tramite questo tipo di attività che noi paghiamo e che ha un costo molto alto per persona. Questo rientra nel discorso dell’industria legata allo sfruttamento. Diventano oggetti di un trasporto forzato pagato da noi».
Pullman della Riviera Trasporti, dedicati alle deportazioni delle persone migranti. Ponte S.Luigi, Ventimiglia, 2018
Quindi, «lo Stato sembra assente o presente solo a livello repressivo, ma probabilmente partecipa anche nel regolare i commerci che derivano dal transito e dalle deportazioni. Il campo della Croce Rossa ha costituito, dall’estate scorsa, l’unico luogo di permanenza esistente. Per l’accordo con lo Stato, la Croce Rossa incamera soldi per l’acquisto del cibo, la gestione e la costruzione delle strutture» (Lia).
Questa ambiguità della presenza istituzionale, tra militarizzazione e repressione, da una parte, e assenza di politiche strutturali e tangibili, viene sottolineata anche da Lucio: « a me è sembrato che ci sia un grosso vuoto : nonostante la presenza militare costate. Ad esempio, il sindaco sembra già in campagna elettorale, per maggio/giugno o quando saranno le amministrative. Tant’è vero che durante la preparazione del corteo, lui che cercava di ostacolarne lo svolgimento, ha detto apertamente « noi su questo tema ci giochiamo la rielezione ». Allora i continui proclami che sta facendo, la presenza a Milano la scorsa settimana (al corteo contro l’incontro Salvini-Orban, n.d.r.) dicono questo: di base non fa nulla, quando c’è la notizia, il gossip, il tema, allora prende parola, ma il tutto è sempre teso a cercare di farsi credito, mentre non pratica nessuna politica istituzionale». Giuliaaggiunge: «sembra proprio che stia funzionando la marginalizzazione totale, nel senso che, anche in negativo, non ho visto grande accanimento, se non da parte della polizia soprattutto francese (perché comunque, tramite i monitoraggi, si è visto che ogni giorno succede il peggio del peggio su quei treni). A livello politico istituzionale c’è un vuoto perché l’obiettivo è quello di invisibilizzare : tu non esisti, io di te non parlo neanche.
Baracche bruciate dalle persone migranti lungo il fiume Roja per protestare contro lo sgombero dell’ultimo campo informale. Aprile 2018
E ora che non c’è il campo informale ecc., sono talmente lontani dalla città che il turista potrebbe anche non accorgersi di niente, potrebbe anche sembrare una cittadina qualunque, borghese ecc». La lettura data da Antonio ci permette di valutare le attuali posizioni dell’amministrazione locale in quanto conseguenza di una linea politica scelta, e perseguita, dal 2015: «A livello di amministrazione locale a Ventimiglia c’è un sindaco del PD che è rimasto tale sin dall’inizio, quindi non è cambiato niente. Alle prossime elezioni vincerà probabilmente la Lega, in continuità naturale con le politiche portate avanti fino ad oggi. Ciò rappresenta la fine di questo percorso di imbarbarimento. Dall’inizio c’è stata una sinergia completa tra l’attività repressiva poliziesca e l’amministrazione locale. Per non peggiorare i contrasti con la popolazione locale e le situazioni di disagio evidente delle persone che dormono in strada bastava veramente poco. Bastava un accesso diretto all’acqua potabile, che adesso di nuovo non c’è più, i servizi igienici e una raccolta dei rifiuti. Se avesse fornito queste tre condizioni sarebbe stato differente e avrebbe avuto costi sicuramente inferiori a quelli delle deportazioni e delle periodiche “pulizie” del greto del fiume. Si lasciano vivere le persone nelle condizioni peggiori poi, quando la situazione è arrivata a un limite non più valicabile, arrivano le ruspe a distruggere e togliere tutto. Questa è una politica a mio avviso folle, anche dal punto di vista economico».
Una strategia che, comunque, sembra aver quantomeno rabbonito il dissenso di alcuni abitanti: «In passato ci sono state manifestazioni contro la presenza dei migranti e spesso delle grandi discussioni con gli abitanti del quartiere delle Gianchette, che mostravano evidentemente il loro essere contrari o molto critici, anche piuttosto aggressivamente, alla presenza delle persone in viaggio o almeno alla modalità con cui questa cosa veniva gestita. Dal momento che ora le persone migranti non sono più raggruppate di fronte alle loro abitazioni, questo fenomeno mi sembra sia venuto meno. Non ci sono più manifestazioni, né rimostranze così frequenti. Ogni tanto prima si vedevano dei manifesti lungo la strada con scritte come “Basta degrado” “Ventimiglia libera”, ora non più» (Lia).
Ovviamente, anche la cittadinanza, a ben guardare, esprime posizionamenti differenziati e, secondo Giulia, qualche individualità tra gli abitanti manifesta interesse, «soprattutto portando cibo e vestiti … di certo non si tratta di masse…».
Nella mattinata e nel pomeriggio di Domenica 18 Novembre decine di abitanti del territorio di confine tra Ventimiglia e la Val Roja hanno organizzato nel villaggio di Sospel alcuni momenti di informazione e un picnic contro la frontiera, la sua violenza e le sue conseguenze. Riceviamo e volentieri pubblichiamo il resoconto della giornata di protesta e il testo che è stato volantinato nelle strade di Sospel.
Domenica 18 Novembre a Sospel una trentina di abitanti delle valli transfrontaliere hanno rotto il silenzio sulla militarizzazione del territorio e sulle morti, più di 20, che tali politiche securitarie hanno causato. In mattinata si è svolto un volantinaggio nelle vie del paese per comunicare quanto sta accadendo e raccontare la concretezza dell’espressione «la frontiera uccide».
Durante il volantinaggio nelle bacheche pubbliche del paese è stata affissa la lista delle 21 morti documentate sulla frontiera di Ventimiglia e delle Alpi Marittime dal 2016, di ciascuna è spiegata la causa e il luogo della morte.
Successivamente le/i partecipanti si sono ritrovate/i per un pic-nic in un prato che si affaccia sul check-point fisso di Sospel, per denuciarne la presenza e disturbarne la routine del controllo. Durante tutto il pic-nic ogni controllo dei veicoli di passaggio in questo incrocio, che mette in collegamento la Val Roya col resto delle Alpi Marittime, è stato accompagnato dal suono di trombette di carnevale e da slogan contro la frontiera. «plutot chomeur, que controleur» , «moins des militaires, plus des sorcieres» , « la frontière tue, honte à ses guardian»1 gli slogan più cantati.
Alla fine del pic-nic mentre si allontanavano tutte/i le/i partecipanti sono state/i fermate/i e identificate/i dalla gendarmerie.
Resta la convinzione che di pic-nic come questo ce ne vorrebbero 100 o 1000 e che la prossima volta saremo di più.
1 «piuttosto disoccupati che controllori» , « meno militari, più streghe», «la frontiera uccide, vergogna ai suoi guardiani»
Momenti del picnic di protesta contro il confine e la militarizzazione della frontiera- Sospel- Domenica 18 Novembre
Sospel, una delle bacheche del paese in cui è stato affisso l’elenco delle persone decedute a causa della chiusura del confine italo francese dal 2016 a oggi
Di seguito, il testo che è stato volantinato per informare le persone sulla situazione lungo la frontiera italo-francese.
LA FRONTIERA UCCIDE, BASTA ALLA MILITARIZZAZIONE!
La frontiera di Ventimiglia è chiusa ormai da giugno 2015, ma è a partire dal 2016 che la militarizzazione di tutto il territorio frontaliero diventa massiccia ed invasiva. La prima diretta conseguenza di questa politica di militarizzazione sui due lati della frontiera è la morte di oltre 20 persone. Queste morti non sono conseguenza del caso, ma dei quotidiani respingimenti che costringono le persone a esporsi a rischi crescenti nel tentativo di attraversare il confine.
All’Europa oggi evidentemente non bastano nè gli hotspot (centri di prima identificazione voluti dall’UE nei paesi di primo approdo), nè gli accordi infami sottoscritti con governi autoritari come la Turchia, l’Egitto o le due Libie in guerra tra loro. Di sicuro non bastano le migliaia di persone morte nel Mediterraneo come nelle altre frontiere interne ed esterne. Il ritorno di rigurgiti sovranisti e populisti si sposa con il sogno tecnocratico di Bruxelles laddove ciò a cui aspira è il controllo delle popolazioni indesiderate. Nei sogni degli uni e degli altri le strade devono essere ripulite e le persone selezionate, che questo avvenga per la purezza della razza o per la valorizzazione del centro storico cittadino il succo non cambia.
Un sogno totalitario quindi, che vediamo svolgersi con copioni simili a Ventimiglia come a Claviere o al Brennero. Luoghi di frontiera e di turismo, in cui non vengono risparmiate brutalità e violenze pur di garantirsi un discreto, ma mai totale, controllo della situazione. Il copione tipo prevede una militarizzazione del territorio di cui le popolazioni locali restano passive spettatrici. Ecco, da questo ruolo di spettatori è necessario smarcarsi, è di nuovo il momento di prendere parola contro la frontiera e la sua militarizzazione.
Diverse mobilitazioni si stanno costruendo nelle località di frontiera dell’arco alpino, da qui fino a Trieste. Nelle valli Roya e Bevera da ormai due anni i check-point si moltiplicano e la presenza di militari armati sui sentieri, cosi come nelle strade dei paesi, è la norma. Noi non vogliamo vivere in silenzio in un territorio determinato ormai dalla militarizzazione e dai controlli razziali. Che questi controlli avvengano nelle nostre valli, nelle città o al di là del Mediterraneo resta il fatto che la presenza dell’esercito e delle forze di polizia costruisce e ricostruisce frontiere ovunque, e nessuno è più al sicuro in un mondo così pieno di sbirri.
Le vie del signore sono finite. Ventimiglia 10/11 Novembre
“Esco dalla stazione. Piove, e la pioggia mi accompagnerà per tutto il fine settimana. Nessuna divisa sui binari e nella piazza antistante. Un gruppo di 6 ragazzi ed una ragazza di apparente provenienza mediorientale parlano con un giovane della croce rossa monegasca.
Passo oltre e raggiungo il bar di Delia. Come sempre è gentile ed accogliente. Una mente critica con un cuore d’oro. C’è un ragazzo proveniente da Milano, della Costa d’Avorio, che ci ascolta un pò sorridendo e poi esce con le ciabatte ai piedi. Delia mi dice che purtroppo ha finito le scarpe. Molte persone, anche famiglie assai numerose, sono passate da lei per indumenti e coperte essendo anche chiuso l’infopoint di via Tenda. Infatti Eufemia ha subìto un danno alla saracinesca, speriamo non doloso, che costringe il gruppo 20K a tener chiuso questo spazio per almeno una settimana. Arriva un giovane ragazzo sudanese che ha richiesto il permesso di soggiorno e fa volontariato. Delia dice di essere preoccupata per una ragazza nigeriana con una bimba di età inferiore a 1 anno che si era allontanata dal bar il giorno prima con alcune persone, apparentemente appena conosciute. Il ragazzo racconta che, incontrata per strada, l’ha accompagnata alla croce rossa per avere un pò di riparo, in tutti i sensi. D’altra parte non esiste alcuna alternativa su questo territorio per una donna.
Intanto continuano le deportazioni: l’ultima giovedì con il classico pullman che arriva in città all’alba, ora delle attività indicibili. Esco dal bar e mi dirigo verso via Tenda. Ci sono un discreto numero di ragazzi per strada. Molti, oltre ai ragazzi africani, provengono dal Medio Oriente o Oriente. Altre persone già più volte incontrate, diciamo stanziali, sono sedute nei bar della via, prima del passaggio a livello. Intravedo persone che escono da recessi dall’altra parte del fiume e percorrono il ponte. Sono indeciso, penso che il mio eventuale arrivo e la domanda: “Have you any health problem? I am a medical doctor”, sia più un’intrusione che un aiuto, in una situazione come questa. Ci penserò domani con la luce.
Scritte di alcune persone migranti lungo la strada per il campo della Croce Rossa
Il blindato dei carabinieri staziona nel parcheggio antistante alla chiesa. La chiesa offre uno spettacolo pietoso, una iconografia dell’intervento attuale della chiesa in questo territorio: un cartello di divieto di sosta davanti ad una transenna che impedisce la sosta e l’entrata nella chiesa. Forse il motivo è un altro, ma è una chiara immagine dell’avversione nota da parte del parroco attuale nei confronti delle persone in transito.
L’esperienza di don Rito, nonostante i limiti, era punto di riferimento per donne bambini e famiglie. La conseguenza è stata che don Rito è stato ringraziato dal vescovo per il suo impegno spedendolo a prestar servizio a San Biagio, Soldano e Perinaldo, posti spersi tra i monti. Le donne, i bambini e le famiglie hanno ora la sola possibilità di stare nel campo Roja in condizioni di promiscuità illogiche oltre che illegali. D’altra parte mi viene detto come il vescovo Suetta non nasconda le sue franche simpatie leghiste. Un’amica solidale evidenzia, inoltre, come in questa istituzione per sua stessa natura gerarchica, le parole del capo, papa Francesco, vengano completamente disattese nel territorio di Ventimiglia.
Chiesa di Sant Antonio alle Gianchette, Ventimiglia
Raggiungo il cimitero con una pioggia battente. Insieme a me una decina di persone aspetta la distribuzione del cibo nel parcheggio antistante. Verso le 19.00, dopo che si era verificato anche l’allagamento della strada e del parcheggio, vado ad incontrare un’amica solidale. Dopo quasi un’ora torno, non c’è nessuno, solo alcuni poliziotti. Spero che siano almeno riusciti a dare il cibo. Ritornando in via Tenda vedo molti ragazzi lungo la via con bagagli e zaini.
La mattina dopo incomincio il percorso dalla spiaggia. Incontro un gruppo di ragazzi nigeriani, circa una decina, con una giovane ragazza rumena. Hanno dermatiti e malattie da raffreddamento. Li visito e consegno loro alcuni farmaci, poi mi chiedono qualche antidolorifico per vaghi dolori, penso che la richiesta faccia riferimento ad una situazione di dipendenza. Continuo la mia strada. Vicino al ponte della ferrovia incontro alcuni ragazzi provenienti dall’altra riva, chiedo loro se hanno o se conoscono qualcuno che ha problemi di salute. La risposta è negativa. Scendo lungo il fiume, noto almeno 4 giacigli protetti dal ponte e due persone che riposano, nonostante la presenza del blindato della guardia di finanza. Tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine che incontro nei presidi hanno il viso illuminato costantemente dai cellulari.
Scorcio sui container dalla recinzione del campo CRI
Raggiungo la riva del fiume in piena, vedo coperte tra gli alberi, ma non persone. Proseguo verso il Campo Roja.
Ogni volta che faccio questa strada, sento la fatica e mi rendo conto della violenza insita nella scelta di questo luogo. Il campo si è ulteriormente ampliato. Sento le voci dei bambini, spero che vada tutto bene. Ho notizie di famiglie numerose che dopo 2 notti si sono allontanate per rimanere alla stazione fino alla partenza. Incontro e visito 2 ragazzi curdo/iracheni che vivono in prossimità del campo Roja. Ritorno verso la stazione. Mi fermo a pranzo lungo via Tenda. È stato aperto un nuovo locale da parte di un ragazzo che avevamo incontrato già varie volte. Ci aveva preannunciato il desiderio di aprire un locale, avendo i documenti ma non un lavoro. Ci riconosciamo e ci salutiamo, mangio bene, in una stanza dove sono l’unico occidentale. Prendo alla fine il treno di ritorno.
Quello che si nota a mio avviso è, nella estrema variabilità degli eventi, la progressiva polverizzazione delle persone. Mi chiedo quanto sia profonda la consapevolezza di far parte di una lotta di un gruppo di persone che aspirano ad una libertà comune, quella di potersi muovere. Questa lotta sembra progressivamente sgretolarsi sotto i colpi della repressione locale, nazionale e internazionale.
Coerentemente con l’affievolirsi della partecipazione politica, anche negli incontri accademici e nei testi recentemente pubblicati viene spesso rimossa tutta la prima esperienza dell’occupazione dei Balzi Rossi e dei campi informali del 2016, dove la coscienza di gruppo era espressa dai protagonisti e le loro decisioni raggiunte attraverso procedure assembleari. Nulla a che vedere con l’ultimo campo informale del 2018 , area di prevaricazione, violenza e tratta, che ho sentito enfatizzare recentemente.
La memoria ad oggi è quello che ci rimane, è auspicabile che non sia forzata da chi la racconta.
Da diversi giorni è partita la campagna di raccolta fondi per il bar Hobbit di Ventimiglia: non un esercizio commerciale qualsiasi ma un avamposto di solidarietà e umanità reso possibile grazie a Delia, la donna corraggiosa e generosa che lo gestisce, e alle persone che in questi anni la hanno supportata.
In un luogo come la città di confine di Ventimiglia, dove il razzismo istituzionale e culturale la fa da padrone, dove la repressione poliziesca ha spezzato le lotte e le resistenze di chi ha a cuore la libertà, l’uguaglianza e la dignità di tutte e tutti, dove con la complciità delle istituzioni e la connivenza di una parte della popolazione autoctona le mafie e la criminalità organizzata si arricchiscono sulla pelle delle persone in viaggio in condizioni di debolezza e difficoltà, il bar di Delia rappresenta non solo una resistenza ma la prefigurazione di un mondo diverso, fatto di un’umanità capace di dare un senso nuovo e vero a questa parola.
Le difficoltà economiche in cui versa il bar Hobbit sono il segno evidente di come il profitto e l’arricchimento siano impossibili qualora si scelga di andare contro alle logiche imposte dal sistema ingiusto in cui viviamo.
Delia vessata, insultata, discriminata, boicottata: perché Delia non si è piegata alla logica del profitto fondata oggi sulla legittimazione di un nuovo schiavismo, di una nuova società coloniale.
Delia sostenuta, supportata, circondata di persone che hanno a cuore la costruzione di un mondo diverso e la fine delle ingiustizie sociali tremende che a Ventimiglia si mostrano in tutta la loro crudezza.
Sostenere lo spirito del bar Hobbit è possibile con una donazione in denaro, ma soprattutto portando il bar Hobbit in ogni città, in ogni territorio, organizzando iniziative popolari, collettive, sociali. Per raccontare Ventimiglia, raccontare i dispositivi di confine, la violenza, il razzismo di stato ma anche del mondo diverso che con la sua umanità degna faticosamente lotta contro l’opressione del mondo dei confini e dei profitti per pochi costruiti sulla sofferenza, l’umiliazione e lo sfruttamento di troppi.
Viva il bar Hobbit, Viva Delia, contro ogni frontiera, contro ogni razzismo, invitiamo tutte e tutti a sostenere e diffondere la campagna.
Di seguito il link e il comunicato di lancio della campagna di raccolta fondi.
A Ventimiglia, 9 km dalla frontiera francese, passano decine di migliaia di rifugiati ogni anno. Fuggono da guerre, da torture, da violenze. Tentano di varcare il confine per raggiungere familiari o conoscenti in Francia, Inghilterra e altri paesi europei, rischiando la vita durante il tragitto. Una volta superata la frontiera spesso incontrano abusi, detenzioni e respingimenti dalla polizia francese. Questi tentativi durano mesi, mesi in cui uomini, donne e bambini rimangono bloccati a Ventimiglia, senza accesso ai servizi primari: acqua potabile, bagni pubblici, cibo, un luogo dove dormire, a parte il campo della croce rossa, militarizzato, desolato e distante. I rifugiati sono oltretutto soggetti al razzismo e all’ostracismo di buona parte della popolazione locale, ostile a chiunque non abbia la pelle bianca. In questa situazione drammatica, tuttavia, una piccola parte della popolazione resiste: tra questi Delia, il cui bar è diventato l’anima della solidarietà a Ventimiglia. La storia di Delia inizia 3 anni fa, quando invita a entrare e offre un pasto ad alcune donne e bambini seduti sul marciapiede di fronte al bar.
Da allora, grazie al passaparola, il bar è diventato un punto di riferimento per tutti i rifugiati che transitano da Ventimiglia, oltre che per i volontari e le organizzazioni solidali. Delia, soprannominata “Mamma Africa”, ha aiutato migliaia di persone in transito, offrendo vestiti, un pasto caldo, un abbraccio e un luogo accogliente a chiunque ne avesse bisogno. Ha distribuito scarpe, aiutato a decifrare documenti, assistito nella ricerca di alloggio, offerto pasti gratuiti a donne, bambini e a chiunque non può permettersi di pagare. Al bar Hobbit si possono caricare i cellulari e si può utilizzare il bagno (attrezzato di spazzolini, dentifricio, sapone, assorbenti e fasciatoio) senza obbligo di consumazione. I bambini hanno un angolo tutto loro, che Delia ha creato raccogliendo giocattoli usati. Il bar è spesso l’unico rifugio per i più vulnerabili, donne incinte, minori, vittime di tratta.
Tuttavia la solidarietà di Delia l’ha resa invisa al vicinato e a una parte di popolazione di Ventimiglia, che ha messo al bando il Bar Hobbit, soprannominandolo il “bar dei neri” e il “bar degli immigrati”. Insulti, aggressioni e atti vandalici fanno ormai parte della quotidianità di Delia. L’isolamento, la perdita della clientela e pressioni di vario genere hanno spinto il bar in una situazione economica sempre più grave. Delia non è più in grado di sostenere le spese ed è stata costretta suo malgrado a mettere il bar in vendita.
Non permettiamo che scompaia uno dei pochi luoghi di umanità e solidarietà che resistono a Ventimiglia! Aiutaci a sostenere Delia e a continuare il suo progetto di solidarietà attiva: ogni donazione, anche piccola, ci aiuta a comprare cibo, acqua, bevande e a coprire le spese del bar.
Each year tens of thousands of refugees travel through Ventimiglia, a small town at the border between Italy and France. They are fleeing from war, torture and violence. Most want to reunite with family members and acquaintances in the U.K., France and other European countries, undertaking life-threatening journeys to cross the borders. Once past the Italian frontier refugees encounter abuse, detentions and deportations by the French police. For several months men, women and children are stranded in Ventimiglia while desperately attempting to cross border, with no access to clean water, food or shelter besides the isolated and militarized Red Cross camp. Their vulnerable condition is exacerbated by the racism of a large part of the local population, mostly hostile towards non-white residents.
Some locals, however, are resisting: like Delia, whose cafe has become an island of solidarity in the harsh reality of Ventimiglia. Delia’s story begins 3 years ago, when she invited in and offered food to some women and children sitting on the pavement in front of her cafe. Since then, thanks to word of mouth, the cafe has become a local hub for refugees, volunteers and organizations in Ventimiglia. Delia, who’s been nicknamed “Mama Africa”, has helped thousands of people on the move by providing clothes, warm meals, hugs and a welcoming place to anyone in need. She has handed out shoes, helped translating papers, assisted migrants in finding a place to stay, offered free meals to women, children and anyone who could not afford them. At The Hobbit’s Cafe you can charge phones and use the toilet (fully equipped with toothbrushes, toothpaste, soap, sanitary pads and a changing table) without buying anything. Children have their own corner, which Delia created collecting second-hand toys.The cafe is often the only lifeline for the most vulnerable: pregnant women, minors, sex trafficking victims. Sadly Delia’s commitment in helping refugees has attracted hostility from many neighbours and locals, who avoid the cafe, labelled “the negroes’ cafe” and “the immigrants’ cafe”. Insults, threats and acts of vandalism are now part of Delia’s everyday life. The isolation, the loss of clientele and pressures from many fronts have pushed the cafe in an extremely difficult economic situation. Delia can no longer cover the expenses and she was forced to put the cafe up for sale.
Support the Hobbit’s Cafe, help us keep humanity and solidarity alive in Ventimiglia! Each donation, no matter how small, contributes towards food, water, drinks and the cafe’s utility bills.
À Vintimille, à 9 km de la frontière italo-française, des dizaines de milliers de réfugiés passent chaque année. Ils fuient la guerre, la torture, les violences. Ils tentent de traverser la frontière pour rejoindre des proches ou des connaissances en France, en Angleterre et dans d’autres pays européens, risquant leur vie pendant le voyage. Lorsqu’ils franchissent la frontière, ils butent souvent sur des abus, des détentions et des refoulements par la police française. Ces tentatives durent pendant des mois; des mois où les hommes, les femmes et les enfants restent bloqués à Vintimille, sans accès aux services indispensables: eau potable, toilettes publiques, la nourriture, un endroit pour dormir, en dehors du campement de la Croix Rouge, militarisée, désolant et lointain. En plus, les réfugiés sont également victimes du racisme et de l’ostracisme d’une grande partie de la population locale, hostile à toute personne dite de couleur. Dans cette situation dramatique, cependant, une petite partie de la population résiste: parmi elle Delia, dont le bistro (le bar Hobbit) est devenu l’âme de la solidarité à Vintimille. L’histoire de Delia commence il y a trois ans, lorsqu’elle invite à entrer et offre un repas à des femmes et à des enfants assis sur le trottoir devant le bar.
Depuis, grâce au bouche à oreille, le café est devenu un point de repère pour tous les réfugiés qui transitent de Vintimille, ainsi que pour les volontaires et les organisations de soutien. Delia, surnommée “Maman Africa”, a aidé des milliers de personnes en transit, offrant des vêtements, un repas chaud, un câlin et un lieu d’accueil à ceux qui en ont besoin. Il distribue des chaussures, aide à déchiffrer des documents, à trouver un logement, offre des repas gratuits aux femmes, aux enfants et à quiconque ne peut pas payer. Les batteries des portables peuvent être chargés au bar Hobbit et la salle de bain peut être utilisée (équipée de brosses à dents, dentifrice, savon, d’une table à langer et couches pour enfants et femmes) sans obligation de consommation. Les enfants ont leur propre coin, que Delia a aménagé avec des jouets reçus en donation. Le bar est souvent le seul refuge pour les plus vulnérables, les femmes enceintes, les mineurs et les victimes de la traite.
Cependant, la solidarité de Delia l’a rendu impopulaire dans le quartier et chez une partie de la population Vintimille, qui a banni le bar Hobbit, le nommant le le «bar des immigrés», le «bar des noirs» ou meme des nègres. Les insultes, les agressions et le vandalisme font désormais partie du quotidien de Delia. L’isolement, la perte de clients et les pressions de toutes sortes ont plongé le bistro dans une situation économique de plus en plus grave. Delia n’est plus en mesure de supporter les coûts et a été obligée, malgré elle, de le mettre en vente.
Ne permettons pas que l’un des rares lieux d’humanité et de solidarité qui résistent à Vintimille disparaisse! Aidez-nous à soutenir Delia et à poursuivre son projet de solidarité active: chaque don, même petit, nous aide à acheter de la nourriture, de l’eau, des boissons et à couvrir les frais du bar.
Tra il piazzale di Via Tenda in cui tutte le sere viene fatta la distribuzione del cibo e la parte del sottoponte, dove ancora si riunivano le persone migranti per scambiare due chiacchiere all’ombra e dove vi era la possibilità di trovare dell’acqua potabile, subito dopo la manifestazione del 14 luglio è stato costruito un muretto; poi tra domenica 29 e lunedì 30 luglio sopra al muretto è stata eretta una spessa rete metallica. Ovviamente il committenteè il Comune.
Muretto costruito subito dopo il corteo del 14/07, prima della costruzione della rete
Di fatto, l’accesso al sottoponte dal piazzale di fronte al cimitero è ora impedito ed è stato smantellato il tavolino su cui veniva lasciato il contenitore per l’acqua. Da Via Tenda l’unico accesso rimasto per raggiungere il sottoponte si trova ad una cinquantina di metri dal passaggio a livello.
Punto del sottoponte con rifornimento di acqua potabile prima della costruzione della rete
Molte persone trovano riparo tra i canneti e la vegetazione che occupano parte del letto del fiume Roya: il sottoponte era lo spazio riparato che permetteva di raggiungere velocemente la strada.
Sottoponte il giorno prima della costruzione della rete
La chiusura con una rete metallica di un accesso all’area, proprio in corrispondenza del luogo in cui le persone migranti si riunivano per consumare il pasto serale e per dei momenti di socialità, oltre ad avere un significato altamente simbolico, ha delle pesanti conseguenze materiali.
Rete
Con questa azione il Comune ribadisce e rafforza la politica di invisibilizzazione delle persone migranti. O queste accettano di entrare nel campo della Croce Rossa, situato nel Parco Roya (a diversi km dalla città, per raggiungere il quale si è costretti a percorrere a piedi una strada molto pericolosa) accettando di fatto la segregazione dalla vita sociale del territorio, oppure sono costrette a nascondersi nella vegetazione che circonda il fiume avendo un unico punto di entrata e uscita, distante dai luoghi di accampamento.
Cosa accada alle persone costrette ad accamparsi nel letto del Roya evidentemente allo Stato italiano non interessa, l’importante è che la società legittima sia separata anche fisicamente dal mondo dei marginalizzati e degli esclusi. Invisibili, privati di ogni diritto, finanche del riconoscimento della loro umanità.
sottoponte, oggetti abbandonati
Pensare a quando tre anni fa le persone migranti occupavano i Balzi Rossi – la scogliera sotto la frontiera francese – per lottare per i propri diritti a spostarsi e a poter vivere liberamente in Europa, dando così inizio ad un’esperienza di lotta e di autogestione eccezionale e guardare a dove si è arrivati oggi, fa riflettere e molto sui passaggi politici avvenuti e in atto e sulle sconfitte subite dalle lotte. Questi tre anni sono stati un percorso fatto di tappe scandite da repressione, da sgomberi continui, dall’affinamento di dispositivi di controllo e disciplinamento. Un percorso di violenza materiale e simbolica inaudita da parte degli Stati e di poteri extrastatali.
Anche Ventimiglia oggi ha il suo “muro” interno , il suo “filo spinato”, la sua piccola “striscia di Gaza”. I dispositivi di confinamento sono globali, sono la cifra del capitalismo neoliberale e globale odierno.
Il 14 luglio la manifestazione di quasi 10000 persone che ha attraversato la città intemelia si intitolava “Ventimiglia città aperta”. Un auspicio che appare lontano a realizzarsi.
Guardando altre esperienze nate nei campi profughi come in Siria del Nord, in Libano , nei ghetti coloniali nordamericani , nei territori occupati palestinesi, viene in mente che forse è da dentro, stando in mezzo e vivendo insieme agli invisibilizzati, agli esclusi, ai nuovi colonizzati che possono nascere le esperienze più efficaci di resistenza. Lottando insieme e sfidando l’invisibilità a cui ci condannano, disarticolando il confine concretamente, e non semplicemente rovesciandolo simbolicamente.
Sta di fatto che dal vortice di inumanità che ci sta risucchiando, di cui la rete di Via Tenda è simbolo chiaro e terribile, dobbiamo provare a venire fuori in qualche modo.
Prima proviamo a farlo e meglio è, il tempo non è “galantuomo”.
Aria di vacanza. Venerdì 26 luglio, mentre per le strade, sui social, nelle case del Bel Paese è un gran parlare dell’eclissi totale di Luna più lunga e visibile del XXI secolo, tra i solidali presenti e attivi nella zona di confine di Ventimiglia gira la voce che domenica 29 la polizia italiana abbia intenzione di far partire un pullman di deportazione dei migranti verso gli hotspot del Sud Italia.
“Strano, molto, un pullman di domenica…perché?” Si chiedono alcune solidali. Non è quasi mai successo, le deportazioni di solito vengono fatte in settimana prima del weekend, quando la cittadina di frontiera si riempie di turisti per il mercato e per la vacanza.
Sabato. Qualcun* viene a sapere da compagni francesi che l’indomani a Mentone si terrà un’iniziativa congiunta del Movimento Giovani Padani (i giovani della Lega) e di Génération Nation Provence-Alpes- Cotes d’Azur (i giovani del Front National). Programma fitto per la mattinata di domenica: conferenza stampa, volantinaggio e striscione in frontiera bassa contro l’immigrazione. Iniziativa non molto pubblicizzata, all’apparenza più una questione di diplomazia tra i due partiti politici che un’iniziativa con qualche impatto concreto. Ad un certo punto, c’è chi si interroga sull’ipotesi di un collegamento tra l’iniziativa dei razzisti in colletto bianco e il pullman di deportazione…
Sabato 28 sera nel piazzale davanti al cimitero di Ventimiglia, accanto al fiume Roya, dove nascosti tra gli sterpi e i canneti ora dormono le persone migranti che non vogliono andare al campo della Croce Rossa, c’è la quotidiana distribuzione di cibo ad opera del gruppo Kesha Niya. Camminando verso il piazzale incontriamo diversi ragazzi, zaino in spalla, scarpe ben allacciate, sguardo determinato. Sono in partenza, vogliono superare quel confine che vale solo per chi ha la pelle nera ed è nato in un posto dove il diritto a viaggiare, ad andare a vivere in un altro paese, all’aspirazione a condizioni di vita dignitose è negato. Molti di loro, probabilmente, finiranno nel computo dei deportati dell’indomani. Dopo giorni passati al caldo e nel disprezzo di una città inospitale, dopo il cammino notturno, il pericolo, la speranza carica d’ansia di farcela: troveranno poliziotti che parlano in lingue sconosciute, insultano, urlano, frugano il tuo corpo, senza diritto a una doccia, senza un bicchiere d’acqua o qualcosa da mangiare, sbattuti su un pullman che li porterà, dopo 13 ore di viaggio, ancora una volta al punto di partenza: un hotspot del sud Italia.
Domenica ore 8.30. Frontiera Alta, Ponte San Luigi. Si intravede un blindato, parecchia polizia davanti agli uffici di frontiera italiani, l’ipotesi di un pullman si fa sempre più concreta. Eccolo apparire dopo poco: Riviera Trasporti non si smentisce. Due autisti impassibili di fronte alla mansione lavorativa che li attende appaiono di buon umore, perfettamente a loro agio tra i poliziotti. Parcheggiano il mezzo e cominciano a lavare i finestrini. Nel mentre un gruppo di una quindicina di ragazzi migranti viene consegnato dalla polizia francese alla polizia italiana. Dalla finestra aperta dell’ufficio di frontiera si vedono i guanti bianchi indossati da un poliziotto. Serviranno per l’ennesima perquisizione a cui i ragazzi migranti verranno sottoposti. L’aria è ferma, il cielo terso e il mare luccica. La frontiera alta guarda a picco sulla spiaggia dei Balzi Rossi, sulla frontiera bassa e sul primo tratto della spiaggia di Menton Garavan. Il panorama è di una bellezza incredibile. Qualcuno disse: “La bellezza salverà il mondo”. Decisamente non è così, la bellezza non salva il mondo.
Passano macchine costose alla frontiera, arrivano dalla Francia, vanno verso l’Italia. Le solidali che osservano quanto avviene alla frontiera vengono identificate. Solito tentativo da parte dei poliziotti di impedire la documentazione. Di fronte alla dimostrata conoscenza dei propri diritti, il poliziotto cambia strategia: “ Tanto pour parler… ma voi che fate qui… siete parte di qualche gruppo?” “ Del pour parler con lei sinceramente non ne abbiamo nessuna voglia” gli viene risposto. Offeso, il poliziotto replica: “ allora godetevi lo spettacolo” e si allontana di qualche passo, guardando i suoi colleghi e sottoposti.
Nel frattempo sopraggiunge un secondo pullman della Riviera Trasporti. “Due pullman, quanta gente hanno intenzione di fermare e deportare?” Vengono avvertiti i solidali presenti in città, si divideranno in coppie per avvisare le persone migranti del pericolo di essere fermate e deportate.
Un ragazzino sale le scalette dell’ufficio di frontiera, fa pochi passi e appoggia i gomiti al parapetto della frontiera alta. Maglietta attillata bianca. Sopracciglia molto scure, occhi stanchi. Dalle scarpe si capisce che ha camminato molto, in luoghi polverosi. E’ Amer, 19 anni, curdo irakeno, non parla lingue europee e nemmeno l’arabo. Prende dell’acqua da bere, accetta un passaggio fino a Ventimiglia e qualche albicocca. E’ stato graziato dalla deportazione perché ha un foglio di respingimento datato 26 luglio. Quel foglio dice che Amer ha una settimana per lasciare Ventimiglia, quel foglio per ora lo salva dalla deportazione. Al telefono, in inglese, il cugino spiega che Amer deve raggiungerlo in Inghilterra . Appare molto sorpreso della situazione che gli viene descritta sulla frontiera franco italiana. Chiede se è possibile aiutare il cugino, piccolo e spaesato (uno shibli – leoncino – lo chiamerebbero i sudanesi che così chiamano tutti i ragazzini ancora inesperti della durezza della vita) a comprare una scheda telefonica con internet e indicargli un posto dove cambiare dei soldi. Si cerca di dare qualche riferimento utile ad Amer, lui ringrazia, sorride e con lo sguardo giovane e stanco riprende la sua strada. E’ possibile che nei prossimi giorni ci si vedrà per le strade calde e tese di questa cittadina italiana così carica di violenza.
Qualche solidale è rimasto in frontiera alta a monitorare la situazione. Alla fine viene riempito per metà uno solo dei due pullman presenti. La polizia italiana e francese appaiono collaborative. Rimane il dubbio sul senso di questa operazione. In questo momento gli arrivi in città sono dimezzati rispetto alla scorsa estate, per non parlare rispetto alle estati del 2016 e 2015. I campi di detenzione in Libia, le operazioni assassine della guardia costiera libica (che ora opera usando le motovedette italiane) , la chiusura dei porti alle navi delle ONG voluta dal Ministro dell’Interno italiano danno i propri frutti. Meno gente in questo maledetto Paese, sempre più morti nel Mediterraneo, sempre più detenuti nei lager libici.
Mentone. Marché des Halles. Sole, caldo, la cittadina francese è tirata a lucido. Bianchi, ricchi, sfoggiano un certo stile di vita dimostrato dai prezzi degli articoli esposti nelle vetrine dei negozi. La piazza del mercato è piena di gente, al suo interno produitsgourmands, tutto molto francese, tutto molto di gusto. A stonare rispetto all’eleganza, un manipolo di sette/otto giovani leghisti, camicie bianche, fazzoletti verdi al collo. In maniera non troppo convinta danno qualche volantino riprendendosi in un video. Molte persone passano dritte, qualcuno lo prende distrattamente. I giovani leghisti d’altronde non sembrano interessati a comunicare. I colleghi dell’organizzazione giovanile del Front National sono poco distanti sul lungo mare.
L’impressione è quella di chi deve timbrare il cartellino, in attesa che una serie di timbri produca una raccomandazione, una poltroncina in provincia, un qualche ruolo di micro potere. Di fatto però la Lega stringe i rapporti con il partito amico del Front National e stavolta può farlo dalla posizione di forza, essendo al governo del Paese. D’altra parte i suoi “giovani” militanti sono lo specchio della sostanza politica ed etica del partito: forti con i deboli, deboli con i forti. Urlano, urlano ma di fronte ai poteri forti europei chinano la testa e aspettano a bocca aperta, sotto il tavolo, di divorare gli avanzi sostanziosi del banchetto. Nel frattempo mettono mano al lavoro sporco, costruendo lungo i confini, con la violenza, le condizioni per una nuova fase di schiavitù razziale.
Sulla strada che da Ventimiglia porta alla frontiera alta, camminano sudati – fa davvero molto caldo- due ragazzi probabilmente afghani. Sollevano lo sguardo quando la macchina si ferma, sorridono gentili. Li si avverte che sopra c’è tanta polizia e un pullman pronto per la deportazione. “Noi proviamo lo stesso, su per la montagna”. “ No ragazzi non ora, più tardi”. “Va bene, riposeremo all’ombra tra i cespugli finché la situazione non sarà più tranquilla. Grazie, grazie.” Sorridono, ripartono.
Quanto vale la vita di un immigrato: Ventimiglia 14 e 15 luglio 2018.
La mattina di sabato 14 una trentina di persone dormiva o aveva dormito sotto il ponte di via Tenda a Ventimiglia.
I solidali di Kesha Nyia, come sempre, forniscono acqua, tè, frutta e pane alle persone in viaggio che sostano sotto il ponte. Forse in vista della manifestazione, le forze dell’ordine lasciano quel luogo sguarnito, e per la prima volta dopo tanto tempo facciamo le visite in maniera rilassata. L’unica acqua disponibile per questi giovani è proprio quella fornita dai solidali di Kesha Niya. Appaiono molto affaticati, disidratati, alcuni hanno influenza e bronchite, di nuovo alcuni casi di scabbia, anche complicata da sovra-infezione batterica.
Dopo aver parlato con tutti coloro che lamentavano qualche problema di salute, grazie alla traduzione di un ragazzo nigeriano, andiamo al bar Hobbit, da Delia. L’ingente schieramento di forze dell’ordine che blocca completamente la strada dove il bar è situato le causa una certa esasperazione, tanto che l’indistruttibile “mama Africa” sembra avere un momento di cedimento. Tiene molto al nome del bar, frutto di fatiche di generazioni, nella sua famiglia. Costruito con i proventi di una migrazione in Australia, quando lei e i suoi genitori vissero a loro volta nei container per mesi, per poi riuscire a crearsi una vita e mettere qualche soldo da parte.
Nel corso della mattinata si riesce con l’aiuto di solidali locali ad aprire uno dei due varchi, così Delia si tranquillizza. Ha preparato circa 500 panini per l’arrivo di solidali da varie parti d’Italia e d’Europa per la manifestazione prevista nel pomeriggio.
In bicicletta ci continuiamo a muovere nelle diverse zone della città, per capire se ci siano persone in difficoltà. Sembra che la maggior parte di coloro che non soggiornano nel campo della croce rossa siano sotto il ponte, in via Tenda.
Durante il concentramento della manifestazione, davanti al cimitero, alcune e alcuni degli europei sopraggiunti andranno a posizionarsi sotto il ponte. Qualcuno inizia a suonare e a cantare, qualcuno parla con i ragazzi. Donne solidali appartenenti al gruppo NonUnaDiMeno distribuiscono fazzoletti colorati fuxia, le ragazze e i ragazzi del gruppo 20k delle strisce fatte con le coperte termiche. Gli slogan parlano di libertà di movimento, di permesso di soggiorno europeo, di tutela della vita umana. Anche in questo caso la presenza di molte persone ci permette di continuare a visitare chi ne ha bisogno. Sono di nuovo molti. Soprattutto, temiamo che diverse persone abbiano ripreso, almeno nei momenti di emergenza, a bere l’acqua del fiume, perché di nuovo ci sono gastroenteriti e problemi addominali vari.
Mentre arrivano sempre più persone per il corteo e questo si inizia a muovere, continuiamo a spostarci verso il centro e poi di nuovo verso il cimitero.
Nel corso del corteo, nella direzione del centro storico di Ventimiglia, degli uomini, si avvicinano urlando ai manifestanti. Una solidale che sta facendo le riprese per un documentario è vicina a loro e ci chiama. Entrambi gli uomini sono evidentemente ubriachi, uno afferma di essere malato e di essere seguito presso la ASL. Ha due bambini con sé. Ci distanziamo un po’ dalla folla dei manifestanti e parliamo con loro. L’uomo che affermava di essere malato piange e grida, dice di aver lavorato per una ditta e di non essere stato pagato, dice che degli uomini incaricati o facenti parte della ditta, il giorno prima avrebbero picchiato lui e i bambini. Si agita molto e i bambini iniziano a piangere. Facciamo bere dell’acqua a tutti e tre e cerchiamo di calmarli, riuscendoci dopo qualche tempo. Poi molto preoccupati, li seguiamo con lo sguardo mentre si allontanano.
Il corteo è lungo e molto partecipato. Ci sono migliaia di persone, italiane, francesi, spagnole. Dopo aver fatto un giro largo intorno alla città arriverà ai giardini pubblici per gli interventi finali.
Noi in serata andiamo via per poter preparare qualcosa da mangiare per Delia. Vorremmo farla riposare, almeno la sera visto la giornata di lavoro intensissimo che ha dovuto affrontare.
Il giorno dopo stranamente ancora non ci sono macchine delle forze dell’ordine al parcheggio di fronte al cimitero. Visitiamo ancora tante persone, tante da finire quasi tutti i farmaci. In particolare i presenti ci dicono che un ragazzo che sta male è rimasto, più isolato, tra la vegetazione. Ci chiedono di aspettarlo. Programmiamo di ricomprare qualche paracetamolo o antibiotico se per lui ne avremo bisogno.
Arriva un ragazzo molto provato. Suda copiosamente. Per fortuna visitandolo sembra solo un’influenza. Come spesso accade ci chiede se siamo italiani e si stupisce della risposta, visto che siamo in grado di parlare inglese. Arriva anche un altro giovane e dice “questo è mio fratello”. Gli chiediamo “E’ proprio un fratello vero o lo conosci soltanto?”. “E’ il figlio del fratello di mio padre”, risponde. Gli chiediamo se hanno viaggiato insieme e come sia andata. Sono partiti dal Darfur, hanno i documenti che dimostrano che vivevano lì come profughi, sono passati per il Chad, poi la Libia.
Quando si parla di Libia, come sempre, i volti delle persone cambiano. “Libya is really bad. Really dangerous. Ci hanno picchiato. Ci hanno bruciato la pelle, abbiamo dovuto lavorare gratuitamente per loro. Le nostre famiglie hanno preso in prestito molto denaro”. Gli chiediamo se sa quanto. Facciamo un rapido calcolo. Si tratta di più di 1500 euro. Spieghiamo loro che oltre a visitare le persone cerchiamo di spiegare agli europei chi sono “i migranti”, che cosa succede alle persone in viaggio. Gli mostriamo il nostro sito spiegando che per ora purtroppo è ancora solo in italiano. Vedendo la foto del ragazzo con la gamba rotta, rimangono visibilmente turbati, hanno un esclamazione di dolore.
Gli chiediamo se possiamo fotografare le loro cicatrici e convintamente ce le mostrano, dicendo: prego.
Il secondo dei due si toglie la maglietta. Ha una grossa cicatrice che dice sia stata causata da un colpo inferto con un grosso bastone.
Chiediamo quando siano arrivati e cosa pensino della manifestazione del giorno prima. Dicono che sono arrivati durante il concentramento, che hanno visto tanta gente e che un uomo che veniva dalla spagna gli avrebbe detto: “we are here to break the frontiers with you”. Ci chiedono: “esiste un italiano che può distruggere la frontiera per noi?”
Cerchiamo di dare qualche spiegazione. Non si tratta di un processo immediato. E’ un processo a cui speriamo di arrivare. Esistono molti gruppi di italiani ed europei che sono contrari al dispositivo della frontiera e che pensano che la terra sia di tutte e tutti.Ci diciamo i nostri nomi, ci auguriamo buona fortuna.
Tornando verso il centro, vediamo che sono rimasti dei fogli vicino al muro della stazione. C’è scritto: “quanto vale la vita di un immigrato”?
PS. La mattina dopo il nostro ritorno a Genova, persone solidali presenti sul territorio ci informano che stanno iniziando i lavori per chiudere l’unico ingresso rimasto per accedere al greto del fiume sotto il cavalcavia di via Tenda . Lì dove prima dello sgombero di marzo sorgeva il campo informale. Ancora ci sono delle persone accampate, gli operai dicono di essere incaricati dal comune.
Trenta Giugno, zona di confine. Alle 10.00 di sabato 30 Giugno 2018, di nuovo, dopo l’ultimo sgombero, troviamo aumentate le persone che dormono sotto il ponte in via Tenda.
Vediamo circa una quarantina di giacigli. Alcuni uomini in piedi, altri ancora sotto le coperte. Chiediamo loro se hanno qualche problema di salute e ne visitiamo un paio.
Ci aiuta per la traduzione un ragazzo sudanese dall’aria molto tesa. La maggior parte di coloro che si sono fermati per passare la notte sull’argine del fiume sono giovani sudanesi. Decidiamo di salire l’argine fin dove è possibile. L’ambiente è ancora cambiato. Molti territori sono diventati paludosi e dopo il ponte dell’autostrada è difficile proseguire. Ritorniamo indietro guadando le insenature del fiume.
Durante questo percorso riconosciamo e fotografiamo diversi segni di presenza di persone in viaggio: carte da gioco che insegnano i pericoli delle ferrovie, detersivi per lavare i piatti appoggiati vicino all’argine del fiume, lamette riposte ordinatamente in modo da poterle riutilizzare, saponi.
Ci rendiamo conto che esseri umani in viaggio sul nostro territorio sono sempre più costretti a nascondersi e ad adattarsi a condizioni di vita assurde.
Coloro che incontriamo ci dicono che il campo della croce rossa è affollato, con circa 500 persone e che continuano le deportazioni al sud nei giorni feriali, con autobus della Riviera Trasporti. Molte persone, nell’impossibilità di fermarsi sull’argine del fiume durante il giorno, sono costretti a percorrere a piedi varie zone della città, senza una meta.
Andiamo in riva al mare. Anche lungo questo percorso riconosciamo luoghi di pernottamento.
Sulla spiaggia vediamo famiglie e giovani. Il dispiegamento di forze dell’ordine è ingente, anche perché in serata ci sarà una festa patronale che comporterà la chiusura al traffico. Dopo aver pranzato e parlato con Delia, ritorniamo verso via Tenda. Nel pomeriggio tardi passiamo all’infopoint Eufemia. Ci sono persone che conosciamo e tanti ragazzi che sono in attesa di vedere insieme i mondiali di calcio in streaming.
In effetti il calcio è anche il gioco più diffuso tra i giovani maschi in viaggio – ricordiamo ormai centinaia di partite (anche in ciabatte) sotto il sole a picco o al freddo pungente, sull’asfalto di un parcheggio.
All’infopoint visitiamo alcune persone e medichiamo ferite. Sulla porta ci si avvicina un ragazzo. Richiede farmaci antidolorifici come ossicodone e paracetamolo. Il ragazzo è magro, ha il viso tirato e occhi tristi. Chiediamo per quale motivo assuma questi farmaci. Si alza il pantalone e vediamo che c’è un evidente disallineamento delle ossa della gamba destra.
In Libia gli hanno fratturato la tibia ed il perone a scopo di tortura e l’hanno lasciato senza alcuna assistenza. La saldatura tra i capi delle ossa fratturate si è compiuta in modo incongruo, dando luogo ad un danno permanente e solo la chirurgia potrebbe migliorare la situazione. Ci dice che ovviamente camminare in questa condizione provoca dolori importanti su tutto l’arto inferiore dall’anca al piede. E’ già arrivato in Francia e per due volte è stato rimandato indietro alla frontiera.
Gli forniamo degli antidolorifici e cerchiamo di spiegargli che l’assistenza sanitaria in Italia è ancora universale e gratuita per chi non ha mezzi per pagare, che necessita di un intervento chirurgico e che a seguito di questo potrebbe camminare molto meglio.
Rifiuta questa idea, continuando a dirci che prima dovrà raggiungere la sua destinazione.
Ci rimane l’immagine della frattura, pensiamo a come sia possibile che continui a camminare con quel dolore, a tutte le persone torturate e danneggiate permanentemente che sono in viaggio, vittime di violenza dei nuovi campi di concentramento che il nostro Governo finanzia, in accordo con le strutture di potere europee.
Facciamo un giro con l’auto prestataci da una solidale. Arriviamo ai balzi rossi, passiamo la frontiera, sempre molto controllata.
Poi torniamo al parcheggio davanti al cimitero, dove volontari portano la cena. C’è un gruppo di cittadini della Val Roja che fornisce tavoli, fogli e colori per disegnare. Alcuni ragazzi sono impegnati, diversi disegni sono appesi alle grate che circondano il parcheggio. Un ragazzo sudanese disegna la bandiera della Palestina.
Arriva la cena. Ci saranno un’ottantina di persone. Pochi chiedono il nostro aiuto.
Si percepisce negli atteggiamenti e dagli sguardi dei giovani uomini che incontriamo, un malessere sempre maggiore. Immaginiamo che la durezza del viaggio, l’impossibilità anche di fermarsi un attimo per riposare, il fatto di essere costantemente in fuga, li esasperi.
La domenica mattina ritorniamo al parcheggio davanti al cimitero.
Assistiamo alla sveglia da parte della polizia delle persone che si trovano sotto il ponte. Ci avviciniamo loro e cerchiamo di parlare, ma la stanchezza e la tensione che si percepiscono rendono ormai la comunicazione molto difficile.
Alcuni ragazzi mangiano qualcosa su un pezzo di carta, per terra. Ci continuano ad offrire la colazione che si divino in sei o sette.
Dopo aver fatto diversi giri, semplicemente ci sediamo per terra nel parcheggio con loro. Ancora l’immagine irreale di un gruppo di ragazzi che gioca a pallone in un parcheggio. Sulla sinistra, un campo di calcetto sempre chiuso e vuoto, davanti il cimitero, a destra, l’inizio di un quartiere popolare abitato da immigrati calabresi il cui viaggio è ormai troppo distante perché possano venire a confrontarsi con i giovani che ci troviamo davanti.
Arriva un’auto rossa, un uomo molto grasso scende, arriva nei pressi dei ragazzi e offre a tutti sigarette. Rimane a parlare con diversi di loro per un po’, poi torna in macchina e resta a guardarli
A Ventimiglia, il 21 giugno alcuni bagnanti hanno visto affiorare, poco distante dalla riva, il cadavere di un uomo. Il volto sfigurato dalla lunga permanenza in acqua, il corpo ancora vestito: un migrante quasi sicuramente. Queste le poche informazioni che si possono leggere sull’ansa e sulle testate locali che hanno diffuso la notizia. [1]
Quest’uomo senza volto, senza identità, va ad aggiungersi al tremendo numero dei morti per mano della violenza delle frontiere. Per mano del capitalismo che impone che la vita degli esseri umani si riduca a merce, per mano degli Stati che sono gli esecutori politici di questo sistema di morte e di tutti quei poteri che cooperano nel funzionamento di questo sistema.
Un uomo senza volto. Un volto sfigurato dalla violenza che si infiltra in ogni angolo di questo sistema, si insinua dentro ogni recesso. Una violenza che sta dentro di noi. Che di questo sistema siamo attori ma troppo spesso ci figuriamo come spettatori.
Se anche quest’uomo avesse avuto ancora il suo volto, il silenzio a cui la sua morte sarebbe stata condannata, glielo avrebbe sottratto.
L’assenza di un volto che, chi combatte ogni giorno la frontiera, nei tanti modi in cui questo è possibile, non potrà dimenticare.
In un mare estivo, celeste e scintillante, in un mare bello, nel mare nostrum, alcuni bagnanti hanno recuperato un corpo. Da dove arriva? Difficile arrivi dalla Francia: le correnti non spingono quasi mai in direzione Italia… dicono i locali. Potrebbe arrivare dal fiume Roya, magari una fuga dai militari francesi appostati nella valle per catturare i migranti che tentano di passare la frontiera, e fuggendo una caduta e poi il fiume… giù a valle fino al mare. Oppure chissà. Chi è? Qual è la sua storia di uomo?
E’ solo un numero. Uno dei tanti numeri dei desaparecidos contemporanei.[2]
Si insinua il dubbio amaro, se abbia senso scriverne, se esistano delle parole con cui rendere giustizia a tanto dolore e a questo male.
Viene in mente un altro corpo, ritrovato nel porto di Genova circa un anno e mezzo fa. [3] Un ragazzo, entrato nel circuito dell'”accoglienza” e finito in fondo al mare, affogato da un dispositivo disumanizzante. Allora più di un centinaio di persone si era riunito per ricordarlo e per ricordarsi che non si può e non ci si deve abituare alla banalità del male e soprattutto che occorre resistere e reagire.
Genova – manifestazione per John Kenedy
Per quest’uomo, ancora e forse per sempre senza nome e senza volto. Per John e per tutte le altre sorelle e fratelli morti ammazzati dalle frontiere con cui si difende il privilegio di pochi e il diritto allo sfruttamento di troppi: è ora di non farsi più sconti!
Le vite delle sorelle e dei fratelli in viaggio contano tanto quanto le nostre.
Dobbiamo cominciare difenderle come difendiamo le nostre e quelle dei nostri car*. Dobbiamo difenderci insieme.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un testo denso , che mette a tema la politica eliminazionista dei migranti in atto nell’odierna Europa. Un testo che a nostro parere merita di essere letto con calma e discusso. Contiene infatti una riflessione storica e politica complessiva sulle politiche e sui dispositivi che governano il fenomeno delle migrazioni verso l’Europa di questi ultimi quindici anni.
L’autore del testo che segue, un uomo con una storia importante e particolare [1], oggi membro del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos [2], non esita a definire queste ultime come “politiche eliminazioniste”. Non è bello ma è reale: se vogliamo riferirci all’agghiacciante conta delle persone decedute nel tentativo di attraversare il Mediterraneo le stime ci parlano di oltre 30000 morti, una media di 6 morti al giorno, dal 2003 a oggi. A questo numero vanno aggiunti coloro che sono morti nel tentativo di attraversare le frontiere interne dell’Europa: Ventimiglia, per esempio, ha visto tante donne e uomini fulminati sui treni, nascosti nelle cabine elettriche dei convogli, caduti dalle scarpate nel tentativo di passare la frontiera attraverso i sentieri montani, investiti dalle auto in corsa mentre camminavano sul ciglio della strada che congiunge l’Italia alla Francia. E poi i morti lungo la rotta balcanica, e poi tutti gli scomparsi nel nulla lungo le rotte migratorie africane, nei lager in Libia, in Niger… i cui corpi e le cui identità si sono perse nell’oblio di questa violenza inaudita. E’ un testo importante quello che segue, perché arendtianamente prova a “comprendere” senza giustificare, ossia ripercorre l’attualità sulla scorta della riflessione storica e dell’analisi politica, e propone una verità che molto pochi in Europa oggi sono disposti ad ammettere e cioè che ciò a cui stiamo assistendo non è diverso, per quanto riguarda i modi e le finalità delle politiche governamentali, dalla politica di sterminio nazista o da quella della desaparicion applicata in Argentina tra il ’76 e l’ ’83 sotto il regime della giunta militare di Videla.
E’ un testo che ci chiama in causa tutti, chiama in causa la nostra responsabilità di fronte alla storia di cui siamo attori e non semplici spettatori; ci parla della necessità di ripoliticizzare quella parte di società cui apparteniamo e che oggi è preda dell’alienazione mediatica e politica che le classi dominanti impongono. Molte sono gli stimoli che un testo di questo tipo propone, molte anche le questioni discutibili. Non su tutto ovviamente ci troviamo d’accordo. Ma come lettrici e lettori ci sentiamo chiamat* non solo a riflettervi ma a trovare le vie per una risposta collettiva, la cui mancanza determina che i numeri di questo massacro, quotidiano e irreversibile, continuino ad aumentare. Numeri dietro ai quali ci sono le vite di esseri umani.
Situazione attuale dei flussi migratori sotto il profilo dei Diritti Umani
L’Assemblea del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos ci offre l’occasione per fare il punto sulla catastrofe umanitaria in corso sotto i nostri occhi, senza che l’opinione pubblica – vittima di una sindrome da “Lettera rubata “ collettiva – riesca a vederla e tanto meno a tentare di porvi rimedio.
Si tratta di riflessioni dettate da un senso di estrema urgenza, nella speranza di incoraggiare un dibattito sulle possibili vie da seguire per porre finalmente fine allo stillicidio quotidiano di morti che da troppo ormai ci accompagna e che non possono essere considerate casuali.
Nel tentativo di leggere il problema, occorre premettere che è possibile inquadrare quanto sta accadendo oggi intorno a noi come il riapparire del fiume carsico delle politiche eliminazioniste proprie del mondo occidentale, come la Soluzione finale o quanto accaduto in Argentina sotto la dittatura militare, avvenimenti che ben poco hanno a che vedere, nelle modalità di esecuzione, con quanto portato a termine in Cambogia dai Khmer Rossi, nel Cile di Pinochet, o negli anni ’90 in Ruanda, o con lo stesso genocidio degli armeni, emblematico della capacità di uccidere un gruppo etnico a partire dai primi del ‘900.
Per quanto riguarda la Soluzione finale, appare interessante richiamare l’interrogativo posto dall’indifferenza dell’opinione pubblica nei Paesi occupati dal nazifascismo, nei confronti della sorte riservata agli ebrei. Possibili spiegazioni hanno a che vedere con il fatto che si trattava di una minoranza transnazionale che mai si era piegata al cristianesimo, vissuta come diversa dalla maggioranza delle popolazioni nell’affermarsi di un sempre più forte nazionalismo identitario, quindi bollabile come Altro in tutti gli Stati europei.
A ciò va aggiunto il segreto con cui era stato custodito tutto quanto riguardava la Soluzione finale, dalla sua ideazione alle decisioni adottate per implementarla, il silenzio stampa che ne conseguiva, l’enormità di quanto programmato che lo rendeva impensabile e quindi negabile, l’inesistenza di un reato che ne prevedesse la fattispecie.
Risultava da tutto ciò nell’opinione pubblica, consapevole di essere tagliata fuori dagli arcana imperii, una diffusa acquiescenza e, nelle alte sfere, la convinzione dell’impunità che avrebbe accompagnato la vittoria dell’Asse nella II guerra mondiale, su cui tutto si giocava.
Ciò tuttavia non spiega come mai i nuclei rurali che convivevano con i campi di sterminio – e quindi con i reticolati e il filo spinato, la sorveglianza da parte delle SS con cani inferociti, il fumo dal crematorio con il pungente odore che lo accompagnava – potessero dirsi e dire di non sapere quello che in quei luoghi veniva portato a termine. Come se, al di fuori dalla logica aristotelica, l’uomo potesse allo stesso tempo sapere e non sapere, o per meglio dire sapere e negare a se stesso di sapere, specie in una situazione di diffuso terrore e nel silenzio dei media che plasmano l’opinione pubblica.
Il ruolo dei media è centrale. Negli anni ’70 del secolo scorso, l’affermarsi della televisione nel mondo occidentale appare mettere in crisi la possibilità stessa del ricorso all’uso della forza da parte dei governi. Due esempi sono emblematici: primo, l’esito finale della guerra in Vietnam, che vede la superpotenza occidentale piegarsi di fronte alla capacità di resistenza di un piccolo stato asiatico, data l’indignata mobilitazione con cui l’opinione pubblica occidentale rispondeva alle atrocità commesse da parte americana, che immagini televisive da giornalisti non embedded rendevano indimenticabili, allora come oggi. Secondo, quanto accade l’11 settembre 1973 a Santiago del Cile, dove i militari decidono di utilizzare la televisione per confrontare la popolazione con la percezione immediata della violenza di cui sono capaci, in modo da soffocare sul nascere qualunque tentativo di opposizione armata. In effetti, il bombardamento del palazzo presidenziale con la tragica morte del Presidente Allende, i carri armati nelle strade della capitale, i combattimenti contro le poche sacche di resistenza ben presto travolte, lo stadio pieno di detenuti torturati e passati per le armi, le ambasciate stesse invase da disperati alla ricerca di una qualunque via di fuga, spazzano via, a livello interno, qualunque tentativo di lotta armata. Ma, a livello internazionale, provocano un’unanime ondata di indignazione e condanna da parte dell’opinione pubblica occidentale che non accetta né la violenza né la violazione delle più elementari prassi democratiche. In tal modo, Pinochet s’impadronisce del potere, ma a livello internazionale resta condannato all’ostracismo come un vescovo lebbroso.
Si sarebbe detto insomma in quegli anni che la televisione con la sua pervasività e la capacità di scatenare reazioni improntate al senso di etica politica prevalente nelle masse occidentali, avrebbe d’allora in poi vanificato i tentativi degli Stati di fare ricorso alla violenza.
Tre anni dopo, i militari argentini dimostrano che tutto il contrario è analogamente possibile, purché si riesca a formulare strategie eliminazioniste che, da una parte, tengano buona la popolazione, dall’altra non attirino l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale.
Il ricorso alla desaparición soddisfa entrambe queste esigenze e permette la decimazione , nei suoi elementi migliori, di una generazione di giovani impegnati e generosi, destinati a diventare la classe dirigente del futuro e decisi a portare avanti un progetto di giustizia sociale e democratica inconciliabile con il neoliberismo che, dopo il Cile, si voleva a quel punto imporre all’Argentina. La politica ufficiale li bollava come sovversivi che avevano spinto il Paese sull’orlo del caos, la gerarchia ecclesiastica cattolica non esitava a definirli come cancro da estirpare dal corpo sociale, la maggioranza silenziosa appariva timorosa dell’esito che avrebbe potuto avere una fuga in avanti.
In estrema sintesi, è possibile affermare che in un sistema di informazione ormai prevalentemente televisivo o iconografico, si dà per scontato che tutto quanto accade viene rappresentato e che quanto non è rappresentato non accade. Anche in questo caso, poi, l’enormità della desaparición di massa la rendeva impensabile, come lo era stata la Soluzione finale, non soltanto in quanto ancora non prevista come crimine e quindi non riconosciuta dal sistema giuridico, ma soprattutto in quanto non rientrante nelle categorie storicamente stratificate nella mente umana o nel cosiddetto inconscio collettivo.
Dalla mancata rappresentazione dei cadaveri conseguiva che non c’erano morti e la speranza di ritrovare in vita il giovane improvvisamente scomparso smorzava qualunque tentativo di rivolta da parte dei familiari, che d’altronde venivano emarginati dalla maggioranza dei non direttamente colpiti. Qualcosa di analogo appariva a livello internazionale, dove la mancanza di immagini di violenza e di morte impediva all’opinione pubblica, ancora focalizzata sul caso cileno, di intuire e mobilizzarsi contro la ben più vasta caccia all’uomo in corso in Argentina.
I militari argentini avevano capito che nel sistema di informazione mediatica prevalente, esisteva un cono d’ombra in cui poter agire con le mani libere dai lacci e laccioli dei sistemi democratici, sempre che si potesse fare affidamento sul silenzio dei media e su complicità o almeno acquiescenza a livello internazionale.
Gli Stati non potevano non sapere, ovviamente, attraverso le loro ambasciate a Buenos Aires. Ma, più che la tanto sbandierata tutela dei diritti umani, a contare era la convinzione che l’opinione pubblica occidentale non si sarebbe potuta mobilitare per qualcosa che ignorava.
Soprattutto, erano i parametri della Realpolitik – vale a dire la politica estera tesa a perseguire gli interessi nazionali in materia economica, geostrategica e di stabilità interna, come interpretati dalla classe dirigente di ogni Paese – a guidare il procedere degli Stati, anche democratici, al di fuori di qualunque considerazione etica.
Prima di arrivare alla contemporaneità, tentiamo di evidenziare adesso i punti in comune tra Shoah e desaparición.
Malgrado la prima sia emblematica del genocidio e la seconda rientri, piuttosto, nella fattispecie del politicidio, entrambe sono manifestazioni delle politiche eliminazioniste, che anche i Governi occidentali ritengono di poter attuare, quando ne ravvisano la convenienza e si sentono ragionevolmente sicuri dell’impunità.
Sia pure maturate nell’ambito di sistemi totalitari, entrambe le tecniche di eliminazione di massa appaiono far affidamento sull’inerzia dell’opinione pubblica a partire dai seguenti fattori: il segreto e il silenzio stampa o comunque l’inadeguatezza di quest’ultima a dar conto di quanto sta accadendo; il carattere di minoranza e/o differenziabilità del gruppo preso di mira che non sembra mettere in pericolo il quieto vivere della maggioranza silenziosa; quella che abbiamo definito l’impensabilità di entrambi i progetti, che non sono all’epoca neanche previsti come crimine, e l’indimostrabilità della loro attuazione mentre la stessa è in corso; la progressiva diffusione del pregiudizio contro gli integranti del gruppo fino alla loro etichettatura come subumani; l’adozione di leggi discriminatorie e/o razziali; la criminalizzazione di coloro che cercano di proteggere il gruppo preso di mira; la responsabilizzazione del gruppo stesso per una congiuntura particolarmente difficile.
Le atrocità attuate dai militari argentini diventano di pubblico dominio alla caduta della dittatura, nel 1983. La relazione finale della commissione nazionale argentina per le persone scomparse (CONADEP) , istituita al ritorno della democrazia, verrà intitolata “Nunca Màs” , a significare che mai più l’umanità dovrà permettere il ripetersi di simili pratiche . Il governo argentino, insieme a quello francese, darà vita in ambito Nazioni Unite alla Convenzione Internazionale Contro la Sparizione Forzata delle Persone, ma la desaparición non sparirà.
Nel dopo guerra fredda, quello che Bush Senior definisce Nuovo Ordine Mondiale sarà caratterizzato dall’asimmetria scientifico/tecnologica, in primo luogo, ma quindi anche militare, economica e culturale, tra un Occidente che si ricompatta e allarga intorno all’iperpotenza sopravvissuta e il resto del mondo. La guerra torna a essere uno strumento praticabile e praticato, anche da parte di Stati la cui costituzione la ripudia. L’ ideologia della non ideologia neoliberista antepone l’economia alla politica e all’etica, valuta le masse come materiale per la produzione, l’individuo in quanto consumatore – che è l’altra faccia della sua attività lavorativa – e non in quanto titolare di diritti umani. Più che di globalizzazione sarebbe il caso di parlare di neocolonialismo globale.
L’Occidente continua a vivere confortabilmente la sua età del petrolio, peraltro non suo. L’accaparramento delle risorse, specie energetiche, dei paesi che non si dimostrano in grado di difendere la propria sovranità, permette il mantenimento di livelli di vita e di spreco cui si accompagnano nel resto del mondo sfruttamento della mano d’opera e miseria endemica, disastri ecologici, guerre che sono il mercato necessario per le nostre industrie e tentativi di proliferazione nucleare, dittature e Stati falliti, Stati canaglia e vaganti transnazionalità criminal/terroristiche di origine incerto, capaci di conquistarsi milioni di followers mostrando nel web cruenti rituali da Medio Evo prossimo venturo. Ma l’arrivo di nuovi giocatori non deve ingannarci: è il ritorno del Great Game su scala globale, in cui l’Occidente tutto insieme prende il posto dell’Impero Britannico e ancora una volta cerca di ridisegnare Medio Oriente ed Africa a proprio vantaggio, prima che la Russia post sovietica ritrovi il ruolo di superpotenza, che a sua volta la Cina si appresta a svolgere. Ed è un mondo di cui le masse di migranti e richiedenti asilo sono il portato strutturale, ma non per questo ben visti, anzi spesso non visti per niente, nella valanga d’informazione dal sistema mediatico, che diventa martellante intrattenimento e baluginante cacofonia autoreferenziale, tutto equiparando in un messaggio subliminale di irresponsabilità, apatia e acquiescenza.
E’ un fatto che dai primi anni 2000 Unione europea e NATO hanno incluso tra i pericoli da affrontare gli effetti destabilizzanti che possono derivare da un arrivo in massa di migranti e richiedenti asilo, anche se provenienti da scenari di guerra, alla pari con il terrorismo e l’interruzione dei flussi energetici, la proliferazione nucleare e la cyber war, ecc. Si tratta, sia detto tra parentesi, di contraccolpi destabilizzanti che possono aver luogo soltanto in un contesto neoliberista di drastica e costante riduzione della spesa pubblica, quale quello che stiamo vivendo. Basterebbe cambiare le politiche di bilancio per smorzare IL contraccolpo e contrastare sul nascere le guerre tra poveri.
Resta che, quando l’area economica più ricca e l’alleanza militare più forte al mondo definiscono come destabilizzante un gruppo umano, quest’ultimo non potrà che diventare bersaglio di politiche di deterrenza.
Sia chiaro, gli Stati hanno il diritto/dovere di difendere frontiere, coste e acque territoriali, specie in congiunture come quella attuale, caratterizzata da venti di guerra in Medio Oriente e ai confini dell’ex Unione Sovietica, così come hanno il diritto di dotarsi di leggi finalizzate al controllo dell’immigrazione e quello di stabilire accordi bilaterali con paesi di dubbia democraticità.
Da un punto di vista formale, senza entrare nel merito dei singoli contenuti, ciascuna di queste attività normative o pattizie è lecita. Il problema sta nelle ricadute che il combinato disposto di tali attività comporta sui non cittadini, che, sia in quanto richiedenti asilo che in quanto migranti, hanno pur sempre titolo al rispetto dei loro diritti fondamentali e, in primis, del diritto alla vita. Stiamo parlando dell’operato – anche omissivo – degli Stati europei, della stessa Unione Europea e della stessa NATO, da una parte, degli Stati africani di attraversamento, dall’altra. E più precisamente degli accordi di Malta (novembre 2015), del patto con la Turchia (marzo 2016), dell’accordo ricatto con l’Afghanistan (ottobre 2016), del memorandum con la Libia (febbraio 2017), dei Processi di Rabat e di Khartoum, che altro non sono che alleanze finalizzate a garantire sostegno finanziario e militare a regimi non democratici, corrotti e dittatoriali, IN cambio dell’intensificarsi da parte loro della persecuzione ai potenziali “clandestini”, che tentano di arrivare al Mediterraneo. Si sta mettendo a punto un sistema concentrazionario, sparpagliato ma rispondente a un disegno unitario, in tutto l’enorme bacino africano e mediorientale che fa capo al Mediterraneo, nel quale le torture, i massacri, i trattamenti inumani e degradanti sono da tempo all’ordine del giorno e che se non bloccato potrebbe diventare il più complesso sistema eliminazionista della storia dell’umanità.
Lo sbarramento di ogni via d’uscita legale riduce questi disperati a res nullius , non diversamente dagli ebrei nell’Europa occupata dai nazifascisti o dei desaparecidos nelle mani dei militari argentini, mettendoli alla mercé dei Diavoli a cavallo che, dopo essersi macchiati di genocidio in Sud Sudan, adesso sono stati arruolati dal governo sudanese per dar loro la caccia, o delle bande che in Libia li sottopongono a tortura, stupri, lavori forzati o esecuzioni extragiudiziali, vendita come schiavi o espianto di organi, e infine in mano agli scafisti, se e quando riescono ad arrivare al Mediterraneo. Anzi è tutto questo a produrre il lavoro sporco degli scafisti, che tra l’altro finisce per finanziare il terrorismo e altro non è che il sintomo di un’immensa tragedia umanitaria scientemente provocata a monte.
Ma non basta. Non possiamo non dirci che è estremamente improbabile che un barcone possa sfuggire ai controlli incrociati continuamente in atto da parte di aerei, droni, satelliti, elicotteri, sofisticate apparecchiature radar , ecc. e che lo stesso accada per i gruppi che si avventurano nella traversata del deserto nella speranza di raggiungere il Mediterraneo o vi sono costretti in direzione contraria, dopo il respingimento. Non mancano testimonianze ad avvalorare l’ipotesi che i medesimi vengano inquadrati, seguiti fin dall’inizio e lasciati a percorrere fino in fondo il loro calvario, nell’ambito di una strategia di deterrenza finalizzata a minimizzarne il numero, nell’impossibilità di sradicare del tutto il fenomeno. Non mancano testimonianze su gravissime omissioni di soccorso che di certo costituiscono un illecito internazionale.
Ma loro continuano a tentare di arrivare perché privi di alternative, in fuga come sono da crisi troppo spesso da noi stessi provocate. E allora, ecco che le frontiere vengono spinte sempre più in là, oltre la Libia stessa, in Niger adesso, fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro respingimento, invisibili perché dispersi nel nulla mediatico, quindi impensabili e alla fine inesistenti perché quod non est in actis, non est in mundo. E si tenta di criminalizzare le ONG che accorrono a soccorrere i barconi in pericolo di naufragio, affinché il massacro possa andare avanti senza ostacoli e senza testimoni scomodi.
Sistematicamente respinti nell’invisibilità, sono i desaparecidos nell’Europa di oggi, perché, dobbiamo ripeterlo, la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel cono d’ombra reso possibile da qualunque sistema mediatico, anche l’attuale, in cui l’iconografia televisiva si somma ai lati oscuramente manipolatori di Internet, come lo scandalo Facebook da ultimo dimostra, in maniera che l’opinione pubblica non riesca a prenderne la dovuta consapevolezza, o possa almeno dire di non sapere, come successo sia nella Germania nazista che nell’Argentina dei militari. Permettete che lo dica: tutto questo ricorda la normalità apparente e in realtà spietata che vedevo intorno a me nel centro di Buenos Aires, in mezzo alla tragedia umanitaria scatenata dai militari argentini.
Come nel caso della Shoah e dei Desaparecidos, ci troviamo di nuovo confrontati a un crimine senza nome, che il Diritto Internazionale penale fatica a riconoscere e non può al momento perseguire. E’ la cifra stessa dei morti, 30mila circa dai primi anni 2000 ad oggi, a dimostrare, a mio avviso, che siamo ancora una volta di fronte a un crimine di lesa umanità.
Eppure, qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi tempi, la Corte europea dei Diritti Umani ha scritto al Ministro italiano dell’Interno a proposito dei respingimenti in Libia, che nell’ottobre 2017 una sentenza della Corte d’Assise di Milano ha dichiarato illegittimi, per via delle atrocità cui i migranti vi vengono sottoposti, il Tribunale Permanente dei Popoli nella sua sentenza del dicembre 2017 a Palermo ha ritenuto di poter affermare l’esistenza di un popolo migrante, cui sono applicabili le norme a tutela dei diritti umani previste dal diritto internazionale. E quanto più dà speranza forse sono i giovani che accorrono a frotte nelle isole greche, riscoprono i sentieri della resistenza contro il nazifascismo ai confini interni all’Ue, si sottopongono a persecuzioni giudiziarie in nome della dignità e della solidarietà, rischiano anche la vita nelle acque internazionali per salvare i disperati sui barconi che affondano. La stessa procura di Roma ha dovuto avviare pur con tutti i limiti possibili immaginabili, un procedimento penale contro i responsabili del ritardo di 5 ore con cui l’11 ottobre 2013 la nave della Marina Militare italiana Libra è arrivata a soccorrere le vittime di un naufragio nelle acque internazionali delle stretto di Sicilia, causando l’annegamento di 140 persone circa, di cui 60 minori. E’ il cosiddetto naufragio dei bambini, che non sembra peraltro aver suscitato nell’ ondivaga opinione pubblica, oggi sostanzialmente apatica se non ostile, la contagiosa commozione scatenata dalla foto di un bambino annegato sulla spiaggia turca, fatta rimbalzare, questa sì, per giorni e giorni, sulle televisioni di tutto il mondo.
Le analogie tra quanto sta accadendo oggi – o per meglio dire si sta facendo, perché di un fare si tratta – e quanto accaduto sia nell’Europa occupata dal nazifascismo che nell’Argentina dei militari sono evidenti:
dalle crescenti manifestazioni di intolleranza, xenofobia e razzismo, incoraggiate nell’elettorato e quindi nell’opinione pubblica, da partiti e politici a caccia di consenso, a leggi razziali, come quella che toglie un grado di giudizio nei procedimenti per ottenere lo status di rifugiato, dal segreto sul contenuto degli accordi con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, al ricorso alla logica economica a giustificazione dell’asserita impossibilità di salvare e accogliere tutti, da quel siete troppi, mantra continuamente ripetuto e addirittura pubblicamente sfuggito come un lapsus alla stessa Cancelliera Merkel, alla visibilità negata ai morti in mare, ridotti a cifre non dissimili da quelle stampate a fuoco sulle braccia degli internati nei campi di sterminio, in un astratto presente numerico che cancella le migliaia di storie umane travolte, alla già citata criminalizzazione delle ONG che tentano di salvare vite umane nel Mediterraneo, non dissimile da quanto accaduto in Argentina ai pochi avvocati che osarono difendere i diritti umani dei detenuti politici.
Ma più che continuare ad enumerare similitudini, è il senso di urgenza di fronte alla catastrofe umanitaria oggi in corso intorno a noi a causa delle politiche dell’Unione Europea, della NATO e degli Stati membri che occorre evidenziare, nella speranza di sollecitare un dibattito che possa contribuire a cercare il modo di porre fine al massacro in corso, portando a giudizio i responsabili individuali e politici di quanto sta accadendo.